Stevie Ray Vaughan 1954-1990. 30 Anni Fa Ci Lasciava L’Ultimo Guitar Hero, Parte II

Seconda parte.

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Texas Flood – 1983 Epic ****1/2

Il disco arriva “solo” al 38° posto delle charts USA, ma vende oltre 2 milioni di copie nel mondo: non male per un disco di blues-rock in power trio, in un’epoca, gli anni ‘80, dove purtroppo imperava altra musica. L’album è uno dei “debutti” classici del rock. Molte canzoni le abbiamo appena descritte nella prima parte dell’articolo, Love Struck Baby, Pride And Joy e Texas Flood poste in sequenza in apertura sono un incipit veramente superbo per il disco, per non dire della potente cover di Tell Me di Howlin’ Wolf e di quella di Testify degli Isley Brothers, altri portatori sani di “hendrixismo”, con alcuni critici che scrissero che Vaughan era il miglior chitarrista ad uscire dal Texas dai tempi di Johnny Winter.

Nella seconda facciata troviamo Rude Mood un altro dei suoi tipici velocissimi boogie shuffles strumentali, la ritmata cover di Mary Had A Little Lamb di Buddy Guy, un’altra delle sue influenze primarie, l’intenso slow blues Dirty Pool, la saltellante I’m Crying dedicata ad una precedente girlfriend e il raffinato e sognante strumentale Lenny, dedicato alla moglie, nonché nome di una delle sue chitarre. Nella edizione in CD del 1999 vengono aggiunte 4 bonus, la splendida Tin Pan Alley registrata in studio, con sublime uso di timbri e livelli, e dal vivo al Palace di Hollywood il 20/9/83 Testify, Mary Had A Little Lamb e la esplosiva cover di Wham, di un altro dei suoi maestri Lonnie Mack.

Se volete fare tombola l’ideale sarebbe prendere la versione in doppio CD uscita per la Legacy nel 2013, che aggiunge un concerto inedito a Philadelphia del 20/10/83, ma toglie i 3 brani del concerto a L.A., misteri delle case discografiche, però ci sono due cover di Jimi fantastiche, Voodoo Child /Slight Return e un medley con una commovente Little Wing e Third Stone From The Sun. Texas Flood rimane il suo capolavoro assoluto. Però altri dischi molto belli ne ha fatti parecchi, a partire da uno che scopriremo solo 9 anni dopo la sua morte: la testimonianza dell’incontro con un altro maestro.

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Albert King & Stevie Ray Vaughan – In Session – 1999 Stax Records ****1/2

In quel periodo, per rimanere in ambito musicale, e parafrasando il Barbiere Di Siviglia, “Tutti lo cercavano, tutti lo volevano”, per cui il 6 Dicembre del 1983 si reca negli studi di una stazione televisiva a Hamilton, nell’Ontario, per registrare uno special che documenta il suo incontro con un altro dei giganti del Blues, Albert King, una delle sue grandi influenze. Vaughan aveva 29 anni, King 60: all’inizio Albert non voleva fare lo spettacolo perché non sapeva chi fosse Stevie Ray, poi si ricordò che era “Little Stevie”, un ragazzino che veniva spesso ai suoi concerti in Texas, ma forse è la solita leggenda metropolitana, per fare spettacolo, visto che i due avevano suonato insieme all’Antone’s nel 1977. Il “concerto” è condotto da Albert King che utilizza gran parte del suo repertorio, oltre ad usare la propria band, ma lascia ampio spazio per le divagazioni soliste di SRV, che esegue anche due suoi brani, Pride And Joy, dove canta anche, e Texas Flood, presente solo nella versione in DVD.

Sarebbe inutile dire (ma lo stiamo dicendo) che l’incontro  si rivelò una vera delizia, con i due che si integrarono a meraviglia, anche chiacchierando tra un brano e l’altro, come due vecchi amici. Tutto il concerto fu splendido ma brillano soprattutto le versioni di Call It Stormy Monday, soffusa all’inizio e poi in un crescendo entusiasmante, con i due che se le suonano di santa ragione, una superba Pride And Joy con Albert che se la gode, una pantagruelica Blues At Sunrise, che King ricorda di avere suonato anche con Jimi Hendrix, sfidando Vaughan a suonarla come lui, e Janis Joplin, dove il Blues raggiunge livelli siderali. Eccellenti anche Match Box Blues e la conclusiva Don’t Lie To Me. Due maestri in azione. Poco dopo, a gennaio 1984, Stevie Ray entra in studio per registrare

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Couldn’t Stand The Weather – 1984 Epic ****

Registrato ai Power Station di New York il disco è un altro grande successo per SRV, sia di critica, che di pubblico (solo 31° posto delle classifiche ma 1.000.000 di copie vendute): 4 pezzi originali e 4 cover, ma al solito la versione da avere è quella Deluxe in doppio CD della Legacy Edition, con quasi due ore di musica complessiva. Nel disco originale brillano la citata Scuttle Buttin’, l’energica title track, la cover della blues ballad di Guitar Slim The Things (That) I Used To Do, entrambe con il fratello Jimmie alla chitarra ritmica, ovviamente Voodoo Child (Slight Return) del suo idolo Jimi Hendrix, la massima influenza del texano che dichiarò “Non sono nemmeno sicuro che lui suonasse la chitarra, suonava la musica”.

