Un Ottimo Live D’Archivio Per Una Band (Purtroppo) Quasi Dimenticata. Amazing Rhythm Aces – Moments: Live In Germany 2000

amazing rhythm aces live in germany 2000

Amazing Rhythm Aces – Moments: Live In Germany 2000 – Radio Bremen/MIG 2CD

Quando si pensa alla stagione d’oro del southern rock e si vuole andare oltre la “sacra triade” rappresentata da Allman Brothers BandLynyrd SkynyrdMarshall Tucker Band, c’è un folto sottobosco di gruppi più o meno popolari che hanno incarnato, a seconda dei nomi, le varie anime di questo genere musicale, siano esse rock, soul, country, blues o funky. Tra di essi uno dei migliori erano sicuramente gli Amazing Rhythm Aces, band originaria di Memphis il cui suono è sempre stato una corroborante miscela di country e rock, con qualche sporadica iniezione soul e blues: diciamo per farla breve che erano un gruppo Americana ancora prima che si iniziasse ad usare questo termine. Come spesso è capitato con band che non hanno retto con il passare degli anni, gli ARA hanno dato il meglio con i primi quattro album usciti tra il 1975 ed il 1978 (da avere almeno i primi due, Stacked Deck e Too Stuffed To Jump), per poi sciogliersi all’inizio degli anni 80 e riformarsi nella decade seguente dando alle stampe tre lavori decisamente riusciti e proseguendo nella prima decade del presente millennio ma con meno efficacia, rimanendo in piedi grazie alle esibizioni dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=pLz6nIvqB2c .

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Tecnicamente la band è ancora in attività, ma in pratica la loro storia si è conclusa nel 2019 quando un cancro si è portato via il cantante e principale songwriter del gruppo Russell Smith, ed è quindi con grande piacere che ho accolto la pubblicazione di questo Moments: Live In Germany 2000 (registrato al Moments Musikclub di Brema il 20 marzo appunto del 2000), che non è il solito bootleg radiofonico ma una pubblicazione ufficiale a cura della MIG, che è la stessa etichetta che distribuisce i concerti della serie Live At Rockpalast. Moments è un concerto decisamente bello e coinvolgente, musica americana al 100% da parte di un gruppo di cui oggi non si ricorda quasi più nessuno: oltre a Smith, gli unici membri originali sul palco in questa occasione sono il bassista Jeff Davis ed il pianista/organista Billy Earheart, completati dal chitarrista Fred James e dal batterista Bryan Owings, che aveva da poco sostituito l’altro founder member Butch McDade, scomparso due anni prima.

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Musica diretta, piacevole ed ottimamente eseguita, molto influenzata dal country ma con robuste dosi di rock che vengono accentuate nelle performance dal vivo come questa: l’unica cosa forse non eccezionale è la voce di Smith, ma ciò non inficia assolutamente il piacere dell’ascolto di uno show che mescola con disinvoltura i pezzi classici dei seventies con gli highlights dei tre album degli anni 90. Non mancano ovviamente le (poche) hits del gruppo, come il limpido e terso country-rock che apre il concerto The End Is Not In Sight (The Cowboy Song), una bella canzone con chitarra e piano in evidenza, la ritmata e coinvolgente ripresa di Lipstick Traces (On A Cigarette), brano di Allen Toussaint scritto con lo pseudonimo Naomi Neville https://www.youtube.com/watch?v=xX_FCOS4RzY , la strepitosa Amazing Grace (Used To Be Her Favorite Song), un brano country di valore eccelso, e la nota Third Rate Romance, dal mood quasi tex-mex  https://www.youtube.com/watch?v=xX_FCOS4RzY. Non sto a citare tutti i 25 brani suonati, ma non posso non citare la grintosa e ruspante Typical American Boy, la splendida e solare country ballad Dancing The Night Away, la cadenzata Out Of The Blue, una notevole versione di sette minuti della soulful Love’s On The Way, decisamente calda, e la bellissima honky-tonk ballad Delia’s Long Brown Hair.

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Ma meritano un cenno anche la saltellante Dancin’ With The One You Love, tra country e western swing, il bluegrass elettrico dal ritmo forsennato Guardian Angel, l’evocativa Waitin’ On Sundown, con tracce di Bob Seger, il puro country della toccante Last Letter Home (dedicata a McDade), la travolgente e cajun-oriented Rednecks Unplugged ed il roccioso blues The Blue Room, sette vibranti minuti con una formidabile prestazione chitarristica di James. Finale con il trascinante swamp-rock The Ella B, due ottime cover di Love And Happiness di Al Green e Who Will The Next Fool Be di Charlie Rich, tra rock e soul la prima ed in puro stile sixties la seconda, per concludere con l’irresistibile rock’n’roll Jerry Fontaine And His Jammin’ Guitar. Forse dimenticati in patria ma fortunatamente non in Germania: Moments è un bel modo per riassaporare la musica degli Amazing Rhythm Aces.

Marco Verdi

Dopo Un Grande Album In Studio, Ecco Un Ottimo Live. Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman

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Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman – Loma Vista/Universal CD

That’s How Rumors Get Started, ultimo album di Margo Price, è stato per il sottoscritto uno dei dischi del 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/07/11/nuovi-e-splendidi-album-al-femminile-parte-1-margo-price-thats-how-rumors-get-started/ . Un album profondo e coinvolgente con una serie di canzoni splendide da parte di un’artista matura che è andata oltre i suoi esordi country e si è presentata come una singer-songwriter a 360 gradi, proponendo un sound di stampo californiano vicino a certe cose dei Fleetwood Mac e di Tom Petty. L’album, che doveva uscire agli inizi di maggio, è stato però posticipato a luglio a causa della pandemia, ma per consolare i fans Margo ha pubblicato più o meno nello stesso periodo sulla piattaforma Bandcamp (e quindi solo in formato download) un disco dal vivo inedito intitolato Perfectly Imperfect At The Ryman, registrato nel maggio 2018 presso la mitica location del titolo, vero tempio della musica country a Nashville.

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Ora Margo ha deciso di far uscire l’album anche in CD, e devo dire che l’idea è davvero gradita in quanto ci troviamo tra le mani un ottimo live di puro country-rock elettrico, eseguito dalla Price con piglio da vera rocker, cantato benissimo e suonato da una band coi fiocchi formata dal marito Jeremy Ivey alle chitarre (insieme a Jamie Davis), Micah Hulscher alle tastiere, Luke Schneider alla steel e dobro e con la sezione ritmica formata dal bassista Kevin Black e dal batterista Dillon Napier, oltre ad un nutrito gruppo di backing vocalist e tre ospiti d’eccezione che vedremo a breve. Chiaramente essendo un concerto di più di due anni fa non ci sono le canzoni di That’s How Rumors Get Started, ma una selezione del meglio dei primi due album di Margo ed un paio di cover azzeccate. L’iniziale A Little Pain è una ballata a tempo di valzer ma suonata con molto vigore: la Price possiede una gran voce ed il brano ha un delizioso sapore anni 60, compreso l’assolo chitarristico in stile twang.

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Weekender è una bella canzone dalla tipica melodia country (ricorda parecchio Dolly Parton), ma con un arrangiamento funk-rock che crea un contrasto interessante (e che voce). Il tutto precede la squisita Wild Women, vivace e coinvolgente country-rock con Emmylou Harris che raggiunge Margo per un duetto tutto da godere https://www.youtube.com/watch?v=DetT8QUvp1w . La Price saluta Emmylou ed invita sul palco l’amico Sturgill Simpson (che tra l’altro ha prodotto il suo ultimo disco) per una rilettura tutta ritmo e chitarre del classico di Rodney Crowell I Ain’t Living Long Like This https://www.youtube.com/watch?v=iw1MOT4W6sc , controbilanciato subito dalla tenue e gentile Revelations, mentre Worthless Gold di country non ha praticamente nulla essendo una rock song elettrica e riffata, che dimostra la versatilità di Margo ed anche la sua grinta.

