E Questa Sarebbe Una Edizione Deluxe? Neil Young – After The Gold Rush 50

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Neil Young – After The Gold Rush 50 – Reprise/Warner CD

Il 2020 appena trascorso ha visto un Neil Young molto attivo dal punto di vista discografico: a parte il secondo volume degli Archivi che è stato l’apice delle varie pubblicazioni abbiamo avuto il leggendario unreleased album Homegrown (che però poi è stato inserito anche nel cofanettone degli Archives, creando così un poco gradito doppione), l’EP registrato in lockdown The Times ed il doppio Greendale Live con i Crazy Horse. Per quest’anno ci sono già in calendario diverse cose, tra cui altri due live (Way Down In The Rust Bucket ancora con il Cavallo Pazzo e l’acustico Young Shakespeare) e l’inizio di una serie di Bootleg Series sempre dal vivo, anche se al momento non sono state annunciate date di pubblicazione (ma proprio ieri mentre scrivevo queste righe il buon Neil ha confermato che il doppio Way Down In The Rust Bucket uscirà il 26 febbraio).

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lo scorso dicembre però il cantautore canadese, avendo forse deciso che non aveva inondato abbastanza il mercato, ha fatto uscire una versione deluxe per i 50 anni del suo famoso album del 1970, After The Gold Rush, cosa insolita per lui dal momento che né l’esordio Neil Young né il seguente Everybody Knows This Is Nowhere avevano beneficiato dello stesso trattamento. C’è un problema però, grosso come una casa, e cioè che chiamare deluxe una ristampa (ok, in digipak) aggiungendo appena la miseria di due bonus tracks, delle quali solo una inedita, necessita di una buona dose di fantasia per non dire faccia di tolla. E chiaro comunque che è sempre un piacere immenso riascoltare un disco epocale, che molti considerano il migliore di Young (io posso essere d’accordo, anche se sullo stesso piano ci metto Harvest e forse Rust Never Sleeps), un album inciso assieme ai suoi consueti collaboratori dell’epoca, cioè i Crazy Horse al completo (Danny Whitten, Billy Talbot e Ralph Molina), Nils Lofgren, l’amico Stephen Stills, Jack Nitzsche e Greg Reeves, oltre a Bill Peterson che suona il flicorno in un paio di pezzi e prodotto insieme al fido David Briggs.

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After The Gold Rush è principalmente un disco di ballate, e la magnifica trilogia all’inizio è uno splendido esempio in tal senso: Tell Me Why https://www.youtube.com/watch?v=sSWxU-mirqg , la title track (uno dei più bei lenti pianistici di sempre) https://www.youtube.com/watch?v=d6Zf4D1tHdw  e Only Love Can Break Your Heart, tre classici assoluti del songbook del Bisonte e del cantautorato in generale https://www.youtube.com/watch?v=364qY0Oz-xs . Ma anche le meno note Birds e I Believe In You sono due ballad fantastiche, completate dalla malinconica e riuscita cover di Oh Lonesome Me di Don Gibson. Detto di due piacevoli bozzetti di poco più di un minuto ciascuno (Till The Morning Comes e Cripple Creek Ferry), l’album non dimentica comunque il Neil Young rocker, con la tesa Don’t Let It Bring You Down https://www.youtube.com/watch?v=eVy1h2FcRiM  e soprattutto le mitiche Southern Man (dal famoso e controverso testo, al quale i Lynyrd Skynyrd risponderanno con Sweet Home Alabama) https://www.youtube.com/watch?v=-KTpIQROSAw  e When You Dance I Can Really Love.

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Le due bonus tracks riguardano due versioni della stessa canzone, vale a dire l’outtake Wonderin’, un gustoso e cadenzato honky-tonk: la prima era già uscita sul volume uno degli Archivi, mentre la seconda (più rifinita, dal tempo più veloce ed in definitiva migliore) è inedita https://www.youtube.com/watch?v=2hE5w-2sz-w . Tutto qui? Ebbene sì, ma se avete dei soldi da buttare via a marzo uscirà una versione a cofanetto con l’album in LP a 180 grammi ed un 45 giri con le due takes di Wonderin’, il tutto alla “modica” cifra di 90-100 euro! Attendiamo dunque pubblicazioni più stimolanti da parte di Neil Young, anche se è abbastanza evidente che se per qualche strana ragione non possedete After The Gold Rush, questa è l’occasione giusta per riparare alla mancanza.

