Una Country-Rock Band Più Che Buona, Che Però Non Ha Nulla A Che Fare Con “Quelli Là”! The Burrito Brothers – The Notorious Burrito Brothers

burrito brothers the notorious

The Burrito Brothers – The Notorious Burrito Brothers – The Store For Music CD

Credo che i Flying Burrito Brothers, storico gruppo country-rock californiano nato da una costola dei Byrds (ovvero per mano di Gram Parsons e Chris Hillman, transfughi all’indomani del fondamentale Sweetheart Of The Rodeo), siano una delle band con la “timeline” più caotica per quanto riguarda i membri delle sue varie formazioni, detenendo infatti il record di non aver mai avuto la stessa lineup per due album consecutivi. A parte i loro primi due dischi, gli imperdibili The Gilded Palace Of Sin e Burrito Deluxe, direi che i nostri hanno mantenuto un profilo alto per almeno altri due-tre lavori (anzi, il terzo album, l’omonimo The Flying Burrito Brothers ed ultimo con Hillman in formazione, non è molto inferiore ai due precedenti), e comunque si sono difesi dignitosamente almeno fino a quando Rick Roberts ha fatto parte della squadra (NDM: per chi ancora non li conoscesse consiglio la strepitosa antologia del 2000 Hot Burritos! The Flying Burrito Brothers Anthology 1969-1972).

Man mano che passavano gli anni i FBB hanno visto avvicendarsi al loro interno una lunga serie di musicisti che poco o niente avevano da spartire con il nucleo originale, e verso la fine degli anni novanta hanno anche perso il suffisso “Flying”, che è diventato di proprietà di Hillman; dagli anni duemila in poi l’eredità del gruppo è stata portata avanti da onesti mestieranti sotto il moniker di Burrito Deluxe per tre dischi, The Burritos per uno e, dal 2018, The Burrito Brothers con il non disprezzabile Still Going Strong. Ora i Burritos ci riprovano, e fin dal titolo e dalla copertina (che richiamano entrambi The Notorious Byrd Brothers, famoso album dei Byrds – quello con l’asino al posto di David Crosby – che rappresentava la transizione della storica band tra il primo periodo folk-rock e psichedelico e la fase country-rock) cercano di appropriarsi di un passato che non gli appartiene, dato che il “veterano” del gruppo, il tastierista e cantante Chris James, è con loro appena dal 2010, mentre lo steel guitar player Tony Paoletta è arrivato nel 2013, il chitarrista e bassista Bob Hatter nel 2017 ed il batterista Peter Young è nuovo anche se qualche anno fa aveva già fatto brevemente parte della band.

Ma, a parte tutti i discorsi sull’opportunità dei quattro di chiamarsi così (e se è Hillman è d’accordo, chi sono io per contestare?), devo affermare che The Notorious Burrito Brothers è un bel dischetto di autentico country-rock di matrice californiana, che richiama volutamente le atmosfere della band alla quale i nostri si ispirano direttamente, ma che rimanda qua e là anche al suono di Poco e Eagles (due gruppi che comunque devono moltissimo agli originali FBB). Niente di nuovo sotto il sole, e nemmeno posso dire che questo album sia un mezzo capolavoro che aspirerà a diventare uno dei dischi dell’anno, ma sono certo che se lo farete vostro non rimpiangerete i soldi spesi (e di questi tempi è già molto). Tutti i brani sono originali, tranne le eccezioni che menzionerò durante la disamina: il CD si apre molto bene con Bring It, una limpida ed ariosa country-rock song dal motivo gradevole, ritmo spedito e chitarre ruspanti, che ricordano non poco gli Eagles con Joe Walsh alla voce solista (per la somiglianza del timbro di James). Sometimes You Just Can’t Win è un testo inedito scritto da Gram Parsons con Fred Neil e musicato dai nostri, altra tersa e solare ballata elettrica con piano e chitarre sempre in evidenza, un bell’omaggio alla memoria di Gram (e Fred) per uno dei pezzi più riusciti del CD. Love Is A River è il brano centrale del disco, una sorta di mini-suite di quasi dieci minuti nella quale i Burritos accennano almeno quattro diversi temi musicali passando da languide ballads a canzoni più mosse, con echi di Poco e FBB originali ed ottimo lavoro di steel (Paoletta è una piacevole sorpresa) e pianoforte.

Splendida la ripresa del classico di Dan Penn e Chips Moman Dark End Of The Street (che era anche su The Gilded Palace Of Sin), con la voce di James che qui ricorda abbastanza quella di Roger McGuinn, la steel protagonista e la nota melodia che scorre fluida e toccante; Do Right Man (ideale seguito della Do Right Woman sempre di Penn presente anch’essa sull’esordio dei FBB) vede come co-autore Ron Guilbeau, figlio di Gib Guilbeau che in passato fu a lungo membro dei Burritos, ed è un’altra cristallina ballata “alla Gram Parsons” che dona ulteriore lustro ad un disco che cresce brano dopo brano. Acrostic è un lento crepuscolare e delicato ma non particolarmente originale, mentre Gravity è uno spedito e delizioso pezzo elettroacustico a metà tra country-rock e bluegrass, che purtroppo finisce dopo neppure due minuti. Il CD termina con la bella Hearts Desire (che deriva da un testo inedito di Skip Spence, ex Moby Grape), altra country song elettrica e cadenzata dal motivo squisito e con le chitarre che tornano a farsi sentire, e con la tenue Wheels Of Fire, orecchiabile e squisita ballata dal forte profumo di California.

Quindi, anche se gli “Asinelli” non volano più, hanno dimostrato con The Notorious Burrito Brothers di saper fare musica piacevole e più che dignitosa.

Marco Verdi

Torna Il “Comandante” Steve Con Un Disco D’Altri Tempi. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia

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Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia – New West CD

Gli Stati Uniti stanno attraversando una delle loro crisi più profonde della storia, in preda all’emergenza sanitaria ed economica causate dalla pandemia di Covid-19, con l’aggiunta dei tumulti conseguenti ai fatti avvenuti a Minneapolis (e con un presidente che giorno dopo giorno dà la sensazione di non sapere che pesci prendere). In tutto questo caos Steve Earle ha deciso stranamente di non “infierire”, pubblicando invece un nuovo album ispirato ad un evento di cronaca nera accaduto il 5 aprile del 2010 nella contea di Raleigh in Virginia, allorquando una terribile esplosione avvenuta nella miniera di Upper Big Branch uccise 29 operai su un totale di 39 che si trovavano al lavoro in quel momento. Ghosts Of West Virginia è quindi un sentito omaggio da parte di Earle alle vittime di quel tragico evento, ed è la parte finale di un progetto chiamato Coal Country nato qualche mese fa, una sorta di piece teatrale che sta girando per gli Stati Uniti (anche se penso che in questo periodo la tournée si sia interrotta a causa del virus) con le musiche composte appunto da Steve.

