Oltre Alla Mano E’ Vincente Pure Il Resto Del Disco. Tinsley Ellis – Winning Hand

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Tinsley Ellis – Winning Hand – Alligator/Ird

Tinsley Ellis a memoria d’uomo (almeno la mia) credo non abbia mai sbagliato un disco, forse non ha neppure realizzato un capolavoro assoluto, ma la sua produzione è sempre rimasta solida e di qualità medio-alta: all’interno dei suoi dischi spesso troviamo dei brani veramente strepitosi dove il musicista di Atlanta, Georgia (ma cresciuto in Florida) estrae dalle sue chitarre (sia Gibson che Fender) limpidi esempi dell’arte dell’improvvisazione. In possesso di un fraseggio ricco e corposo, rodato da decine di anni on the road, è il classico prototipo del chitarrista rock-blues, uno che ha fatto del blues elettrico una missione, un “claptoniano” doc che a differenza di Eric non ha mai lasciato la retta via per tentare altre strade più commerciali, anche se il chitarrista inglese gli è indubbiamente superiore per talento e per quanto ha realizzato nella sua carriera. Ma pure Ellis, per chi ama il suono puro della chitarra elettrica nella musica rock, è una certezza assoluta: non a caso nel libretto del CD dove sono riportati i titoli delle canzoni non trovate il nome dell’autore (che a parte un brano comunque è sempre lui) ma i modelli di chitarra che ha usato all’interno del pezzo.

Se aggiungiamo che Tinsley ha pure una eccellente voce, come mi è  già capitato di dire in passato (avendo recensito spesso i suoi dischi), una sorta di Chris Rea meno soggetto alle leziosità del musicista britannico; non guasta neppure che il nostro amico utilizzi una band fantastica, con Kevin McKendree alle tastiere, nonché co-produttore dell’album, Steve Mackey al basso e Lynn Williams alla batteria,lo stesso gruppo che usa abitualmente Delbert McClinton. Ellis è anche un fedelissimo della Alligator, ha registrato con loro in tre diversi periodi, ed ora rientra per questo Winning Hand, che forse è il suo miglior disco di sempre, un fior di album di blues elettrico, di quello tosto e grintoso, influenzato dai suoi amori giovanili, Yardbirds, Animals, Cream, Stones, a cui Ellis ha comunque aggiunto forti componenti alla Freddie o alla BB King, e una vocalità che rimanda a gente come Robert Cray. Gli stili utilizzati sono quindi diversi, come le chitarre usate: c’è il sound caldo e intriso di soul dell’iniziale Sound Of A Broken Man, con il continuo lavoro della chitarra di Ellis, ben sostenuta dall’organo di McKendree, che poi sfocia in una serie di assoli dove il timbro “grasso” della Les Paul viene arricchito nel finale da un intervento poderoso con il wah-wah, proprio molto à la Clapton. Saving Grace, indicata nel libretto come ultimo brano, ma in effetti è il secondo sul CD, è anche meglio, un lungo blues lento di quelli che rimandano ai primi Allman Brothers, oppure anche alla splendida Loan Me A Dime di Boz Scaggs dove appunto Duane Allman era la chitarra solista, un po’ più breve, ma l’intensità è quella.

Ancora Gibson per Nothing But Fine, un pezzo più rock anni ’70, con un bel piano elettrico e una andatura ondeggiante, sempre gratificata da continui inserti della chitarra solista limpida e bruciante, splendida nel suo dipanarsi anche in un altro lento da manuale come Gamblin’ Man, di nuovo vicino allo stile del Cray più rigoroso, in ogni caso veramente un bel sentire. I Got Mine è il primo brano dove Ellis passa alla Stratocaster, il suono è più “trillante” ma la qualità è sempre elevata, come pure nella vorticosa Kiss This World, molto British Blues, e ancora nella più sognante Autumn Run, altra ballata blues melodica che potrebbe ricordare il BB King di The Thrill Is Gone, meno incisiva ma nobilitata dal solito lavoro di grande finezza della solista. Che divenuta una Telecaster nella vibrante Satisfied, “inventa” un R&R alla Chuck Berry con il piano di McKendree nel ruolo che fu di Johnnie Johnson. Don’t Turn Off The Light è un altro lento d’atmosfera, tra Rea, Gary Moore o Robin Trower, con la Gibson di Ellis impegnata in un pregevole assolo che al sottoscritto ha ricordato moltissimo (quasi al limite del plagio, ma le note si sa sono sette) quello di Carlos Santana in Europa; l’unica cover è Dixie Lullaby, un vecchio brano di Leon Russell, tipico del pianista di Tulsa, ricco di influenze sudiste, e con il piano e l’organo di McKendree al solito pronti a spalleggiare egregiamente la solista di Tinsley Ellis, molto alla Freddie King per l’occasione, pezzo che conclude degnamente un album di notevole sostanza.