Marco Verdi

Magari E’ Un Casinista, Ma Se Parliamo Di Musica Ha Pochi Eguali! Neil Young – Archives Vol. II: 1972-1976

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Neil Young – Archives Vol II: 1972-1976 – Reprise/Warner 10 CD Box Set

E finalmente è arrivato il momento: ho infatti tra le mani da pochi giorni il pluri-rimandato secondo box degli archivi di Neil Young a ben undici anni dal primo volume (che a sua volta aveva subito numerosi rinvii), una pubblicazione che ormai era diventata talmente aleatoria da attirare su di sé le ironie degli addetti ai lavori. In realtà le polemiche sono continuate anche a causa delle modalità di commercializzazione, inizialmente prevista solo sul sito dell’artista in quantità limitata a tremila copie e ad un costo molto alto (circa 250 dollari più spese di spedizione). In pratica il 16 ottobre scorso, giorno scelto per la messa in vendita online, il box ha continuato ad apparire e sparire dal sito, fino al momento in cui è stato dichiarato esaurito per la “gioia” delle migliaia di fans rimasti con un palmo di naso (ritengo quasi miracoloso il fatto che io sia riuscito ad accaparrarmene una copia, ma praticamente ho passato la serata su internet dalle 18 a mezzanotte, interrompendomi solo per la cena…).

Dopo aver dato la colpa alla Reprise, Neil ha incasinato ancora di più le cose, prima lasciando intendere che non ci sarebbero state ristampe, poi annunciando che nel 2021 sarebbe uscita una versione “povera” solo con i CD ma senza libro (che comunque costerà 150 dollari, quindi povera un par di ciufoli) e che l’edizione diciamo “super deluxe” non sarebbe stata ristampata per rispetto ai tremila che sono riusciti a prenderla, mentre pochi giorni dopo il nostro ha fatto una giravolta degna di un democristiano della Prima Repubblica annunciando una seconda uscita anche del box “a parallelepipedo”, sempre a 250 testoni e con l’unica differenza che la scritta “II” sarà in rosso anziché in nero (entrambe le versioni sono previste per il 5 marzo 2021). A parte ogni giudizio di carattere morale, il cofanetto è comunque una goduria: dieci CD (non ci sono questa volta edizioni in DVD o Blu-Ray) che vanno dal 1972 al 1976, ricoprendo quindi un lasso di tempo molto più breve rispetto al primo volume, cosa comprensibile dato che stiamo parlando di un periodo tra i più fertili artisticamente per Young. Il libro è uno spettacolo (ancora meglio del primo), 252 pagine ricche di foto mai viste, cronologia delle sessions del periodo interessato e crediti brano per brano, ma ancora più imperdibile ovviamente è la parte musicale, con ben 131 canzoni di cui circa la metà inedite tra versioni dal vivo, alternate e brani mai sentiti prima, ed un titolo diverso per ogni singolo CD.