Fin dagli anni trenta ed anche prima la storia della musica è piena di canzoni ispirate al lavoro in miniera, dalla Carter Family (Coal Miner’s Blues) alle famosissime Dark As A Dungeon e Sixteen Tons di Merle Travis, passando per la Coal Miner’s Daughter di Loretta Lynn (che divenne anche il suo soprannome) fino a tempi più “recenti” con la Miner’s Prayer di Dwight Yoakam, senza dimenticare successi pop come la prima hit internazionale dei Bee Gees New York Mining Disaster 1941 o interi album come Blood, Sweat And Tears di Johnny Cash, che però era in maggior parte dedicato al lavoro in ferrovia: solo uno come Earle però poteva concepire un intero album ispirato ai minatori nel 2020 rendendo il progetto perfettamente credibile, e forse tutto sommato ha anche senso che in questi tempi travagliati il nostro abbia voluto “riportare tutto a casa” pubblicando un disco dedicato al lavoro duro per antonomasia, pericoloso non solo per i sempre possibili incidenti mortali ma anche per le esalazioni che a lungo andare possono portare al decesso per cancro ai polmoni. Dal punto di vista musicale Steve è coadiuvato dai fidi Dukes (Chris Masterson alle chitarre, Eleanor Whitmore a violino e voce, Ricky Jay Jackson a steel e dobro, Jeff Hill al basso e Brad Pemberton alla batteria) ed il suono mantiene quel mood country-rock inaugurato con il bellissimo So You Wannabe An Outlaw del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/07/05/uno-splendido-omaggio-al-country-texano-anni-settanta-steve-earle-the-dukes-so-you-wannabe-an-outlaw/  e proseguito con l’omaggio alle canzoni di Guy Clark Guy https://discoclub.myblog.it/2019/04/08/dopo-quello-a-van-zandt-un-altro-toccante-omaggio-ad-un-grande-texano-steve-earle-the-dukes-guy/ .

Anche Ghosts Of West Virginia (prodotto da Steve e mixato dall’inseparabile Ray Kennedy) è quindi un lavoro di puro country elettrico alla maniera del nostro, che non è mai stato country nel vero senso del termine neppure negli esordi di Guitar Town ed Exit 0, ma ha sempre iniettato nel suo sound robuste dosi di rock. Le canzoni sono tutte di grande intensità ed Earle, nonostante un aspetto sempre più invecchiato ed una voce sempre più arrochita, ha ancora la grinta di un ragazzino: forse l’unico difetto del CD è l’esigua durata di appena mezz’ora. Heaven Ain’t Goin’ Nowhere fa iniziare l’album in modo atipico, con una sorta di gospel corale eseguito interamente a cappella: domina ovviamente la voce di Steve, forte e centrale, con il coro che ripete ad libitum la frase del titolo. Union, God And Country è una country song spedita e scorrevole, con una strumentazione tradizionale ed un approccio da bluegrass band, un brano splendido nobilitato da un motivo di impatto immediato; Devil Put The Coal In The Ground è più spigolosa pur mantenendo un accompagnamento perlopiù acustico, ma il mood è bluesato ed anche il lavoro di violino e banjo va in quella direzione, con Steve che canta in maniera tesa ed a metà canzone arriva anche un lancinante assolo di chitarra elettrica, mentre con John Henry Was A Steel Drivin’ Man torniamo su lidi country-folk, con una melodia di stampo tradizionale (che prende spunto proprio dalla famosa John Henry, che però parlava del lavoro in ferrovia) ed un background sonoro elettroacustico e coinvolgente.

Molto bella Time Is Never On Our Side, una folk song amara ed intensa cantata con il cuore in mano e con il solito commento musicale di gran classe da parte dei Duchi, tutto basato su un giro di chitarra tipico ed una sezione ritmica discreta. La potente It’s About Blood è nettamente più roccata ed elettrica pur mantenendo un impianto sonoro “roots”, con Steve che alterna cantato e talkin’ e sul finire elenca ad uno ad uno i nomi dei 29 minatori che persero la vita nella tragedia del 2010; di segno opposto è If I Could See Your Face Again, uno splendido acquarello acustico sfiorato dalla steel ed affidato totalmente alla bella voce della Whitmore: un pezzo estremamente toccante, tra i migliori del CD. Black Lung è un country-blues che ha il sapore delle canzoni risalenti al periodo della Grande Depressione, anche se dalla seconda strofa entra di prepotenza la sezione ritmica tingendo il brano di rock; chiusura con l’irresistibile country-boogie Fastest Man Alive, forse il momento più trascinante del lavoro, e con la delicata ed ancora splendida The Mine, con la voce di Steve più roca che mai ma feeling a dosi massicce.

Altro disco bello e fiero dunque per Steve Earle, che in un momento di confusione totale ed incertezza per il futuro (in America come nel resto del mondo) ha nobilmente scelto di ricordare un tragico fatto di cronaca ormai sepolto nella memoria.

Marco Verdi

Tre Album Da Riscoprire E Rivalutare. The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968

everly brothers down in the Bottom

The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968 – RPM/Cherry Red 3CD

Nel 1966 la popolarità degli Everly Brothers era in deciso calo, specie se rapportata ai fasti di fine anni cinquanta/primi sessanta, in cui i fratelli Don e Phil Everly erano stati giustamente indicati come uno degli acts più influenti della loro epoca (per dirne una, senza di loro forse Paul Simon avrebbe intapreso lo stesso la carriera di cantautore, ma probabilmente senza Art Garfunkel): infatti i due non portavano un singolo nella Top 40 da ben tre anni, e addirittura da cinque se si passava agli LP. Il loro ultimo disco, Two Yanks In England, era praticamente un album degli Hollies (che erano autori di gran parte delle canzoni e comparivano anche come backing band) cantato dagli Everly, e non ebbe successo come i precedenti: i nostri pensarono quindi di operare qualche piccolo cambiamento nel loro suono, ed i tre dischi interessati da tale rinnovamento (The Hit Sound Of The Everly Brothers, The Everly Brothers Sing e Roots) sono riuniti in questo triplo CD in digipak targato Cherry Red ed intitolato Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968, tutti quanti con una buona dose di bonus tracks in parte inedite.

In effetti il sottotitolo di questa ristampa è leggermente inesatto, in quanto solo Roots si può definire propriamente country-rock: diciamo che i due lavori precedenti, che pur presentano qualche sonorità countreggiante anche se mescolata alle consuete pop songs del duo e perfino a qualche accenno di psichdelia, sono da considerare come una graduale transizione verso Roots, che uscendo nel 1968 tenterà di inserirsi nel filone country-rock allora in voga e che aveva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta.

