La Band Texana Non Lascia Ma Raddoppia, E Pubblica Uno Dei Loro Migliori Album In Assoluto. Reckless Kelly – American Jackpot/American Girls

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Reckless Kelly – American Jackpot/American Girls – No Big Deal/Thirty Tigers 2 CD/Download

Anche il nuovo album (anzi, i nuovi album, visto che sono due) dei Reckless Kelly, è uscito prima per il download, e poi “dovrebbe” essere disponibile in doppio CD dal 24 luglio (ma più probabile il 31/7 o il 7 agosto, non è chiaro): annunciato all’inizio come un disco singolo, poi si è allargato man mano fino a raccogliere 20 brani , distribuiti su 2 CD, ed esce a quattro anni dal precedente Sunset Motel https://discoclub.myblog.it/2016/09/29/reckless-kelly-sai-cosa-ascolti-il-nuovo-album-sunset-motel/ , ed è il primo in cui non appare più il vecchio chitarrista David Abeyta, sostituito da Ryan Engleman, mentre la leadership è sempre saldamente nelle mani dei fratelli Braun, Will e Cody (come certo saprete ci sono altri due fratelli Micky & Gary Braun, alla guida degli ottimi Micky & Motorcars). Tutta la famiglia è nativa dell’Idaho, ma si sono trasferiti in quel di Austin, Texas, ormai dal lontano 1996, e sono tra i fondatori di quel movimento che è stato definito “Red Dirt Sound” che ingloba country(rock) texano, roots rock e americana, un suono ruspante che miscela sia il suono classico che derive più “moderne”.

Quando esce un doppio album si dibatte da sempre sul fatto se non sia meglio sfrondare qualche elemento, “venti pezzi sono troppi, sì il disco è bello, ma vuoi mettere se ci fosse stata qualche canzone in meno” e si cita spesso come esempio più famoso il White Album dei Beatles (qualcuno ha detto Ob-La-Di Ob-La-Da e Revolution 9, i due lati opposti della medaglia?), anche se poi con l’avvento del CD si è scoperto che molti di questi dischi ci stavano comodamente negli 80 minuti delle edizioni digitali e il loro fascino è spesso proprio anche nella lunghezza. Io sono da sempre favorevole ai doppi o comunque agli album lunghi: meglio che ci sia qualche canzone magari “superflua”, la ascolti una o due volte poi se non ti piace usi la funzione “skip”, e ti concentri sulle migliori, che comunque, anche nei dischi più riusciti, difficilmente superano le sei o sette, quando va bene: ma lasciamo stare perché stiamo disquisendo sul sesso degli angeli o di questioni di lana caprina. Quindi concentriamoci su American Jackpot/American Girls: si diceva 20 brani, 10 canzoni per ogni CD, che poi potrebbero essere interscambiabili nei due album, anche se in teoria American Jackpot dovrebbe essere quello più “impegnato”, su tematiche diverse, anche sociali e American Girls, più leggero e disimpegnato, su tematiche personali ed amorose.

Ripeto, o forse non l’ho ancora detto, a me il disco piace parecchio, e anche la critica, americana e non, recensendo la versione per il download ne ha parlato prevalentemente in termini più che positivi, mentre altri, pochi per la verità, hanno posto appunto dei distinguo per la presunta eccessiva lunghezza. Se il gruppo vi piace fregatevene e godetevi il disco che ha parecchi brani da gustare veramente con piacere, le cito alla rinfusa, visto che ci sono parecchie canzoni veramente belle. A partire dal commosso omaggio a Tom Petty nella splendida Tom Was A Friend Of Mine, usando potenti parole come “then silence filled the air like there would never be another sound again” e le onnipresenti delicate armonie vocali e le chitarre tintinnanti dei fratelli Braun, con il violino struggente di Cody in evidenza; 42 racconta la storia di una delle grandi icone del baseball americano Jackie Robinson, in una country-folk ballad intima e raccolta di grande fascino cantata a due voci dai fratelli, mentre l’armonica di Cody ne sottolinea l’atmosfera malinconica, ma c’è anche il R&R sudista, chitarristico e sfrenato della vibrante Mona https://www.youtube.com/watch?v=3hKLOcZ_ivc , l’iniziale introspettiva, almeno nei testi, ma sontuosa nell’approccio musicale, North American Jackpot sulla storia dell’immigrazione verso gli Stati Uniti dalla Mayflower ai giorni nostri.