Bruno Conti

Un Incontro Tra Due Grandi Della Chitarra. Son Seals With Johnny Winter – Live…Chicago 1978

son seals with johnny winter live chicago 1978

Son Seals With Johnny Winter – Live…Chicago 1978 – Air Cuts

Nel flusso consistente di uscite relative a vecchi broadcast radiofonici, ovviamente anche il blues è stato saccheggiato ripetutamente, soprattutto andando a pescare nei concerti dei nomi classici più importanti, sia neri che bianchi, e quindi è uscito materiale di B.B. King, Muddy Waters, John Lee Hooker, ma anche Freddie & Albert King, tanto per citare alcuni nomi tra i più noti, ma anche Stevie Ray Vaughan e Johnny Winter sono tra i più gettonati. Proprio il chitarrista albino texano è ospite in un paio di brani (ma di oltre dieci minuti ciascuno) in questo concerto di Son Seals, un nome che forse non si ricorda spesso, ma è stato uno dei più grandi chitarristi e cantanti del blues elettrico di Chicago, dai primi anni ’70 in avanti: nativo di Osceola, Arkansas, ha comunque svolto tutta la sua carriera nella Windy City, e ha inciso una lunga serie di album tutti (meno uno) per la Alligator, dischi di grande blues urbano e contemporaneo, tosto e di notevole spessore musicale, caratterizzati da un uso continuo della sua Gibson, in grado di distillare note ricche di feeling e tecnica sopraffina, nonché in possesso di una voce maschia e virile, fortemente espressiva.

Questo concerto del 1978 al Wise Fools Pub di Chicago (lo stesso locale dove sempre nel ‘78 fu inciso il Live And Burning ufficiale per la Alligator) ne è prova inconfutabile; registrato quando Seals era al massimo della sua potenza (in seguito il nostro amico ha avuto una vita tribolata, unico sopravvissuto di quattordici fratelli, con la moglie che gli sparò nella mascella, parte della gamba sinistra gli fu amputata per problemi legati al diabete, poi nell’incendio della sua casa perse quasi tutte le sue proprietà, e parte della sua chitarre gli furono rubate, per la serie “vivere il blues pericolosamente”): ma in quella serata Seals suona come un uomo posseduto dal “genio delle 12 battute”, un concerto fantastico, inciso benissimo, con una band di grande consistenza, dove brillano anche il sax di A.C. Reed, la seconda chitarra di Lacy Gibson e il piano di Alberto Gianquinto (già con James Cotton e tra gli ospiti di Abraxas dei Santana). Tra l’altro lo scrittore e giallista americano Andrew Vachss, grande fan, lo ha spesso inserito nei suoi racconti, narrando della sua gesta, e questa serata con Johnny Winter avrebbe meritato di venire raccontata: Seals era un maestro dei blues lenti, ma anche nei funky blues non scherzava, con le influenze di Albert King. Earl Hooker e Hound Dog Taylor che citava tra i suoi modelli e mentori, e in questo concerto, armato della sua Gibson verde Cadillac, ce ne regala alcuni di grande intensità. I due slow blues con Winter, posti quasi a fine concerto, sono semplicemente meravigliosi, prima una Stormy Monday dove l’interplay tra le due chitarre è magnifico, con Johnny che canta e poi apre le danze con la sua chitarra e Seals che gli risponde da par suo, poi una colossale versione di You Can’t Lose What You Never Had, questa volta cantata da Son, con le due soliste che raggiungono livelli di impeto e vigore chitarristico veramente maiuscoli.