Come nel primo volume ci sono parecchi pezzi nella loro versione originale che danno al progetto una valenza semi-antologica, ma purtroppo Neil ha confermato l’antipatica scelta di inserire nel box anche album già usciti in precedenza, con il risultato che uno si trova a possedere due dischi uguali: in questo caso abbiamo due live (Tuscaloosa https://discoclub.myblog.it/2019/06/18/ecco-il-disco-dal-vivo-che-aspettavamo-da-46-anni-neil-young-stray-gators-tuscaloosa/  e Roxy: Tonight’s The Night Live https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/nessun-paradosso-solo-grande-musica-neil-young-roxy-tonights-the-night-live/ , che però ha come bonus track un’ottima rilettura di The Losing End, uno dei pezzi meno conosciuti di Everybody Knows This Is Nowhere) ed il mitico Homegrown, che a questo punto mi chiedo perché Neil abbia pubblicato non più tardi di cinque mesi fa https://discoclub.myblog.it/2020/06/20/non-avrei-mai-pensato-che-un-giorno-lo-avrei-recensito-neil-young-homegrown/ . E poi capisco che non si possano inserire tutti gli inediti (ci vorrebbero venti volumi), ma forse un paio di dischetti in più sì. Polemiche a parte, ecco una disamina disco per disco, nella quale mi limiterò agli inediti: non troverete citati i CD n. 2, 4 e 7, che sono le tre ripetizioni citate poc’anzi, e per le quali vi rimando alle mie recensioni originali.

CD1: Everybody’s Alone (1972-1973). Il primo dischetto inizia dove finiva il precedente box, e cioè da dopo le sessions di Harvest. A parte Yonder Stands The Sinner tratta da Time Fades Away ed una rarissima Last Trip To Tulsa dal vivo proveniente da una b-side, tutto il resto è inedito, tra pezzi in studio con Neil da solo o con gli Stray Gators (nell’abortito seguito di Harvest) e dal vivo durante il tour da cui è stato tratto Time Fades Away. Tra le canzoni inedite abbiamo la delicata ballata Letter From ‘Nam (che negli anni 80 ritroveremo sull’album Life con il titolo di Long Walk Home), Come Along And Say You Will, bella country song in stile Harvest, l’elettroacustica e leggermente blues Goodbye Christians On The Shore e Sweet Joni, registrata dal vivo a Bakersfield e dedicata ovviamente alla Mitchell, in una performance molto intima al pianoforte. Le versioni alternate vedono un abbozzo dell’intensa Monday Morning, che si evolverà in Last Dance, e finalmente le due takes di studio di The Bridge (pianistica e struggente, davvero splendida) ed una Time Fades Away elettrica e decisamente trascinante, quasi country-punk. Gli altri pezzi dal vivo sono la classica The Loner, con il piano di Jack Nitzsche in evidenza, ed una L.A. diversa da quella apparsa sul live del 1973, Per finire una delle chicche del box, cioè una bella prima versione acustica di Human Highway insieme a CSN, per quello che sarebbe dovuto essere il seguito di Deja Vu (ci riproveranno come vedremo nel 1976 con lo stesso risultato).

CD3: Tonight’s The Night (1973). Le sessions con i Santa Monica Flyers per il famoso album del titolo, che uscirà però due anni dopo. L’album originale è presente con nove pezzi su dodici, anche perché gli altri tre erano uno dal vivo nel 1970, uno era una outtake di Harvest ed il terzo sarebbe stato inciso insieme al materiale di On The Beach. Gli inediti qui sono solo tre: una interessante jam improvvisata dai toni blues basata su Speakin’ Out, la bella Everybody’s Alone, canzone elettrica e vibrante dalla melodia solare che contrasta con il mood del resto delle sessions (ed infatti rimarrà fuori dal disco), e soprattutto una fantastica rock’n’roll version di Raised On Robbery di Joni Mitchell, proprio con la bionda cantautrice canadese alla voce solista e Neil che si limita alle armonie ed a suonare l’elettrica. Uno dei brani di punta del box.

CD5: Walk On (1973-1974). Le sessions di On The Beach, che è presente con sette brani, mentre Borrowed Tune finirà su Tonight’s The Night e Winterlong su Decade (ma che bella che è). Questo è il CD più avaro di inediti, solo tre per un totale complessivo di appena sei minuti: le prime versioni acustiche del traditional Greensleeves e di Traces (ripresa poi dal vivo da CSN&Y, è anche sul box CSN&Y 1974), ed una rilettura elettrica con i Crazy Horse della bellissima Bad Fog Of Loneliness, qui nella sua prima versione ufficiale in studio.