The Sound Of (1967, ma le sessions risalgono al ’66, da qui dunque il titolo dell’antologia) è formato da cover di brani più o meno noti, con la produzione di Dick Glasser e l’ausilio di diversi membri della famosa Wrecking Crew, tra cui Larry Knechtel, Hal Blaine, Terry Slater e Glen Campbell, già noto quest’ultimo come artista in proprio. L’album non vendette molto, ma vide i nostri proporre arrangiamenti raffinati e con le solite splendide armonie vocali di classici del rock’n’roll (Blueberry Hill, riletta in veste countreggiante, Oh, Boy! e Good Golly, Miss Molly), del country (I’m Movin’ On, Sea Of Heartbreak, che sembra scritta su misura per loro, e (I’d Be A) Legend In My Time), due brani associati a Ray Charles (Let’s Go Get Stoned e Sticks And Stones), un po’ di “British Invasion” (Trains And Boats And Plains, di Burt Bacharach ma portata al successo da Billy J. Kramer & The Dakotas, e The House Of The Rising Sun, incisa tenendo presente l’arrangiamento degli Animals ed indicando addirittura Alan Price come autore del pezzo). Poi ci sono brani scritti da autori esterni apposta per Don & Phil, come la beatlesiana Devil’s Child e la melodiosa She Never Smiles Anymore, opera di un giovane ed ancora sconosciuto Jimmy Webb. Tra le cinque bonus tracks del primo CD spiccano Even If I Hold It In My Hand, unico pezzo a firma Don Everly, un’altra canzone scritta da Webb (When Eddie Comes Home) ed il demo di Bowling Green, che sarà il brano di punta del disco successivo.

Proprio Bowling Green, uno splendido e scintillante folk-rock, apre il secondo dischetto nonché l’album Sing (1967), prodotto ancora da Glasser e con più o meno gli stessi musicisti del precedente (ma con in più il grande James Burton, all’epoca chitarrista di Elvis), ed un approccio più spostato verso il pop psichedelico, termine da prendere comunque con le molle in quanto stiamo pur sempre parlando degli Everly. Quasi metà dei pezzi sono scritti dal bassista Slater, i migliori dei quali sono la già citata Bowling Green, A Voice Within, il cui sound è influenzato dalle band britanniche, e le psichedeliche all’acqua di rose Talking To The Flowers e Mary Jane; ci sono poi un paio di originali di Don (l’orecchiabile I Don’t Want To Love You, scritta insieme a Phil, e l’eterea ballata It’s All Over, già incisa in passato dai due), un pezzo roccato e coinvolgente (Deliver Me, di Danny Moore) ed il rifacimento di Somebody Help Me, grande successo dello Spencer David Group di Steve Winwood,  pubblicata l’anno prima su Two Yanks In England. C’è anche la scelta bizzarra di includere una versione del superclassico dei Procol Harum A Whiter Shade Of Pale (non adattissima ai nostri), mentre è invece ottima Mercy, Mercy, Mercy, scritta dal non ancora leader dei Weather Report Joe Zawinul per il Cannonball Adderley Quintet. Le bonus tracks qui sono ben nove, tra cui sei sono brani usciti solo su singolo: da non perdere la bella rilettura della classica Love Of The Common People e la squisita Nothing But The Best di Rick Kemp.

E veniamo a Roots (1968), il migliore dei tre album presi in esame e quello che rappresenta la vera svolta nel suono dei fratelli, un disco che è anche una delle prime produzioni di un giovane Lenny Waronker, che nei seventies diventerà uno dei nomi più richiesti in cabina di regia, e che vede ancora i membri della Wrecking Crew con l’aggiunta delle tastiere di Van Dyke Parks. L’album vede dunque Don & Phil perfettamente calati nei panni di novelli cantanti country-rock, con cristalline versioni di classici come Mama Tried e Sing Me Back Home (le due canzoni più celebri di Merle Haggard), Less Of Me di Glen Campbell, T For Texas di Jimmie Rodgers e You Done Me Wrong di George Jones; un paio di pezzi sono scritti da Ron Elliott, leader dei Beau Brummels e collaboratore del disco (le folkeggianti Ventura Boulevard e Turn Around), mentre l’unico brano originale dei due fratelli, I Wonder If I Care As Much, è quasi psichedelico e non imperdibile (c’è anche una canzone, Living Too Close To The Ground, scritta dall’attrice Venetia Stevenson, all’epoca moglie di Don). Completano il quadro una pimpante rilettura del traditional Shady Grove in puro stile bluegrass ed un inedito del giovane Randy Newman, Illinois, brano già con l’impronta futura del pianista e cantante di Los Angeles. Sette le tracce bonus tratte dalle sessions, la maggior parte delle quali sono canzoni originali di Phil & Don (Omaha è la migliore), completata da due preziose cover di Mr. Soul (Neil Young) e In The Good Old Days (Dolly Parton) e da una bluesata e grintosa Down In The Bottom di Willie Dixon.

Con Roots, nonostante il perdurante insuccesso del disco, gli Everly Brothers sembravano lanciati verso una nuova carriera all’insegna del country-rock, e nessuno all’epoca poteva immaginare che come duo (quandi escluse le peraltro poche fatiche soliste) avrebbero pubblicato soltanto più cinque album durante il resto della carriera, due negli anni settanta e tre negli ottanta: un motivo in più per riscoprire le registrazioni incluse in questo triplo CD.

Marco Verdi

Una Sorpresa Nell’Uovo Di Pasqua! Cowboy Junkies – Ghosts

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Cowboy Junkies – Ghosts – Latent Recordings / Download + Streaming

Nell’ultimo periodo c’è stata una notevole uscita di dischi “fantasma” (nel senso che fisicamente non sono reperibili in CD, ma si possono scaricare o ascoltare nei vari siti di musica digitale), e noi sul sito ci siamo occupati dei lavori dell’ultimo Matthew Ryan, di Jeff Black, Natalie Merchant, con la speranza prossimamente di recensire anche Amidst The Alien Cane di William Topley (parlo per me), e per stare in tema non poteva certamente mancare anche questo inaspettato Ghosts dei Cowboy Junkies. A soli due anni di distanza dall’ottimo All That Reckoning (18), questo Ghosts non è altro che una raccolta di canzoni su cui i Cowboy Junkies avevano incominciato a lavorare mentre erano in giro in tournée per promuovere il citato ultimo lavoro in studio, e l’improvvisa morte della madre due mesi dopo, è stata la scintilla che ha portato i tre fratelli Timmins ad elaborare il lutto portando a termine questi otto brani, decidendo poi di farli ascoltare in “streaming” a chi era interessato, in attesa di un eventuale futura edizione in doppio vinile, allegandolo ad ATR.