Ma anche nel resto nel concerto ci sono grandi brani: dall’apertura con la tiratissima Everything I Do Is Wrong (un brano legato a B.B. King) dove Seals inizia a strapazzare la sua Gibson con le classiche linee soliste lunghe e lancinanti del blues elettrico di Chicago, seguita da una poderosa I Can’t Hold Out, un pezzo scritto da Willie Dixon, nota anche come Talk To Me Baby, nel repertorio di Elmore James, ma che anche Clapton la faceva alla grande, questa versione di Seals non ha nulla da invidiare ad entrambi, con la solista che scorre fluida ed inarrestabile, veramente blues all’ennesima potenza che attizza il pubblico presente. E non si scherza neppure in Blue Shadows Falling, un altro lentone di Junior Parker, dove Son divide il proscenio con il sax di A.C. Reed, e gigioneggia e scherza con il pubblico mentre esegue un assolo da sballo; per non dire della mossa Nobody Wants A Loser, un brano dove il nostro ripercorre le tracce del suo maestro Albert King, o ancora in una versione rallentata, cadenzata e splendida del classico Gangster Of Love, che diventa quasi un brano alla Muddy Waters. Mother-In-Law-Blues era un pezzo di Don Robey detto anche Deadric Malone, di nuovo Chicago Blues della più bell’acqua e Heart Fixing Blues è un altro lento formidabile di Albert King che Son Seals esegue alla perfezione. Dopo i due pezzi con Winter, Seals e la band tornano per una conclusiva Pretty Woman, di nuovo dal repertorio di King, che poi sfocia in uno strumentale poderoso che suggella una performance veramente superba ed imperdibile per un artista da rivalutare assolutamente.

Bruno Conti

Ma Che Musica Maestro! Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live

buddy guy - i'll play the blues...live

Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live – Klondike Records 

Credo che tutti sappiamo chi sia Buddy Guy, forse l’ultimo dei grandi “originali” bluesmen del periodo d’oro ancora in vita, il chitarrista elettrico per eccellenza, uno che ha suonato a lungo, prima con Muddy Waters e poi con Junior Wells, ma anche con una carriera solista altrettanto lunga, pur se non particolarmente prolifica, avvenuta in un certo senso a periodi, prima quello a cavallo fine anni ’60,  primi ’70, con i bellissimi album per la Vanguard, poi il “ritorno” ad inizio anni ’80, con i dischi targati Alligator, e l’ultima fase, tutt’ora in corso, iniziata con Damn Right, I’ve Got The Blues, uscito nel 1991 per la Silvertone/BMG e che prosegue a tutt’oggi, con lo splendido Born To Play Guitar, recente vincitore del Grammy come miglior disco Blues nel 2016 http://discoclub.myblog.it/2015/08/03/lultimo-dei-chitarristi-blues-gran-forma-buddy-guy-born-to-play-guitar/ .

E il nostro è veramente nato per suonare la chitarra: nel corso degli anni, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page e Jimi Hendrix, i quattro grandissimi dello strumento, ma poi anche Stevie Ray Vaughan, hanno ammesso l’influenza che il grande musicista di Lettsworth, Louisiana, ma da sempre cittadino onorario di Chicago, ha esercitato sulla loro formazione come chitarristi. Keith Richards e gli Stones stravedono per lui, nel 2012 al Kennedy Center gli hanno dato un premio alla carriera, in una serata in cui Jeff Beck e Beth Hart hanno incendiato la platea dei presenti (tra cui i Led Zeppelin al completo) con una versione memorabile di I’d Rather Go Blind, nel 2014 è stato “introdotto” nella Hall Of Fame, quindi i riconoscimenti, per una volta e per fortuna, non gli sono mancati da vivo, ma quelli a cui tiene di più sono quelli che raccoglie sui palchi in giro per il mondo, con una serie di concerti che sono sempre delle feste memorabili per gli amanti della chitarra.

Il suo stile spavaldo, quasi acido, con quel sound lancinante, forte e tenero, ma anche aggressivo,  è il prototipo del blues elettrico, Buddy Guy è anche un grande entertainer, uno showman con “trucchetti” alla chitarra che qualcosa hanno insegnato anche a Jimi e a tutti gli altri citati, ma è anche un grande tecnico dello strumento e un divulgatore, in grado di suonare il repertorio pure di molti colleghi, contemporanei e non, con cui ha condiviso lunghi tratti di vita.

 

Prendete questo concerto dal vivo, il solito broadcast “ufficiale”, una registrazione del 9 gennaio 1992, dallo Sting, New Britain nel Connecticut, Guy ha appena pubblicato quel Damn Right… citato prima e delizia il pubblico presente e quello sintonizzato alla radio con un concerto dove si apprezzano tutte le sue indubbie qualità: con la sua Stratocaster in overdrive infiamma il pubblico presente con una serie di brani dove gli assolo di chitarra si sprecano, ma anche tutto il contorno blues e rock è di primissima scelta. Il suono è buono, senza essere perfetto, da bootleg, ma di quelli ascoltabili, le canzoni però sono formidabili: un’oretta di musica dove Guy sciorina un repertorio che definire eclettico è quasi fargli un torto, da una Mary Had A Little Lamb, uno dei suoi rari successi per la Chess, a lungo nel repertorio di SRV, e qui in una versione scintillante, con la chitarra che scorre con una fluidità assoluta e quella voce aspra e vissuta che canta il blues come pochi hanno fatto, prima e dopo di lui.