CD6: The Old Homestead (1974). Questo invece è il dischetto più lungo e più ricco di inediti: le uniche canzoni già note sono la title track, che finirà nel 1980 su Hawks & Doves, e Deep Forbidden Lake che andrà su Decade. Il resto si divide tra pezzi acustici ed elettrici, con alcune chicche strepitose come brani mai sentiti prima ed altri suonati solo dal vivo, tra cui ben tre versioni dell’honky-tonk Love/Art Blues, una acustica e due con la band alle spalle (l’ultima è la migliore). Poi c’è la take originale di Through My Sails, solo Neil voce e chitarra e senza le sovraincisioni di CSN, le prime versioni di Pardon My Heart, Vacancy (che verrà rifatta per Homegrown) e Give Me Strength, oltre ad inediti assoluti come Homefires, LA Girls And Ocean Boys e Frozen Man, tutte acustiche, la deliziosa country ballad Daughters, con Levon Helm alla batteria e Nicolette Larson alla seconda voce, la prima take di Changing Highways coi Crazy Horse (verrà reincisa addirittura nel 1996 per Broken Arrow) e Bad News Comes To Town che invece sarà ripresa dal vivo nel 1988 con i Bluenotes. Come ciliegina finale ci sono due imperdibili brani dal vivo a Chicago con CSN, ovvero la fluida Push It Over The End ed una On The Beach semplicemente grandiosa, entrambe ben al di sopra dei sette minuti ciascuna.

CD8: Dume (1975). Ed ecco le sessions con i Crazy Horse per Zuma, che infatti viene incluso nella sua interezza (a parte Through My Sails che come abbiamo visto è dell’anno prima). Ci sono comunque otto inediti, a partire dalle prime versioni di brani che poi finiranno su Rust Never Sleeps ma già bellissimi (Ride My Llama, una Powderfinger più lenta ed una strepitosa Pocahontas elettrica). Poi troviamo un rifacimento sempre elettrico di Kansas, che era stata provata in veste acustica per Homegrown, le rare Hawaii e No One Seems To Know, la splendida Too Far Gone (che non vedrà la luce fino al 1989 quando verrà reincisa per Freedom) e, come inedito assoluto, Born To Run (il Boss non c’entra), brano rock potente ma non particolarmente originale.

CD9: Look Out For My Love (1975-1976). Dopo i primi tre pezzi, comunque già editi (Like A Hurricane, Lotta Love e Look Out For My Love), il fulcro del CD sono le sessions per il poco fortunato Long May You Run della Stills/Young Band, che come non tutti forse sanno sarebbe dovuto essere il nuovo album di CSN&Y, ma a causa dei dissapori con Crosby e Nash Young cancellerà le parti vocali dei due. Ebbene, la sorpresa di questo dischetto sono proprio i tre brani finali, Ocean Girl, Midnight On The Bay ed un’altra Human Highway, nei quali sono state “ripristinate” le voci di David e Graham diventando a tutti gli effetti tre canzoni inedite del quartetto (che quindi assumono subito un altro fascino). Dalle stesse sessions abbiamo una versione alternata di Let It Shine e due ottime takes mai sentite di Traces (ancora) e di Separate Ways, che era già stata registrata per Homegrown. Completano il quadro tre unreleased songs dal vivo con Neil da solo sul palco: Mellow My Mind, Midnight On The Bay e la rara Stringman, canzone che non vedrà la luce fino al 1993 quando Young deciderà di includerla nella setlist del suo Unplugged.

CD10: Odeon Budokan (1976). Il cofanetto si conclude con un live album strepitoso, dieci canzoni equamente divise tra performance acustiche ed elettriche (coi Crazy Horse) registrate nel marzo 1976. La metà acustica vede Neil esibirsi all’Hammersmith Odeon di Londra, e comprende classici del calibro di The Old Laughing Lady, After The Gold Rush e Old Man, oltre alla poc’anzi citata Stringman ed alla bellissima Too Far Gone. La parte elettrica, proveniente dal mitico Nippon Budokan di Tokyo, propone superbe riletture di Don’t Cry No Tears, Cowgirl In The Sand (più corta del solito ma sempre splendida), Lotta Love, Drive Back e Cortez The Killer.

