La Più Grande Famiglia Musicale Di Sempre…Ulteriormente Allargata! The Carter Family – Across Generations

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The Carter Family – Across Generations – Reviver Legacy CD

Non sono mai stato un grande estimatore di John Carter Cash, unico figlio di Johnny Cash e June Carter, anche se devo dire che negli ultimi anni ha intrapreso una solida carriera di produttore (tra i suoi migliori lavori in tal senso ci sono gli ultimi album di Loretta Lynn): d’altronde quando sei un discendente di due delle più grandi famiglie musicali, i Cash e soprattutto la Carter Family, prima o poi i tuoi cromosomi vengono fuori. Il nuovo progetto a cui ha lavorato John riguarda proprio la Carter Family, mitica dinastia di musicisti che ha influenzato centinaia di artisti di matrice country, folk, gospel e bluegrass, una leggenda nata in Virginia alla fine degli anni venti su iniziativa di A.P. Carter, della moglie Sara Carter e della sorella di lei Maybelle Carter, e che ci ha lasciato canzoni indimenticabili del calibro di Will The Circle Be Unbroken, Wildwood Flower, Keep On The Sunny Side, Wabash Cannonball, Worried Man Blues e molte altre, arrivando fino ai giorni nostri con la quarta generazione.

Sto parlando nello specifico di Across Generations, un disco molto particolare in cui John ha messo insieme in maniera mirabile diverse generazioni di Carter (arrivando perfino ad aggiungerne una quinta), partendo da alcune incisioni inedite dei primi anni sessanta da parte della madre June insieme alle sorelle Anita ed Helen Carter (tutte figlie di Maybelle), alle quali ha aggiunto parti vocali e strumentali sia edite che inedite (alcune incise ex novo con l’aiuto della sorellastra Carlene Carter e di Dale Jett, figlio di Janette Carter che era a sua volta figlia di A.P. e Sara). Io di solito non impazzisco per i dischi costruiti “in laboratorio”, anche se ci sono valide eccezioni come quando è l’artista stesso a chiederlo ai suoi discendenti (penso all’ultimo album postumo di Leonard Cohen o all’analoga operazione del 2015 con protagonista Pops Staples), ma qui è stato fatto un lavoro stupendo, pieno di amore e rispetto per i capostipiti della famiglia Carter ma con uno sguardo verso presente e futuro. Across Generations presenta dodici tracce che si dividono tra country, folk e gospel, e John ha deciso giustamente di privilegiare le voci e di rivestirle con arrangiamenti sobri e strumentazioni essenziali (chitarre acustiche, autoharp e qualche volta il contrabbasso, ma niente batteria), con incisioni antiche e moderne che vedono suonare insieme tra gli altri Norman Blake, Dave Roe, Carlene Carter, Johnny Cash e lo stesso John Carter.

E poi ovviamente ci sono le voci, le vere protagoniste del CD, una miscellanea splendida che parte da Sara e Maybelle per finire con nipoti e pronipoti, allargando il tributo anche ai Cash: troviamo infatti anche discendenti meno noti (o proprio sconosciuti) delle due famiglie come Tiffany Anastasia Lowe (figlia di Carlene), David Carter Jones, Jack Ezra Cash, Danny Carter Jones, Lorrie Carter Bennet e moltissimi altri. L’album è bellissimo, si ascolta tutto d’un fiato e giunti alla fine viene voglia di rimetterlo subito da capo: dopo l’iniziale Farther On, un brano tradizionale in cui la voce della fondatrice Sara Carter si fonde con quella del già citato Dale Jett (il più presente nel disco insieme a Carlene) e della pronipote Adrianna Cross, abbiamo undici canzoni scritte da A.P. Carter o comunque a lui attribuite (tranne due eccezioni), titoli come My Clinch Mountain Home, in cui Carlene duetta virtualmente con le zie Anita ed Helen, Gold Watch And Chain, dove risentiamo Johnny Cash dividere il microfono con June con dietro una sfilza di Carter e Cash di “ultima generazione”, o la famosissima Worried Man Blues, dove i vocalist sono più di venti https://www.youtube.com/watch?v=IMYuQuZYEJU .