Come pure l’affettuosa Grandpa Was a Jack of All Trades, storia di un vecchio patriarca sopravvissuto a Pearl Harbor che aiuta i suoi vicini in difficoltà, narrata in una ballatona country dove violini, chitarre e steel guitars convivono a tempo di valzer, senza dimenticare l’avvolgente ballata pianistica, con uso di archi, Goodbye Colorado, ispirata dalle parole della poetessa Emma Lazarus, scolpite alla base della Statua della Libertà. C’è pure l’afflato springsteeniano nel blue collar rock delle deliziose Miss Marissa e Give Up On Love, il Tex-Mex divertito Lost Inside The Groove, dove l’organetto di Shawn Sahm rievoca le divertenti cavalcate del babbo Doug Sahm https://www.youtube.com/watch?v=76Cx7bFBfpE , e ancora il bel duetto con la splendida voce di Suzy Bogguss nel country&western cadenzato di Anyplace That’s Wild, dove “chitarroni” twangy, violini e armoniche, pedal steel e aspre chitarre elettriche convivono in questa rievocazione del vecchio West https://www.youtube.com/watch?v=-aDawb7N2Ho . A questo punto vi ricordo che nel disco, in alcuni brani, come ospiti alle chitarre, troviamo anche Gary Clark Jr. e Charlie Sexton.

Ne ho ricordati già dieci (e quindi senza meno non sarebbero pochi), ma ci sono almeno 4 o 5 altri brani di pregio in un disco che a mio modesto parere è sicuramente tra i migliori in ambito roots/Americana di questo scorcio di stagione, alla faccia dei (pochi) detrattori. Ci hanno messo quattro anni ma è venuto veramente bene,

Bruno Conti

Mai Giudicare Un Disco Dalla Faccia Del Suo Autore! Jason James – Seems Like Tears Ago

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Jason James – Seems Like Tears Ago – Melodyville CD

A vedere la faccia pulita da bravo ragazzo della porta accanto raffigurata sulla copertina di questo CD, si potrebbe pensare più ad un diligente impiegato di banca che ad un musicista country. Quando poi ho letto che Jason James è un texano doc ho iniziato a cambiare opinione, e già dopo le prime note del brano di apertura Seems Like Tears Ago (title track dell’album) i miei dubbi sono stati completamente fugati, in quanto mi sono trovato di fronte ad una scintillante honky-tonk ballad d’altri tempi, con grande uso di steel, violino e coretti anni sessanta. Jason James è proprio questo, uno che fa del vero country come si faceva una volta e che oggi purtroppo non fa quasi più nessuno, un musicista cresciuto a pane e George Jones, Webb Pierce, Ray Price oltre naturalmente a Hank Williams.

Se lo stile è antico, il suono è però attuale, con sessionman capaci di dare al disco quella marcia in più che valorizza i dieci brani in esso contenuti (tutti peraltro originali), gente che suona con grande padronanza e disinvoltura come Cody Braun (dei Reckless Kelly) al violino, T Jarrod Bonta al piano, John Evans alla chitarra (e produzione) e l’ottimo Geoff Queen alla steel. Seems Like Tears Ago segue di ben cinque anni l’omonimo esordio di James, e si rivela un album gradevolissimo e da ascoltare tutto d’un fiato, un lavoro di country classico non rielaborato in chiave moderna, ma proposto esattamente come si faceva sessanta anni fa. Della title track ho già detto, I Miss You After All ha un tempo più veloce ed una melodia squisita, puro honky-tonk texano del tipo che uno come Dale Watson canta sotto la doccia, ancora con la steel protagonista; Move A Little Closer è più elettrica e roccata e sfiora il territorio di Waylon, un brano diretto e coinvolgente fin dall’attacco: Jason è bravo, anzi molto bravo, ed il suo è country purissimo ed immacolato, da vero texano.

