Una Festa Tra Amici Trasformata In Un Grande Disco! New Moon Jelly Roll Freedom Rockers Vol.1

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New Moon Jelly Roll Freedom Rockers – New Moon Jelly Roll Freedom Rockers Vol.1 – Stony Plain

Sul finire della prima decade degli anni 2000, quando la sua salute non era più quella di un tempo (anche se aveva 65-66 anni nel 2007) Jim Dickinson, che poi ci avrebbe lasciati due anni dopo nell’agosto del 2009, aveva l’abitudine di tenere informali incontri con amici, colleghi e congiunti stretti, da uno di questi vecchi incontri di recente Greg Spradlin, alla guida della sua Band Of Imperials, ha realizzato un ottimo album Hi-Watter https://discoclub.myblog.it/2020/10/16/piu-di-dieci-anni-per-completarlo-ma-e-venuto-veramente-bene-rev-greg-spradlin-the-band-of-imperials-hi-watter/ : in quel caso Dickinson era solo l’eminenza grigia che aveva dato il via al progetto con i suoi consigli. Nel caso dei New Moon Jelly Roll Fredom Rockers invece Jim è presente ad attivo, in questa registrazione in presa diretta, tutti insieme nei suoi studi Zebra Ranch in quel di Indipendence (un nome un programma), Mississippi, in una sorta di jam session mirata, per creare una serie di brani fatti e finiti, poi caduti nel dimenticatoio, che il figlio Luther, su richiesta della Stony Plain, ha prodotto e completato, per dare vita a questo progetto.

Dieci brani escono in questo volume uno, gli altri undici saranno utilizzati in un volume due che sarà pubblicato (si spera) la prossima primavera del 2021. In effetti il CD, al di là della spontaneità dei partecipanti, non ha l’aria di una serie di jam senza particolari velleità, ma di una manciata di canzoni, pensate e concepite all’impronta, seguendo comunque una sorta di fil rouge che è il blues, del 21° secolo se volete, ma che ricorda molto quello del 20°, secondo il motto che nulla si crea e forse si rinnova, ma comunque si perpetua nel tempo. Ed ecco quindi Charlie Musselwhite, Alvin Youngblood Hart, Jimbo Mathus, il bassista Chris Chew come ospite, e tre membri della famiglia Dickinson, Luther, Cody e il babbo Jim, ognuno a portare al mulino delle idee una serie di brani per concretizzare questa riunione di amici, del quale forse Musselwhite è stato l’istigatore principale. Proprio lui apre le danze con Oh Blues, Why You Worry Me?, un pezzo che tanto gli piaceva da inciderlo anche nel recente disco in coppia con Elvin Bishop https://discoclub.myblog.it/2020/10/01/piu-di-150-anni-in-due-per-rendere-omaggio-a-un-secolo-di-blues-elvin-bishop-charlie-musselwhite-100-years-of-blues/ : si tratta di un classico shuffle con uso armonica, dove su una base di chitarre, elettriche e slide, piano e una sezione ritmica pimpante, Charlie canta con assoluta nonchalance e calore, come lui sa fare quando è particolarmente ispirato,

Nel secondo brano una cover di Pony Blues dal repertorio di Robert Johnson, Alvin Youngblood Hart passa alla guida del combo con la sua elettrica suonata in fingerpicking e la sua voce roca da bluesman senza tempo, ben sorretto da tutti i suoi pard, che continuano a sparare 12 battute da slide, piano, chitarre assortite e una ritmica volutamente discreta ma incalzante, Jimbo Mathus offre un proprio brano, lo slow lento e scivolante Night Time, dove il suono si fa più “moderno”, ma con moderazione, tutti molto impegnati a regalare profondità a questo gioiellino, soprattutto Jim Dickinson che comincia a scaldare i tasti del suo piano sullo sfondo, mentre le chitarre agiscono in primo piano, poi tocca proprio a Jim ad andare di barrelhouse in una sorniona Come On Down To My House, che sembra sbucare da qualche vecchio juke-joint, mentre dal nulla sbucano anche un mandolino (Hart), un violino, non si sa suonato da chi e un basso tuba suonato da Paul Taylor, mentre il vecchio Dickinson officia il rito con la sua voce vissuta. K.C. Moan in modalità Memphis Jug Band degli anni ‘20 (del secolo scorso) è un blues primigenio cantato da Musselwhite, mentre poi tutti si divertono in una potente e tirata Let’s Work Together che sarebbe piaciuta sia a Dr. John, come ai Canned Heat e magari anche agli Stones, con Dickinson che va di organetto, mentre canta di gusto.