Oggi come ieri la formazione della band è sempre la stessa: con Margo Timmins alla voce, i fratelli Michael alle chitarre e Peter alla batteria, con l’inserimento dell’amico Alan Anton al basso, per una buona mezzora di musica dove si respirano metaforicamente rabbia, rimorso e dolore. Dolore che si nota subito nella traccia di apertura Desire Lines, con la meravigliosa voce di Margo che declama il testo della canzone, seguita dalle affascinanti note della pianistica Breathing https://www.youtube.com/watch?v=hez9al5ny50 , e dal suono caldo e avvolgente di Grace Descends, che viene accompagnata dal basso di Alan Anton. Le emozioni ripartono con il suono cinematografico e leggermente “psichedelico” dell’intrigante (You Don’t Get To) Do It Again, per poi passare alla soave malinconia di una struggente e accorata The Possessed (il brano finale di All That Reckoning, lasciato fuori nella versione in vinile), mentre il fascino della voce di Margo si manifesta ancora una volta in Misery, con un accompagnamento in primo piano fluido e diretto. Ci si avvia alla fine dei ricordi e del dolore con una ballata romantica, notturna e rarefatta come This Dog Barks (marchio di fabbrica del gruppo), impreziosita dalle note di un violino “tzigano” impazzito https://www.youtube.com/watch?v=g6-rRG9tTJU , per terminare con un dolcissimo e sentito omaggio al sassofonista jazz Ornette Coleman, un giusto riconoscimento della famiglia Timmins ad uno dei “padri” della propria formazione musicale https://www.youtube.com/watch?v=QvBmZgF7_DY .

Stilisticamente questi otto brani rispecchiano il suono del precedente All That Reckoning, e per chi scrive, che ascolta i Cowboy Junkies da tempi di Trinity Session(88) non poteva essere altrimenti: un gruppo che nella sua lunga carriera ha saputo estrarre il meglio della tradizione americana, passando dalle radici blues ad un “country-rock” ovattato e moderatamente “roots”, facendo rivivere con le loro canzoni malinconiche atmosfere da sogno e paesaggi sonori che si stringono e prendono forma con la suggestiva voce di Margo Timmins che non si può non riconoscere. I CJ sono in pista ormai da più di trenta anni, e dopo 18 album in studio (compreso questo Ghosts) e 6 album Live, continuano a credere nella loro proposta, che non è certamente quella di una musica commerciale, quindi senza guardare in faccia a nessuno cercano comunque di proporre sempre musica di grande qualità, come anche in questo ultimo lavoro.

Tino Montanari

E Questi Da Dove Spuntano? Però Molto Bravi! Loose Koozies – Feel A Bit Free

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Loose Koozies – Feel A Bit Free – Outer Limits Lounge LP/Download

Da anni il mercato discografico indipendente americano è diventato una giungla quasi infinita, con decine e decine di uscite mensili di vario genere e livello: è ovvio che non è umanamente possibile stare dietro ad ogni nuovo solista o band che si affaccia sul panorama musicale, ma a volte capita di imbattersi in dischi che rispondono pienamente ai nostri gusti, e che magari sono pure belli. Un valido esempio è certamente questo Feel A Bit Free, album d’esordio dei Loose Koozies (avevano pubblicato solo un singolo nel 2018) quintetto proveniente da Detroit ma con un suono che non ha nulla a che vedere con la Motor City. Infatti i nostri non fanno rock urbano né hard né alternativo, ma suonano un’accattivante miscela di rock’n’roll e country di stampo quasi rurale e con un innato senso del ritmo e della melodia. Pura American Music quindi: i cinque non seguono le orme né di Bob Seger né di Alice Cooper (per citare due icone rock della capitale del Michigan), ma il loro sound ricorda da vicino i primi Uncle Tupelo ed i Son Volt, anche per il timbro di voce del leader E.M. Allen molto simile a quello di Jay Farrar (completano il gruppo il lead guitarist Andrew Moran, Pete Ballard alla steel, Erin Davis al basso e Nick German alla batteria).

Feel A Bit Free è prodotto da Warren Defever (leader della band alternativa His Name Is Alive), il quale si occupa anche di suonare piano ed organo, ed è quindi un ottimo dischetto che farà la felicità di quanti amano il country-rock alternativo a quello di Nashville: rispetto alle due band citate poc’anzi (Tupelos e Son Volt), qui la componente country è leggermente maggiore se non altro per il notevole peso specifico della steel nel sound generale, ma i ragazzi non si tirano certo indietro quando si tratta di arrotare le chitarre; last but not least, le canzoni sono ben scritte e sono tutte dirette e piacevoli, e quindi nei quaranta minuti di durata del disco non c’è un solo momento di stanca. Il dischetto inizia in maniera splendida con Easy When You Know How, un country-rock limpido e solare dotato di una melodia scintillante ed un bel suono elettroacustico molto roots, il tutto completato da ottime parti di chitarra: un avvio brillante. Nella cadenzata Forget To Think spunta la steel guitar anche se il brano è molto più rock che country, anzi l’approccio mi ricorda quello di gruppi come Jason & The Scorchers o Old 97’s, un pezzo coinvolgente e suonato alla grande; Marita è più morbida e countreggiante, una ballata in cui però la parte rock non è affatto sopita, un po’ come quando i Rolling Stones fanno (facevano) un pezzo country (ed il refrain è vincente), mentre con la saltellante Rollin’ Heavy torniamo in territori più propriamente country, pur con il suono elettrico tipico dei nostri con chitarre e steel a creare una miscela perfetta, unita ad un motivo delizioso.

Lotsa Roads è puro rock’n’roll, chitarre che riffano che è un piacere, gran ritmo e mood travolgente, in aperto contrasto con Sugar Notch, PA che è invece una turgida ballata elettroacustica dal sapore western-crepuscolare, con la chiara influenza di Gram Parsons, un’atmosfera evocativa ed un ispirato assolo da parte di Moran. Slow Down Time è il singolo di due anni fa, un rockin’ country diretto e gustoso ancora con le chitarre in evidenza ed uno squisito ritornello alla Tom Petty; una languida steel apre la strepitosa Hazel Park Race Track, altro pezzo trascinante che coniuga alla perfezione rock e country, in cui il canto “scazzato” di Allen si integra benissimo e ci porta alla bella Hills, una country ballad elettrica dal sapore quasi texano. Il disco termina con la lunga Something To Show, quasi sette minuti che si staccano decisamente dal resto del disco con i Koozies che ci propongono uno slow rarefatto ed etereo dai toni quasi psichedelici, per poi tornare subito coi piedi per terra con la conclusiva Last Year, puro country’n’roll a tutto ritmo, godibile ed avvincente.

Sentiremo ancora parlare dei Loose Koozies, sono pronto a metterci la firma.

Marco Verdi

*NDB Purtroppo non esiste la versione CD, solo LP o download digitale, come ultimamente, anche per la situazione globale, capita sempre più spesso.