La saltellante We’re Gonna Honky Tonk Tonight è semplicemente deliziosa e sembra trarre ispirazione direttamente dal grande Hank, la languida Achin’ Takin’ Place mostra il lato tenero del nostro ma sempre con la barra dritta, senza cadute di tono o sdolcinature, mentre Simply Divine, di nuovo introdotta dalla steel, resta sul versante melodico-sentimentale, un pezzo che piacerebbe molto a Raul Malo e Chris Isaak. La pianistica Coldest Day Of The Year ha una delle melodie migliori e rimanda ancora ai grandi classici come i già citati Jones, Price ed anche il Merle Haggard più romantico, e si contrappone con la vivace Cry On The Bayou, dal ritmo sostenuto ed un arrangiamento cajun che fa muovere il piedino; il CD, 32 minuti spesi benissimo, termina con Foolish Heart e Ole Used To Be, due honky-tonk songs dal sound classico al 100% che confermano Seems Like Tears Ago come uno dei più piacevoli album di vero country pubblicati ultimamente.

Marco Verdi

Ottimo Rockin’ Country Tutto Texano. Drew Fish Band – Wishful Drinkin’

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Drew Fish Band – Wishful Drinkin’ – Reel CD

Primo album per Drew Fish, altro giovane countryman proveniente da quella fucina di talenti che è il Texas, dopo un paio di EP usciti nel 2014 e 2016. Wishful Drinkin’ è un esordio col botto, un disco di puro country-rock texano di quelli che fanno saltare sulla sedia fin dal primo ascolto, in cui non manca l’apporto di violini e steel ma a dominare sono le chitarre ed il ritmo. Il suffisso “Band” fa figo e non impegna, dato che in realtà Drew è un solista che usa una lunga serie di sessionmen bravissimi anche se poco conosciuti, a parte Cody Braun dei Reckless Kelly e la cantante Pam Tillis, ma alla fine quello che più importa è che Wishful Drinkin’ è tra i migliori album di country elettrico da me ascoltati ultimamente, dieci brani originali dove, a parte un paio di ballate, il ritmo ed il feeling la fanno da padroni. La produzione poi è nelle sapienti mani di Adam Odor, che in passato ha collaborato con Dixie Chicks, Jason Boland, Pat Green e Randy Rogers, e che ha saputo valorizzare al massimo il suono diretto e potente del nostro.

Non c’è molto altro da dire, se non lasciare spazio alle canzoni dell’album, che iniziano alla grande con Lone Star Saturday Night, un country’n’roll irresistibile dal gran ritmo, voce sicura, chitarre in tiro ed il violino che fende l’aria, un avvio decisamente trascinante. La title track è un vivace honky-tonk elettrico sempre con il ritmo accentuato ed un gustoso botta e risposta a suon di riff tra chitarra elettrica e steel; la prima ballata è Every Damn Time, con il violino che si fa suadente ma la strumentazione resta asciutta e diretta e la seconda voce della Tillis aggiunge il tocco di soavità, ma con Better Place riparte subito il trip elettrico, un delizioso e cadenzato brano dal sapore western servito da una melodia vincente (e le chitarre, steel compresa, continuano a fare il loro lavoro alla grande). Devil You Know è un boogie-swing texano al 100% con il solito gran ritmo (non è più una sorpresa), train sonoro coinvolgente ed ottimi interventi di violino e pianoforte. 

Another You è un lento elettroacustico intenso e con tutti i suoni a posto, anche se io Drew lo preferisco in pezzi come la seguente High Rolling Home, altro rockin’ country decisamente elettrico e dal mood contagioso (con tracce di Waylon e Billy Joe Shaver): sentire per credere. One Beer At A Time è potente, grintosa e con una chitarra che cavalca il ritmo per tutta la durata del brano; il CD termina con Baby Just Let Go, ballatona elettrica davvero bella ed evocativa, e con la strepitosa Waiting For The Sun, puro country & western sferzato dal vento che evoca paesaggi a perdita d’occhio tra rocce, canyon, cactus e pompe di benzina abbandonate. Drew Fish Band: segnatevi questo nome, ne sentiremo parlare ancora.