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Il trascinante honky-tonk medley intitolato Hurtin’ (On The Bottle), in cui compare anche un accenno a Whiskey River di Willie Nelson, fa da apripista per una versione inizialmente rallentata e sinuosa dell’evergreen dei Creedence Proud Mary, quasi come se l’autore invece di Fogerty fosse Tony Joe White https://www.youtube.com/watch?v=IYhYhzjugFU , ma poi arriva una decisa accelerata ed il pezzo assume la veste di un travolgente gospel-rock grazie anche al botta e risposta con il Gale Mayes Nashville Friends Choir. Chiusura con All American Made, slow di quasi otto minuti molto intensi per voce, piano e armonica  https://www.youtube.com/watch?v=E9-ORYUNqhw, l’energico rockin’ country Honey, We Can’t Afford To Look This Cheap, in cui Margo duetta con un acclamatissimo Jack White (co-autore del pezzo) https://www.youtube.com/watch?v=ngyvtmMA_6Q , e con la delicata ballata acustica World’s Greatest Loser. Scusate il bisticcio di parole, ma questo Perfectly Imperfect At The Ryman è un live molto “vivo”, ed un altro bel disco per la bravissima Margo Price.

Marco Verdi

Tra Bluegrass E Country-Rock:The Dillards! Parte II

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Seconda Parte

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Roots And Branches – 1972 United Artists ***1/2

Finito il contratto con la Elektra esce questo album, dove Billy Ray Latham sostituisce Herb Pedersen, prodotto in California da Richard Podolor: ci sono tre brani di Rodney Dillard il resto sono tutte cover, non celeberrime, Redbone Hound con banjo elettrificato ha sonorità inconsuete ma atmosfere tipiche del gruppo, tra country e bluegrass, con le solite eccellenti armonie, Forget Me Not di Bill Martin è una bella ballatona intensa che ricorda il Gene Clark di quel periodo, One A.M. di tale Paul Parrish è comunque un altro brano di buona fattura, elettrico e pulsante. Come pure la piacevole ma inconsistente Last Morning scritta da Shel Silverstein per Dr. Hook & The Medicine Show, Get Out On The Road scritta da Keith Allison del giro Paul Revere, è una sorta di cowboy song elettrica e vibrante, Big Bayou tra Poco e Nitty Gritty, scritta da Gib Gilbeau di Swampwater e Flying Burrito, è una canzone dedicata alla sua Louisiana. Anche I’ve Been Hurt scritta da Gary Itri, che francamente non conosco, si ascolta con piacere, come la successiva Billy Jack scritta da Rodney, che firma anche la conclusiva a cappella Man Of Costant Sorrow, non quella di Dylan parrebbe, per quanto. Stranamente questo è l’unico disco dei Dillards ad entrare nelle classifiche di vendita americane https://www.youtube.com/watch?v=g0S_iI3AJgU . L’anno successivo esce per la Poppy, l’etichetta di Townes Van Zandt

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Tribute To The American Duck – 1973 Poppy/U.A.***

Mitch Jayne molto meno impegnato come bassista, firma con Dillard e Webb ben sei brani, ed è la voce solista nella conclusiva What’s Time A Hog, che si poteva evitare : la formula e la formazione sono le stesse del disco precedente, meno i risultati. Anche in questo caso c’è una ripresa elettrica della vecchia Dooley, e tra i brani nuovi, molti non memorabili, si salvano a fatica l’iniziale Music Is Music, Caney Creek, la morbida Love Has Gone Away, il veloce bluegrass You’ve Gotta Be Strong, arrivando alla sufficienza di stima https://www.youtube.com/watch?v=CBuxBK4NVlk .

La “Seconda Ondata” 1977-1981

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Dopo una pausa di 4 anni i Dillards ci riprovano di nuovo: non c’è più Mitch Jayne che ha lasciato il gruppo nel 1974, a causa di una parziale sordità (ma negli anni va e viene), sostituito da Jeff Gilkinson. La qualità dei dischi inizia a declinare, in modo lento ma quasi inesorabile, però ci sono ancora dischi di buona qualità e soprassalti di eccellenza: The Dillards vs. The Incredible L.A. Time Machine – 1977 Flying Fish ***ha i suoi momenti, come l’iniziale Gunman’s Code, scritta da Larry Murray, Do, Magnolia, Do scritta da Severine Browne, fratello di Jackson, la delicata Softly cantata dal suo autore Gilkinson, che spesso è la voce solista al posto di Rodney, Old Cane Press che rimanda al vecchio bluegrass della band, e la conclusiva Let The Music Flow, l’unica scritta da Dillard https://www.youtube.com/watch?v=6ef9sXfv_Tk , me niente per cui strapparsi le vesti, comunque un disco dignitoso, mai uscito in CD.

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Decade Waltz – 1979 Flying Fish *** Vede il rientro in formazione di Herb Pedersen, mentre Latham viene sostituito dal multistrumentista Douglas Bounsall a mandolino, violino, chitarre e voce. Producono Pedersen e Dillard: una bella versione di Greenback Dollar, Easy Ride di Pedersen, la “parodia” Gruelin’ Banjos, e due altri brani di Gilkinson, Hymn To The Road e Mason Dixon, e la solita cover dei Beatles We Can Work It Out https://www.youtube.com/watch?v=zu24jfOot-w , tra i momenti salienti.

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Lo stesso anno esce Mountain Rock – 1979 Crystal Clear/Sierra/Laserlight ***1/2 un disco curioso, perché fu registrato con la tecnica del direct-to-disk, in pratica un live in presa diretta, stessa formazione con Bounsall cha lascia il violino a Ray Parks: probabilmente il disco migliore del periodo, con l’ottima Caney Creek ad aprire, tra mandolino, violino, steel ed elettrica, ottime il bluegrass spericolato di Don’t You Cry, la cover di Reason To Believe di Tim Hardin con Gilkinson all’armonica. Le riprese di Big Bayou di Guilbeau e I’ve Just Seen A Face dei Beatles hanno echi del vecchio splendore, come pure High Sierra di Pedersen, uno strumentale bluegrass vorticoso, Fields Have Turned Brown della Carter Family, con le vecchie armonie vocali di nuovo magicamente in azione https://www.youtube.com/watch?v=5KF7wKLUHn0&t=3s . Nella versione in CD viene aggiunta anche una colossale versione di oltre 12 minuti di Orange Blossom Special.

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L’ultimo disco del periodo è Homecoming and Family Reunion – 1981 Flying Fish ***, con tutta la famiglia Dillard e vecchi e nuovi membri della band: torna Doug, ma ci sono anche Homer Dillard Sr. E Jr., Earl Jay, Brian, Earline (Sissy), Linda, ma quanti sono, spero di averli citati tutti, presenti pure John Hartford, Mitch Jayne, Herb Pedersen, Dean Webb, Jeff Gilkinson e altri, per una sorta di celebrazione cumulativa di tutta la famiglia allargata, dubito sulla reperibilità, ma mai dire mai. Per la più parte si tratta di un ritorno ai suoni tradizionali del passato, il tutto registrato dal vivo: il repertorio, dove i vari protagonisti si alternano alla guida, è costituito da traditionals, con l’eccezione delle ultime tre canzoni Old Man At The Mill, Listen To The Sound, Daddy Was A Mover, scritte da Doug, Rodney, Mitch Jayne e Herb Petersen. Poi per tutta la decade anni ‘80 un lungo silenzio, fino al

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L’Utimo” Ritorno 1990-1992

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Let It Fly – 1990 Vanguard ***1/2 Per quella che avrebbe potuto essere l’ultima avventura della band, a fianco dei veterani Rodney Dillard, Dean Webb e Mitch Jayne, arriva anche Steve Cooley, mentre Herb Pedersen, che produce l’album, suona anche le chitarre, il dobro e canta in molti brani. Il disco presenta pezzi nuovi e anche versioni rivisitate di loro classici: in Darlin’ Boys una pimpante canzone scritta da Jayne/Dillard/Pedersen, canta Rodney, mentre Byron Berline è al violino; molto bella anche la ripresa di Close The Door Lightly di Eric Andersen, un ennesimo perfetto esempio del loro country-rock, Old Train scritta e cantata da Pedersen, è un’altra eccellente bluegrass song, Big Ship è una ballata corale cantata di nuovo da Rodney, come la successiva, delicata Missing You. In Out On A Limb, altra ottima country song, fa la sua apparizione la pedal steel di Tom Brumley, mentre la band indulge nella proprie classiche armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=f43pO8eOElY , eccellente picking in Ozark Nights, mentre Tears Won’t Dry In The Rain ha un approccio quasi cantautorale con la bella voce di Dillard in evidenza e Brumley va di nuovo di steel, seguita da un altro ottimo esempio di country-rock come Livin’ In The House, scritta da Chris Hillman, e non manca neppure un Bob Dylan d’annata come quello interpretato in One Too Many Mornings, “dillardizzato” alla grande https://www.youtube.com/watch?v=2HMhj-_Nlq0 , e per concludere un album tra i loro migliori, molto bella anche la title track Let It Fly, altro brano di impianto bluegrass progressivo, con Cooley a banjo ed acustica, Berline al violino e Dean Webb al mandolino, cantata ancora un ispirato Rodney Dillard https://www.youtube.com/watch?v=GWhrh95DN7w , voce solista anche nella collettiva Wizard Of Song, altro brano elettroacustico di eccellente fattura.