In Una Sola Parola: Bentornati! Eric Brace & Last Train Home – Daytime Highs And Overnight Lows

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Eric Brace & Last Train Home – Daytime Highs And Overnight Lows – Red Beet CD

Chi di voi si ricorda dei Last Train Home? Bisogna tornare con la mente alla seconda metà degli anni novanta, quando il cosiddetto movimento alternative country/Americana era ai suoi massimi livelli ed i LTH, formatisi a Washington D.C. nel 1997, ne erano tra i più lucidi esponenti con ottimi album come il loro esordio omonimo del 1998 o anche True North e Travelogue. All’indomani dell’EP Six Songs del 2009 il leader dei LTH Eric Brace lasciò la band (che di fatto cessò di esistere) per intraprendere un’intensa carriera solista, con ben cinque album registrati insieme al songwriter Peter Cooper, l’ultimo dei quali (Riverland, con anche il musicista tedesco Thomm Jutz) uscito appena pochi mesi fa. Ora Brace però ha deciso di dare una svolta al suo cammino discografico tornando al passato e riformando il suo gruppo iniziale per un lavoro nuovo di zecca intitolato suggestivamente Daytime Highs And Overnight Lows: oltre ad Eric, i membri del gruppo (usati qui un po’ alla stregua di backing band di Brace, infatti il disco è accreditato ad Eric Brace & Last Train Home, ma anche Six Songs era così) sono ben sette: i chitarristi Scott McKnight e Jared Bartlett, la sezione ritmica di Jim Carson Gray ed Evan Pollack, lo steel guitarist Dave Van Allen ed i fiati di Chris Watling e Kevin Cordt.

La cosa che però conta di più e che, nonostante i dieci anni di lontananza, la scintilla tra Brace ed i suoi compagni non si è affatto spenta, e Daytime Highs And Overnight Lows è un disco bello e maturo, un lavoro intenso tra rock, country e Americana con la prevalenza di ballate sui brani mossi, ed un’atmosfera di fondo spesso malinconica e crepuscolare. Ma il disco non è affatto noioso e si lascia ascoltare con facilità nonostante duri quasi un’ora, grazie soprattutto alla bontà delle canzoni in esso contenute, che sono il frutto delle esperienze maturate dai nostri durante gli anni: Brace è l’autore principale, ma il fatto che anche i suoi compagni abbiano partecipato alla stesura dei brani smentisce in parte il fatto che i Last Train Home siano solo il suo gruppo d’accompagnamento. L’iniziale Sleepy Eyes è una rilassata ballata dal sapore folk e ritmo accelerato, un motivo piacevole e strumentazione corposa, con chitarre e fisarmonica a guidare il gruppo (il brano è una cover dei Frog Holler, una band della Pennsylvania, per usare un eufemismo, non molto nota). Caney Fork è puro country, una deliziosa canzone di stampo agreste, tersa e limpida e con bell’uso di slide, nonché un ottimo refrain; anche Distance And Time è un gran bel pezzo, sempre in bilico tra folk, country e musica d’autore, una melodia splendida e la fisa a ricamare leggera sullo sfondo.

Dear Lorraine è uno slow pianistico di ampio respiro che fa venire in mente immense praterie al tramonto, con la ciliegina di un azzeccato assolo di sax subito doppiato dalla steel, canzone seguita a ruota dalla saltellante Happy Is, tra country-rock (per l’uso del banjo) ed errebi (i fiati). Floodplains è una rock ballad elettrica e distesa, con le chitarre dietro la voce del leader, Hudson River (un pezzo dei Brindley Brothers) è un lento che non manca di pathos, e che dopo un avvio attendista e musicalmente spoglio (solo piano e chitarra) si sviluppa fluido ed in modalità full band, mentre What Am I Gonna Do With You è la classica cover che non ti aspetti, essendo proprio il classico di Barry White: i nostri mantengono lo spirito R&B dell’originale grazie ai fiati, ma spogliano il brano di ogni tentazione radiofonica e lo trasformano portandolo su territori a loro più consoni. L’album prosegue senza cadute di tono con la ballatona in odore di country Old Railroads, la bucolica e folkeggiante I Like You, pura e cristallina, la mossa ed orecchiabile B&O Man, di nuovo con l’ottima steel di Van Allen a caratterizzare il suono. Il CD volge al termine, ma c’è spazio ancora per Sailor, un country-swing suonato con finezza, la discreta ballata Taking Trains e Wake Up, We’re In Love, il brano più movimentato e che più si stacca dallo stile del lavoro, essendo una vivace pop song dominata da un organo farfisa tipicamente anni sessanta.

Un gradito ed inatteso ritorno questo dei Last Train Home, sperando che non si tratti di un evento estemporaneo.

Marco Verdi

Anche Prima Di Diventare Una “Vera” Band Erano Già Belli Pronti! New Riders Of The Purple Sage – Dawn Of The New Riders Of The Purple Sage

new riders dawn of the new riders

New Riders Of The Purple Sage – Dawn Of The New Riders Of The Purple Sage – Owsley Stanley Foundation 5CD Box Set

E’ un bel periodo per i fans dei New Riders Of The Purple Sage, storica band californiana di country-rock “cosmico” ancora in attività anche se ben lontana dai fasti dei primi anni settanta: dopo il doppio Thanksgiving In New York City, che documentava un concerto di fine 1972, ecco ora un invitante box di ben cinque CD pubblicato nel ambito della serie Bear’s Sonic Journals, cioè album dal vivo tratti da nastri originali del leggendario tecnico del suono dei Grateful Dead (e non solo) Owsley “Bear” Stanley, una collezione nell’ambito della quale sono già usciti il bellissimo doppio di Jorma Kaukonen e Jack Casady Before We Were Them https://discoclub.myblog.it/2019/02/14/nuovi-dischi-live-dal-passato-6-prima-di-essere-gli-hot-tuna-erano-gia-formidabili-jorma-kaukonen-jack-casady-bears-sonic-journals-before-we-were-them-live-june-2/ , la riedizione di Fillmore East 1970 della Allman Brothers Band https://discoclub.myblog.it/2018/08/11/le-loro-prime-registrazioni-dal-vivo-di-nuovo-disponibili-allman-brothers-band-fillmore-east-february-1970/  ed il box di 7 CD Never The Same Way Once di Doc & Merle Watson. La cosa che rende particolarmente interessante questo Dawn Of The New Riders Of The Purple Sage è il fatto che, come suggerisce il titolo, in esso sono contenuti concerti inediti risalenti al periodo precedente al loro mitico album d’esordio del 1971.

In effetti i NROTPS erano inizialmente nati come sorta di gruppo “dopolavoristico” in orbita Grateful Dead, una sorta di band country-rock che potesse dare la possibilità a Jerry Garcia di suonare liberamente la steel guitar (strumento per il quale all’epoca Jerry aveva preso una cotta): infatti le prime uscite del gruppo erano direttamente collegate ai concerti dei Dead dato che i nostri si esibivano come gruppo spalla ed al suo interno oltre a Garcia c’erano anche il bassista Phil Lesh ed il batterista Mickey Hart, completati dal cantante e chitarrista (nonché principale compositore del gruppo e futuro leader) John “Marmaduke” Dawson e dal chitarrista David Nelson, vecchio amico di Jerry e già compagno con lui di diverse band giovanili “pre-Dead”. Dawn Of The New Riders Of The Purple Sage presenta il meglio di diversi concerti tenutisi in quattro differenti location nel biennio 1969-70, con i nostri già in possesso di un suono country-rock al 100% perfettamente in linea con quello di altri gruppi del periodo come Byrds e Flying Burrito Brothers, e con gli elementi psichedelici presenti nei loro primi lavori che per ora non sono molto evidenti. Se il frontman è Dawson, il vero leader del suono del gruppo è Garcia, con la sua steel suonata splendidamente e protagonista indiscussa di ognuno dei 61 brani del box.