Ottime anche la travolgente Cold Shot e lo slow blues preternaturale di Tin Pan Alley, il primo brano registrato per l’album, con Hammond presente in studio che esclamò “Non potrai mai suonarla meglio, era meravigliosa”! Tra le tantissime chicche nelle bonus Come On (Part III), Hide Away, The Sky Is Crying, Wham e Little Wing. Nel secondo CD c’è uno splendido concerto allo Spectrum di Montreal dell’agosto 1984.

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Sempre in quel periodo, il 4 ottobre del 1984, verrà registrato un concerto alla Carnegie Hall di New York, con John Hammond a presentare il suo pupillo, il CD uscirà postumo come Live At Carnegie Hall – 1997 Epic ****1/, un concerto formidabile per una serata speciale, con molti ospiti, il fratello Jimmie Vaughan, Dr.John, George Rains alla batteria e la vecchia amica Angela Strehli che canta C.O.D, oltre ad una sezione fiati, guidata da Greg Piccolo. Secondo molti è il più bel Live di Stevie Ray Vaughan (e ce ne sono tra cui scegliere): suono eccezionale e performance superba, power trio sound all’ennesima potenza, come se un TIR ti venisse addosso: Scuttle Buttin’ e Testify aprono le operazioni alla grande, poi arriva Love Struck Baby, una rara Honey Bee, la scandita Cold Shot, Letter To My Girlfriend dell’amato Guitar Slim, dove arriva la sezione fiati e sembra di essere andati in trasferta a New Orleans.

Stessa ambientazione sonora per il torrido lentone Dirty Pool, con pianino di Mac Rebennack e fratello Jimmie aggiunti, Pride And Joy con fiati è libidinosa, e anche The Things That I Used To Do, sempre di Guitar Slim, è dominata da un ispiratissimo Stevie Ray che divide le parti di chitarra con Jimmie Vaughan, mentre nella successiva e rara C.O.D. di Leo Gooden cede il microfono alla pimpante Angela Strehli, mentre Dr. John è all’organo.

Iced Over, detta anche Collins’ Shuffle, è il tributo a Albert Collins preso con grande ritmo, che poi si placa nella soave Lenny, da solo all’elettrica, prima del congedo con la turbolenta Rude Mood, di nuovo in solitaria.

Nel frammento il consumo di droghe per lui e Shannon si è fatto massiccio, SRV trova sempre più difficile concentrarsi sulla musica, e si decide per la registrazione del disco successivo di aggiungere Reese Wynans alle tastiere e a marzo a Dallas si entra in studio per

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Soul To Soul – 1985 Epic ***1/2

Le critiche non sono buonissime, non c’è la versione Deluxe, ma una Legacy che aggiunge un paio di bonus: comunque un disco rispettabile, che si apre sull’orgia wah-wah della hendrixiana Say What, bene anche la fiatistica Look At Little Sister, con un ottimo Wynans al piano, un altro di quei blues lenti in cui Stevie era maestro come Ain’t Gone ‘n’ Give Up on Love, con assolo di grande finezza, buone ma non entusiasmanti le altre canzoni, con l’eccezione del brano di Hendrix Come On (Part III) a tutto wah-wah e la conclusiva splendida ballata di Earl King Life Without You.

Nelle tracce extra spicca il fantastico medley hendrixiano Little Wing/Third Stone From The Sun che varrebbe mezza stelletta in più. A questo punto, come parte del loro contratto, SRV e i Double Trouble devono un nuovo album alla Epic e decidono di registrare un doppio dal vivo estratto da tre date a Austin e Dallas nel luglio 1986: il problema è che tutti, a questo punto compreso anche Layton, per dirla con parole chiare, sono dei “drogati persi”, e il risultato è una serie di concerti caotici, dove la qualità delle esibizioni è scarsa, tanto che ci saranno parecchie sovraincisioni per tappare i buchi, anche tecnici, delle registrazioni.

Il disco esce il 15 novembre come

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Live Alive – 1986 2 LP Epic ***

Ed è il più “brutto” tra i tanti dischi dal vivo della carriera di Vaughan: intendiamoci, in quel periodo ci furono parecchi altri concerti dalla qualità” scadente”, anche negli anni a venire, e benché la disintossicazione dalle droghe venne iniziata quasi subito, ci sarebbe voluto un lungo periodo prima di tornare in forma. Se aggiungiamo che a gennaio del 1987 la moglie Lenny chiese il divorzio (anche se, senza cadere nel pettegolezzo, diciamo che frequentandolo per 13 anni, pure lei non era immune da problemi di dipendenza), ottenendo anche una ingiunzione che proibiva a Stevie di scrivere e registrare nuove canzoni per almeno due anni, il periodo non fu tra i migliori per Vaughan; un ricordo personale è la serata del luglio 1988 al Palatrussardi di Milano, dove SRV si esibì insieme ai Los Lobos (gli unici da salvare) e ai Pogues di Shane MacGowan, dando vita ad una sorta di festival degli strafatti, questa almeno fu la mia impressione, unita alla “ottima” acustica della location.

Tornando al doppio ufficiale, che mi sono risentito per scrivere questo articolo, oggi il disco rimasterizzato a tratti non suona neppure male, anche se sembra quasi un disco di studio (con il pubblico lontanissimo), tra i brani apparsi nel frattempo in repertorio Superstition, I’m Leaving You (Commit a Crime), un brano attribuito a Howlin’ Wolf, ma che forse non era suo, almeno con questo titolo, vi risparmio i distinguo dei vari critici, visto che la canzone è abbastanza buona, Willie The Wimp del bravo Bill Carter e le “solite” Pride And Joy, Texas Flood, Voodoo Child e Life Without You (esclusa dalla versione in CD, solo su cassetta e LP, ma reinserita nella versione presente nel box Complete Epic Recordings Collection , di cui parliamo a fine articolo, visto che sarebbe quella da avere se volete tutta l’opera di SRV su Sony).