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Take Me Along For The Ride 1992 Vanguard ***1/2 sarebbe stato l’ultimo capitolo della loro lunga saga (a parte un Live e una antologia) se non ci fosse stato, come ricordato all’inizio, il clamoroso recente ritorno targato 2020 dell’ottimo Old Road New Again di cui avete letto qualche numero fa sul Buscadero. Venendo a Take Me Along For A Ride, siamo di fronte ad un altro buon album, stessa formazione, senza Pedersen e con Cooley e Rodney alla produzione: con il jingle- jangle dell’iniziale Someone’s Throwing Stones https://www.youtube.com/watch?v=F8QPRkEYhUE , l’immancabile canzone dei Beatles, questa volta In My Life https://www.youtube.com/watch?v=289K0Z4BP0E , Like A Hurricane, non quella di Neil Young, ma il brano di Pat Alger, Take Me Along For A Ride sembra un brano dei primi Eagles https://www.youtube.com/watch?v=O7j8wEep_lk , Against The Grain un folk-rock elettrico, Hearts Overflowing un’altra tipica loro ballata mid-tempo, Banks Of The Rouge Bayou sempre nella linea sonora del passato, rivisitato anche nello strumentale bluegrass Wide Wide Dixie Highway e nella cristallina country song Food On The Table. Nel complesso un altro buon album, leggermente inferiore al precedente. Direi che è tutto, si spera di non dover aspettare altri 28 anni per il prossimo album, perché non credo che ce la potremo fare.

Bruno Conti

Tra Bluegrass E Country-Rock:The Dillards! Parte I

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Quando nel 1963 appaiono nello show televisivo The Andy Griffith Show, come l’immaginaria famiglia Darling, i Dillards contribuiscono alla diffusione del genere bluegrass, uno stile musicale che alla sua apparizione negli anni ‘40, attraverso la personalità carismatica di Earl Scruggs (nel cui gruppo militava anche Lester Flatt) e quella dei loro arci rivali The Stanley Brothers, aveva vissuto una prima lunga fase di popolarità, inserita nel filone tra folk ed hillbilly music, e con influenze anche di old-time music, tutti influenzati da quello che fu definito “The Father Of Bluegrass”, ovvero Bill Monroe.

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Nei primi tre album, pubblicati tra il 1963 e il 1965 la band sfruttò anche la sempre più popolare presenza del Festival di Newport, che da jazz era diventato Folk, ma accoglieva anche blues, i primi gruppi, strumentali e vocali, e vari sottogeneri. Forti di un contratto con la Elektra, una delle etichette più “avventurose” dell’epoca, il quartetto iniziò a pubblicare tre album, prodotti da Jim Dickson (futuro manager e mentore dei Byrds e tra i “colpevoli” dell’avvento del country-rock). Anche nel loro caso l’occasione per (ri)parlare del gruppo è stata la recente uscita di un nuovo CD Old Road New Again, dopo un silenzio discografico durato quasi 30 anni e interrotto solo da alcune antologie e da una certa attività concertistica, rallentata negli anni, ma mai cessata del tutto https://www.youtube.com/watch?v=S6VJDEVWUrs .

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Le origini 1963-1965

La band era formata da Rodney Dillard, voce solista e chitarra acustica, dal fratello Doug, virtuoso del banjo, Dean Webb al mandolino e Mitchell Jayne al contrabbasso.

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Back Porch Bluegrass – 1963 Elektra ***1/2

è il loro esordio, quindici brani per 32 minuti scarsi, con le canzoni che come per il coevo R&R faticavano a superare i due minuti. Un misto di materiale tradizionale e qualche composizione originale, tra i brani contenuti c’era una delle prime versioni discografiche di quella Duelin’ Banjo che qualche anno dopo https://www.youtube.com/watch?v=F0rTTgcK0rg , con una s in più nel titolo, nella colonna sonora di Un Tranquillo Week-end di Paura (titolo originale Deliverance) avrebbe avuto un successo clamoroso. Ma già allora i quattro musicisti del gruppo affrontavano i loro brani a velocità siderali, con banjo, mandolino, chitarra e basso che si inseguivano e si inerpicavano in incroci strabilianti, come nella iniziale strumentale Old Joseph https://www.youtube.com/watch?v=b77s8n-KvYo  e nel brano appena citato, ma anche nei pezzi cantati erano ottimi, grazie alle intricate armonie vocali come in Somebody Touched Me https://www.youtube.com/watch?v=1ANStAB_7SU , in canzoni dove il tempo rallentava come Polly Vaughan, nei quali il folk tradizionale anglo-scoto-irandese incontra la musica dei Monti Appalachi https://www.youtube.com/watch?v=PTvFBqQt2CA , discorso che vale non solo per questo brano ma per tutta la musica bluegrass dei Dillards. Quando è il banjo a guidare, come in Banjo In The Hollow, Hickory Hollow o nella più lenta Doug’s Tune, il mandolino insegue affannosamente, ma chi ascolta si diverte comunque; ogni tanto Rodney , Dean e Mitch riescono ad infilare qualche loro composizione, ma nell’insieme il gruppo è molto unito e la musica scorre senza soluzione di continuità.

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Live…Almost!!! – 1964 Elektra ***1/2

Per il “difficile”secondo album giocano subito la carta del disco dal vivo, registrato alla Mecca di Los Angeles, di fronte ad un pubblico che chiaramente apprezza il virtuosismo dei quattro: confrontato con le regole del mercato, poi codificate negli anni a venire, non c’è neppure un brano già presente nel disco precedente, il concetto di promozione, forse esclusi i nomi importantissimi che apparivano in TV o all’interno dei film, era del tutto sconosciuto all’epoca, soprattutto per chi non faceva musica “commerciale”. E quindi ecco scorrere una selezione di 13 brani, al solito un misto di traditionals e materiale originale: la qualità del suono, per essere un live del 1964 è eccellente, si parte a tutta birra con lo strumentale Black Eyed Susie, il pubblico apprezza anche le battute della band, che si presentano come un gruppo di hillbillies https://www.youtube.com/watch?v=VMZ_3lx4eAU , benché vengano da Missouri e Indiana, ma sono già temprati dalle esperienze televisive come Darling e molto disinvolti, comunque un po’ di nostalgia di casa traspare, come testimonia la bella Never See My Home Again https://www.youtube.com/watch?v=bVZR7uZiC-I , scritta da Rodney e Mitch, autori anche della successiva There Is A Time, dove l’approccio si fa più ricercato, anche grazie alle armonie vocali che affiancano l’immancabile virtuosismo strumentale https://www.youtube.com/watch?v=sXFG5KCbl8k .