Il bello è che i vari brani suonano come incisi oggi (John ha fatto un lavoro egregio), ed in un caso è effettivamente così: Maybelle, scritta da Danny e David Carter Jones in onore della capostipite della famiglia e da loro cantata insieme a Carlene e John Carter. Helen e Anita sono protagoniste in diversi pezzi, talvolta con Carlene (Winding Stream, la splendida Diamonds In The Rough https://www.youtube.com/watch?v=N3Kwiul8NJs , la famosa Foggy Mountain Top) oppure con Jett (Amber Trees), mentre Carlene si riunisce idealmente alla madre June nella pura e cristallina Don’t Forget This Song. Finale con la strepitosa Will The Circle Be Unbroken (un brano talmente popolare da essere praticamente diventato di dominio pubblico), in cui a cantare sono la metà di mille, e con uno strumentale inedito del 1970 che vede Maybelle esibirsi in solitaria all’autoharp elettrica, brano intitolato opportunamente Maybelle’s New Tune.

Un omaggio sincero e riuscito quindi, con una serie di canzoni splendide che riescono ad emozionare e coinvolgere ancora una volta nonostante facciano parte del songbook americano da quasi un secolo.

Marco Verdi

Una Nuova” Promettente” Artista Di Talento! Loretta Lynn – Full Circle

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Loretta Lynn – Full Circle – Sony Legacy CD

Il titolo del post è volutamente ironico, in quanto ci troviamo di fronte ad una vera e propria leggenda vivente della country music (e non solo): Loretta Lynn (nata Webb), 84 anni il mese prossimo, è sulla breccia da più di cinquant’anni, e la sua serie di successi e di premi meriterebbe un post a parte (basti sapere che è, dati alla mano, l’artista donna più di successo in ambito country di tutti i tempi). Sono già passati dodici anni da quel Van Lear Rose, che ci aveva mostrato un po’ a sorpresa un’artista ancora in grandissima forma, perfettamente a suo agio anche con una produzione non proprio tradizionale, come quella dell’eclettico Jack White: ma la strana coppia aveva funzionato, e l’album era stato uno dei migliori del 2004 in ambito country. Ora Loretta ci riprova, e con Full Circle centra nuovamente il bersaglio: ben bilanciato tra brani originali (alcuni rivisitati), cover e pezzi tratti dalla tradizione, il disco ci mostra una cantante che non ha la minima intenzione di appendere il microfono al chiodo, ed anzi è ancora in possesso di una voce formidabile, pura, limpida e cristallina, di certo non tipica di un’ottuagenaria.

La produzione è più canonica rispetto a Van Lear Rose, ed è nelle mani comunque esperte di John Carter Cash (figlio di Johnny e June), che ha cucito attorno all’ugola di Loretta un suono molto classico, con piano, steel, violini e chitarre acustiche sempre in primo piano: la lunga lista di musicisti presenti comprende alcuni veri e propri luminari come Sam Bush (mandolino), Shawn Camp (chitarra, di recente stretto collaboratore di Guy Clark), Paul Franklin (steel), Ronny McCoury (figlio di Del, al mandolino), Randy Scruggs (chitarra), oltre allo splendido pianoforte di Tony Harrell (già con Don Henley, Johnny Cash, Vince Gill, Sheryl Crow e nel bellissimo Django And Jimmie di Willie Nelson e Merle Haggard). Tredici canzoni, non una nota da buttare, con alcune vere e proprie perle ed un paio di sorprese finali che vedremo.

Con i primi due brani, due lentoni intitolati rispettivamente Whispering Sea e Secret Love, Loretta sembra quasi scaldare la sua ugola ed il gruppo i muscoli, ma già con la seconda delle due la nostra dimostra di essere nel suo elemento naturale, e la voce sembra di una con trent’anni di meno. Who’s Gonna Miss Me? ha una melodia diretta ed il gruppo offre una performance cristallina, grande classe e grande canzone, ma le cose vanno ancora meglio con la splendida Blackjack David, un famoso traditional attribuito alla Carter Family, rilasciato con un arrangiamento da pura mountain music, una versione imperdibile; e che dire di Everybody Wants To Go To Heaven, ritmo spedito, grande assolo di piano, chitarrina elettrica, melodia dalla struttura gospel e Loretta che canta con la grinta di una ventenne.