In conclusione, a parte le continue contraddizioni tipiche del personaggio Neil Young, questo Archives Vol. II: 1972-1976 conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che come musicista è uno dei più grandi di tutti i tempi. Ed ora speriamo solo di non dover attendere il terzo volume per altri undici anni.

Marco Verdi

Non Avrei Mai Pensato Che Un Giorno Lo Avrei Recensito! Neil Young – Homegrown

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Neil Young – Homegrown – Reprise/Warner CD

A volte il destino è strano: finalmente ti decidi a far uscire ufficialmente un disco che hai nei cassetti da 45 anni e che è forse il principale desiderio nascosto (ma neanche troppo) dei tuoi fans, e con tutte le date a disposizione vai a scegliere quella in cui Bob Dylan pubblica il suo primo album di canzoni nuove in otto anni, ed uno dei suoi migliori delle ultime due decadi. Ma, facezie a parte, un po’ ancora non ci credo che sono qui a parlarvi di Homegrown, album registrato da Neil Young tra il 1974 ed il 1975 che in origine doveva rappresentare una sorta di seguito di Harvest, ma che poi è stato lasciato da parte diventando uno dei maggiori oggetti del desiderio da parte degli estimatori del musicista canadese (nonché il più celebre dei suoi LP “unreleased”, un elenco che comprende titoli come Chrome Dreams, Island In The Sea, Oceanside/Countryside, la prima versione di Old Ways e Toast, mentre Hitchhiker come sapete è stato pubblicato nel 2017).

La storia è abbastanza nota: Homegrown, un disco elettroacustico tra rock, country e folk realizzato tenendo presenti le sonorità di Harvest, era bello che pronto per uscire (c’era anche la copertina, che poi è la stessa dell’edizione odierna), ma un Neil Young ancora scosso per la perdita degli amici Danny Whitten e Bruce Berry ebbe il colpo di grazia a causa del naufragare della sua relazione con l’attrice Carry Snodgress, con cui aveva una relazione dal 1971 dalla quale era nato il piccolo Zeke (affetto tra l’altro da paralisi cerebrale): la cosa fece cadere il nostro in una profonda depressione che lo convinse a cancellare l’uscita di Homegrown a favore del cupo Tonight’s The Night. Negli anni seguenti Neil ha poi pubblicato alcuni pezzi pensati per quel disco, alcuni potenziati, altri completamente rifatti, altri ancora lasciati così com’erano, ma di Homegrown più nessuna traccia nonostante la notizia di una pubblicazione imminente, poi puntualmente smentita, verrà data più volte nelle decadi a venire. Ora però è la volta buona (anche se un altro ritardo di due mesi c’è stato, ma stavolta per il coronavirus), e Homegrown è finalmente una realtà, ed esattamente con la tracklist pensata all’epoca: sono stati quindi lasciati nei cassetti diversi altri titoli, alcuni noti in quanto già presenti nella discografia younghiana (Pardon My Heart, Deep Forbidden Lake, The Old Homestead), altri più oscuri nonostante Neil negli anni li abbia occasionalmente suonati dal vivo (Love/Art Blues, Homefires, Mediterranean, Frozen Man, Daughters, Barefoot Floors).