 

A seguire una I Just Wanna Make Love To You che parte funky e diventa una fucilata rock-blues, prima di trasformarsi, sotto la forma di medley (un modo di proporre i brani tipico del Guy performer live) in You Can’t Fool A Fool, con Buddy che fa cantare tutto il pubblico presente, con il brano che diventa quasi jazzato grazie ad un pregevole assolo di piano, senza soluzione di continuità ci troviamo scaraventati nella leggendaria blues ballad I’ll Play The Blues For You, uno degli slow più belli del repertorio di Albert King, dove Guy accarezza con libidine la sua chitarra, per poi lanciarsi in un altro medley memorabile, con il trittico da sogno della ciondolante Everything’s Gonna Be Alright, l’omaggio a B.B. King con accenni di Rock Me Baby e Watch Yourself, poi è la volta del suo “allievo” Jimi Hendrix, con l’intro a tutto wah-wah di Voodoo Chile, che poi diventa l’inchino al “maestro” Muddy Waters di una poderosa Hoochie Coochie Man, un accenno a Cold Shot di Vaughan e poi è la volta di Strange Brew dei Cream di Eric Clapton, proposta in un medley con Mustang Sally, il pezzo di Wilson Pickett, l’unico tratto dall’album in teoria in promozione, con Guy che “addestra” il pubblico e i suoi musicisti come un domatore di tigri, oltre dieci minuti di pura magia sonora che diventano più di 15 minuti in una orgia di R&B e R&R per l’accoppiata mitica di Knock On Wood/Johnny Be Goode. Ma che musica Maestro!

Bruno Conti

Raffinato Blue-Eyed Soul Dal Regno Unito. Paul Carrack – Soul Shadows

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Paul Carrack – Soul Shadows – Carrack-UK/Proper 

Tamla Motown, Philly Sound, sono i primi termini che mi vengono in mente ascoltando questo nuovo album di Paul Carrack, uno dei migliori vocalist attualmente in circolazione nella scena musicale inglese, forse un po’ demodé con il suo blue-eyed soul elegante e raffinato, ma indubbiamente piacevole da ascoltare; Carrack, di recente, ha partecipato ai concerti d’addio di Clapton alla Royal Albert Hall, e il vecchio “Manolenta” gli ha lasciato cantare You Are So Beautiful, un pezzo che tutti ricordano per la versione di Joe Cocker, ma in effetti viene dal repertorio di Billy Preston, altro grande tastierista e cantante a cui Carrack in un certo senso si può accostare, facendo i dovuti distinguo. Anche Carrack è sulla scena da tantissimi anni, fin dagli inizi anni ’70, quando faceva del jazz-rock progressive con i Warm Dust, ma poi il suo nome è sempre rimasto legato agli Ace, e al loro grande successo How Long, in quanto probabilmente il prototipo delle canzoni del nostro, da allora ad oggi, melodico, con la giusta quota di soul e R&B, un pizzico di rock quando serve, una voce melliflua e dalla perfetta intonazione, usata con profitto nel precedente Rain Or Shine, il disco di covers del 2014 dove si era lanciato nella difficile arte del crooner http://discoclub.myblog.it/2014/04/13/che-strano-disco-paul-carrack-rain-or-shine/ , senza dimenticare mai la sua passione per il soul, che per l’occasione del nuovo album traspare fino dal titolo del disco, Soul Shadows.

Per l’occasione Paul Carrack ha scritto 10 delle undici canzoni che compongono il nuovo album, lasciando alla cover finale del brano di Bobby “Blue” Bland Share Your Love With Me il compito di “timbrare” con una firma d’autore un album che si lascia ascoltare con grande scorrevolezza. Non ci sono voli pindarici, brani che possono fare gridare al capolavoro, ma la classe del nostro riesce comunque ad evitare che il disco scivoli nel “bland-rock” banale di gente come Bublé, Mick Hucknall o l’ultimo Rod Stewart, anche se a tratti ci si avvicina pericolosamente. Carrack suona tutti gli strumenti, con l’eccezione della batteria affidata al figlio Jack,  e, in un brano, del sax nelle capaci mani di Pee Wee Ellis, il leggendario collaboratore di James Brown e Van Morrison; in sei brani è presente anche una piccola ma ben utilizzata sezione archi e fiati, che allarga lo spettro sonoro dei brani e in Bet Your Life Chris Difford, vecchio datore di lavoro di Paul negli Squeeze, aggiunge la sua firma per un pezzo che profuma di Motown primi anni ’70, come peraltro molti altri brani del disco.