Always On My Mind è una delle grandi canzoni del songbook americano (ricordo le versioni più famose, ad opera di Elvis Presley e Willie Nelson) e l’arrangiamento pianistico è più vicino a quello di Willie che a quello un po’ pomposo del King: comunque sempre un grande brano, con la Lynn che canta con un’intensità da pelle d’oca. Anche Wine Into Water è una gradevolissima country ballad, suonata alla grande (ma tutto il disco è a questi livelli: è forse brutta la rilettura del traditional In The Pines?); Band Of Gold è un honky-tonk perfetto, che sembra provenire direttamente dalla golden age di questo tipo di musica, così come la mossa Fist City (un vecchio successo rifatto), fulgido esempio di come si possa fare del vero country tradizionale nel 2016.

I Never Will Marry (ancora Carter Family, qui John Carter deve aver detto la sua) precede Everything It Takes, uno scintillante honky-tonk che Loretta ha scritto con Todd Snider, suonato e cantato con la consueta classe, con la partecipazione straordinaria (e riconoscibilissima) di Elvis Costello alle armonie vocali. Chiude il CD la tenue Lay Me Down, un vero e proprio duetto vocale con Willie Nelson (poteva mancare?), due voci superbe, una chitarra, un mandolino, un violino e feeling a palate.

Full Circle è il titolo più appropriato per questo album, in quanto ci riporta una Loretta Lynn in forma Champions (per dirla in termini calcistici), e su territori che conosce a menadito e che ormai le appartengono di diritto.

Ed è ancora la numero uno.

Marco Verdi

Agli Albori Della Sua Carriera, La Genesi Di Un Grande Cantautore. James Taylor – Audio Radiance (Jabberwocky Club New York Feb 6th 1970)

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James Taylor – Audio Radiance (Jabberwocky Club New York Feb 6th 1970) – Lexington 

Continua, sempre a ritmo assai sostenuto, la pubblicazione di concerti tratti da broadcasts radiofonici, ormai ha decisamente superato le uscite dei Live ufficiali e sembra non avere più freni, le etichette hanno nomi sempre più improbabili, questa Lexington da dove è sbucata? Ma noi, finché dura, non ci lamentiamo, e documentiamo quelli più interessanti. James Taylor è, stavo per dire, uno dei più “piratati”, mi correggo, maggiormente documentati: abbiamo avuto, solo recentemente, concerti del 1974, 1975, 1976 e 1981, spesso recensiti sul Blog, ma anche i suoi primissimi tempi sono “ben coperti”, con le registrazioni del 1970 insieme a Carole King e Joni Mitchell (anche nel bellissimo Amchitka, che era la testimonianza del concerto per Greenpeace). Conosco l’esistenza anche di un bootleg “non ufficiale” doppio registrato ad Harvard, sempre nel ’70, ma qui siamo proprio agli inizi assoluti della sua attività, 6 febbraio 1970, James Taylor sta per pubblicare o ha appena pubblicato (non conosco la data esatta), Sweet Baby James, che poi salirà fino al 3° posto delle classifiche americane, decretando il successo dei singer songwriters negli anni ’70, ma allora, forse, James, era solo un cantante di belle speranze che aveva anche scritto una canzone, Suite For 20 G, sperando che la casa discografica gli avrebbe dato quei 20.000 dollari promessi in caso di pubblicazione del disco.