Marco Verdi

Un Altro Figlio D’Arte, Però Di Quelli Bravi! Dustin Welch – Amateur Theater

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Dustin Welch – Amateur Theater – Super Rooster CD

Terzo album per Dustin Welch, singer-songwriter nato in Texas ma cresciuto a Nashville che non è altro che il figlio di Kevin Welch, musicista dalla lunga ed impeccabile carriera (e qui mi sono reso conto di quanto il tempo passi inesorabile, dato che ricordo come fosse ieri quando all’inizio degli anni novanta rimasi entusiasta dei primi due album di Kevin, Kevin Welch e Western Beat, ed ora mi trovo a recensire suo figlio). Dustin, che è cresciuto letteralmente a pane e musica, ha esordito nel 2009 con Whisky Priest, al quale ha dato seguito nel 2013 con Tijuana Bible: ora torna dopo ben sei anni di silenzio con questo Amateur Theater, e ci consegna quello che a tutti gli effetti è il suo disco migliore. Dustin evidentemente non è uno che ha fretta di incidere, ma preferisce lasciare crescere le canzoni dentro di lui ed andare in studio quando è veramente pronto; in questi sei anni poi è ulteriormente maturato, e Amateur Theater lo dimostra appieno racchiudendo in poco più di tre quarti d’ora tutte le sue influenze. Sì, perché Welch Jr. non è solo un cantautore con il country nelle vene come il padre (cosa che sarebbe peraltro ben accetta), ma il suo suono nasconde anche elementi rock, blues e perfino jazz, con momenti in cui sembra che la sua fonte di ispirazione principale sia addirittura Tom Waits.

Amateur Theater è quindi un lavoro creativo, nel quale vengono utilizzate anche strumentazioni non scontate, ed al quale hanno collaborato diversi artisti di nome: oltre al padre, che compare in più di un pezzo, troviamo infatti Cody Braun dei Reckless Kelly al violino, il bravissimo John Fullbright all’organo, Bukka Allen (figlio di Terry) al piano e Cary Ann Hearst, la metà femminile dei duo Shovels & Rope, alle backing vocals ed alla scrittura in un pezzo. L’inizio del disco, Stick To The Facts, è quasi spiazzante, con un’introduzione per quartetto d’archi che si trasforma in una rock song cadenzata e contraddistinta dalla voce quasi sgraziata (ma solo in questa canzone) di Dustin, davvero alla Waits: i violini non escono dal brano e fanno capolino qua e là, creando un effetto intrigante. Una tromba dal sapore jazzato introduce Forgotten Child, che nella melodia lascia intravedere tracce dello stile del genitore, anche se l’arrangiamento è quello di un brano urbano e notturno, a differenza di The Player che è rock al 100%, con ritmica pulsante ed uno sviluppo diretto e piacevole, nonostante una linea melodica complessa. Paranoid Heart è una tenue ballata, la prima decisamente da cantautore classico, con un bel accompagnamento basato su chitarra, dobro, piano ed organo ed un motivo molto bello (qui l’influenza del padre è abbastanza palese).

Dresden Snow è introdotta da un suggestivo coro e poi prosegue con il discorso da balladeer iniziato con il brano precedente, mentre Man Of Stone è una canzone attendista e con una certa tensione iniziale, alla quale la combinazione di chitarre, piano, violino e cello dona un sapore particolare. After The Music vede papà Kevin partecipare sia in qualità di autore (come nel pezzo precedente) che come chitarrista e voce di supporto, e non vorrei sembrare banale se dico che il brano, uno slow intenso e profondo, è tra i più riusciti del lavoro; Double Single Malt Scotch è diretta e discorsiva, con una bella apertura melodica favorita da un french horn, e precede la divertente Poster Child, pezzo che si avvicina a Waits non solo per la voce ma anche per l’atmosfera da cabaret mitteleuropeo. Finale con la potente Rock Hard Bottom, una sorta di boogie stralunato e sbilenco ma anche coinvolgente al massimo, la limpida Cannonball Girl, dal bellissimo refrain, e Far Horizon, che inizia come un brano folk d’altri tempi grazie all’uso di banjo e mandolino e poi man mano che prosegue si colora di elementi rock, con la ciliegina della voce solista di Kevin che duetta col figlio.