Dopo il divorzio, finalmente un ex tossico ed alcolizzato, Stevie entra in studio a Memphis e poi a L.A, tra gennaio e marzo del 1989, per registrare quello che sarà il suo ultimo disco ufficiale di studio.

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In Step – 1989 Epic ****1/2

Vaughan scrive parecchie nuove canzoni, molte con il suo co-autore Doyle Bramhall, anche lui reduce da un percorso di disintossicazione, unite alle solite cover scelte con cura. Il risultato è un ottimo album, appena inferiore all’esordio Texas Flood. Apertura affidata al Boogie R&R di The House Is Rockin’ che sembra un pezzo dei Blasters, con la band scatenata, in particolare Reese Wynans al piano, ottima anche Crossfire, scritta da Bill Carter insieme agli altri Double Trouble, canzone fiatistica (i Texicali Horns) dal retrogusto R&B, eccellente anche Tightrope, con un suono funky ben evidenziato dal produttore Jim Gaines.

Non manca il blues à la SRV di Let Me Love You, un brano di Willie Dixon e il “bluesazzo” lento e torbido di Leave My Girl Alone, dell’amato Buddy Guy. Travis Walk è uno dei suoi classici scatenati strumentali con il plus del piano di Wynans, mentre l’autobiografica Wall Of Denial è un altro ottimo esempio del suo stile inconfondibile e pure Scratch-N-Sniff, altro boogie scatenato certifica la ritrovata vena, assolo con wah-wah e slide incluso.

L’altro brano con fiati è una cover di Love Me Darlin’ di Chester Burnett aka Howlin’ Wolf, blues di quelli tosti, lasciando al raffinatissimo strumentale finale Riviera Paradise il compito di illustrare quella che avrebbe potuta essere una futura svolta jazz, con un superbo assolo in punta di dita. Le bonus della ristampa in CD del 1999 prevedono 4 tracce dal vivo, tra cui una colossale ripresa di Life Without You che segnalano la forma ritrovata.

Durante il tour del 1990 SRV apre varie volte per Eric Clapton, inclusa l’infausta data a Alpine Valley del 26 agosto, dove il mattino del 27 agosto troverà la morte. Pochi giorni dopo, il 25 settembre viene pubblicato il disco registrato con il fratello

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Vaughan Brothers – Family Style – 1990 Epic ***1/2

Sull’onda emotiva della notizia della morte il disco arriva fino al 7° posto delle classifiche Usa. Ma non è un gran disco, anche se, risentito oggi, non è poi malaccio; prodotto da Nile Rodgers, blues non ce n’è molto, a parte l’iniziale Hard To Be, che ricorda i migliori Fabulous Thunderbirds, Good Texan che ricorda molto gli ZZ Top, la frenetica Long Way From Home e la conclusiva tiratissima Brothers. Ma alcuni brani non si possono sentire: lo strano strumentale Hillbillies From Outer Space, Telephone Song e Baboon/Mama Said che sembrano delle outtakes degli Chic, ottimi i chitarristi ma il resto…

Jimmie Vaughan in memoria del fratello compila una eccellente antologia di materiale inedito registrato tra il 1984 e il 1989.

Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – 1991 Epic The Sky Is Crying ****

A dispetto del materiale proveniente da tante fonti diverse, il secondo disco postumo di Stevie Ray sembra un album fatto e finito, con una serie di brani, tra cui alcuni fenomenali, del tutto all’altezza della sua eredità sonora. Dall’ottima Boot Hill, passando per una lancinante versione del classico di Elmore James The Sky Is Crying , attraverso la scatenata Empty Arms, una suggestiva e splendida versione strumentale di Little Wing del suo maestro Jimi Hendrix, quasi alla pari dell’originale, usata inseguito in alcuni spot pubblicitari,

una compattissima dello strumentale Wham del conterraneo Lonnie Mack. E ancora May I Have a Talk with You un altro slow blues d’annata di Howlin’ Wolf, per non dire di Close To You un Willie Dixon scritto per Muddy Waters, lo strumentale jazz Chitlins Con Carne di Kenny Burrell, un altro chitarrista che SRV ammirava moltissimo. Un ulteriore strumentale So excited tipico del Vaughan appunto più eccitato per le 12 battute classiche del blues e l’unico brano acustico della sua carriera, una intima Life By The Drop registrata nel 1989 per l’ultimo album.

*NDB Se avete letto il mio articolo sul Buscadero, purtroppo per un errore in fase di stampa è saltato questo ultimo paragrafo, che per giusta completezza ripristino in questo Post, scusandomi per li disguido non dipendente dalla mia volontà.

Esistono molte antologie del nostro amico, ma se volete farvi un regalo di Natale l’ideale sarebbe acquistare

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The Complete Epic Recordings Collection – 12 CD Epic 2014 *****

Costa intorno ai 50 euro e ci sono tutti gli album della discografia ufficiale di Stevie Ray Vaughan, senza bonus o versioni deluxe, ma con aggiunti A Legend In The Making—Live At The El Mocambo ****, altro fantastico concerto dal vivo registrato al leggendario locale canadese nel 1983 per un broadcast radiofonico, con una colossale Texas Flood e due dischi intitolati Archive Volume 1 e 2 che raccolgono tutto il materiale inedito poi pubblicato a livello bonus, inclusi i pezzi di The Sky Is The Crying.