La travolgente Strange Land di e con Musselhite, è l’occasione per Luther, alla slide, Alvin e Jimbo, per scaldare le sei corde mentre Charlie soffia con forza nella sua armonica e Jim magheggia con il piano in sottofondo e pure a Jimbo Mathus non dispiace gigioneggiare a tempo di ragtime in una ondeggiante Shake It And Brake It dove tutti si divertono. A questo punto Alvin Youngblood Hart deve avere detto, perché non facciamo un pezzo di quel bluesman di Seattle? E allora tutti ci danno dentro di brutto in una cover di Stone Free di Jimi Hendrix, dove l’assolo non è affidato al wah-wah ma alla armonica di Musselwhite. L’attizzato Hart guida i soci anche in una antica Stop And Listen Blues dei Mississippi Sheiks, dove il suono fa di nuovo un consistente salto all’indietro nel tempo. Loro si sono sicuramente divertiti ad improvvisare allora, ma noi oggi possiamo ascoltare con grande piacere i frutti di quella festa tra amici.

Bruno Conti

Sceneggiatore E Autore Per Cinema E TV, Ma Anche Ottimo Musicista. John Fusco And The X-Road Riders

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John Fusco And The X-Road Riders – John Fusco And The X-Road Riders – Checkerboard Lounge Records

Il nome di John Fusco come musicista sicuramente dice poco ai più, ed in effetti questo album con gli X-Road Riders è il suo esordio. Ma se scaviamo più in profondità scopriamo che questo signore è colui che ha scritto il soggetto originale di Crossroads (in Italia Mississippi Adventure), l’ottimo film del 1986 di Walter Hill, che proponeva una versione romanzata del famoso patto siglato al crocevia tra Robert Johnson e il Diavolo, con la colonna sonora di Ry Cooder e Steve Vai nella parte di quel “diavolo” di un chitarrista che duella con Ralph Macchio. Fusco ha comunque scritto anche i soggetti di Young Guns I e iI, Hidalgo, Spirit, l’imminente Highwaymen di Kevin Costner, la serie televisiva Marco Polo per la Netflix, quindi non è il primo pirla che passa per strada, e comunque ha anche questa “passionaccia” per la musica, il blues(rock) nello specifico e per il suo esordio discografico si fa aiutare da Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, che nel CD suona chitarra, dobro, piano, basso e batteria, lasciando le tastiere a Fusco, che si rivela essere anche un notevole cantante, in possesso di una voce profonda, vissuta e risonante, ben sostenuta dalle gagliarde armonie vocali di Risse Norman, una vocalist di colore dal timbro intriso di soul e gospel, come dimostrano tutti insieme nella potente Rolling Thunder che apre l’album e dove la slide tangenziale di Dickinson è protagonista assoluta del sound.

Drink Takes The Man è anche meglio, con l’organo di Fusco e la chitarra di Cody a duettare, mentre John, con l’aiuto sempre della Norman, imbastisce un blues-rock quasi alla Allman Brothers, sapido e gustoso, sempre con le chitarre di Dickinson in grande spolvero. L’album è stato registrato ai Checkerboard Lounge Studios di Southaven, Mississippi, ed esce per l’etichetta dello stesso nome, al solito con reperibilità diciamo difficoltosa, ma vale la pena di sbattersi, perché il disco merita: in Poutine c’è anche una piccola sezione fiati guidata dalla tromba di Joshua Clinger, e il suono si fa più rotondo, con elementi soul sudisti, sempre caratterizzati dalla voce allmaniana di Fusco, dal suo organo scintillante, dalle chitarre di Dickinson e dalla calda vocalità della Risse. Hello Highway, con l’armonica dell’ospite Mark Lavoie in evidenza, più che un brano di Dylan (con cui ha comunque qualche grado di parentela) sembra un brano della Band, quando cantava Rick Danko, con il tocco geniale di un piano elettrico a rendere più intensa la resa sonora di questa bellissima canzone. E non è da meno anche A Stone’s Throw un’altra bella ballata gospel-rock che miscela il sound della Band e quello degli Allman, con la lirica solista di Dickinson a punteggiare splendidamente tutto il brano, mentre Fusco e la Norman si sostengono a vicenda con forza.

