Ancora Gagliardo Rock-Blues Dal Canada. Colin James – Miles To Go

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Colin James – Miles To Go – True North Records

Nuovo album blues per il chitarrista e cantante di Regina, Saskatchewan. Qualcuno potrà obiettare: come i diciotto dischi precedenti di Colin James, in quanto in effetti il musicista canadese ha praticamente sempre fatto blues, con delle variazioni sul tema, ma quello è sempre stato il suo credo, sin da quando esordiva dal vivo in Canada nel 1984 come spalla di Stevie Ray Vaughan. Ma evidentemente si vuole evidenziare che questo nuovo Miles To Go è il secondo capitolo, dopo l’ottimo Blue Highways del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/03/disco-blues-del-mese-colin-james-blue-highways/ , di un suo personale omaggio ad alcuni dei grandi artisti del Blues, aggiungendo nel CD anche un paio di canzoni a propria firma https://www.youtube.com/watch?v=uqmKtNFRxhc . Anche per il nuovo disco il nostro amico si fa accompagnare dalla sua touring band (quindi niente ospiti di nome), ovvero gli ottimi Geoff Hicks alla batteria, Steve Pelletier al basso, Jesse O’Brien a piano e Wurlitzer, Simon Kendall all’organo e, in alcuni brani, Chris Caddell alla chitarra ritmica e soprattutto Steve Marriner all’armonica, più una piccola sezione fiati composta da Steve Hilliam, Jerry Cook e Rod Murray.

Il risultato è un ennesimo solido album di blues, rock e derivati, sostenuto dalle egregie capacità chitarristiche di Colin James, uno dei migliori su piazza, che sicuramente non ha la forza travolgente di Jeff Healey, o le raffinate nuances roots di Colin Linden, ma è uno dei più eclettici praticanti canadesi del genere, del tutto alla pari con le sue controparti americane, tra cui potremmo ricordare Johnny Lang, Kenny Wayne Shepherd, Chris Duarte, e io aggiungerei, magari come influenze, o per similitudini nel tocco chitarristico, ora potente ora raffinato, solisti come Rory Gallagher e Robben Ford. Si diceva ai tempi che James non ha forse l’irruenza di un Jeff Healey, ma il vibrante vigore della sua solista non manca per esempio nella traccia di apertura, una gagliarda rilettura di One More Mile di Muddy Waters, con organo e armonica a spalleggiare Colin, oltre all’uso di una sezione fiati (utilizzata anche nei suoi  vari album con una big band, che hanno anticipato il cosiddetto swing revival degli anni ’90) che aggiunge pepe ad un suono già bello carico di suo, raffinato ma intenso allo stesso tempo. Formula che viene ribadita anche nella successiva cover sempre dal Chicago Blues di Muddy Waters, con una potente Still A Fool, che cita anche il riff lussureggiante di Two Trains Running, ed il timbro chitarristico degli amati Hendrix e SRV in un tour de force veramente potente, dove Marriner con la sua armonica fronteggia un Colin James veramente scatenato. In Dig Myself A Hole, dove James va alla grande anche di slide, ci sono elementi  R&R e R&B in questa parafrasi di un vecchio pezzo di Arthr Crudup (quello di That’s Allright Mama), tra pianini malandrini e fiati svolazzanti; ma il canadese eccelle anche nella sognante I Will Remain, una propria composizione che rimanda alle cose migliori di Robben Ford, con la chitarra raffinatissima che quasi galleggia sul lavoro della propria band, in un pezzo che ha rimandi al gospel e alle blues ballads di BB King.

40 Light Years, l’altro pezzo originale, non mostra cedimenti nel tessuto sonoro, sempre un blues fiatistico con l’armonica in evidenza e un timbro chitarristico alla Knopler o alla JJ Cale; Ooh Baby Hold Me è un ficcante pezzo di Chester Burnett a.k.a Howlin Wolf, con un riff (e non solo quello) che è uno strettissimo parente di quello della pimpante Killing Floor , mentre Black Night, con Rick Gestrin al piano, è uno splendido blues lento, al giusto crocevia tra Bloomfield e Robben Ford per la finezza del tocco della solista, seguito da Soul Of A Man, uno dei tre brani acustici dell’album, solo voce, chitarra e armonica, una canzone di Blind Willie Johnson, che poi si anima per l’intervento tagliente della slide di James, lasciando a See That My Grave Is Kept Clean di Blind Lemon Jefferson e alla ripresa acustica di One More Mile, il lato più tranquillo di questo album. Che comunque ci propone anche una regale versione di I Need Tour Love So Bad , ballata blues superba di Little Willie John, di cui il sottoscritto ha sempre amato moltissimo la versione che facevano i Fleetwood Mac di Peter Green. E notevole pure Tears Came Rolling Down, un sanguigno e tosto blues elettrico con uso fiati ed armonica, attribuito a Geoff Muldaur, ma derivato da un traditional, altro eccellente esempio della classe di Colin James, che con la voce e una slide tangenziale rende onore al meglio del Blues, in questo brano ed in tutto questo ottimo disco.