Risentito oggi Homegrown non ha perso nulla delle sue qualità: è infatti un disco bello, intenso e tipico del Neil Young mid-seventies, con momenti di profonda malinconia alternati a potenti svisate elettriche. Non è forse il capolavoro che la leggenda narrava, in quanto sia Harvest che Zuma e forse anche On The Beach e Tonight’s The Night sono superiori, ma teniamo presente che lo standard qualitativo del Bisonte in quegli anni era incredibilmente alto. Tra i sessionmen presenti nelle varie canzoni ci sono vecchie conoscenze (Ben Keith alla steel, Tim Drummond al basso e Karl T. Himmel alla batteria) ma anche alcuni ospiti di vaglia, come il pianista Stan Szelest e soprattutto i “The Band Boys” Robbie Robertson e Levon Helm e la voce di Emmylou Harris. Tre dei dodici pezzi totali sono pubblicati nelle versioni già note (le splendide Love Is A Rose e Star Of Bethlehem, presenti sull’antologia Decade, e la discreta Little Wing che nel 1980 aprirà l’album Hawks And Doves), mentre due brani che in seguito verranno reincisi qui sono nella prima stesura: l’energica e roccata title track, bella versione con Keith alla slide e forse migliore di quella rifatta coi Crazy Horse per American Stars’n’Bars, e White Line (che Neil pubblicherà addirittura nel 1991 su Ragged Glory sempre con il Cavallo Pazzo), ottima anche in questa resa a due chitarre con Young e Robertson come soli musicisti presenti. I brani “nuovi” iniziano con Separate Ways (che comunque il nostro ha suonato diverse volte dal vivo), una notevole ballata country-rock elettroacustica caratterizzata dalla bella steel di Keith e dal tipico drumming di Helm: la parte vocale, anche se non particolarmente rifinita, è incisiva grazie anche alla solida melodia.

Try è una delicata country ballad (acustica, ma full band) sullo stile di Harvest, con pochi ma calibrati strumenti ed un bellissimo ritornello reso ancora più prezioso dalla steel e dall’intervento vocale della Harris; la malinconica Mexico vede Neil da solo al piano per un breve e tenue brano dalla musicalità quasi fragile, a differenza di Florida che non è una canzone ma una conversazione di Young con Keith e sottofondo di…bicchieri di vino (!): l’avrei lasciata volentieri in un cassetto. Bella la gentile ed intensa Kansas, solo voce, chitarra ed armonica, mentre We Don’t Smoke It No More è un blues cadenzato e pianistico con aggiunta di slide, un pezzo strepitoso e coinvolgente nonostante Neil non sia propriamente un bluesman: singolare poi che la voce entri solo dopo quasi due minuti e mezzo. L’ultimo dei brani inediti è anche uno dei migliori: Vacancy è infatti una notevole rock song elettrica e potente dal motivo diretto, un pezzo che è la quintessenza di Young e che non capisco come possa essere rimasto da parte fino ad oggi. Homegrown non sarà dunque quel masterpiece di cui si è a lungo favoleggiato, ma è di sicuro un disco che tende dal buono all’ottimo e che rappresenta alla perfezione il Neil Young della metà degli anni settanta.

E comunque dopo aver aspettato 45 anni il minimo che si possa fare è non farselo sfuggire.

Marco Verdi

Come Dylan Anche Neil Young Pubblicherà A Sorpresa Un “Nuovo” Disco Il 19 Giugno: Si Tratta Di Homegrown, Album Previsto In Origine Per Il 1975

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Neil Young – Homegrown – Reprise/Warner CD LP – 19-06-2020

Se ne parlava da quasi un anno, visto che lo stesso Neil Young aveva annunciato l’uscita di Homegrown per la primavera del 2020, il 18 aprile il giorno del RSD, poi è partita la pandemia e si pensava che, come è successo per oltre la metà delle recenti uscite discografiche, anche questa sarebbe stata rinviata a una lontana data, ancora da destinarsi. Invece, forse stimolato anche dalla uscita del nuovo Bob Dylan sempre per il 19 giugno, pure il canadese ha deciso di dare il via libera per la pubblicazione nella stessa data (ma potrebbe sempre ripensarci, visto che mancano ancora una ventina di giorni, anche se nei vari siti di vendita si può prenotare regolarmente). Già che c’era, più o meno in contemporanea, il vecchio Neil ha sancito per il 21/08/2020 anche l’uscita del 2° volume delle Archive Series: qui mi permetto di dubitare, considerando che il cofanetto viene annunciato e poi rimandato ormai dal lontano 2011. Nel frattempo Young ha rinunciato ai formati DVD e Blu-ray audio che sembravano il suo nuovo credo, tornando al buon vecchio CD, o al limite al download, ma visto che non ci sono ancora dati certi, se non che dovrebbe trattarsi di un Box da 10 CD che coprirà il periodo 1972 -1976, veniamo ad Homegrown che proprio da quell’epoca arriva e vediamone i contenuti annunciati, con dovizia di particolari, dallo stesso autore.