Non ci sono brani deboli in questo album, anche I Got Soul, quasi una dichiarazione di intenti, di nuovo con l’armonica di Lavoie e il sax solista di Bradley Jewett, ha ancora questo impeto del miglior blues sudista, con Fusco che rilascia un ottimo assolo di organo, senza dimenticare di lavorare di fino anche al pianoforte. Can’t Have Your Cake, sembra la sorella minore di Midnight Rider di Gregg Allman, un’altra southern ballad di grande fascino, cantata con impeto dal nostro amico, mentre la chitarra è sempre un valore aggiunto anche in questo brano https://www.youtube.com/watch?v=HAOlJvEL_lE ; Boogie On The Bayou, è un altro blues di quelli gagliardi, con piano elettrico, chitarra, ed organo a supportare con trasporto la voce vellutata e vibrante di Fusco. Anche Once I Pay This Truck Off non molla la presa sull’ascoltatore, questa volta sotto la forma di una ballata elettroacustica insinuante, sempre calda ed appassionata, grazie all’immancabile lavoro di grande finezza offerto da Cody Dickinson https://www.youtube.com/watch?v=roz27n9cTlU , che per il brano finale chiama a raccolta anche la solista del fratello Luther per una versione di grande forza emotiva del super classico di Robert Johnson Crossroad Blues, con la band che rocca e rolla di brutto sul famoso riff della versione dei Cream, e la slide che imperversa nel brano, grande anche la Norman, anche se forse avrei evitato il freestyle rap di Al Kapone che comunque non inficia troppo una grande versione https://www.youtube.com/watch?v=RgAWx9IhzU8 , all’interno di un album di notevole spessore complessivo.

Bruno Conti

Un Bellissimo Disco Di Uno Dei “Segreti” Meglio Custoditi Di New Orleans, Veramente Un Peccato Che Si Trovi Con Molta Difficoltà. Johnny Sansone – Hopeland

johnny sansone hopeland

Johnny Sansone – Hopeland – Short Stack Records

Johnny Sansone viene da New Orleans, e questo per il sottoscritto è già una nota di merito a prescindere, di solito la musica che arriva dalla capitale della Louisiana ha dei profumi e delle suggestioni che sono uniche. Poi scopriamo che il nostro amico non è un indigeno autoctono, è nato a West Orange nel New Jersey 61 anni fa, ma è comunque cittadino onorario in quanto è residente nella Crescent City dal lontano 1990 e lì ha proprio vissuto gran parte della sua vita e della sua carriera, a parte la fase iniziale quando facendo la  gavetta in giro per gli Stati Uniti, suonava da supporto a gente come Robert Lockwood, Jr., David “Honeyboy” Edwards e Jimmy Rogers. In seguito al suo trasferimento a Nola ha imparato anche a suonare la fisarmonica, ispirato da Clifton Chenier: tutte queste influenze sono quindi confluite nei suoi album, che anche se risultano poco conosciuti a causa della scarsa reperibilità, sono già la bellezza di 12, compresi un paio di Live Al Jazz Fest e questo nuovo Hopeland, uscito qualche mese or sono (quasi un anno per la verità), ma assolutamente meritevole di essere portato alla vostra attenzione in quanto è probabilmente il migliore della sua discografia.

Alcuni sono stati pubblicato come Jumpin’ Johnny Sansone e così lo conosceva chi scrive (e mi pare di avere recensito qualcosa sul Buscadero diversi anni fa), ma molti, quasi tutti quelli editi dalla Short Stack Records, portano semplicemente il suo nome. Quelli degli anni dal 2007 in avanti sono tutti molto interessanti perché, oltre ad alcune leggende locali come Stanton Moore, Ivan Neville, Monk Boudreaux e Henry Gray, vi appare quasi sempre un altro “oriundo” di New Orleans, il bravissimo Anders Osborne, che ha prodotto anche il nuovo disco, registrato agli studi Dauphin Street Sound di Mobile, Alabama, altra località storica, dove opera come ingegnere del suono la plurivincitrice di Grammy Trina Shoemaker, e dove lo aspettavano per registrare questo album anche Luther e Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, e in un brano anche Jon Cleary. Da tutti i nomi sciorinati (che contano sempre, non fatevi ingannare da chi dice il contrario) si evince che Hopeland è un signor album che, partendo dal blues canonico, tocca ovviamente anche le sonorità tipiche della Louisiana, con un suono sapido, pimpante, molto variegato: come dice lo stesso Johnny nel testo di Delta Coating “They call it the blues, they call it country, they call it rock ’n’ roll. It’s all just soul with a ‘Delta coating’”, che mi pare perfetto.