Sarebbe stato tutto sommato facile e poco rischioso per Dustin Welch seguire le orme musicali del padre, ma con Amateur Theater il ragazzo dimostra di avere personalità ed un proprio suono.

Marco Verdi

Uno Splendido Omaggio Al Country Texano Anni Settanta. Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw

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Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw – Warner CD – Deluxe CD/DVD

Dopo il piacevole ma piuttosto disimpegnato disco di duetti con Shawn Colvin di un anno fa http://discoclub.myblog.it/2016/06/21/buon-debutto-nuovo-duo-shawn-colvin-steve-earle-colvin-earle/ , torna Steve Earle con uno degli album più belli della sua ormai più che trentennale carriera. So You Wannabe An Outlaw è un CD di brani originali che, come lascia intuire il titolo, è anche un sentito tributo ad una certa musica country texana dei seventies, meglio conosciuta come Outlaw Music, che aveva i suoi massimi esponenti in Willie Nelson, Waylon Jennings e Billy Joe Shaver, un country robusto ed elettrico e non allineato con i precisi dettami commerciali di Nashville. Ma questo album è anche un omaggio di Steve alla sua gioventù, ed ai suoi primi passi come songwriter, quando venne preso dal grande Guy Clark sotto la sua ala protettiva (e Guy viene ricordato in una delle canzoni più intense del disco). Dal punto di vista sonoro So You Wanna Be An Outlaw è il lavoro più country di Earle da moltissimi anni a questa parte, se escludiamo il disco The Mountain inciso con la Del McCoury Band (che però era molto più legato ai suoni folk appalachiani), ed è forse il primo album a ricollegarsi direttamente ai due suoi fulminanti dischi d’esordio, Guitar Town ed Exit 0. Il suono è robusto, con Waylon come influenza principale, la produzione è dell’ormai inseparabile Richard Bennett, e la band che lo accompagna, oltre a qualche ospite che vedremo, sono i fedeli Dukes, che nella formazione attuale comprendono Chris Masterson alla chitarra solista, Eleanor Whitmore al violino e mandolino, Kelley Looney al basso, Brad Pemberton alla batteria, Ricky Ray Jackson alla steel e Chris Clark alle tastiere e fisarmonica.

E le canzoni di Steve sono, ripeto, tra le migliori che il nostro ha messo su CD da molti anni a questa parte, cosa ancora più significativa dal momento che il musicista texano d’adozione fa parte di quella ristretta schiera di artisti che non ha mai sbagliato un disco. L’album inizia benissimo con la title track, robusta country song che fa molto Waylon & Willie, in cui Earle fa la parte di Jennings e Willie Nelson fa…sé stesso, accompagnati dai Dukes in maniera energica con grande uso di steel e violino, ma anche di chitarre elettriche. Molto bella anche Lookin’ For A Woman, tempo cadenzato, melodia fluida e solare, voce del nostro leggermente arrochita e solito gran gioco di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=eaj4iv58s0E ; The Firebreak Line è un delizioso rockabilly elettrico, gran ritmo e Steve pimpante come non lo sentivo da anni, mentre News From Colorado è una delicata ballata di stampo acustico (scritta assieme all’ex moglie Allison Moorer), dominata dalla voce imperfetta ma vissuta del leader. La tonica If Mama Coulda Seen Me ha poco di country, in quanto è un rock’n’roll tra il Texas e gli Stones, anche se il motivo sembra davvero uscire dalla penna di Waylon, Fixin’ To Die non è il classico di Bukka White ma un brano originale dallo stesso titolo, ed anche qui la base è blues, ma ad alta gradazione rock, di sicuro il pezzo meno in linea con le atmosfere del disco, mentre This Is How It Ends è un duetto con Miranda Lambert (che è anche co-autrice del brano), una squisita country ballad dal ritmo spedito e melodia cristallina, tra le più belle del CD.