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Old Blue è l’occasione per presentare un brano sentito girando per Festival, attraverso le interpretazioni di Joan Baez e Pete Seeger, forse gli intermezzi parlati sono fin troppo lunghi https://www.youtube.com/watch?v=RMw2Fdylb4E , ma la musica fluisce sempre in modo brillante; Sinkin’ Creek è un altro strumentale eccellente di Doug, mentre The Whole World Round, scritta da Mitch Jayne è ispirata dagli Ozarks, mountain music di squisita fattura, prima di ripartire a tutta velocità con lo strumentale Liberty e con la cover della celeberrima Dixie Breakdown di Don Reno, dove gli intrecci degli strumenti sono fantastici. Nel frattempo hanno scoperto anche “Bobby” Dylan (giuro!), di cui rifanno in chiave bluegrass una deliziosa Walkin’ Down The Line https://www.youtube.com/watch?v=jynISJFUpmg  e dal folk tradizionale pescano anche la bellissima Pretty Polly, al solito con la presentazione più lunga della canzone. Nel 1965 la band si trova presa tra due fuochi: da una parte il loro desiderio di innovare il suono, con le nuove tendenze in ambito country e dintorni, dall’altra la richiesta della Elektra (e dei loro fans più tradizionalisti) di avere un nuovo disco strettamente di bluegrass. A questo punto, obtorto collo, decidono di registrare un nuovo album tutto di brani strumentali unendo le forze con l’amico Byron Berline, un violinista che era tra i talenti emergenti del settore, in modo che tutti, letteralmente nelle parole di Rodney Dillard all’epoca “si potessero prendere il disco e infilarselo su per il c…”, se mi passate il francesismo. Comunque

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Pickin’ & Fiddlin’ with Byron Berline – 1965 Elektra ***1/2

Al di là delle premesse, è un signor disco come gli altri, anzi, con l’aggiunta di un violinista gli interscambi tra i vari musicisti si fanno ancora più intricati e gli appassionati, benché un po’ doloranti per dove se lo erano dovuto infilare, godettero comunque. Scusate per i commenti scatologici, la musica rimane eccellente: il violino spesso guida le danze, dall’iniziale Hamilton County passando per Fisher’s Hornpipe, Paddy On The Turnpike, le variazioni di Jazz Bow Rag, la divertente Tom And Jerry, la cowboy song Cotton Patch, la giga Durang’s Hornpipe e così via, forse un po’ ripetitivo, per cercare il pelo nell’uovo, ma molto godibile https://www.youtube.com/watch?v=Wz13efY5kIw . Per chi volesse i tre album insieme si trovano riuniti in un doppio CD della BGO, che vedete sopra.

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A questo punto, per preparare la svolta, iniziano a girare dal vivo insieme ai Byrds, con Doug Dillard che dal banjo passa ad una versione elettrica dello strumento costruita dalla Rickenbacker e aggiungono il futuro batterista dei Buffalo Springfield Dewey Martin, ma Doug non è d’accordo con la nuova direzione della band e lascia, curiosamente per andare a suonare lo stesso tipo di musica nel duo Dillard And Clark https://www.youtube.com/watch?v=ai31IX3vBrE , ma come direbbe Obelix, SPQM, Sono Pazzi Questi Musicisti https://www.youtube.com/watch?v=KMtCrVUtmDg . E così rinnovata la fiducia con la Elektra con un nuovo contratto si passa

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Dal Bluegrass Al Country-Rock 1968-1970

Anche se il genere venne presentato come progressive bluegrass, tra di noi possiamo dircelo era country-rock.

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Wheatstraw Suite – 1968 Elektra ****

Certo gli elementi bluegrass non mancano, ma erano comunque presenti anche in parecchie altre band che iniziavano ad approcciare lo stile: al posto di Doug Dillard arriva l’ottimo Herb Pedersen, voce solista, chitarra ritmica e banio, Rodney Dillard aggiunge chitarra elettrica, dobro e pedal steel, e mentre Dean Webb mandolino e Mitch Jayne contrabbasso rimangono l’area più tradizionalista del gruppo, come ospiti appaiono Buddy Emmons alla pedal steel, Joe Osborn al basso elettrico e alla batteria si alternano Toxey French e Jim Gordon, da lì a poco con Derek And Dominos. Sono solo 13 brani, neppure 28 minuti in tutto, ma insieme al disco della International Subamarine Band di Gram Parsons, ai primi dischi della Nitty Gritty, ai Byrds di Sweetheart Of The Rodeo, gli Everly Brothers di Roots, furono tra i primi ad inquadrare il genere country-rock che poi sarebbe esploso nel 1969. La breve I’ll Fly Away cantata a cappella, è una vecchia gospel song, ma è l’occasione per gustare subito le armonie vocali dei “nuovi” Dillards, Nobody Knows è splendida, banjo e mandolino convivono con il sound più elettrico, la melodia è deliziosa, la parte cantata pure, in Hey Boys la parte bluegrass è ancora prevalente, ma l’approccio è più moderno e meno tradizionale e rigoroso guardate il video live a Playboy After Dark (!!!) https://www.youtube.com/watch?v=PfUpQsGCInE , The Biggest Whatever anticipa Poco e Flying Burrito Brothers (con qualche rimando ai Buffalo Springfield) grazie alla bella voce di Rodney e anche Herb Pedersen ci regala una dolcissima ballata come Listen To The Sound, con qualche piccolo tocco orchestrale, mentre Little Pete anticipa, a tutta pedal steel, quanto farà 20 anni dopo con la Desert Rose Band. Tra le cover spiccano una affascinante e corale Reason To Believe, sempre con uso di archi https://www.youtube.com/watch?v=r4YHyqdUyXw , e anche I’ve Just Seen A Face dei Beatles si presta alla perfezione al sound dei Dillards https://www.youtube.com/watch?v=oAzRJ6vcSdY . Troviamo qualche riempitivo ma nell’insieme il disco è veramente molto bello, ottimo anche il bluegrass -rock di Don’t You Cry e la grande ballata country She Sang Hymns Out Of Time scritta da Jesse Lee Kincaid https://www.youtube.com/watch?v=blihFiUvX0s . Come ottimo è pure il successivo album

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Copperfields – 1970 Elektra ****

Il suono si fa più elettrico, Andy York è il nuovo batterista, Herb Pedersen suona anche la chitarra elettrica e il nuovo produttore John Boylan anticipa i suoi futuri lavori con Linda Ronstadt, Pure Prairie League e Commander Cody. Apre una bella cover di Rainmaker di Harry Nilsson, tra guizzanti steel e chitarre elettriche, oltre alle solite eccellenti armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=xOQT3ivUoKM , segue l’elettroacustica In Our Time di Rodney Dillard che ricorda di nuovo i primi Poco  , e The Old Man At The Mill, un brano firmato coralmente dalla band, con l’aggiunta di Pedersen, già presente come traditional nel primo album del gruppo, qui banjo e mandolino sono ancora gli strumenti principali ma il suono è elettrificato. Touch Her If You Can, con una leggera orchestrazione, sembra quasi un pezzo di CSN https://www.youtube.com/watch?v=vIKvWidhbxY , mentre l’incalzante Woman Turn Around è un tipico country-rock dell’epoca, seguito da una cover di Yesterday dei Beatles, cantata a cappella dalla band in una suggestiva rilettura https://www.youtube.com/watch?v=SphbXd6-IuY , mentre Brother John e Copperfields di Herb Pedersen sembrano quasi dei brani di David Crosby o Gene Clark, entrambi molto belli. West Montana Hanna di Jayne e Pedersen si regge sempre sulle armonie a tre/quattro parti tipiche dei Dillards https://www.youtube.com/watch?v=Cn7maErbtgQ , che poi affrontano la squisita Close The Door Lightly di Eric Andersen, sempre con pedal steel pronta alla bisogna https://www.youtube.com/watch?v=M38LUKpfFkE . Pictures è una avvolgente ballata di stampo westcoastiano, con acustiche arpeggiate e la voce delicata di Doug in evidenza, mentre Ebo Walker, con Byron Berline ospite al violino, dedicata al futuro membro dei New Grass Revival, è effettivamente un bluegrass progressivo, e la conclusiva Sundown di Pedersen è una malinconica ed epica ballata strumentale.