Non so neppure dove fosse questo Jabberwocky Club (ma comunque mi sono documentato, con internet nulla sfugge, pare sia un club a Syracuse, nello stato di New York, tutt’ora in attività peraltro), ma il lungocrinito e baffuto signore che sale sul palco non esegue neppure Country Road, che sarà uno dei massimi successi dell’album, di cui vengono ripresi solo quattro pezzi, per il resto affidandosi a materiale che era uscito sul disco omonimo per la Apple nel 1968, oltre ad alcune cover di varia provenienza. Però ha la già classe e la stamina del grande performer, scherza con il pubblico presente e quello radiofonico, poi attacca con la bellissima Rainy Day Man, tratta dall’esordio del 1968 e già uno dei classici assoluti di Taylor, poi passa a Diamond Joe, un brano classico della canzone americana. attribuito a A.P. Carter della Carter Family, con tanto di lunghissima, dotta e divertente presentazione. La voce è già quella calda ed espressiva che tanto abbiamo amato negli anni a venire. Ma il diavoletto era dietro l’angolo ed ecco una Things Go Better With Coke, che era il pezzo di Roy Orbison, Ray Charles e molti altri, dedicato alla Coca Cola, ma Taylor si presenta come un “cokehead” (in modo forse profetico), creando un certo imbarazzo tra il pubblico, e penso anche alla radio, perché l’audio scompare per un attimo quando Taylor chiede se ci sono altri cokeheads tra il pubblico, poi quando parte il breve spot della nota bevanda tutto si stempera in un sorriso e una risata. Machine Gun Kelly, scritta da Danny Kortchmar, sarebbe uscita solo l’anno successivo su Mud Slide Slim, ma è comunque una gran canzone, come pure Anywhere Like Heaven, il primo pezzo della serata tratto dal nuovo album Sweet Baby James.

Poi Taylor cala l’asso con la stupenda Fire & Rain, accolta da un timidissimo accenno di applauso, forse non la conoscevano ancora, e che rimane comunque a tutt’oggi una delle sue canzoni più belle in assoluto, direi nella Top 5 delle mie preferite del nostro, che come tutti sanno è anche eccellente chitarrista acustico, come dimostra nel corso del concerto. Che prosegue con Circle Round The Sun, un traditional che appariva nel primo album, dall’andatura folk-blues, seguito da un altro brano celeberrimo come Will The Circle Be Unbroken, presentato come vecchio spiritual e poi da Carolina In My Mind, brano che non abbisogna di presentazione, tra i più conosciuti dal pubblico presente. Sunshine Sunshine, sempre dal disco Apple, scritta per la sorella Kate, presentata come la sua sorella preferita, nonché l’unica, tra l’ilarità dei presenti e poi decide di cantare, a New York, un pezzo intitolato Dixie, quella di Stephen Foster, prima di lanciarsi in una intricata Hallelujah I Love Her So, il bellissimo brano di Ray Charles. Blossom è solo il terzo brano tratto dal nuovo album, immagino per la gioia dei suoi discografici, altra canzone deliziosa e tipica del suo repertorio, come la successiva Sunny Skies, che apre i bis, sempre preceduta da simpatiche battute, “per fortuna ci siete ancora”, brano dove mi pare si senta anche un contrabbasso, non so dirvi suonato da chi, visto che nel libretto del CD note zero. Chiude la serata, preservata per i posteri, con un audio perfetto, dall’emittente WAER-FM (anche se nella serata vennero eseguiti altri brani non compresi nel broadcast, tra cui la bellissima cover del brano dei Beatles che ascoltate sopra) un altro pezzo dal primo album, Brighten Your Night With My Day. Concerto intimo e molto raccolto, che vi consiglio caldamente, la genesi di un grande cantautore!