The Girl On The Mountain, ancora lenta ed intensa, e con violino e steel più languidi che mai, precede due scintillanti honky-tonk, You Broke My Heart (con Cody Braun dei Reckless Kelly al violino) e la più elettrica Walkin’ In L.A., nella quale partecipa il leggendario countryman texano Johnny Bush con il suo vocione, due pezzi decisamente riusciti e godibili, che verrebbero approvati anche da uno come Dwight Yoakam. Il country elettrico di Sunset Highway, il più vicino come suono ai primi due album di Steve, ed il toccante e sentito omaggio a Guy Clark di Goodbye Michelangelo, chiudono positivamente il CD “normale”: sì, perché esiste anche una versione deluxe che, oltre ad un DVD aggiunto (con dentro il making of, il videoclip della title track ed un commento canzone per canzone da parte di Steve), presenta quattro brani in più, quattro cover scelte appunto nel repertorio dei tre più famosi Outlaws citati prima, ovvero Waylon, Willie e Shaver. Di quest’ultimo Steve propone Ain’t No God In Mexico, mentre di Nelson vengono scelte le poco note Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint (unite in medley), e l’altrettanto oscura Local Memory, mentre di Waylon abbiamo la famosa Are You Sure Hank Done It This Way, rifatta alla grande da Steve, con spirito da vero rocker. L’ho già detto ma è doveroso ripeterlo: So You Wannabe An Outlaw è un grande disco, uno dei migliori di sempre di Steve Earle.

Marco Verdi

Dal Vivo E Dal Texas! 1: Robert Earl Keen – Robert Earl Keen – Live Dinner Reunion

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Robert Earl Keen – Live Dinner Reunion – Dualtone 2CD

Robert Earl Keen, texano doc, è uno dei migliori countrymen venuti fuori dal Lone Star State (e non solo) negli ultimi trent’anni. Diretto discendente della scuola cantautorale di Townes Van Zandt e di Guy Clark, Robert ha sempre affiancato alle sue ballate tipicamente texane brani dal piglio più elettrico, diventando in breve tempo un autore tra i più considerati e più coverizzati: le sue canzoni sono state infatti interpretate negli anni da un largo range di artisti di primo piano, come Joe Ely, The Highwaymen, Dixie Chicks, Lyle Lovett, George Strait e Nanci Griffith. Keen è sempre stato uno che ha pensato a lungo i propri album, ed infatti ne ha pubblicati soltanto 12 in 32 anni di carriera, ma con risultati qualitativi sempre ottimi, dall’esordio di No Kinda Dancer, allo splendido A Bigger Piece Of Sky (ancora oggi il mio preferito), passando per i notevoli Gringo Honeymoon, Picnic, Gravitational Forces ed arrivando ai più recenti The Rose Hotel e Ready For Confetti. Ad una discografia di studio numericamente parsimoniosa Robert ha sempre affiancato un’attività live molto densa, ed il numero di dischi dal vivo pubblicati negli anni, ben sei escluso quello di cui sto per scrivere, è sintomatico.