Dall’iniziale Keep On Lovin’ You, che ha anche tracce del Philly Sound citato all’inizio, grazie ai fiati e agli archi usati con costrutto, una Sleep On It che potrebbe insegnare una o due cose ai paladini del “nu soul”, anche se qui si rischia per un eccesso calorico di zuccheri; molto meglio la nostalgica Sweet Soul Legacy che cita alla lettera nel testo Sam & Dave, Jackie Wilson, James Brown e nella costruzione sonora il grande Sam Cooke. In tutti i brani le tastiere di Carrack, soprattutto organo, ma anche piano, acustico ed elettrico, sono una delizia per i padiglioni auricolari degli appassionati di questa musica. Ogni tanto si scivola verso le ballate melodiche, forse troppo melodrammatiche, tipo Let Me Love Again, ma poi si risale subito con la sferzata rock’n’soul di Too Good To Be True, dove l’organo e il breve solo al piano elettrico di Paul rievocano il tocco inconfondibile del vecchio Billy Preston (qualcuno ha detto Get Back? Oh yes!). In Watching Over Me fanno capolino persino una chitarra acustica e una armonica per un brano dal sapore “caampagnolo” che rievoca certi passaggi alla Rod Stewart dei tempi che furono, anche se la voce è diversa. That’s How I Feel è una ballatona notturna e Late At Night, con il suo piano elettrico in evidenza vira verso lidi funky-rock, sempre ricchi di sapori soul, poi ribaditi nella ritmata Say What You Mean dove Carrack sfodera il suo timbro vocale più “nero”, prima di congedarci con Share Your Love With Me, la splendida ballata di Bobby Bland che deve essere stata uno degli ascolti preferiti e formativi del giovane Van Morrison.

Bruno Conti

Tra Ritmi Sudisti, Blues-Rock E Vecchie Chitarre! SIMO – Let Love Show The Way

simo - let love show the way

SIMO – Let Love Show The Way – Provogue/Mascot Records

Il nome della band non è un acronimo, è proprio il cognome di JD Simo, chitarrista, cantante e deus ex machina di questo nuovo poderoso trio americano: nuovo, ma già in attività dal 2010, con un album omonimo pubblicato a livello indipendente nel 2011 e un paio tra EP e singoli, già nella loro discografia. Però questo Let Love Show The Way è quello che fa fare loro il salto di qualità. Registrato con la nuova formazione, dove il bassista Elad Shapiro ha sostituito il membro fondatore Frank Swart,  e con Adam Abrashoff sempre solidamente (in tutti i sensi) dietro ai suoi tamburi, il disco è stato registrato in quel di Macon, Georgia, nella Big House, la casa comune dove gli Allman Brothers vivevano e concepivano la loro musica agli albori del periodo aureo fine anni ’60, primi ’70. E non è tutto, perché a JD Simo è stata anche affidata la leggendaria Gold Top Gibson Les Paul del 1957 appartenuta a Duane Allman, da allora usata solo da Warren Haynes, Derek Trucks Nels Cline dei Wilco. E il risultato si sente, la chitarra sicuramente, con il suo suono unico e vissuto, contribuisce, ma anche il manico conta e Simo è uno bravo, con un grande tocco, soprattutto alla slide ma non solo, come il suo illustre predecessore.

Il nostro amico è nato a Chicago, ha vissuto anche a Phoenix, Arizona e poi nel suo viaggio verso sud è arrivato a Nashville, dove il suo trio opera musicalmente, ma per incidere il disco sono andati ancora più a Sud, a Macon, dove con l’ingegnere del suono Nick Worley e uno studio mobile portato nella Big House hanno concepito questo poderoso album che conferma quel fermento che si percepisce verso un ritorno al rock classico degli anni ’70, quello più ruspante e chitarristico. Rodato da anni di concerti aprendo per Gregg Allman, Deep Purple, Blackberry Smoke Joe Bonamassa, Simo ha messo a fuoco le passioni della sua infanzia, iniziate con ascolti prolungati dei Blues Brothers (e degli altri musicisti presenti nel film, con John Lee Hooker, Steve Cropper, Matt “Guitar” Murphy che hanno lasciato una impronta indelebile) e dell’Elvis in pelle nera del comeback special del ’68. A dieci anni la prima chitarra, come Bonamassa e Trucks, e a quindici lascia la scuola ed è già sulla strada a suonare la musica che ama. Il risultato finale è questo disco di grande rock, rock-blues se preferite, derivativo finché se vuole, con forti componenti di southern rock ma anche abbondanti deviazioni verso un sound da power trio zeppeliniano veramente potente.