Fine prima parte, segue…

Bruno Conti

Meno Male Che I Dischi Belli Li Sa Ancora Fare! Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 1

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Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 1 – High Top Mountain/Thirty Tigers CD

Dire che Sturgill Simpson, dopo gli esordi con i Sunday Valley (con i quali comunque non ha mai pubblicato alcunché), ha avuto una carriera qualitativamente altalenante è usare un eufemismo. Infatti dopo i primi due ottimi album di puro Outlaw Country il musicista del Kentucky ha spiazzato un po’ tutti nel 2016 con A Sailor’s Guide To Earth, nel quale deviava decisamente verso un pop-errebi dal suono fine anni sessanta, un lavoro più sulla falsariga di Anderson East e Nathaniel Rateliff senza però essere a quei livelli. Non un brutto disco, ma una digressione inattesa che poteva far venire qualche dubbio su chi fosse il vero Simpson; le incertezze sono poi cresciute a dismisura nel 2019, quando Sturgill ha pubblicato il pessimo Sound & Fury, un album orripilante a base di hard rock, grunge, dance e rock elettronico che lo aveva ancora più allontanato dai fans della prima ora senza peraltro fargliene acquisire di nuovi https://discoclub.myblog.it/2019/11/08/probabilmente-uno-dei-dischi-piu-brutti-dellanno-sturgill-simpson-sound-fury/ .

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Quest’anno il nostro ha prodotto l’eccellente terzo album di Margo Price, That’s How Rumors Get Started https://discoclub.myblog.it/2020/07/11/nuovi-e-splendidi-album-al-femminile-parte-1-margo-price-thats-how-rumors-get-started/ , e poche settimane fa ha dato alle stampe un po’ a sorpresa un album di puro bluegrass, inciso nei piccoli Butcher Shoppe Studios di Nashville insieme ad un manipolo di accompagnatori noti (Stuart Duncan al violino, Mark Howard e Tim O’Brien alle chitarre, la cantautrice Sierra Hull alla voce e mandolino) e meno noti (Mike Bub al basso, Scott Vestal al banjo e Miles Miller alle percussioni). Cuttin’ Grass Vol. 1 è un disco assolutamente sorprendente, che ci rivela l’ennesimo lato musicale di Sturgill: non si tratta infatti di un album di country music moderna con elementi bluegrass, bensì un lavoro di puro bluegrass al 100%, suonato e cantato come si faceva in mezzo alle montagne circa 60-70 anni fa. E, cosa più importante, il disco risulta bello e credibile, suonato benissimo e cantato in maniera ottima dal leader che dimostra quindi di non avere abbandonato la retta via.

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Non ci sono canzoni nuove in Cuttin’ Grass Vol. 1 (mentre scrivo queste righe è già uscito il secondo volume, ma solo in streaming, per il fisico bisognerà aspettare l’aprile 2021), né brani appartenenti alla tradizione: Simpson infatti ha scelto venti canzoni dai suoi dischi passati (ma niente da Sound & Fury), aggiungendo perfino qualche cosa dei Sunday Valley, e le ha riarrangiate in stile bluegrass facendole sembrare composizioni scritte apposta per questo progetto e dimostrando anche di avere una voce decisamente duttile ed un’attitudine da vero tradizionalista. Nel CD trovano spazio ballate cristalline come All Around You https://www.youtube.com/watch?v=kXGugEWmnSg , Breakers Roar (ariosa e splendida), le nostalgiche I Don’t Mind https://www.youtube.com/watch?v=xYcmf9cRp7A  e I Wonder, il valzer d’altri tempi Old King Coal, la western-oriented Voices e la malinconica Water In A Well.

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Ma soprattutto ci sono brani dal ritmo coinvolgente (sia con che senza le percussioni) e gran dispendio di assoli di chitarre, violino, mandolino e banjo, come All The Pretty Colors, Just Let Go, Life Ain’t Fair And The World Is Mean (deliziosa) https://www.youtube.com/watch?v=HQ2i54in27Q , A Little Light, puro esempio di mountain music con elementi gospel, la super-tradizionale Long White Line (unica non scritta da Sturgill ma da Buford Abner, uno dei padri del bluegrass), che sembra quasi fondersi con la scintillante Living The Dream, Sometimes Wine, che conta su strepitose performance strumentali https://www.youtube.com/watch?v=_oTovhnxDg4 , o pezzi ritmicamente forsennati come Railroad Of Sin e The Storm. Senza tralasciare Time After All e Turtles All The Way Down che hanno due tra le melodie più dirette ed orecchiabili del CD.

Con Cuttin’ Grass Vol. 1 Sturgill Simpson ha dunque dimostrato di essere ancora in grado di dire la sua, anche se questo saltare di palo in frasca non mi lascia del tutto tranquillo per il futuro.

Marco Verdi

Due Splendidi Tributi Ad Altrettante Icone Del Country. Parte Seconda: Willie Nelson

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VV.AA. – Willie Nelson: American Outlaw – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

Dopo aver parlato dello splendido concerto-tributo a Merle Haggard, oggi mi occupo dell’analoga operazione dedicata a Willie Nelson, uno show all-star svoltosi anche questo alla Bridgestone Arena di Nashville ma il 12 gennaio del 2019. Rispetto all’omaggio a Merle qui c’è una differenza “abbastanza” importante, e cioè che là si pagava il giusto tributo ad un grande artista scomparso esattamente un anno prima, mentre nel caso di Nelson il festeggiato è ancora vivo e vegeto, e soprattutto è presente sul palco per tutta la seconda metà del concerto. E, seppur di poco, questo doppio CD (volendo anche con DVD) è superiore anche a quello dedicato a Haggard, sia per la tracklist che comprende anche classici non scritti da Willie ma da lui interpretati in passato, sia per il cast che è ancora più di alto profilo che nel primo caso. La house band è come al solito guidata dal bassista Don Was, e comprende fra gli altri la bella e brava Amanda Shires al violino, Jamey Johnson e Audley Freed alle chitarre, il maestro della steel guitar Paul Franklin e lo storico partner di Nelson Mickey Raphael all’armonica.

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Un concerto quindi da godere dalla prima all’ultima canzone, con diverse prestazioni di altissimo livello. Come nei concerti di Willie si comincia con Whiskey River, canzone trasformata quasi in un southern rock dal vocione di Chris Stapleton e da un accompagnamento strumentale robusto https://www.youtube.com/watch?v=xJlw93PLCRY ; Lee Ann Womack fornisce una performance trascinante e piena di grinta con l’honky-tonk Three Days (e che voce), mentre la coppia Steve Earle-Margo Price ci delizia con un ottimo medley di puro country’n’roll tra Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint https://www.youtube.com/watch?v=bUyVRoL0FT0 . Altro medley, stavolta fra I Thought About You Lord, Time Of The Preacher e Hands On The Wheel, con i due figli di Willie, Lukas e Micah Nelson, al centro del palco (e se la cavano splendidamente, con l’ugola di Lukas che sembra davvero una versione giovane di quella del padre); poi arriva Nathaniel Rateliff che si conferma un grande vocalist con una formidabile rilettura del classico di Leon Russell A Song For You https://www.youtube.com/watch?v=0V8MpRmsmFg . Il duo Lyle Lovett-Ray Benson rilegge Shotgun Willie mescolando in maniera goduriosa rock, blues e gospel https://www.youtube.com/watch?v=wUsviEoiKcc , Vince Gill va sul velluto con la sua voce morbida, e Blue Eyes Crying In The Rain sembra scritta apposta per lui, mentre il classico di Ray Charles (ma l’ha fatta anche Willie) Georgia On My Mind brilla di nuova luce nelle sapienti mani di Jamey Johnson, in una versione che è puro southern soul https://www.youtube.com/watch?v=C7XIHrP1o2w .