Partiamo dalla tracklist:

Homegrown:

01 Separate Ways
02 Try
03 Mexico
04 Love Is a Rose
05 Homegrown
06 Florida
07 Kansas
08 We Don’t Smoke It No More
09 White Line
10 Vacancy
11 Little Wing
12 Star of Bethlehem

Ed ecco i molti dettagli svelati da Young in persona su suo sito a fine aprile: le dodici canzoni, tutte firmate dallo stesso Neil, e registrate tra giugno 1974 e gennaio 1975, avrebbero dovuto uscire appunto nel 1975 con il titolo di Homegrown, ma poi alla fine l’uscita del disco fu cancellata. Cinque dei brani, alcuni usciti in seguito anche in differenti versioni, mentre qui sono nelle prime takes, sono poi apparsi su altri dischi: “Love Is A Rose ” è stata pubblicata su Decade nel 1977,  “Homegrown” ri-registrata con i Crazy Horse e pubblicata su American Stars ‘N Bars nel 1977,  “White Line” addirittura due volte. ancora con i Crazy Horse per Chrome Dreams, album del 1975, rimasto inedito e anche per Ragged Glory del 1990, mentre la versione che appare nel CD è quella registrata con Robbie Robertson della Band, entrambi alla chitarra acustica,  “Little Wing” è uscita su Hawks And Doves nel 1980, infine “Star Of Bethlehem” di nuovo su American Stars ‘Bars.

Le sette mai pubblicate prima sono Separate Ways, che prevede la presenza di Ben Keith alle chitarre e Levon Helm della Band alla batteria. Try, dedicata a Carrie Snodgrass, prima compagna di Neil e mamma di Zeke, con le armonie vocali di Emmylou Harris e Ben Keith alla pedal steel, mentre Mexico è un brano in solitaria (come altri nel CD) solo Young, voce, armonica e chitarra, come pure Kansas e anche Florida dovrebbero appartenere alla categoria, il brano in questione con introduzione parlata. La “confessionale” We Don’t Smoke It More è un blues alla Neil Young tipico di quel periodo turbolento, alla Tonight’s The Night; infine Vacancy è un altro pezzo con Neil contemporaneamente a chitarra e armonica. Ovviamente per l’album vennero registrati parecchi altri brani dai nomi suggestivi tipo “Mediterranean”, “Hawaii”, “Homefires”, ”The Old Homestead”, “Barefoot Floors”, “Hawaiian Sunrise” (aka “Maui Mama”), “Bad News Has Come To Town”, “Frozen Man”, “Daughters”, “Deep Forbidden Lake”, “Give Me Strength”, “Love/Art Blues” and “Pardon My Heart, che verranno buoni magari per altri futuri progetti, forse per il famigerato Archives II. Nel “nuovo” CD oltre ai musicisti citati appaiono anche Tim Drummond al basso, Karl T. Himmel alla batteria, Mazzeo (?) ai backing vocals e Stan Szelest al piano e Wurlitzer.

La produzione è affidata allo stesso Young con Elliot Mazer (forse il fantomatico Mazzeo?) a parte due brani co-prodotti con Ben Keith.

Nel frattempo Neil Young in piena pandemia ha pubblicato anche un nuovo video e relativa canzone shut It Down con i Crazy Horse.

Ora non ci resta che aspettare, forse, per l’uscita del 19 giugno, in seguito alla quale il buon Marco Verdi, a cui lascio l’onere e l’onore vi delizierà con il suo parere sul disco. Per ora è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

P.S. Se oggi vi è capitato di entrare sul Blog forse avrete assistito ad una sorta di Work In Progress del Post, in quanto il Blog aveva assunto una vita propria, per certi versi come un disco di Neil Young, ma questa è la versione definitiva.