L’uno-due iniziale di Stranger Blues Two Timin’ Woman sembra uscire dai solchi di Idlewild South con la chitarra di Duane Allman che si impadronisce delle mani e del cuore di Simo, rilasciando una serie di soli devastanti, sia in modalità normale come slide (nel secondo brano), con la sezione ritmica che pompa boogie e rock sudista come se ne andasse della loro vita. Can’t Say Her Name ha un groove e un riff molto alla Free o primi Gov’t Mule per rimanere più contemporanei, quindi tra blues e rock cattivo, sempre con la notevole voce di JD a guidare le danze, prima di scatenare di nuovo la sua Gibson in un breve ma gagliardo assolo. Batteria in libertà, basso con distorsore, chitarra wah-wah e ritmi violentissimi per la dura I Lied, tra Zeppelin e Sabbath, come se gli anni ’70 fossero dietro l’angolo. Please, meno di tre minuti, è forse la loro concezione di come debba suonare un singolo rock, senza compromessi, giusto con un filo di melodia, prima di scatenare un’altra raffica con il suo bottleneck. Long May You Sail è una riuscita fusione tra rock celtico alla Big Country e derive psichedeliche, come se fianco di Stuart Adamson si agitasse lo spettro di Jimi Hendrix.

I’ll Be Around, grazie di nuovo alla slide assassina e alla voce di Simo ha molte parentele con le varie band di Derek Trucks, puro southern-blues-rock di ottima fattura, mentre Becky’s Last Occupation è quella più vicina ai riff degli Zeppelin di Physical Graffiti o Presence (ma anche i Black Crowes) https://www.youtube.com/watch?v=F9YHCkkjfnU , poi rincarati nella lunghissima I’d Rather Lie In Vain, dove tornano di nuovo inflessioni tra Zep e Sabbath, incarnate in questo hard-slow-blues-rock che ricorda anche certe cose del Bonamassa più ingrifato, con le mani di JD Simo in piena libertà di galoppare sul manico della sua Les Paul, come il buon Jimmy Page dei tempi d’oro.  Dopo questo tour de force chitarristico l’album “ufficiale” si chiude su una traccia  acustica strumentale come Today I’m Here che sembra uno dei pezzi in solitaria di Duane Allman. Ma le tre bonus ci regalano altri 25 minuti di rock ad alto contenuto di ottani: la title-track Let Love Show The Way è un’altra bella ballatona di quelle dure ed elettroacustiche alla Houses Of The Holy per intenderci, con una lunga improvvisazione da applausi nella parte centrale e finale, mentre Ain’t Doin’ Nothin ci riporta in territori Allman Brothers con una lunghissima jam strumentale tutta da godere grazie alla perizia di JD Simo, che si conferma gran chitarrista negli oltre tredici minuti del brano https://www.youtube.com/watch?v=GcBN0TsNROo . Chiude una bella versione di Please Be With Me, famosa nella versione di Clapton ma scritta da Scott Boyer dei Cowboy, una piccola gemma acustica che chiude un gran bel disco di rock, come se ne fanno pochi ultimamente, anche se più di quello che si pensa, non tutti però di questo livello qualitativo, Duane Allman sarebbe soddisfatto!

Dal vivo fanno una grande With A Little Help From My Friends.

Da oggi nei negozi.

Bruno Conti

Il Più Grande Bassista Della Storia Del Rock, E Anche Il Chitarrista Non Era Male! Jack Bruce And Robin Trower – Songs From The Road

jack bruce robin trower songs from the road

Jack Bruce And Robin Trower – Songs From The Road – Ruf/Ird CD+DVD 

Jack Bruce è stato il più grande bassista della storia del rock: e questa è una cosa nota e anche piuttosto condivisa. E qui potrei fermarmi. Meno noto è il fatto che questo concerto sia la riproposizione da casa Ruf di Seven Moons Live, l’album dal vivo del 2009 che uscì sia in versione CD che DVD, divise. Ora l’etichetta tedesca (ri)pubblica questa nuova edizione del concerto in versione doppia, con l’aggiunta di un brano, She’s Not The One, nella parte video. Quelli erano stati anni turbolenti e dolorosi per Bruce: nel 2003, dopo anni di eccessi, gli fu diagnosticato un tumore al fegato, e nel 2004 subì un trapianto totale, che agli inizi gli diede problemi di rigetto, poi risolti, tanto che nel 2005 fu presente alla famosa reunion dei Cream alla Royal Albert Hall.. Poi il musicista proseguì la sua frenetica serie di impegni e nel 2007 rinnovò anche la collaborazione con Robin Trower, grande chitarrista londinese, noto ai più per la sua militanza nei Procol Harum, ma autore anche di una lunga serie di album solisti, che gli valsero l’epiteto di “erede” di Jimi Hendrix, per il suo stile “sognante” e ricco di tecnica, ammirato moltissimo da Robert Fripp, che lo considerava un maestro e ha addirittura preso delle lezioni da lui.