Live Dinner Reunion, il suo nuovo doppio CD (che, come dicevo, è il settimo registrato on stage), è però un album particolare, in quanto è il seguito, esattamente vent’anni dopo, di N. 2 Live Dinner, il suo lavoro live più famoso e di successo, una sorta di greatest hits dal vivo dell’epoca: questo nuovo lavoro è la versione 2.0 di quell’album, e come allora è stato registrato al mitico Floore’s, un country store & restaurant aperto da ben 70 anni nel piccolo centro di Helotes, appena fuori San Antonio, e dal quale sono passate tutte le massime leggende della musica texana. Live Dinner Reunion è il disco dal vivo definitivo per Keen, vuoi per il fatto che prende in esame i pezzi più noti di tutta la sua carriera, vuoi per il fatto che è inciso e prodotto con tutti i crismi (da Lloyd Maines, il miglior produttore texano in circolazione), ma anche per il nutrito numero di ospiti di prestigio presenti per duettare con Robert. E poi, naturalmente, c’è proprio Keen, a suo agio come non mai sul palco (ed il pubblico è caldissimo e conosce tutti i brani a menadito), intrattiene alla grande durante tutte le 17 canzoni presenti (le tracce indicate sulla confezione del CD sono 26, ma nove sono dialoghi e presentazioni), accompagnato da una solidissima band di sei elementi guidata dal chitarrista Rich Brotherton, con la steel guitar ed il dobro di Marty Muse, il mandolino di Kym Warner, il violino indiavolato di Brian Beken, e l’ottima sezione ritmica formata da Bill Whitbeck al basso e Tom Van Schaik alla batteria.

Non mancano le tipiche ballate polverose ed arse dal sole del nostro, come la fluida e distesa Feelin’ Good Again, che apre la serata, la western oriented I Gotta Go e l’honky-tonk Merry Christmas From The Fam-O-Lee, amatissima dal pubblico; è rappresentato molto bene anche il lato rockin’ country di Keen, con l’epica Gringo Honeymoon, texana al 100%, il divertente rock-grass Hot Corn, Cold Corn, la strepitosa Shade Of Gray, un racconto western dal pathos enorme, ed una sfavillante versione tutta ritmo della splendida Amarillo Highway, uno dei classici di Terry Allen (che avrei voluto vedere sul palco con lui, ma non si può avere tutto). E poi ci sono gli ospiti, nomi che danno lustro alla serata ed al songbook di Keen, a partire dal grande Lyle Lovett con la languida This Old Porch (scritta proprio con Robert) e con il classico di Jimmie Rodgers T For Texas, proposta in una deliziosa versione elettroacustica, seguito dal bravo Cory Morrow con l’intensa I’ll Go On Downtown, una delle più belle ballate dello show, e da Bruce Robison con la splendida No Kinda Dancer, una delle più conosciute del nostro. Tre ospiti nel primo CD e tre anche nel secondo: Cody Braun (Reckless Kelly) nella saltellante Wild Wind, puro country, Cody Canada nella lunga Lonely Feelin’, un brano folkeggiante di grande impatto, con una parte centrale chitarristica da urlo, ma soprattutto il grande Joe Ely nello splendido finale di serata, con la formidabile The Road Goes On Forever, la signature song di Keen, valorizzata dalla carismatica voce di Joe che non ha perso un’oncia della sua bellezza (e non è un duetto, canta solo Ely).

Non c’era bisogno di questo Live Dinner Reunion per confermare che Robert Earl Keen è uno dei più validi songwriters texani in circolazione, ma se amate il genere il suo acquisto diventa quasi d’obbligo.

Marco Verdi

Si Era Solo Preso Una Breve Pausa! Dub Miller – The Midnight Ambassador

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Dub Miller – The Midnight Ambassador – Smith Entertainment CD