L’incisione è ottima considerando che questi nastri hanno 50 e più anni sulle spalle, ed anche la qualità delle performance è in crescendo, in quanto nei primi due CD ed in parte anche nel terzo le parti vocali di Dawson sono un po’ fuori fase (per non dire stonate), unico aspetto negativo, ma non da poco, di un cofanetto altrimenti imperdibile anche per il fatto che presenta diversi brani originali dello stesso Marmaduke che non ritroveremo in seguito sugli album del gruppo oltre ad una bella serie di cover intriganti e, last but not least, la presenza costante di Garcia, che poco dopo (all’indomani del primo album) dovrà abbandonare la band perché troppo impegnato con i Dead e con l’inizio della sua carriera solista. Ma vediamo i momenti salienti dei cinque CD, ricordando che Lesh aveva già lasciato ed il suo posto era stato preso prima da Bob Matthews nei primi quattro dischetti e poi in via definitiva da David Torbert (nel quinto). CD 1-2: Berkeley 1 agosto 1969. Si inizia con il famoso inno per camionisti Six Days On The Road, con Jerry che fa già i numeri alla steel, per proseguire con altre interessanti cover tra cui spiccano il languido honky-tonk di What’s Made Milwaukee Famous (scritta da Glen Sutton ma resa popolare da Jerry Lee Lewis), il doppio omaggio a Buck Owens con le pimpanti I’ve Got A Tiger By The Tail e Hello Trouble e quello ai Rolling Stones (Connection), oltre a classici del calibro di Kaw-Liga (Hank Williams), The Lady Came From Baltimore (Tim Hardin) ed una splendida Games People Play di Joe South.

Molti anche gli originali di Dawson (nel box compaiono tutti i brani dell’album d’esordio tranne due, un paio che verranno pubblicati solo nel 1972 e come ho già detto diversi inediti), tra i quali segnalerei la guizzante Henry, suonata due volte (e qui Garcia è strepitoso), il puro country di Delilah, la ballata dead-iana Garden Of Eden, la bella Last Lonely Eagle e le deliziose Sweet Lovin’ One, Fair Chance To Know (molto Gram Parsons) e I Am Your Man. Peccato per la prestazione vocale traballante di John: per fare un parallelo con i Dead (altro gruppo che talvolta aveva le voci come punto debole) è come se Garcia e soci avessero fatto cantare tutti i brani dei loro concerti a Lesh. CD 3: San Francisco 28-29-30 agosto 1969. In questo dischetto i NROTPS brillano particolarmente nell’anteprima di Superman, che uscirà sul loro terzo album Gypsy Cowboy, ed in una Six Days On The Road più convinta. Ma la parte del leone la fa l’ospite speciale Bob Weir (presentato come “Bobby Ace”), che assume il ruolo di leader in una sorta di mini-set nel quale canta due pezzi che era solito fare anche coi Dead (Mama Tried di Merle Haggard e Me & My Uncle di John Phillips), un paio di classici di George Jones (Old Old House e Seasons Of My Heart), una limpida Cathy’s Clown degli Everly Brothers ed una vivace Slewfoot di Howard Hausey, per tornare nel finale con una energica rilettura di Saw Mill di Mel Tillis. Peccato che Dawson tenti di rovinare tutto con un controcanto totalmente fuori armonia.

CD 4: Berkeley 14-15 ottobre 1969. Questo dischetto e quello che segue sono i migliori del box, sia per l’incisione che è ancora più nitida che per la prestazione vocale di Marmaduke, rientrata nei confini dell’accettabilità. Il CD inizia con una breve ma riuscita versione di Only Daddy That’ll Walk The Line, brano portato al successo da Waylon Jennings; gli highlights sono però tre veri pezzi da novanta come I Still Miss Someone di Johnny Cash, The Weight della Band ed una eccellente rilettura dello standard Long Black Veil, tutte in versioni discretamente lunghe e con Garcia superbo. Finale con una ipnotica Death And Destruction di ben 13 minuti (e qui un accenno di psichedelia c’è), con l’armonica di Will Scarlett che duetta alla grande con mastro Jerry. CD 5: San Francisco 4-5-7 giugno 1970. Qui troviamo di nuovo Weir protagonista della “solita” Mama Tried ma anche di una frizzante rivisitazione di The Race Is On (Don Rollins) e di una inattesa Honky Tonk Women degli Stones. Per il resto a parte un’altra The Weight abbiamo solo brani di Dawson, tra i quali spiccano i futuri classici I Don’t Know You, Louisiana Lady e Portland Woman, tutti e tre in procinto di essere pubblicati sul debutto omonimo del gruppo.

Un box quindi decisamente interessante e senza dubbio importante, che documenta i primi passi di una delle band di culto per antonomasia del passato, anche se a causa dell’altalenante performance vocale di Dawson mi sento di consigliarne l’acquisto più ai fans del gruppo che ai neofiti.

Marco Verdi

Che Cosa Fa Un Hippy A Nashville? Un Grande Disco! Jonathan Wilson – Dixie Blur

jonathan wilson dixie blur

Jonathan Wilson – Dixie Blur – Bella Union CD

Il secondo album di Jonathan Wilson, Fanfare https://discoclub.myblog.it/2013/12/14/recuperi-fine-anno-parte-4-jonathan-wilson-fanfare/  (seguito del positivo esordio Gentle Spirit https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ ), era stato per il sottoscritto il disco dell’anno 2013, un lavoro tra i più perfetti da me ascoltati nell’ultima decade, risultato di una miscela strepitosa di rock, folk, psichedelia e Laurel Canyon Sound: se i dischi potessero avere figli, il padre di Fanfare poteva senz’altro essere il mitico esordio solista di David Crosby If I Could Only Remember My Name. Jonathan era tornato tra noi nel 2018 con Rare Birds, un album spiazzante che sembrava invece ispirarsi alle sonorità techno-pop degli anni ottanta, anche se qualche traccia del Wilson che conoscevamo era rimasta: va bene l’idea di cambiare suono (il terzo disco di solito è il più difficile per un artista), ma le scelte di Jonathan mi avevano abbastanza deluso, anche se in questo blog la si pensava diversamente https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/il-gabbiano-jonathan-vola-sempre-alto-jonathan-wilson-rare-birds/ .