Come dicevo un attimo fa, Trower e Bruce si erano già incontrati una prima volta tra il 1981 e il 1982, quando registrarono due album in coppia, B.L.T. e Truce. Nel 2007 esce Seven Moons, disco che li vede affiancati dal grande batterista (ma anche tastierista) Gary Husband, uno che abitualmente suona nei 4Th Dimension di John Mclaughlin, ma ha collaborato anche con Allan Holdsworth, Mike Stern, i Level 42 (?!?) e tantissimi altri che sarebbe lunghissimo elencare. Quindi per tutti e tre i musicisti, l’arte della collaborazione è un fattore importante nel proprio fare musica, come pure la capacità di fondere vari generi: Bruce ha iniziato nel gruppo di Graham Bond, tra jazz e blues, poi brevemente nei Manfred Mann e nei Bluesbreakers di Mayall, l’avventura dei Cream dove ha rivoluzionato il modo di fare rock, introducendo l’improvvisazione del jazz, e inventando di fatto il power trio, di nuovo jazz con Tony Williams Lifetime, Carla Bley, Kip Hanrahan, in mezzo una carriera solista eccelsa, con mille rivoli e deviazioni che lo hanno portato a riprovare il trio rock-blues con West, Bruce & Laing e il quintetto con Carla Bley, Ronnie Lehay e Mick Taylor, ma anche lo stile big band, le contaminazioni con la world music e mille altre avventure.

Ma secondo me il genere dove eccelleva è sempre stato il rock-blues, il suo saper improvvisare in libertà, confrontarsi con un chitarrista e un batterista, all’interno anche di brani dalla struttura classica, ovvero belle canzoni, per poi improvvisamente partire verso la stratosfera del rock, quando incontrava dei musicisti ai suoi livelli tecnici. E Trower e Husband lo sono entrambi; in questo concerto registrato nella bella sala da teatro De Vereeniging di Nijmegen in Olanda, il 28 febbraio del 2009, una delle ultime occasioni per ascoltare Jack Bruce (che come ricorda lui stesso nel corso del concerto, aveva avuto di nuovo dei problemi di salute tanto da fargli esclamare che non solo era contento di essere in quel teatro a suonare, ma lo era in assoluto, per il fatto di essere ancora vivo) al massimo delle sue capacità: i brani vengono in gran parte da Seven Moons, 10 in totale, tutti meno uno, firmati, da Bruce e Trower, più Carmen da B.L.T. e tre pezzi dei Cream, che sono le chicche assolute del concerto.

Robin Trower non è Clapton, ma è assolutamente un suo pari, molto statico sul palco, a causa del suo continuo uso della pedaliera quasi costantemente in modalità wah-wah, ma anche con altri effetti che gli consentono quel suo stile sognante ed energico al tempo stesso, approccia i soli di Sunshine Of Your Love (con un Jack Bruce prodigioso al basso), White Room e Politician in modo originale, ma anche rispettoso degli originali, se mi passate il bisticcio. Bruce canta in tutto il concerto, ed è in gran forma vocale, a dispetto dei problemi di salute, tra blues, rock, musica d’autore e grandi canzoni, con punte di eccellenza nell’iniziale Seven Moons, nella sincopata Lives Of Clay, che ricorda moltissimo i pezzi dei Cream, nella sospesa Distant Places Of The Heart, quasi jazzata, in Carmen, una delle tipiche “ballate” di Jack, in Just Another Day, con un grande Trower, ai vertici del suo hendrixismo (se mi passate il termine), come pure in Perfect Place, dove il wah-wah fluisce in modo magnifico, e ancora nello slow blues di Bad Case of Celebrity e nella minacciosa e potente Come To Me. Praticamente in tutto il concerto dove i tre (anche Husband è formidabile) dimostrano che il rock è ancora un’arte viva e vegeta, se suonata da grandi interpreti.                  