Alzi la mano chi si ricorda di Dub Miller? Texano, esordì nel 2001 con l’ottimo American Troubadour, subito bissato l’anno successivo con l’altrettanto valido Post Country, entrando nel novero dei nomi più brillanti di quel movimento nato a cavallo tra Oklahoma e Texas e chiamato Red Dirt. Poi silenzio assoluto fino ad oggi (solo un live nel 2015, ma con registrazioni del 2002), un lunghissimo periodo durante il quale il nostro ha tentato prima di laurearsi in giurisprudenza (ma abbandonando di fatto i corsi al secondo anno) e poi di intraprendere la carriera di promoter ed organizzatore di concerti, anche qui con poco successo. Dub deve poi aver capito che il meglio è in grado di darlo soprattutto come cantautore, dato che ha finalmente deciso di tornare a fare musica, e pubblicando il suo primo album di brani originali in 14 anni, intitolandolo The Midnight Ambassador: quasi tre lustri lontano dalle scene è un periodo che sarebbe lunghissimo anche per una star affermata, figuriamoci per uno che non aveva neppure raggiunto lo status di artista di culto. Roba da stroncare sul nascere una carriera, specie in tempi come quelli odierni dove tutto viaggia velocissimo e non c’è il tempo di aspettare chi rimane indietro: ma Miller non si è spaventato, ha inciso le sue canzoni con calma e nel modo in cui voleva lui, e le ha pubblicate solo quando se lo sentiva, ed il risultato finale è decisamente riuscito, in quanto The Midnight Ambassador è un signor disco di puro songwriting country texano, una collezione di canzoni (undici) che ci restituisce un musicista che nonostante l’assenza dalle scene non ha perso lo smalto, come se questo nuovo lavoro fosse stato registrato un anno dopo Post Country.

Dub alterna brani country-rock diretti e fruibili a ballate profonde, ed è proprio in queste ultime che eccelle, in quanto è uno che sa scrivere, ha feeling, senso della musica, ed in più la vita non è che  gli abbia dato grandi soddisfazioni: i suoi colleghi però non si sono dimenticati di lui, dato che nell’album suonano personaggi come Cody Braun (uno dei due fratelli leader dei Reckless Kelly), il grande Lloyd Maines (il più grande produttore texano, che però qua si “limita” a suonare la steel guitar), il noto songwriter e musicista di Nashville Scott Davis, mentre il produttore è Adam Odor, uno che in carriera ha collaborato con Ben Harper, Jason Boland e Cody Canada. Il disco è stato registrato in parte in Texas, a Wimberley, ed in parte agli Abbey Road Studios di Londra. L’album non parte col botto, ma in maniera molto intensa con Things I Love About You, una sinuosa e toccante ballata, impreziosita dall’interpretazione ricca di pathos da parte di Dub e dagli ottimi interventi di steel (Maines) e violino (Braun). La mossa Broken Crown mi ricorda parecchio (anche il timbro vocale è simile) un brano alla Tom Russell, quel misto tra rock, western e Messico tipico del cowboy di Los Angeles: la splendida melodia ed il ritmo sostenuto rendono la canzone ancor più coinvolgente; The Day Jesus Left Odessa (bel titolo) è uno slow dal motivo decisamente emozionante, che ci mostra che il nostro è un autore forse non prolifico ma decisamente dotato di talento: uno dei pezzi più belli che ho ascoltato ultimamente (e non solo country). Mandi Jean ha curiosamente un refrain springsteeniano, anche se l’accompagnamento non ha nulla a che vedere col Boss (però con quel titolo!).

Charlie Goodnight, che inizia per voce, chitarra e violino (ma poi entra anche il resto della band, anche se in punta di piedi), ci conferma che il nostro si trova particolarmente a suo agio con le ballate: brano fluido e disteso, anch’esso tra i più riusciti; Comfortably Blue è invece un country-folk diretto e saltellante, che si apprezza fin dalle prime note: il bello di questo disco, oltre alle canzoni, sono gli arrangiamenti puliti ed essenziali, come se Dub avesse capito che a volte il meglio lo si ottiene per sottrazione. La cadenzata The Last Church Bell è caratterizzata da un gustoso botta e risposta voce-coro, mentre Taking Our Sunshine Away è il pezzo più elettrico del disco, un rockabilly texano al 100%, seguito senza soluzione di continuità da Big Chief Tablet, uno scintillante country-rock e dotato ancora di gran ritmo. Il CD termina con Ain’t No Cowboy, una western song dal tono epico, cantata con il giusto grado di drammaticità e suonata con grande perizia, e con la title track, un finale dai colori crepuscolari, ancora dominato da violino e steel.

Quattordici anni di assenza è un periodo lunghissimo, ma sembra che Dub Miller sia tornato più bravo di prima: speriamo soltanto che stavolta rimanga.

Marco Verdi