L’album, in tutto 8 brani, dura solo 35 minuti, ma non c’è un secondo di musica sprecato: dalla vorticosa Derelict Junction, dove la voce potente di Sansone e la sua armonica scintillante, unite al gruppo portentoso che lo accompagna, ci regala un blues elettrico dal suono classico e vibrante, con Dickinson e Osborne che iniziano a mulinare le chitarre, l’appena citata Delta Coating ci porta sulle ali di un train time raffinato in un viaggio dal country e soul di Memphis a quello di New Orleans, con la slide di Cody Dickinson che comincia a disegnare le sue traiettorie raffinate, poi portate alla perfezione nella splendida Hopeland, una ballata di grande intensità e spessore, che mi ha ricordato la celebre Across The Borderline di Ry Cooder (firmata, insieme a John Hiatt, anche dal babbo di Luther e Cody, Jim Dickinson, e quindi il cerchio si chiude), eccellente nuovamente il lavoro della slide di Cody e del piano di Cleary, oltre a Sansone che rilascia una prestazione vocale da brividi, siamo sui livelli del miglior Ry anni ’70-’80, come spesso succede in questo album. Plywood Floor, tra blues e R&R è un’altra iniezione di energia, con la band che tira alla grande a tutto riff, sempre con bottleneck in agguato e Osborne che risponde, come pure in Johnny Longshot, dal drive quasi stonesiano, di nuovo con Dickinson che sfodera il suo miglior timbro alla Mick Taylor o alla Cooder.

Con Can’t Get There From Here che aumenta ulteriormente il ritmo a tempo di boogie, prima di lanciarsi nel classico Chicago Sound alla Howlin’ Wolf della gagliarda One Star Joint, dove chitarre ed armonica si sfidano di nuovo a colpi di blues sanguigno e vibrante. La conclusione è affidata ad una classica ballata tipica del New Orleans sound, con uso di accordion, di cui Sansone è virtuoso come dell’armonica, e con una melodia che ricorda moltissimo quella di Save The Last Dance For Me, con l’ennesima prestazione eccellente di Dickinson alla slide, inutile dire che il risultato finale è affascinante, finezza e classe fuse insieme, come in tutto l’album.

Bruno Conti

Così Brave Ce Ne Sono Poche In Giro! Shannon McNally – Black Irish

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Shannon McNally  – Black Irish – Compass Records

Francamente non si capisce (o almeno chi scrive non lo capisce) perché Shannon McNally non sia una delle stelle più brillanti del circuito roots/Americana, quello stile dove confluiscono blues, rock, country, folk, swamp (soprattutto nei dischi della McNally che ha vissuto anche a New Orleans, e il cui ultimo album, prodotto da Dr. John, Small Town Talk, era un tributo alle canzoni di Bobby Charles http://discoclub.myblog.it/2013/04/20/un-tributo-di-gran-classe-shannon-mcnally-small-town-talk/ ).. Insomma catalogate sotto “buona musica” e non vi sbagliate. La nostra amica è del 1973, quindi non più giovanissima, diciamo nel pieno della maturità, anagrafica, compositiva, vocale, con otto album, compreso questo Black Irish, nel suo carnet. Non ha una discografia immane la brava Shannon, però pubblica dischi con costanza e regolarità, una media all’incirca di un album ogni due anni, dall’esordio con l’ottimo Jukebox Sparrows, uscito per la Capitol nel 2002,  dove suonava gente come Greg Leisz, Rami Jaffee, Matt Rollings, Jim Keltner, Bill Payne e via discorrendo, disco che la aveva inserita nel filone di gente come Shelby Lynne, Sheryl Crow, Lucinda Williams, Patty Griffin, e anche qualche tocco classico alla Bonnie Raitt. Poi negli anni a seguire ha alternato dischi propri ad altri di cover (Run For Cover e quello citato prima), alcuni molto belli, come Geronimo, Coldwater, l’ultima produzione di Jim Dickinson prima di lasciarci http://discoclub.myblog.it/2010/02/21/shannon-mcnally-coldwater/ , e anche Western Ballad, scritto e prodotto insieme a Mark Bingham.