Bruno Conti

Disco Di Blues Del Mese? Colin James – Blue Highways

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Colin James – Blue Highways – True North/Ird

Colin James è un veterano della scena musicale canadese, cantautore, chitarrista e bluesman, in pista dalla metà degli anni ’80 dello scorso secolo: questo Blue Highways di cui stiamo per occuparci è il suo 18° album; in passato mi era già capitato di occuparmi dei suoi dischi sul Buscadero, anche se ultimamente avevo perso un po’ le sue tracce, forse perché i suoi dischi non erano di facile reperibilità, e comunque lui, indifferente alle difficoltà del vostro umile recensore, continuava a pubblicarli lo stesso, alcuni anche piuttosto belli, come la serie ricorrente con la Little Big Band, giunta a quattro capitoli. A seguito dell’ultimo tour per promuovere l’album Hearts On Fire del 2015, Colin James si era trovato molto bene con i musicisti che lo avevano accompagnato in quella fatica e ha deciso di  realizzare con loro un progetto che aveva in mente da tempo: un album dedicato ad alcuni dei pezzi blues che più lo hanno influenzato nel corso degli anni. E questo è il risultato, registrato nei Warehouse Studio di Vancouver, con la produzione affidata allo stesso James con l’aiuto di Dave Meszaros e il supporto della sua ottima touring band, formata da Craig Northley alla chitarra ritmica, Jesse O’Brien al piano, Steve Pelletier al basso e Geoff Hicks alla batteria, con l’aggiunta di Simon Kendall all’organo e Steve Marriner all’armonica.

Un disco fresco e pimpante, rispettoso delle radici, con ampi innesti anche del sound che fece grande il british blues a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, virtuosismo e grinta rock usate con la giusta misura e unite ad alcuni brani veramente splendidi, non sempre celeberrimi ma di sicuro impatto. Meglio un “usato sicuro” come questo, ennesima riproposizione di temi e generi musicali che se ben fatti come in questo caso suonano più freschi ed “innovativi” di molti presunti “nuovi esperimenti”, sempre e solo a parere di chi scrive, è ovvio, poi ognuno ascolta quello che gli pare. In tutto sono tredici brani: la partenza è fulminante, con una versione di Boogie Funk di Freddie King, che la prima volta che mi è capitato di sentirla ho pensato fosse qualche traccia inedita registrata da Rory Gallagher ad inizio anni ’70, uno strumentale ricco di grinta e ritmo, una scarica di adrenalina poderosa, con il gruppo che gira a mille, mentre la solista di James e l’armonica di Marriner si sfidano a colpi di riff e a tempo di boogie, oltre a Gallagher pensate anche al miglior Thorogood. Per amore di verità non tutto l’album è a questi livelli, ma anche la successiva Watch Out, un pezzo del mio amato Peter Green, che si trovava su The Original Fleetwood Mac e poi nuovamente su Fleetwood Mac In Chicago, è una piccola perla, una ennesima dimostrazione del fatto che i bianchi potevano suonare il blues (e come sosteneva BB King, Peter Green era uno dei più grandi nel farlo), versione sontuosa e felpata, ricca di feeling e con la chitarra di James misurata ma ficcante, ben sostenuta, come nel brano precedente, anche dal lavoro dell’organo di Kendall. Big Road Blues, un brano di Tommy Johnson, il primo Johnson del blues, quello che ha ispirato per intenderci On The Road Again dei Canned Heat, è l’occasione per ascoltare l’ottimo lavoro di Colin James anche quando è impegnato alla slide, ben sostenuto nel caso dal piano di O’Brien.

Big Bad Whiskey, a firma Thomas Davis, è una variazione sul tema dei brani dedicati all’alcol, dove cambiano titoli e qualche verso ma l’argomento, e anche i temi musicali, sono quelli, per l’occasione James passa all’acustica con bottleneck e la seconda voce di supporto è quella di una vecchia conoscenza, la brava Colleen Rennison (http://discoclub.myblog.it/2016/05/17/anteprima-dal-canada-band-solida-cantante-esagerata-sinner-old-habits-die-hard/). Poi si torna al blues-rock di una potente Going Down, con chitarre a manetta e l’ottima voce di Colin in evidenza. Segue un Muddy Waters “minore” (se esiste) con una perfetta versione di Gypsy Woman, classico slow blues elettrico di pregevole fattura, seguito da Goin’ Away, un brano di James A.Lane, per gli amici delle 12 battute Jimmy Rogers, la faceva anche Clapton su From The Cradle, qui in versione a trazione slide, eccellente, di nuovo con la Rennison voce di supporto. Lonesome di Peter Chatman inceramente non me la ricordavo, forse perché è il vero nome di Memphis Slim, versione elettrica e brillante, di nuovo tra Green e Gallagher, come pure Hoodoo Man Man di Amos Blakemore, che per il gioco degli indovini è il vero nome di Junior Wells, altro potente Chicago Blues elettrico con l’armonica di Marriner di nuovo a spalleggiare James. Riding In The Moonlight/Mr.Luck è un medley acustico, solo chitarra e armonica, dedicato a Howlin’ Wolf e Jimmy Reed, seguita dall’unica concessione alla grande musica soul con una splendida versione di You Don’t Miss Your Water di William Bell https://www.youtube.com/watch?v=8p21Ze7h9Qg , vero deep soul, con fiati, la faceva anche Otis Redding! Ain’t Long For A Day, di Blind Willie McTell, è di nuovo l’occasione per lavorare di fino con la slide https://www.youtube.com/watch?v=AED3nA8Kcno  e Last Fair Deal è l’immancabile omaggio acustico a Robert Johnson. Disco di Blues del mese?

Bruno Conti