La curiosità su ciò che avrebbe fatto Wilson dopo Rare Birds era tanta, e sinceramente non mi aspettavo di trovarmi tra le mani un suo nuovo lavoro dopo solo due anni; Jonathan ha seguito il consiglio dell’amico Pat Sansone (membro dei Wilco) di andare a registrare le sue nuove canzoni a Nashville, insieme ad una crew di professionisti di gran nome (Russ Pahl, Mark O’Connor, Kenny Vaughan, Dennis Crouch, Drew Erickson, oltre allo stesso Sansone che ha prodotto le sessions): il risultato è Dixie Blur, un lavoro splendido che ci fa ritrovare il Wilson di Fanfare, con una serie di composizioni di prima qualità valorizzate da un suono spettacolare e da una serie di soluzioni strumentali da applausi. Dixie Blur inizia in pratica da dove Fanfare finiva, ma se là il suono ricordava appunto il rock “cosmico” californiano dei primi anni settanta, qua l’ispirazione trae spunto sempre dall’interno del Golden State ma più indirizzata verso un sound country-rock che all’epoca potevamo ascoltare nei dischi dei Byrds di fine carriera, dei Flying Burrito Brothers e dei New Riders Of The Purple Sage. Registrato nello Studio A del mitico Sound Emporium (che era di proprietà di Cowboy Jack Clement), Dixie Blur non è però un album country, anche se il country è presente in dosi massicce, ma piuttosto un lavoro di American Music a 360 gradi che mescola alla grande la visione cosmica da moderno hippy che ha Wilson della musica ed un background sonoro di altissimo livello suonato da alcuni tra i migliori sessionmen di Nashville, e che alla fine risulta ancora più immediato e fruibile di Fanfare.

Just For Love (unica cover presente, un pezzo di Dino Valenti title track del quarto album dei Quicksilver Messenger Service) inizia più o meno nel mood del disco del 2013, con sonorità raffinate ed eteree grazie anche all’uso del flauto come strumento solista ed un motivo di fondo rilassato ed affascinante: pochi minuti e Rare Birds è già un ricordo. 69 Corvette ha una intro strumentale molto evocativa a base di chitarra acustica, piano e steel, e Jonathan canta quasi sussurrando una melodia profonda e toccante, subito doppiato dallo splendido violino di O’Connor: canzone malinconica ma bellissima, con pathos a mille. Anche New Home è una ballata dal passo lento, con Wilson avvolto da un suono crepuscolare dominato da piano, mellotron e la magnifica steel di Pahl, ma sul finale inizia un crescendo sonoro splendido e di grande impatto emotivo. So Alive velocizza il ritmo e ci porta in territori country & western, ancora con il violino protagonista e con il nostro che intona un motivo decisamente intrigante circondato da sonorità molto roots; anche meglio In Heaven Making Love, una sorta di bluegrass elettrico dal ritmo vertiginoso e ricco di swing, con una melodia irresistibile che rimanda agli anni cinquanta: il CD sta mutando suono a poco a poco, quasi come se Wilson si avvicinasse prograssivamente dal Laurel Canyon a Nashville.

Un pianoforte struggente introduce la lenta Oh Girl, altra ballata dallo sviluppo splendido, un accompagnamento avvolgente ed un leggero gusto pop; Pirate è ancora uno slow, ma non ci si annoia per niente in quanto la strumentazione aggiunge sempre quel quid in più a canzoni già belle di loro: qui per esempio abbiamo una delle melodie più belle di tutto il CD. Enemies è un brano arioso, quasi maestoso e dall’arrangiamento “spectoriano”, caratterizzato da un refrain vocale di impatto notevole, Fun For The Masses è invece una ballatona intensa con piano e steel ancora in primo piano ed un suono che sembra provenire da un qualsiasi album californiano del triennio 1970-72, mentre Platform ha un’introduzione chitarristica che ricorda Everybody’s Talkin’, ma il resto è puro Wilson, stile “cantautore al crepuscolo” con tracce di Gram Parsons. Riding The Blinds è l’ennesima ballata toccante e bellissima, con la band che offre un accompagnamento perfetto ed una tensione emotiva molto alta, e con uno spettacolare cambio di tempo nella seconda parte quando il pezzo si trasforma in uno strepitoso country-rock per poi chiudersi come era iniziato: grande canzone. Finale con El Camino Real, puro e travolgente bluegrass elettroacustico con O’Connor formidabile (tra le più dirette del CD), la languida e soave country ballad a tempo di valzer Golden Apples e la sontuosa Korean Tea, sostenuta dal piano e da una bella chitarra spagnoleggiante.

Non so se Dixie Blur bisserà l’exploit di Fanfare nella mia personale classifica di fine anno, ma di sicuro sarà difficile per me lasciarlo fuori dalla top ten.

Marco Verdi

Ottimo Rockin’ Country Tutto Texano. Drew Fish Band – Wishful Drinkin’

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Drew Fish Band – Wishful Drinkin’ – Reel CD

Primo album per Drew Fish, altro giovane countryman proveniente da quella fucina di talenti che è il Texas, dopo un paio di EP usciti nel 2014 e 2016. Wishful Drinkin’ è un esordio col botto, un disco di puro country-rock texano di quelli che fanno saltare sulla sedia fin dal primo ascolto, in cui non manca l’apporto di violini e steel ma a dominare sono le chitarre ed il ritmo. Il suffisso “Band” fa figo e non impegna, dato che in realtà Drew è un solista che usa una lunga serie di sessionmen bravissimi anche se poco conosciuti, a parte Cody Braun dei Reckless Kelly e la cantante Pam Tillis, ma alla fine quello che più importa è che Wishful Drinkin’ è tra i migliori album di country elettrico da me ascoltati ultimamente, dieci brani originali dove, a parte un paio di ballate, il ritmo ed il feeling la fanno da padroni. La produzione poi è nelle sapienti mani di Adam Odor, che in passato ha collaborato con Dixie Chicks, Jason Boland, Pat Green e Randy Rogers, e che ha saputo valorizzare al massimo il suono diretto e potente del nostro.

Non c’è molto altro da dire, se non lasciare spazio alle canzoni dell’album, che iniziano alla grande con Lone Star Saturday Night, un country’n’roll irresistibile dal gran ritmo, voce sicura, chitarre in tiro ed il violino che fende l’aria, un avvio decisamente trascinante. La title track è un vivace honky-tonk elettrico sempre con il ritmo accentuato ed un gustoso botta e risposta a suon di riff tra chitarra elettrica e steel; la prima ballata è Every Damn Time, con il violino che si fa suadente ma la strumentazione resta asciutta e diretta e la seconda voce della Tillis aggiunge il tocco di soavità, ma con Better Place riparte subito il trip elettrico, un delizioso e cadenzato brano dal sapore western servito da una melodia vincente (e le chitarre, steel compresa, continuano a fare il loro lavoro alla grande). Devil You Know è un boogie-swing texano al 100% con il solito gran ritmo (non è più una sorpresa), train sonoro coinvolgente ed ottimi interventi di violino e pianoforte. 