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Ed ecco proprio Willie, che insieme ai coniugi Susan Tedeschi e Derek Trucks ci regala una strepitosa City Of New Orleans di Steve Goodman (ma come canta Susan!) https://www.youtube.com/watch?v=JNS9-EHwS5k , e vengono seguiti dagli Avett Brothers in una travolgente ripresa bluegrass di Bloody Mary Morning suonata ai mille all’ora e dalla brava Norah Jones che insieme ai Little Willies si conferma artista raffinata con una swingata ed elegante I Gotta Get Drunk. Il primo CD si chiude con Jack Johnson che propone la sua Willie Got Me Stoned, niente di speciale, ed Eric Church che non è un fenomeno ma con Me And Paul se la cava abbastanza bene. Le undici canzoni del secondo dischetto vedono tutte quante il padrone di casa protagonista di una serie di duetti: la voce di Willie non è più quella di un tempo, a volte sembra quasi non arrivarci più, ma questo paradossalmente rende il tutto ancora più emozionante e vero. La languida Crazy viene riproposta insieme a Dave Matthews, la cui voce non ho mai potuto soffrire molto, mentre la gustosa honky-tonk song After The Fire Is Gone vede il nostro insieme a Sheryl Crow, ed il risultato è già migliore. La stupenda Pancho & Lefty è rifatta insieme alla meravigliosa Emmylou Harris  https://www.youtube.com/watch?v=FnFGYNPK5g4 (scusate gli aggettivi, ma sono innamorato di Emmylou da quando i miei ormoni hanno iniziato a fare il loro dovere), ed i due vengono raggiunti da Rodney Crowell che porta in dote la fulgida Till I Gain Control Again https://www.youtube.com/watch?v=UCSmqi2-uXk .

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E’ il momento di un incontro di leggende (texane), in quanto sale sul palco Kris Kristofferson che intona la sua Me And Bobby McGee con Willie che fa da backing vocalist: puro carisma (c’è anche Church, ma c’entra come i cavoli a merenda); Jimmy Buffett porta nella serata un po’ di Caraibi con una versione solare dell’evergreen di Jimmy Cliff The Harder They Come, mentre Always On My Mind (successo di Elvis ma anche di Willie) vede Nelson fare un po’ di fatica con la voce, ma ci pensa Stapleton ad aiutarlo, con Trucks che ricama sullo sfondo per una rilettura decisamente toccante. Arriva George Strait che prima duetta con il nostro sulle note della sua recente hit Sing One With Willie https://www.youtube.com/watch?v=nBilEaAM5Go , e poi fa le veci di Waylon in una solida e vigorosa Good Hearted Woman https://www.youtube.com/watch?v=S4k4TZAQdyg . Finale altamente coinvolgente con tutti quanti on stage per la sempre splendida On The Road Again https://www.youtube.com/watch?v=UpEAQEz-EN8  ed una pimpante Roll Me Up And Smoke Me When I Die, titolo perfetto per chiudere una serata dedicata ad uno degli ultimi fuorilegge rimasti.

Marco Verdi

Tra Texas E Louisiana Un Altro “Sfizioso” Artista Di Culto Da Scoprire. Johnny Nicholas – Mistaken Identity

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Johnny Nicholas – Mistaken Identity – Valcour Records

Nel CV di Johnny Nicholas una delle prime cose che viene evidenziata è quella di essere stato un componente degli Asleep At The Wheel: ma poi se approfondiamo scopriamo che Nicholas ha fatto parte della band solo dal 1978 al 1981, apparendo in un disco, il pur ottimo Served Live, dove cantava alcuni brani e suonava chitarra ritmica, piano e armonica, non in un ruolo di primo piano. Questo non per dire che non sia bravo, tutt’altro, ma quanto spesso le biografie siano fuorvianti. Il buon Johnny appartiene anche lui alla categoria dei “diversamente giovani”, avendo ormai superato i 70 anni; una lunga carriera che negli inizi di metà anni ‘60 lo vede nel Rhode Island con la Black Cat Blues Band insieme a Duke Robillard, poi passando brevemente per la California, arriva a Chicago e suona con Big Walter Horton e Robert Lockwood Jr., in seguito di nuovo nel Rhode Island in una band con Ronnie Earl, a questo punto arriva l’esperienza con gli Asleep, ma anche “visite musicali” dalle parti della Louisiana, e che ti fa poi il buon Johnny?

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Si ritira per dieci anni per formare e crescere una famiglia, si apre una stazione di servizio, trasformata in ristorante, nel Sud del Texas, ma a inizio anni ‘90 torna alla musica blues, accompagnando Johnny Shines e Snooky Pryor, e proseguendo nella propria carriera solista, che ad oggi consta di otto album, non conosciutissimi ma tutti di buona fattura, benché di non facile reperibilità. Ed eccoci arrivati a questo Mistaken Identity, prodotto dal vecchio amico della Louisiana, il maestro di cajun Joel Savoy, registrato quasi tutto in presa diretta con una piccola pattuglia di ottimi musicisti texani, Scrappy Jud Newcomb (del giro Austin dei Loose Diamonds) a chitarre e mandolino, il bravissimo bassista Chis Maresh (di recente nel Live di David Grissom) e il batterista John Chipman, più alcuni ospiti tra cui spiccano Max e Josh Baca a bajo sexto e accordion, Chris Stafford e Eric Adcock alle tastiere e un gruppetto di vocalist aggiunti.

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Genere musicale potremmo dire blues contemporaneo, con forti componenti roots: Nicholas si scrive quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di una bellissima cover di River Runs Deep del compianto Stephen Bruton, posta in chiusura e che da sola vale quasi l’acquisto, un piccolo capolavoro di equilibri sonori, una ballata soffice e sinuosa che profuma di Sud, dove la slide della resonator di Nicholas interagisce con organo e la chitarra di Newcomb e con la voce vissuta ma sicura dello stesso Johnny https://www.youtube.com/watch?v=fmModwL0kZE  Il resto del disco è a tratti decisamente più bluesato, dall’elettrica e grintosa She Stole My Mojo con elementi di southern rock, tra bottleneck e armoniche insinuanti, a Mule And The Devil, più polverosa e sottile, tra mandolini, clavinet, il violino di Savoy e l’armonica con un’aria pigra e indolenta che rimanda sempre alle amate atmosfere roots https://www.youtube.com/watch?v=dUY2lVS44AQ , con il resto della band a far quadrare il cerchio del suono. Spark To A Flame inserisce anche elementi country e l’uso di voci femminili per completare un quadro sonoro più complesso, dove strumenti acustici ed elettrici si intrecciano con grande facilità https://www.youtube.com/watch?v=W3y994qiQ38 , mentre la title track, con un pianino barrelhouse a guidare le danze, sembra uscire da qualche disco di New Orleans, con tocchi R&B e soul, rimandi a Dr. John e JJ Cale, entrambi maestri del laidback sound, e anche qualche tocco sardonico di Randy Newman nella voce di Nicholas https://www.youtube.com/watch?v=4ep4GBzrO0E .

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Deliziosa pure Guadalupe’s Prayer dove bajo sexto e chitarre acustico mi hanno ricordato il suono di un altro grande “sudista di culto” come Grayson Capps  . I Wanna Be Your Baby è un bel blues-rock sempre pigro e indolente, ma con le chitarre decisamente presenti https://www.youtube.com/watch?v=NphjhMBTJY8 , e nella divertente Tight Pants si vira verso il R&R e ritmi molto più mossi e trascinanti, per farsi di nuovo riflessivi e malinconici in una storia tipica della Louisiana come She Didn’t Think Of Me That Way, nella quale l’accordion di Josh Baca e il resonator aggiungono ulteriori tocchi bajou a questa incantevole ballata https://www.youtube.com/watch?v=RKSE9JYkGWc , con Highway 190 che oscilla tra coretti doo-wop e old school R&R, un po’ Chuck Berry e un po’ Fats Domino, comunque assai godibile, come peraltro tutto il disco, della serie non solo blues: da scoprire.

Bruno Conti

Il 2020 Non E’ Ancora Finito: Il Giorno Di Natale E’ Morto Tony Rice, Maestro Del Bluegrass.

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Questo maledetto 2020 è agli sgoccioli, ma non ha ancora terminato di far sentire in maniera nefasta la sua presenza: tre giorni dopo la scomparsa di Leslie West dobbiamo infatti registrare un’altra grave perdita nel mondo della nostra musica, in quanto il giorno di Natale si è spento all’età di 69 anni (pare di infarto mentre si faceva il caffé, ma erano anni che si trascinava vari problemi di salute) David Anthony Rice, meglio conosciuto come Tony Rice, chitarrista acustico sopraffino ed uno dei musicisti più influenti di sempre in ambito bluegrass https://www.youtube.com/watch?v=-GdfCNKuJzo . Nato in Virginia ma cresciuto in California in una famiglia che mangiava pane e musica, il giovane Tony si interessa da subito al genere bluegrass che è anche il preferito dal padre Herb, ed in particolare all’opera dei Kentucky Colonels, band nella quale milita il futuro Byrd Clarence White. Diventato in pochi anni un eccellente chitarrista, Rice nel 1970 si sposta in Kentucky dove entra a far parte prima dei Bluegrass Alliance ed in seguito dei New South di J.D. Crowe, un gruppo in cui militano anche nomi del calibro di Jerry Douglas al dobro e Ricky Skaggs al mandolino, violino e voce: il loro omonimo album del 1974 è considerato uno dei capolavori del bluegrass dell’epoca.