Bruno Conti

Le Regine Dell’Alt-Country! Freakwater – Scheherazade

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Freakwater – Scheherazade – Bloodshot Records / IRD

Le Freakwater (due terzi della band è al femminile) sono un trio originario di Louisville, Kentucky, composto da due musiciste di indubbio talento come Catherine Ann Irwin e Janet Beveridge Bean, e dal membro storico, il bassista David Wayne Gay. Dovete sapere che la Bean ha una storia particolarmente interessante, in quanto per buona parte degli anni ’80 ha fatto parte di una band “underground” molto innovativa dal nome Eleventh Dream Day, dove appare con il marito Rick Rizzo, tutt’ora in attività, visto che hanno pubblicato un album nel 2015, Works For Tomorrow: nel frattempo, più o meno in contemporanea, e come ogni tanto accade, ha formato un secondo gruppo, un trio acustico tradizionale (appunto le Freakwater) che eseguiva la musica e le storie rivisitate degli Appalachi e della Carter Family. Sorrette da una strumentazione classica (chitarre acustiche, dobro, bongos, violino, cello, etc.), esordiscono con l’omonimo Freakwater (89), a cui seguiranno negli anni Dancing Underwater (91), Feels Like The Third Time (93), i meravigliosi Old Paint (95) e Springtime (98), End Time (99) che chiudeva il primo periodo, e dopo una pausa l’interlocutorio Thinking Of You…(05), e quando onestamente pensavo che avessero appeso gli strumenti “al chiodo”, tornano a distanza di undici anni con questo nuovo lavoro Scheherazade, dove ripropongono il consueto sound dal modello “Alternative Appalachian Country”, dall’arcano fascino.

Come è già avvenuto in passato la “line-up” segna alcuni cambi nella formazione: il trio di base è sempre quello con Bean, Irwin e il bassista Gay, mentre i musicisti di contorno sono questa volta Neal Argabright alla batteria e pump organ, James Elkington mandola e pedal steel (recentemente sentito nel disco di Joan Shelley), Anthony Fossaluzza al piano e organo, Evan Patterson e Morgan Geer alle chitarre, Jonathan Glen Wood al moog e alla chitarra, e come ospiti Anna Krippenstapel al violino e armonie vocali, Sarah Balliet dei Murder By Death al cello, e il grande Warren Ellis (compare di Nick Cave nei Bad Seeds e membro dei Dirty Three) al flauto e al suo “distorto” violino, il tutto registrato e mixato negli studi LaLa Land dell’ingegnere del suono dei My Morning Jacket , Kevin Ratterman.

Ascoltando la prima traccia dell’album, What The People Want, sembra proprio che il tempo si sia fermato, banjo, violini e armonie vocali rimandano agli esordi del gruppo, e sono seguite da una traccia più elettrica come l’ariosa The Asp And The Albatross, dalla tenue e dolce filastrocca di Bolshevik And Bollweevil,  per poi sorprenderci con una intrigante e psichedelica Down Will Come Baby. Con la toccante Falls Of Sleep si ritorna alla ballata con in sottofondo il violino “malato” di Ellis, mentre in Take Me With You si evidenzia l’amore per la musica degli Appalachi, a cui fanno seguito una Velveteen Matador in bilico tra country e folk, e la toccante Skinny Knee Bone cantata in coppia da Janet e Catherine sulle note (questa volta) delicate d i un violino. Ci si avvia alle tracce finali con una Number One With A Bullet che sembra uscita dal “songbook” di Bill Monroe, per poi passare ad un brano profondo, intimo e sofferto come Memory Vendor,  al suono di una chitarra che accompagna il gospel moderno di The Missionfield e chiudere un gradito ritorno con Ghost Song, una sorta di valzer lento che come anche altri hanno rilevato potrebbe rimandare alle indimenticabili sorelle McGarrigle.

Le Freakwater ci hanno messo più di dieci anni per realizzare questo Scheherazade (bellissimo titolo che proviene dall’antica principessa Persiana, narratrice delle Mille E Una Notte), un album intenso e profondo per un percorso musicale influenzato oltre che dalle note radici “appalachiane”, anche, come detto, dalla vecchia scuola della Carter Family e dai meno conosciuti Louvin Brothers e Stanley Brothers, con il risultato finale di riuscire ad affascinare sia gli amanti del genere più tradizionale e intransigente sia quelli dell’alternative country, mettendo in luce il talento formidabile di Janet Beveridge Bean e Catherine Irwin. Per quanto mi riguarda è valsa la pena di aspettare questo tempo.

Tino Montanari