Non ci sono state particolari celebrazioni (anzi nessuna) per il 30° Anniversario della sua morte, e quindi ho pensato di rimediare con questo articolo, ma ascoltando questo cofanetto magari ci mancherà un po’ meno.

Bruno Conti

 

Stevie Ray Vaughan 1954-1990. 30 Anni Fa Ci Lasciava L’Ultimo Guitar Hero, Parte I

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Nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1990 c’era nebbia nella zona del Resort di Alpine Valley, vicino a Lafayette, East Troy, Wisconsin, una località sciistica, ma anche un campo da golf, dove in una area limitrofa era situato l’Alpine Valley Music Theatre, un anfiteatro con una capacità di ospitare fino a 37.000 persone, all’epoca il più grande degli Stati Uniti. In quella nottata si erano esibiti Eric Clapton con la sua band e l’opening act Stevie Ray Vaughan con i Double Trouble. Sui quattro elicotteri che avrebbero dovuto portare molti dei presenti al concerto da Alpine Valley a Chicago, in uno era previsto dovessero salire con SRV il fratello Jimmie Vaughan con la moglie Connie, mentre all’ultimo momento scoprirono che i posti erano stati riservati all’agente di Clapton, una guardia del corpo e il tour manager, lasciando un solo posto libero oltre a quello del pilota e Stevie chiese se poteva salire lui visto che aveva fretta di recarsi a Chicago. Per una delle “sliding doors” della storia, come quella del famoso disastro aereo in cui nel 1959 persero la vita Buddy Holly, Richie Valens e “The Big Bopper”, The Day The Music Died, come cantò Don McLean in American Pie  , e in cui per un caso Waylon Jennings invece si salvò, cedendo il suo posto, mentre Vaughan, all’età di 35 anni, ci lasciò prematuramente.

Vediamo, in modo abbastanza dettagliato, quale è stato il suo lascito musicale.

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I Primi Anni, dal 1970 al 1980, le “origini” della leggenda.

Già all’inizio degli anni ‘60, sulla scia dell’ammirazione per il fratello Jimmie, e per cercare di “distrarsi” dalle violenze del padre Jimmie Lee, che terrorizzava la famiglia con il suo pessimo carattere, amplificato dall’abuso di alcol e che sfociò anche in successivi episodi di violenza diretta, Stevie Ray decise di rifugiarsi nella musica, prima dandosi alla batteria e al sax, ma poi già nel 1961 arrivò la prima chitarra: lentamente, attraverso l’ascolto di bluesmen come Albert King, Otis Rush e Muddy Waters, e poi i suoi idoli musicali Lonnie Mack e soprattutto Jimi Hendrix, SRV si costruì un solido patrimonio di influenze, che poi avrebbe messo a frutto nel corso degli anni successivi. Nel 1969, ad una audizione per il gruppo Southern Distributor, sapeva già suonare Jeff’s Boogie degli Yardbirds, nota per nota, e alla fine dell’anno incontra per la prima volta Tommy Shannon, ma le loro strade si dividono in fretta, poi arrivano i Liberation, i Texas Storm del fratello Jimmie e “jamma” pure dal vivo con gli ZZ Top.

Nel 1971 arriva il primo gruppo proprio, i Blackbird(s), non è chiaro, di cui esiste qualche documento sonoro, in registrazioni dal vivo del 1973, più o meno ufficiali che mi sono andato ad ascoltare: qualità sonora molto rudimentale, ma il talento già si intravede nello slow blues I Can’t Sleep, in My Babe e in una frenetica Barefootin’, mito o leggenda? Nel 1973 entra nella band di Marc Benno, dove c’è già il cantante/batterista Doyle Bramhall (il babbo), registrano un album per la A&M che viene rifiutato, e firmano un contratto con il manager degli ZZ Top, Bill Ham. Nel 1975 entra nel gruppo Paul Ray And The Cobras, con il sassofonista Joe Sublett, e con loro si costruisce una reputazione suonando nei locali di Austin, attraverso innumerevoli jam session, arrivando anche a pubblicare un singolo, ma poi lascia quando la band decide di optare per un suono più mainstream.

A questo punto arrivano i Triple Threat Revue, una band dal grande potenziale, con Lou Ann Barton come cantante, il veterano W.C. Clark al basso, padrino della scena locale, nonché autore di Cold Shot, e il batterista Freddie Pharaoh. Quando Clark lascia all’inizio del 1978, SRV decide di chiamare la band Double Trouble, dal titolo del famoso brano di Otis Rush, e un po’ alla volta arrivano, prima il batterista Chris Layton e poi Shannon, Nel frattempo Lenora Bailey, detta “Lenny”, diventa la sua ragazza e poi sarà sua moglie, ma iniziano a crescere i suoi problemi con alcol (ereditati dal padre) e droga, che diverranno nel corso degli anni sempre più simili ad una forte dipendenza, tanto che già alla fine del 1979 viene arrestato a Houston per uso di droga, e l’anno successivo condannato a due anni con la condizionale, problema che poi si riverbererà a lungo negli anni a venire.

1980-2000. L’Incontro con David Bowie e poi gli anni dei dischi con i Double Trouble.