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In particolare il nome di Rice (i cui tre fratelli sono ugualmente musicisti) inizia a circolare nell’ambiente grazie alla sua notevole abilità chitarristica, sviluppata per mezzo della tecnica del “flatpicking”, che consiste nel colpire le corde ad una ad una col plettro tenuto tra pollice ed indice. In pochi anni quindi Tony diventa un musicista molto richiesto ed entra a far parte del David Grisman Quintet, con il quale registra tre album tra il 1977 ed il 1981 ponendo quindi anche il suo marchio nella nascita e sviluppo della cosiddetta “Dawg Music” https://www.youtube.com/watch?v=x05z27blg80 ; ma Rice è anche un abile cantante e quindi comincia a costruirsi una carriera sia come solista che come capo del Tony Rice Unit, attraverso una serie di pregevoli album pubblicati in uno spazio di tempo molto ampio, dal 1973 al 2000 https://www.youtube.com/watch?v=TFBWOvSuCE8 . Come se ciò non bastasse, nel 1981 forma la Bluegrass Album Band, un supergruppo con Crowe, Todd Phillips, Doyle Lawson e Bobby Hicks, i quali si occupano di riprendere classici del passato di gente come Bill Monroe, Lester Flatt, Earl Scruggs, Ralph Stanley ed altri: The Bluegrass Album non è un successo di vendite (nulla nel corso della carriera di Rice lo sarà), ma i cinque si divertono a tal punto da pubblicare ben cinque seguiti fino al 1996  https://www.youtube.com/watch?v=8VEmXV8Dx_4.

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Instancabile, Tony riesce a trovare il tempo di registrare due pregevoli album con Norman Blake, altrettanti con i suoi fratelli a nome, appunto, The Rice Brothers, di unirsi a Grisman ed a Jerry Garcia per l’ottimo The Pizza Tapes (inciso nel 1993 e pubblicato nel 2000 https://www.youtube.com/watch?v=TXi5Wh_uDKQ ) e, tra il 1997 ed il 2001, di incidere tre splendidi lavori insieme al fratello Larry Rice, Chris Hillman e Herb Pedersen (Rice, Rice, Hillman & Pedersen: Out On The Woodward, Rice, Rice, Hillman & Pedersen e Runnin’ Wild, uno più bello dell’altro https://www.youtube.com/watch?v=DX0880QYhI8 ). Dulcis in fundo, nel nuovo millennio si unisce ad un altro grande chitarrista, Peter Rowan, per due album, l’ultimo dei quali (Quartet, 2007) è anche l’ultima testimonianza su disco della sua sublime tecnica chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=tyfRpnvbW8I .

Rest in peace, old pickin’ man.

Marco Verdi

Due Splendidi Tributi Ad Altrettante Icone Del Country. Prima Parte: Merle Haggard Sing Me Back Home

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VV.AA. – Sing Me Back Home: The Music Of Merle Haggard – Blackbird 2CD – 2CD/DVD

La Blackbird Records, erichetta responsabile in passato di bellissimi album tributo registrati dal vivo (dedicati a Jerry Garcia, Kris Kristofferson, Mavis Staples, Gregg Allman, Waylon Jennings, Charlie Daniels, Dr. John, Emmylou Harris, Levon Helm e John Lennon), ha deciso quest’anno di regalarci ben due operazioni analoghe, dedicate e altrettante autentiche leggende della country music: Merle Haggard e Willie Nelson. Oggi mi occupo del primo dei due omaggi Sing Me Back Home: The Music Of Merle Haggard, un concerto registrato alla Bridgestone Arena di Nashville (e pubblicato sia in doppio CD che con DVD allegato) in una data che non poteva che essere il 6 aprile, che è il giorno sia di nascita che di morte del countryman californiano: per l’esattezza siamo nel 2017, un anno dopo la scomparsa di Merle e giorno del suo ottantesimo compleanno. La house band è un mix tra gli Strangers, gruppo che era solito accompagnare Merle dal vivo, e musicisti come Don Was, Sam Bush ed il figlio del festeggiato, Ben Haggard, e durante lo show vediamo scorrere una serie impressionante di grandi nomi e possiamo ascoltare diverse performance d’eccezione.

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La serata si apre proprio con Haggard Jr., che con una bella voce profonda ci regala una languida What Am I Gonna Do (With The Rest Of My Life) https://www.youtube.com/watch?v=xz1__9ITpGA  e, insieme ad Aaron Lewis, Heaven Was A Drink Of Wine; la stagionata Tanya Tucker ha ancora grinta da vendere e lo dimostra con una bella ripresa dell’honky-tonk The Farmer’s Daughter, e ancora più avanti con gli anni sono il mitico Bobby Bare, alle prese con un’ottima I’m A Lonesome Fugitive https://www.youtube.com/watch?v=yJEJQCDZOMU , e Connie Smith, che con voce giovanile propone una limpida rilettura di That’s The Way Love Goes. John Anderson è un grande, e la sua Big City, gustosa e ritmata honky-tonk song, è tra le più riuscite di questa prima parte https://www.youtube.com/watch?v=Vt1P-5tOLXM , mentre Toby Keith un grande non è ma ha quantomeno esperienza e con il repertorio giusto, nella fattispecie il medley Carolyn/Daddy Frank, se la cava bene; Buddy Miller è bravissimo sia come singer/songwriter che come chitarrista, e lo fa vedere con una splendida Don’t Give Up On Me in pura veste country-gospel, il duo Jake Owen/Chris Janson propone la lenta Footlights, discreta, e Lucinda Williams che poteva apparire un po’ fuori contesto fornisce invece una prestazione egregia con una scintillante Going Where The Lonely Go https://www.youtube.com/watch?v=brj50wVvmCc .

Mandatory Credit: Photo by Invision/AP/Shutterstock (9242003x) Bobby Bare performs at the concert "Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard" at the Bridgestone Arena, in Nashville, Tenn Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard - Show, Nashville, USA - 6 Apr 2017

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Bobby Bare performs at the concert “Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard” at the Bridgestone Arena, in Nashville, Tenn
Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard – Show, Nashville, USA – 6 Apr 2017

Il primo CD si chiude in netto crescendo con l’ottimo Jamey Johnson, grande voce e solida imterpretazione dell’intensa Kern River, gli Alabama che non mi sono mai piaciuti molto ma qui centrano il bersaglio con una toccante Silver Wings acustica e corale, Hank Williams Jr. che affronta I Think I’ll Just Stay Here And Drink come se fosse una sua canzone (quindi roccando in maniera coinvolgente), la meravigliosa Loretta Lynn che va per i 90 ma dà ancora dei punti a tutti con una vispa Today I Started Loving You Again, ed i Lynyrd Skynyrd al completo che non possono che suonare la travolgente Honky Tonk Night Time Man, brano di Haggard che dagli anni 70 eseguono sui palchi di tutto il mondo https://www.youtube.com/watch?v=JIqPW5w54UE .