Bruno Conti   

E Di Bluesmen Tedeschi Non Vogliamo Parlarne? Kai Strauss – I Go By Feel

kai strauss i go by feel

Kai Strauss – I Go By Feel – Continental Blue Heaven/Ird 

Potrei fare la battuta e anticiparvi che il nuovo disco di Susan Tedeschi, con marito Derek Trucks al seguito, uscirà a fine gennaio (intitolato Let Me Get By, sarà il primo per la nuova etichetta Fantasy, tra l’altro sembra pure bello, dai primi ascolti) ma qui parliamo di tedeschi in senso di “germanici”, e dopo bluesmen danesi, belgi, austriaci, il mese prossimo anche francesi, parliamo di un musicista tedesco. Una piacevole ed inattesa scoperta questa di Kai Strauss, chitarrista e cantante tedesco, incide per una etichetta olandese ed è al suo secondo album, ma per chi, come nel mio caso, si avvicina per la prima volta alla sua musica, è sembrato di ascoltare un eccellente album di blues elettrico proveniente dal catalogo di una Alligator o una Delmark, non dissimile dalle recenti prove di Jarekus Singleton http://discoclub.myblog.it/2014/05/10/dei-futuri-del-blues-elettrico-jarekus-singleton-refuse-to-lose/  o Selwyn Birchwood http://discoclub.myblog.it/2014/06/14/piccoli-alligatori-pettinature-afro-selwyn-birchwood-dont-call-ambulance/ , intriso di un feeling che rimanda ai dischi classici di gente come Luther Allison, Jimmy Dawkins o tra i più recenti Jimmy Burns   o Michael Burks, anche se ovviamente Strauss essendo un bianco va a pescare anche tra le sue influenze nel repertorio di Mike Bloomfield o dei primi Bluesbreakers di Mayall, per non dire dei Fleetwood Mac di Blues Jam At Chess https://www.youtube.com/watch?v=3iEeCgDHY-Y .

 

O almeno queste sono le impressioni che ho avuto ascoltando questo I Go By Feel: naturalmente, come è logico, non parliamo di musica innovativa o particolarmente originale, ma in questo tipo di dischi conta molto il “sentimento”, il feel del momento, e mi sembra che Kai Strauss lo possegga. Una buona voce, un bel tocco di chitarra, la capacità di circondarsi dei musicisti giusti, sia nella propria band, come in una mirata scelta degli ospiti: nel disco precedente c’erano Sugar Ray Norcia, Darrell Nulisch, Doug Jay, Sax Gordon e Boyd Small, mentre nel nuovo album, oltre a Gordon ai fiati in alcune tracce, troviamo gli ottimi chitarristi Tony Vega, efficacissimo alla slide nel tirato shuffle Drinkin’ Woman che sembra uscire dal citato disco dei Fleetwood Mac di Peter Green, Mike Wheeler (non a caso un artista del roster della Delmark), anche voce solista in una torrida ripresa del classico Gotta Wake Up di Fenton Robinson, che grazie anche alla presenza dei fiati, sembra quasi un brano del Bloomfield fine anni ’60 e poi secondo solista in Back And Forth, un eccellente strumentale che evoca sempre quell’epoca gloriosa del blues bianco elettrico.

E per completare la trilogia della presenze Wheeler suona pure in Money Is The Name Of The Game, uno slow blues di quelli “duri e puri”, entrambi gli ultimi brani citati caratterizzati pure dalla presenza della doppia tastiera che conferisce ulteriore profondità al suono. Come ospite aggiunto troviamo ancora Tommie Harris, vecchio batterista della band di Luther Allison, in questo caso presente come voce solista in una notevole ripresa del classico Luther’s Blues, come pure in Soul Fixin’ Man. In un pezzo come Knockin’ At Your Door, grazie ad un sound più “contemporaneo” (ma non troppo) sembra di ascoltare il Clapton anni ’70, mentre Ain’t Gonna Ramble No More, grazie all’armonica di Thomas Feldmann rievoca ancora i fasti della Butterfield Blues Band di Bloomfield, con Strauss che fa del suo meglio per ricordarlo con un timbro pulito e stilisticamente perfetto, che si apprezza anche in I Take My Time, prima di lasciare il microfono al texano Tony Vega che duetta di gusto con Strauss in una pimpante I’m Leaving You. In conclusione del disco, come bonus, c’è una traccia dal vivo, con il sonoro leggermente lo-fi ma più che accettabile, una versione intensa e lunghissima, oltre i dieci minuti, di Early In the Morning di Sonny Boy Williamson, con l’armonicista e cantante olandese Pieter “Big Pete” v/d Pluijim che guida la band, dove Kai Strauss, questa volta alla slide, si conferma solista di ottimo valore.

Bruni Conti