Abbiamo detto che all’inizio del 1978 nascono i Double Trouble, ma la formazione definitiva si assesterà con l’arrivo di Tommy Shannon al basso nel gennaio del 1981. Cerchiamo di mettere un ordine la discografia di SRV in base alle date di registrazione e non a quelle di uscita, molte avvenute in modo postumo, magari con qualche scostamento di data.

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – In The Beginning – 1992 Epic ****

Registrato il 1° aprile del 1980 allo Steamboat 1874 di Austin per un broadcast radiofonico: al basso c’è ancora Jackie Newhouse e mancano tre anni alla pubblicazione di Texas Flood il primo album, ma lo stile è già formato, un torrente di blues elettrico inarrestabile da 5 stellette, per il collega e critico Cub Koda, mentre Robert Chistgau del Village Voice parla di performance immatura, visto che parliamo di un disco dal vivo. A mio modesto parere è già un gran disco: per lo speaker è Stevie Vaughan, ma lui suona già come un uomo posseduto dalla sua chitarra, In The Open, un brano di Freddie King, ci consente di gustare quel suo stile unico ed inimitabile, un misto di blues (texano) e folate di rock hendrixiano, con note accatastate con impeto e violenza, ma anche con una tecnica invidiabile, il mondo ancora non lo sa, ma è arrivato, forse, l’ultimo dei “guitar heroes”.

40 minuti scarsi dove si susseguono una torrenziale Slide Night, dove va alla grande di bottleneck, seguita dalla programmatica e vorticosa They Call Me Guitar Hurricane di Guitar Slim, dove se si sente anche quella voce sgangherata e rotta, non da grande cantante, ma sincera. All Your Love (I Miss Loving) di nuovo di Freddie King, è un brano imprescindibile con cui si devono misurare tutti i grandi chitarristi, versione ruvida ma fascinosa e impetuosa, ragazzi se suonava! Vaughan, forse perché era l’ “ultimo arrivato”, nel suo stile riportava un po’ le influenze di tutti coloro che erano venuti prima di lui, ma aveva comunque un suo tocco, un sound che lo faceva riconoscere immediatamente, e che poi dopo la sua scomparsa avrebbe generato una lunga serie di epigoni, quando andava bene e di cloni, in molti altri casi.

Fine della digressione. Tin Pan Alley (aka Roughest Place In Town) un pezzo di Robert Geddins (bluesman poco noto che però ha scritto anche Mercury Blues e My Time After A While) era già nel repertorio di Stevie e verrà inserito nella ristampa potenziata in CD del 1999 di Texas Flood, uno slow blues di quelli dove il solista deve “soffrire” per contratto, magari mentre fa le classiche faccine dei chitarristi quando creano i loro assoli. Love Struck Baby scritta da SRV sarà il primo singolo estratto da Texas Flood con tanto di video su MTV, qui già perfettamente delineato, un R&R per le le future generazioni, che Chuck Berry e Keith Richards sono sicuro hanno apprezzato; Tell Me di Howlin’ Wolf e Shake For Me di Willie Dixon, sempre scritta per il “Lupo”, sono due omaggi ai grande suono della Chess, mentre Live Another Day, un altro brano originale di SRV, uscirà poi su Texas Flood con il titolo I’m Crying.

Eccellente serata, peccato che lo scopriremo solo nel 1992, quando il CD verrà pubblicato postumo. Anche se il gruppo era conosciuto solo in Texas, la loro reputazione inizia a crescere, e su raccomandazione di Jerry Wexler che li vede in una serata al Continental Club di Austin, e quindi li consiglia a Claude Nobs, il patron del Festival di Montreux, vengono scritturati per una serata alla manifestazione svizzera.

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Live At Montreux 1982 & 1985 – 2 CD Epic Legacy 2001 e 2 DVD Legacy 2004 ****/****1/2

Visto che non si possono scindere ne parliamo insieme, ma cronologicamente partiamo dalla serata al Casino di Montreux del 17 luglio 1982. Stevie Ray Vaughan e i Double Trouble sono degli illustri sconosciuti in Europa, e inoltre vanno a suonare in uno dei templi del jazz mondiale, dove però nel corso degli anni hanno suonato anche artisti dei generi più disparati. Ovviamente il fatto che il pubblico, preparato per uno spettacolo “acustico”, si trovi davanti tre scalmanati che suonano un blues elettrico ad alto voltaggio, di cui uno vestito come Zorro, con tanto di cappello da giocatore d’azzardo e Stratocaster del ‘59 ad altezza fianchi, non aiutò molto.

Il suo manager dell’epoca racconta che “boos e oos” erano quasi alla pari, con le disapprovazioni prevalenti, ma il set, ascoltato e visto al momento dell’uscita ad inizio anni 2000, riascoltato oggi mi sembra più che adeguato, e qualcuno tra il pubblico, leggi David Bowie, apprezzò molto, tanto da proporgli all’impronta di suonare nel suo prossimi disco Let’s Dance, e Jackson Browne, dopo un after hours di jam che andò avanti fino al mattino del giorno dopo, gli propose di registrare gratuitamente nei suoi studios personali, cosa che poi fu fatta. Come dicevo, più che adeguato, con un medley strumentale eccitante di Hideaway e una Rude Mood, presa a velocità boogie da ritiro della patente, e se non hanno cambiato il sottofondo sonoro, mi sembra che il pubblico all’inizio sia soddisfatto a giudicare dagli applausi, fischi per ora pochi, la sezione ritmica tira alla grande e SRV suona sempre come uno posseduto dal Blues, colla chitarra che va ovunque, con diverse citazioni hendrixiane.