Ma tutti album comunque decisamente sopra la media, compreso il tributo a Bobby Charles, dopo il quale si è presa una lunga pausa, per mille problemi, un divorzio, la malattia terminale della madre che poi è morta nel 2015, il fatto di dovere crescere una figlia, che comunque non hanno diminuito la sua passione per la musica: anzi, trovato un nuovo contratto con la Compass, Shannon McNally pubblica un album che è forse il suo migliore in assoluto.. Alla produzione c’è Rodney Crowell, uno abituato a lavorare con le voci femminili: dalla ex moglie Rosanne Cash a Emmylou Harris, per citarne due “minori”! Crowell si è portato due ottimi chitarristi come Audley Freed e Colin Linden, e in ordine sparso una sfilza di vocalist, presenti anche come autrici, da Beth Nielsen Chapman, Elizabeth Cook, Emmylou Harris, oltre a Cody Dickinson, Jim Hoke, Byron House, Michael Rhodes, ed altri musicisti pescati nel bacino della Nashville “buona”. Shannon questa volta scrive poco, ma la scelta dei brani è eccellente e l’esecuzione veramente brillante, vogliamo chiamarle, cover, versioni, riletture, o come dicono quelli che parlano bene “parafrasi”, il risultato è sempre notevole: dall’ottima apertura con la bluesy dal tiro rock, You Made Me Feel For You, scritta da Crowell, e dove si apprezza subito la voce leggermente roca e potente della McNally, vissuta e minacciosa, passando per la poca nota ma splendida I Ain’t Gonna Stand For It di Stevie Wonder (era su Hotter Than July), che diventa un country got soul eccitante, con strali di pedal steel e coriste in calore (penso Wendy Moten e Tanya Hancheroff); e ancora una splendida Banshee Moan, scritta con Crowell, una ballata con tocchi celtici, dove Shannon canta con un pathos disarmante, convogliando nella sua voce tutte le grandi cantanti citate fino ad ora.

Molto bella anche I Went To The Well, scritta con Cary Hudson dei Blue Mountain, dove sembra che ad accompagnarla ci siano Booker T & The Mg’s, per un brano gospel-soul di gran classe, sempre cantato con assoluta nonchalance; Roll Away The Stone, scritta con Garry Burnside della famosa famiglia, sembra Gimme Shelter degli Stones in trasferta sulle rive del Mississippi, con Jim Hoke impegnato in un assolo di sax che avrebbe incontrato l’approvazione di Bobby Keys. Altro grande brano, in origine e pure in questa versione, una Black Haired Boy scritta da Guy e Susanna Clark, cantata con tenerezza ed amore, con le armonie vocali splendide, affidate a Emmylou Harris ed Elizabeth Cook, che ti fanno rizzare i peli sulla nuca. Low Rider è un brano oscuro ma di grande valore di JJ Cale, blues-swamp-rock come non se ne fa più, cantato con voce calda e sensuale; Isn’t That Love è un pezzo nuovo, scritto da Crowell e Beth Nielsen Chapman, anche alla seconda voce,  una ballata country-soul dal refrain irresistibile, dove si apprezza vieppiù la voce magnifica della McNally. The Stuff You Gotta Watch è un pezzo di Muddy Waters, trasformato in un R&R/Doo-wop blues dal ritmo galoppante, assolo di armonica di Hoke incluso; Prayer In Open D di Emmylou Harris era su Cowgirl’s Prayer, un country-folk intimo cantato (quasi) meglio di Emmylou, comunque è una bella lotta. E la cover di It Makes No Difference della Band è pure meglio, forse il brano migliore del disco, cantata e suonata da Dio (quel giorno aveva tempo), quindi perfetta. E per chiudere in gloria una versione di Let’s Go Home di Pops Staples, uno dei brani più belli degli Staples Singers, country-soul di nuovo “divino”, anche visto l’argomento. Io ho scritto quello che pensavo, ora tocca a voi. Per me, fino ad ora, in ambito femminile, uno dischi migliori del 2017.

Bruno Conti