Mandatory Credit: Photo by Invision/AP/Shutterstock (9242003ad) Rodney Crowell performs at the concert "Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard" at the Bridgestone Arena, in Nashville, Tenn Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard - Show, Nashville, USA - 6 Apr 2017

Mandatory Credit: Photo by Invision/AP/Shutterstock (9242003ad)
Rodney Crowell performs at the concert “Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard” at the Bridgestone Arena, in Nashville, Tenn
Sing me Back Home: The Music of Merle Haggard – Show, Nashville, USA – 6 Apr 2017

(NDM: sulla confezione del doppio CD è indicato anche Rodney Crowell con You Don’t Have Very Far To Go, ma non c’è…. ma è nel DVD) Il secondo dischetto si apre subito alla grande con gli Avett Brothers che rileggono in modo superbo la classica Mama Tried, tra gli highlights della serata https://www.youtube.com/watch?v=uCoPrCoMmis , e prosegue sulla stessa lunghezza d’onda con John Mellencamp ed una fantastica White Line Fever, puro folk-rock elettrificato https://www.youtube.com/watch?v=GUlhKT0KMKY ; Kacey Musgraves si cimenta con grazia ma anche grinta con Rainbow Stew, mentre il povero Ronnie Dunn che già non è un genio vede la sua It’s All In The Movies letteralmente spazzata via da un ciclone chiamato Billy Gibbons, prima nell’insolita veste di honky-tonk man con una tonica The Bottle Let Me Down e poi in coppia con Warren Haynes, un altro carrarmato, in una potente e bluesata Workin’ Man Blues, solo due voci e due chitarre elettriche fino al formidabile finale accelerato e full band https://www.youtube.com/watch?v=ZUqnt_JGNLc .

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Dierks Bentley se la cava abbastanza bene con l’ariosa If We Make It Through December, puro country, e precede le due donzelle Sheryl Crow (Natural High) e Miranda Lambert (Misery And Gin), brave entrambe https://www.youtube.com/watch?v=scy80IjpqII , ed il grandissimo Willie Nelson che duetta con Kenny Chesney nel capolavoro di Townes Van Zandt Pancho And Lefty (che fu un successo negli anni 80 proprio per Willie e Merle): versione davvero commovente https://www.youtube.com/watch?v=Lhs62F6YmkU . Di leggenda in leggenda, ecco Keith Richards che ci delizia con il superclassico Sing Me Back Home nel suo tipico stile sgangherato ma pieno di feeling https://www.youtube.com/watch?v=LwqzhbjrcnA ; “Keef” viene raggiunto ancora da Willie per una tersa Reasons To Quit e poi cede il posto a Toby Keith che al cospetto di Nelson è un nano ma riesce a non sfigurare nell’elettrica e spumeggiante Ramblin’ Fever. Gran finale con tutti sul palco per Okie From Muskogee, inno anti-hippies criticatissimo all’epoca ma canzone strepitosa.

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Un tributo splendido quindi, giusto e dovuto omaggio ad una vera leggenda della nostra musica. Una sola domanda però: dove cippalippa era Dwight Yoakam?

Marco Verdi

Il Signor Voight Si E’ Fatto In Tre! Chip Taylor – In Sympathy Of A Heartbreak/Dad & The Monkey/NY To Norway & Back

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Chip Taylor – In Sympathy Of A Heartbreak – Train Wreck CD

Chip Taylor – Dad & The Monkey – Train Wreck CD

Chip Taylor – NY To Norway & Back – Train Wreck CD

James Wesley Voight, più conosciuto come Chip Taylor, negli ultimi anni è diventato uno dei miei cantautori preferiti. Il suo stile pacato, le sue ballate profonde e toccanti cantate con voce calda e pastosa sono in grado di scaldarmi il cuore anche più quanto non facciano certi suoi colleghi maggiormente famosi e blasonati. Nel nuovo millennio Taylor ha anche preso un discreto ritmo nella pubblicazione di dischi nuovi, mantenendo tranquillamente la media di un album all’anno, e quindi mi ero stupito che dopo l’ottimo Whiskey Salesman del 2019 non ci fossero più notizie da parte del vecchio Chip https://discoclub.myblog.it/2019/07/06/quantita-e-qualita-non-sbaglia-un-colpo-chip-taylor-whiskey-salesman/ . Una rapida ricerca sul sito della sua etichetta, la Train Wreck Records, mi ha subito chiarito il dubbio, e ho scoperto che il nostro nel corso del 2020 ha pubblicato ben tre album differenti, tutti assolutamente senza alcuna promozione ed anche abbastanza difficili da reperire (sono in vendita solo sul sito citato poc’anzi), tre dischi senza grandi differenze stilistiche tra loro ma con genesi abbastanza diverse.

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In Sympathy Of A Heartbreak, che avrebbe dovuto essere il vero e proprio nuovo lavoro di quest’anno (ed è uscito inizialmente solo come download ma recentemente è stato stampato anche fisicamente) è stato ultimato verso la fine del 2019 e pubblicato nei primi mesi del 2020, Dad & The Monkey è stato completato appena prima che il Covid sconvolgesse le vite di tutti e messo in commercio molto prima del previsto, mentre NY To Norway & Back è, come recita il sottotitolo Songs From The Lockdown, una sorta di “instant record” figlio della pandemia. Cominciamo dal primo: In Sympathy Of A Heartbreak è un vero e proprio lavoro a due tra Chip, che canta e suona la chitarra acustica, ed il suo abituale collaboratore Goran Grini, musicista norvegese di origini slave che si occupa di tutti gli altri strumenti. Ballate lente, meditate e profonde nel tipico stile quasi sussurrato di Taylor, il cui modo di porgere i brani tra cantato e talkin’ è in grado di provocare più di un brivido lungo la schiena. Le mie preferenze tra le undici canzoni del CD vanno alla toccante title track e Together We’re Not Much, entrambe per voce, chitarra, piano e feeling enorme, la splendida It’s Hard To Sing This Song (ma sentite la voce, se non vi suscita emozioni è un vostro problema https://www.youtube.com/watch?v=FbzrGIXXHcc ), la breve ma intensa Thank You For The Offer, cantata quasi sottovoce, la bellissima Bad Bus Ride, con Grini che stende un background sonoro perfetto nella sua essenzialità https://www.youtube.com/watch?v=uRt5X0RnJ14 , le deliziose Little Girl In Blue e Senseless.

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Dad & The Monkey è invece un album pieno di canzoni autobiografiche come spesso Chip è uso fare, brani ispirati alla figura del padre Elmer e suonati con una strumentazione più elettrica (che non vuol dire rock), grazie anche all’ottima chitarra del fido John Platania ed al basso elettrico di Tony Mercadante (mentre qui Grini si limita agli archi sintetizzati in due pezzi, e non c’è la batteria https://www.youtube.com/watch?v=3U1dhxEmsN4 ). Le migliori sono la folkeggiante title track, cantata con voce ancora più calda del solito, Whatever Makes, dalla melodia semplice e lineare che somiglia vagamente a quella di Across The Borderline di Ry Cooder https://www.youtube.com/watch?v=FHl4q48XPTg , OK Guy, in cui Chip scandisce il ritno con delle…monete, le preziose Rockin’ Chair e Cowboy Music, con Platania che suona in punta di dita, le commoventi Other Days Like This e One More Night With Shadows e la quasi country Hey Joan Somebody.

chip taylor ny to norway & back

NY To Norway & Back è invece stato concepito in pieno isolamento, ed il titolo “spoilera” come sono avvenute le registrazioni: Chip ha inciso dei demo per voce e piano elettrico (e la chitarra in un brano solo), li ha inviati per email in Norvegia a Grini, il quale ha aggiunto parti di basso, organo e mellotron e li ha poi rispediti al mittente. Ed il disco, nonostante gli arrangiamenti più spogli che mai (o forse proprio grazie a ciò) è probabilmente il migliore dei tre, dieci bozzetti di pura poesia musicale e di grande forza interiore, con diversi momenti emozionanti. Qualche titolo, ma potrei citarli tutti: I Find Myself Looking At You https://www.youtube.com/watch?v=O57w8UxxxkU , In My New Beautiful World, Wounded, Easter Morning, Buy A Whiskey For A Friend  https://www.youtube.com/watch?v=bjK2SB26AHc e Which Wants What (formidabile quest’ultima, da pelle d’oca https://www.youtube.com/watch?v=NZY0h35cK34 ). Chip Taylor non delude mai, e questi tre dischi sono un perfetto modo di trascorrere le prossime serate festive (tanto per cambiare chiusi in casa): sinceratevi solo di avere a portata di mano un buon whisky, ma si possono ascoltare anche sorseggiando una bibita analcolica, la qualità non diminusice.

Marco Verdi