Pride And Joy con il suo riff ripetuto è già un classico istantaneo, il nostro amico ci regala una performance “cazzuta” (Si può dire? Ormai l’ho scritto) e il mito inizia a materializzarsi in una serie di assoli micidiali, e qui ammetto che una parte del pubblico, si dice almeno quello delle prime file, comincia ad inquietarsi. Segue una versione da manuale, di oltre 10 minuti, di Texas Flood, lo slow blues elettrico elevato a pura potenza, il figlio illegittimo di Red House, torrido e senza requie, forse parte dei presenti avrebbe apprezzato maggiormente il fratello Jimmie, più rigoroso nelle 12 battute, ma che però in quegli anni ci dava dentro di brutto anche lui con i Fabulous Thunderbirds, ma c’era l’altro fratello, e quindi prendere o lasciare.

Pochi lasciano e lui li prende di petto con Love Struck Baby e poi con una soffertissima Dirty Pool, il brano scritto con Doyle Bramhall babbo, un altro blues lento di quelli superbi, lasciateli fischiare avrà pensato, come un novello Bob Dylan a Newport, sempre di Festival parliamo: “regala” ancora al pubblico, che continua ad incazzarsi, una fumante Give My Back My Wig di Hound Dog Taylor, a tutto boogie e con slide in libertà e chiude con una veemente Collin’s Shuffle del grande Albert. Quando torna a Montreux nel 1985 è diventato una superstar del (rock)blues, e non più un semi sconosciuto senza contratto discografico da fischiare, nella band c’è anche Reese Wynans all’organo e il concerto è decisamente più lungo, il doppio come durata, la foga è la stessa, ma il nostro è afflitto da problemi di alcol e droga non indifferenti, per quanto suoni ancora come una cippa lippa.

Scuttle Buttlin’ è una partenza da sballo (mi è scappato), uno strumentale vibrante, con le tastiere di Wynans a doppiare la chitarra fremente di SRV, l’hendrixiana Say What con wah-wah a manetta e lo slow blues Ain’t Gone N’ Give Up On Love provengono entrambe dal recente Soul To Soul, mentre Pride And Joy è uno dei suoi brani più belli e conosciuti, con Wynans al piano, seguita da una cover eccellente di Mary Had A Little Lamb di Buddy Guy e da un tour de force letale di oltre 13 minuti per Tin Pan Alley con Johnny Copeland come ospite (nella versione in CD, Copeland è presente anche in una veemente Cold Shot e in Look At Little Sister); poi arriva l’omaggio diretto all’amatissimo Jimi Hendrix con una travolgente e magica Voodoo Chile (Slight Return), uno dei pochi che ha potuto avvicinare la maestria superba del mancino di Seattle.

E c’è tempo ancora per una torrenziale Texas Flood, e per un altra ballata blues sontuosa come Life Without You dove uno Stevie particolarmente ispirato distilla note dalle sua chitarra, ricordando con orgoglio al pubblico presente che tre anni prima era tempo di fischi, mentre ora era tempo di Grammy. Si chiude con la jazzata Gone Home e con un’altra perla tra Jimi e Stevie Ray come Couldn’s Stand The Weather. Un grande concerto.

Ma facciamo rewind e torniamo al gennaio del 1983: Vaughan entra in studio con David Bowie per registrare Let’s Dance, dove appare in sei brani, compresa la title track e China Girl, per un album che diventa uno dei maggiori successi anni ‘80 per il Duca Bianco, vendendo 1 milione di copie negli USA. Sulla scorta di questi eventi la Epic lo mette sotto contratto a marzo del 1983, anche se nel frattempo SRV e soci, con l’aiuto del grande talent scout e produttore John Hammond, avevano già registrato a fine ‘82 proprio al Down Town Studio di Jackson Browne in quel di L.A., il loro album di debutto.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Torna Uno Dei Migliori Rocker In Circolazione, Nuovo Album E Concerto. Kenny Wayne Shepherd Band – Lay It On Down

kenny wayne shepherd band lay it on down

Kenny Wayne Shepherd  – Lay It On Down – Mascot/Provogue – 21-07-2017

Kenny Wayne Shepherd (nato Brobst a Shreveport, Louisiana, esattamente 40 anni fa, ma poi diventato “pastore”, almeno di cognome, per ragioni artistiche) da una decina di anni sembra non sbagliare più un disco: era partito come una delle “Grandi Speranze Bianche Del Blues” ( e della chitarra) quando era un ragazzino (insieme a Bonamassa, Jonny Lang e John Mayer, per citare i più famosi), poi si era perso un po’ per strada, l’album del 2004 The Place You’re In era veramente bruttino, con un suono hard rock da FM, ed ha venduto pure poco. Poi dal 2006 tutto è cambiato, Shepherd si è sposato con la figlia di Mel Gibson, dalla quale ha avuto cinque figli (lui e Johnny Lang fanno a gara per chi ne ha di più, per ora sono alla pari) e, cosa che più ci interessa, ha deciso di tornare al blues(rock), prima con 10 Days Out, dove ripercorreva la strada delle 12 battute, insieme ad alcuni dei grandi “vecchi” del genere, poi l’ottimo Live In Chicago http://discoclub.myblog.it/2010/10/12/forse-e-la-volta-buona-kenny-wayne-sheperd-live-in-chicago1/ . Con How I Go ha proseguito nella strada della qualità, culminata nell’eccellente Goin’ Home del 2014, dove apparivano come ospiti Warren Haynes, Joe Walsh, Ringo Starr, Robert Randolph, Keb’ Mo’, Kim Wilson, e la Rebirth Brass Band; nel frattempo, insieme a Stephen Stills e Barry Goldberg, ha dato vita ai Rides, gruppo autore di due notevoli dischi nel 2013 e 2015.