Another You è un lento elettroacustico intenso e con tutti i suoni a posto, anche se io Drew lo preferisco in pezzi come la seguente High Rolling Home, altro rockin’ country decisamente elettrico e dal mood contagioso (con tracce di Waylon e Billy Joe Shaver): sentire per credere. One Beer At A Time è potente, grintosa e con una chitarra che cavalca il ritmo per tutta la durata del brano; il CD termina con Baby Just Let Go, ballatona elettrica davvero bella ed evocativa, e con la strepitosa Waiting For The Sun, puro country & western sferzato dal vento che evoca paesaggi a perdita d’occhio tra rocce, canyon, cactus e pompe di benzina abbandonate. Drew Fish Band: segnatevi questo nome, ne sentiremo parlare ancora.

Marco Verdi

Il “Supergruppo” Canadese Ci Regala Un Altro Disco Splendido! Blackie And The Rodeo Kings – King Of This Town

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Blackie And The Rodeo Kings – King Of This Town – Warner Canada

All’incirca ogni tre anni si ritrovano per pubblicare un nuovo album: questo King Of This Town è il loro nono disco (decimo, se contiamo anche Let’s Frolic Again, mentre il precedente, l’ottimo https://discoclub.myblog.it/2017/01/28/passano-gli-anni-e-dopo-le-regine-questa-volta-tocca-ai-re-ed-e-sempre-grande-musica-blackie-and-the-rodeo-kings-kings-and-kings/  risale a tre anni fa), in effetti l’avventura partì con quella che doveva essere una opera unica High or Hurtin’: The Songs of Willie P. Bennett, per omaggiare un loro illustre (ma quasi sconosciuto fuori dai confini canadesi) connazionale, però da allora Stephen Fearing, Colin Linden e Tom Wilson, in rigoroso ordine alfabetico, ci deliziano puntualmente con una serie di album che collettivamente sono superiori alla somma della parti dei partecipanti, che non sono insignificanti. Linden, giusto in questi giorni, ha visto Oklahoma, la sua produzione per Keb’ Mo’, vincere il Grammy nella categoria Americana https://discoclub.myblog.it/2019/07/15/sempre-della-serie-non-solo-blues-keb-mo-oklahoma/ , e lo scorso anno ha pubblicato pure il delizioso Amour, insieme a Luther Dickinson (per non parlare della produzione dell’ultimo disco del suo amico Bruce Cockburn Crowing Ignites), Tom Wilson, sempre nel 2019, ha pubblicato Mohawk l’ultima fatica della sua altra band, i Lee Harvey Osmond, nominato ai Juno Awards canadesi, e Stephen Fearing, proprio sul finire del 2019 ha rilasciato la sua nuova prova solista, l’eccellente The Unconquerable Past.

Ma quando sono insieme, pur mantenendo le loro diverse caratteristiche stilistiche, Linden tra Americana e blues, Wilson l’anima più rock e Fearing quella più folk, quando aggiungono alle loro influenze anche quelle favolose armonie vocali a due e tre parti, elementi country e cajun acadienne, e il consueto apporto di una serie di collaborati fantastici, riescono a trasfigurare il tutto. Questa volta troviamo le armonie vocali delle McCrary Sisters, le tastiere di Janice Powers, la moglie di Colin Linden, che si alterna a Kenneth Pearson, Thompson Wilson, il figlio di Tom, come la Powers co-autore di un paio di brani, uno insieme a Hawksley Workman, per non parlare della superba sezione ritmica formata da Gary Craig alla batteria e Johnny Dymond al basso, che pure loro contribuiscono alla scrittura delle canzoni, e infine il multistrumentista Jim Hoke, impegnato a sax, organo, armonica e fisarmonica. Il risultato finale è una goduria unica: dalla iniziale Hard Road, cantata con voce ”scura” da Wilson, tra rock atmosferico e sapori sudisti, grazie all’apporto del New Orleans soul delle sorelle McCrary, passando per la solare e corale Cold 100, cantata a voce spiegata da tutti e tre che l’hanno scritta collettivamente, con un drive da perfetta rock song da suonare a tutto volume sulle (auto)strade di tutto il mondo, con il dobro e la slide di Linden ad impreziosirla, mente le McCrary armonizzano come solo loro sanno fare.

Trust Yourself, il primo contributo di Fearing, con Hoke a al sax e all’organo, è un sinuoso folk-rock con tracce blues, che ricorda il miglior Cockburn, quando alza la sua quota elettrica, grazie agli interventi puntuali di Colin alla solista; World Gone Mad (scritta da Linden con l’ex Family e Band Jim Weider), con tutti e tre ancora impegnati a tratti in un cantato collettivo che rende irresistibile il brano, con le chitarre dell’autore che imperversano di nuovo alla grande in un brano superbo, mentre Baby I’m Your Devil, scritta dai due Wilson, babbo e figlio con Workman, screziata dalle armonie vocali di Rachael Davis, l’armonica di Hoke e l’acidissima chitarra di Linden che contribuiscono alle atmosfere dark e sospese della canzone. North Star, l’altro brano firmato dal trio è una stupenda ballata cantata dal vocione di Wilson, con il supporto degli altri due, dedicata alla ricerca della donna con la Stella del Nord nei suoi occhi (il Canada), romantica ed evocativa  https://www.youtube.com/watch?v=Yd_TWpsb8Ww , King Of This Town di Linden è un perfetto esempio di antemico roots-rock, vogliamo chiamarlo Americana, con le sue chitarre a dispensare piccole meraviglie, sostenute da un florilegio di tastiere.

La malinconica, quasi triste, visto l’argomento trattato, Walking On Our Graves, è una bellissima canzone, tra Dylan e la Band, cantata con grande trasporto da un ispirato Stephen Fearing, un ennesimo gioiellino, impreziosito da un assolo di Linden calcolato con il goniometro https://www.youtube.com/watch?v=4AEeaXx0vJc , seguito da un tuffo a New Orleans per la travolgente Kick My Heart Around , scritta da Linden che la canta, con il contributo della famiglia Wilson, tra sbuffi di armonica e fisarmonica ed una allegria quasi palpabile https://www.youtube.com/watch?v=v77GJ1YytYY . Medicine Hat della premiata ditta Linden/Wilson, tra country-rock cosmico e un divertente e mosso groove di vintage R&R si ascolta con grande piacere, prima di farci congedare dai BARK con la soffusa ed elegiaca ballata Grace, cantata in solitaria da un pensoso Fearing che, anche sulle ali della struggente armonica di Hoke, conferma la sua anima più riflessiva e gentile. Come al solito un album affascinante e consistente, da ricordare per ie liste dei migliori di fine anno, l’unico neo è che non si trova con facilità alle nostre latitudini.

Bruno Conti