Proprio la sezione ritmica dei Rides, Chris Layton alla batteria e Kevin McCormick al basso è stata utilizzata da Kenny Wayne per registrare questo nuovo Lay It On Down, concepito non a caso nella città natale di Shreveport, con l’abituale produttore Marshall Altman e con l’aiuto del tastierista Jimmy McGorman e la presenza del suo pard abituale, il bravissimo cantante Noah Hunt. Il disco è stato registrato a gennaio di quest’anno, praticamente live in studio, e si sente, il suono è fresco e vibrante, con la chitarra di Shepherd sempre in evidenza e una serie di dieci canzoni (con la title track ripresa anche in versione acustica) tutte di buone fattura e firmate insieme ad alcuni dei suoi co-autori abituali, Mark Selby e Tia Sillers, in primis, ma anche nuovi arrivi come Danny Myrick, Dylan Altman e Keith Stegall, oltre al produttore Marshall Altman. Al solito sto scrivendo la recensione più di un mese prima dell’uscita (esce il 21 luglio), per cui vado anche a sensazioni: Baby Got Gone è un bel brano rock, per entrare subito nel mood dell’album, suono anche un filo radiofonico, ma nulla di scandaloso, chitarre a tutto riff, organo “scivolante” e la voce di Hunt in grande spolvero, al resto ci pensa la chitarra di Shepherd; Diamonds Got Gold aggiunge anche una sezione fiati, il suono è più funky e rotondo, forse più “lavorato” rispetto alle precedenti uscite, Kenny Wayne scalda comunque il wah-wah anche se il sound rimane forse fin troppo radiofonico e “commerciale”, ma sarebbero radio che ci piacerebbe ascoltare rispetto a quello che passa il convento del rock mainstream. Insomma parrebbe che Shepherd si sia messo in concorrenza con Jonny Lang e John Mayer, per quanto con migliori risultati.

Nothing But The Night ha un retrogusto quasi errebì, anche se la realizzazione è forse fin troppo “leccata”, manca per il momento il blues dei dischi precedenti, ma la chitarra scorre sempre fluida e ricca di inventiva; Lay It  OnDown finalmente risente dello spirito della Louisiana, una delicata ballata elettroacustica con deliziose armonie vocali e quell’umore sudista unito ad una bella melodia, un pizzico di zucchero di troppo, ma con una solista acustica che sostituisce l’elettrica. She’s $$$ è un gagliardo shuffle rock-blues con chitarre e organo assai indaffarati, più vicino allo stile abituale di Shepherd, e la qualità continua a salire anche nella successiva Hard Lessons Learned una sontuosa ed avvolgente ballata country-gospel con uso di pedal steel, veramente splendida e con un lirico assolo di chitarra del nostro. Down For Love è un altro pezzo rock di quelli tosti, un Texas Blues quasi alla Stevie Ray Vaughan, tirato e grintoso il giusto e con la chitarra incattivita di brutto, fluida e torrenziale; How Long Can You Go vira verso territori tra soul e rock sempre con la massima intensità, con la band che macina ritmo dietro le evoluzioni della solista di Kenny Wayne. Louisiana Rain è un’altra malinconica ballata dedicata al suo stato natale, eseguita con impeto e classe da Shepherd e compagni, veramente affiatati in questo album, inutile dire che l’assolo, al solito, è di grande qualità. Con Ride Of Your Life si torna al blues-rock duro e puro, a questo punto la band ha aggiustato il tiro e il brano  ricorda certe cose del miglior Bonamassa, quando l’ispirazione non fa cilecca. A chiudere il CD manca la versione “acustica” di Lay It On Down, pure questa decisamente bella. Quindi, se sorvoliamo sui piccoli cedimenti iniziali, un altro eccellente album per Kenny Wayne Shepherd,  a conferma del suo attuale status come uno dei migliori rocker americani in circolazione.

Bruno Conti

P.S.

KWS

Se volete vederlo dal vivo, Kenny Wayne Shepherd e la sua band saranno in concerto a Milano, anzi al Carroponte di Sesto San Giovanni la prossima domenica 23 luglio. Un evento da non perdere, sia per la KWS Band (se leggete i nomi e guardate pure il video qui sopra, capirete perché) che dal vivo è veramente strepitosa e anche per il musicista di supporto, il bravissimo cantante e chitarrista inglese Laurence Jones, più volte “”magnificato” su questo Blog http://discoclub.myblog.it/2015/05/05/lo-shakespeare-del-blues-magari-laurence-jones-whats-it-gonna-be/.

Ci Hanno Preso Gusto…E Pure Noi! The Rides – Pierced Arrow

rides pierced arrow

The Rides – Pierced Arrow – Provogue CD

Quando tre anni fa è uscito Can’t Get Enough, il CD di debutto del supergruppo The Rides (formato da Stephen Stills con Kenny Wayne Shepherd ed il grandissimo pianista/organista Barry Goldberg, uno dei sessionmen più richiesti della storia e, tra le altre cose, membro fondatore degli Electric Flag), sinceramente pensavo che si trattasse di uno sforzo isolato, ma, vuoi per l’ottimo successo di vendite ottenuto, vuoi perché era davvero un grande disco (per quel che può valere, era anche nella mia Top Ten annuale), i tre ci riprovano ora con Pierced Arrow, contravvenendo tra l’altro alle normali abitudini di Stills, abituato ad incidere con cadenze molto più blande. Can’t Get Enough era davvero bello, un disco potente di rock-blues come si faceva una volta, con una serie di canzoni originali di ottimo livello a qualche cover scelta con cura, dove i due chitarristi della band (due generazioni a confronto) si intendevano a meraviglia, e Goldberg ricamava in sottofondo con la consueta maestria. Ebbene, dopo un paio di ascolti di Pierced Arrow, posso affermare senza dubbi che ci troviamo di fronte ad un album che, se non è addirittura superiore al precedente, è almeno sullo stesso livello: canzoni superbe, un paio di cover (nella versione “normale”, quattro in quella deluxe) di cui una assolutamente galattica, assoli chitarristici come se piovesse e feeling a palate. Forse qui c’è più rock ed un po’ meno blues, ma alla fine è il risultato quello che conta, e devo dire che qualche anno fa non avrei mai pensato di ritrovarmi ancora di fronte ad uno Stills così in forma (nel 2005 lo avevo visto con Crosby & Nash al Beacon Theatre di New York, ed era in uno stato pietoso, completamente senza voce e più grosso di Crosby), mentre Shepherd è forse meno esposto di uno come Bonamassa, che fa un disco a settimana, ma di certo a talento siamo lì.

La sezione ritmica è la stessa del primo disco, con Kevin McCormick al basso (già con John Mayall, Jackson Browne, CSN e Crosby solista) e Chris Layton alla batteria, ex Double Trouble di Stevie Ray Vaughan ed attuale drummer di Shepherd; in più, abbiamo le armonie vocali che danno un tocco quasi gospel ad opera di Raven Johnson e Stephanie Spruill, e come ospite speciale all’armonica in un paio di pezzi Kim Wilson, leader dei Fabulous Thunderbirds. La produzione è nelle mani dei Rides stessi insieme a McCormick. Grande inizio con Kick Out Of It, un brano di puro rock alla Stills (e la voce di Stephen è in buono stato), gran ritmo, chitarre poderose ed il piano di Goldberg che si fa sentire, e poi iniziano i duelli a suon di assoli, insomma un godimento assoluto. Riva Diva è puro rock’n’roll, travolgente come pochi, con Kenny voce solista (non è Stills, ma se la cava egregiamente), grande performance di Goldberg e solite chitarre fiammeggianti; Virtual World l’avevo già sentita dal vivo con CSN lo scorso autunno a Milano, l’atmosfera è più soffusa, ma il ritmo è sempre presente, e con una chitarra ed un mood quasi alla Neil Young, gran bella canzone e classe da vendere. By My Side (canta Kenny), ancora energica, è un gospel-rock di grande potenza emotiva, con elementi swamp nel suono, un motivo che entra sottopelle ed un crescendo notevole, splendida canzone; Mr. Policeman è ancora molto spedita, anche se dal punto di vista compositivo inferiore alle precedenti, ma comunque un ottimo showcase per la chitarra di Stills, mentre I’ve Got To Use My Imagination è proprio il successo di Gladys Knight (ma l’autore è Goldberg, insieme all’ex marito di Carole King, Gerry Goffin), e la versione dei Rides è un soul-blues molto ricco dal punto di vista sonoro, con un bel botta e risposta voce-coro nel ritornello ed assoli superbi dei due leader e di Barry all’organo: una delle cover dell’anno, da sentire fino alla nausea.

La cadenzata Game On è la più blues finora, con Kim Wilson che “armonicizza” da par suo, un altro pezzo decisamente vigoroso ma grondante feeling, e poi le chitarre sono una goduria nella goduria; I Need Your Lovin’ è ancora rock’n’roll, con la solita superba prestazione da parte di tutti (specialmente Goldberg, un fenomeno…ma vogliamo parlare delle chitarre?) e la quasi impossibilità per il sottoscritto di stare fermo. There Was A Place è uno slow-blues di gran classe, e sebbene Stills non abbia più la voce di un tempo sopperisce con il resto: un brano caldo e vibrante, molto anni settanta; la versione regolare del CD si chiude con My Babe, noto successo di Little Walter (scritta da sua maestà Willie Dixon), rilasciata dai nostri con buona aderenza all’originale, gran lavoro di Barry e performance nel complesso molto sciolta e rilassata. L’edizione deluxe aggiunge tre brani, a partire da Same Old Dog, un rock-blues potente e tonico, un pretesto per far cantare le chitarre dato che come canzone è più canonica; chiudono due cover, Born In Chicago, scritta da Nick Gravenites e presente sul disco d’esordio della Paul Butterfield Blues Band, spedita e fluida, con Wilson nei panni di Butterfield ed il binomio Stills-Shepherd che tenta di emulare Mike Bloomfield Elvin Bishop (mentre Goldberg non ha paura di Mark Naftalin), e la nota Take Out Some Insurance di Jimmy Reed (ma incisa anche dai primi Beatles con Tony Sheridan), un bluesaccio sporco e sudato, che Stephen canta con voce un po’ impastata ma suona, eccome se suona.

Che altro dire? Che molto probabilmente anche per il 2016 nei dieci migliori dischi di fine anno i posti a disposizione sono solo più nove…

Marco Verdi