Speravo Che L’Aria Di Montagna Facesse Più Effetto! Neil Young & Crazy Horse – Colorado

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Neil Young & Crazy Horse – Colorado – Reprise/Warner CD – 2LP/45rpm

L’ultimo scorcio della carriera di Neil Young è stato discograficamente parlando molto intenso (come peraltro anche in passato), ma non sempre di qualità: il suo album migliore degli ultimi sette anni è stato senza dubbio il primo registrato con i Promise Of The Real, The Monsanto Years, un disco buono ma non eccezionale https://discoclub.myblog.it/2015/06/24/ogm-grande-musica-neil-young-promise-of-the-real-the-monsanto-years/ , mentre A Letter Home era un esercizio fine a sé stesso (ed inciso con una qualità sonora da denuncia penale), Storytone mi era piaciuto molto ma a quanto pare ero uno dei pochi https://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , Peace Trail era un mezzo disastro e The Visitor solo leggermente meglio ma sempre insufficiente (e poi ci sarebbe anche la colonna sonora del film Paradox, da mettere nella categoria “stranezze younghiane”). L’ultimo grande lavoro del Bisonte è quindi indubbiamente lo splendido Psychedelic Pill, album del 2012 registrato con i Crazy Horse e che poteva stare senza problemi a fianco dei suoi dischi migliori https://discoclub.myblog.it/2012/11/16/giu-il-cappello-davanti-al-bisonte-neil-young-psychedelic-pi/ .

Ed è proprio con il suo gruppo “storico” che Neil ha inciso questo nuovo lavoro, Colorado: si pensava che la storia del Cavallo Pazzo fosse finita all’indomani del ritiro a vita privata del chitarrista Frank “Poncho” Sampedro nel 2014, ma Neil ha avuto il colpo di genio di rimpiazzarlo con Nils Lofgren (in pausa momentanea dalla E Street Band), che aveva già fatto parte del gruppo all’inizio degli anni settanta pur non avendo mai registrato un disco intero con Young (era però nella line-up ufficiale del gruppo nel loro esordio omonimo del 1971). Colorado deve il nome allo stato in cui è stato registrato, per l’esattezza nella città di Telluride dove Neil ha una casa con l’attuale moglie, l’attrice Daryl Hannah: Neil ha invitato per qualche giorno lo scorso mese di Aprile Lofgren, il bassista Billy Talbot ed il batterista Ralph Molina con le rispettive famiglie nella cittadina, dove hanno registrato il disco nel giro di poco tempo nello studio privato di Young, in un’atmosfera intima e conviviale (tra l’altro la stagione sciistica era finita e Telluride si era praticamente svuotata) e con le bombole d’ossigeno pronte all’occorrenza dato che la cittadina sorge ad un’altitudine di 2.667 metri. Colorado, prodotto da Young con John Hanlon, è un album che a detta di Lofgren è stato terapeutico per Neil, che aveva perso di recente la casa per un incendio e soprattutto era triste per la scomparsa dell’ex moglie Pegi, compagna di una vita (ed in giugno il nostro patirà anche la morte dello storico manager Elliot Roberts, al quale Colorado è dedicato), e presenta il classico suono dei dischi incisi con i Crazy Horse.

Un suono forte, potente, chitarristico, magari non troppo rifinito ma intenso e con una buona dose di feeling. C’è però un problema, e non da poco: le canzoni. Infatti in questo album mancano i brani epici che ci si aspetta di trovare quando Neil si mette con i CH, non ci sono né inni né pezzi che hanno le stimmate del futuro classico: le canzoni sono spesso di difficile fruibilità, a volte interiori ed altre volte prive di una linea melodica ben definita, ed inoltre la registrazione in presa diretta non aiuta certo l’ascolto, dato che in più di un momento le parti vocali sono traballanti e perfino stonate (lo erano anche in Tonight’s The Night ma in misura minore, e poi nel mitico album del 1975 il livello delle canzoni era ben altro). Non è un brutto disco, ma neppure bello, e sinceramente non credo che sarà meritevole di ascolti ripetuti. L’album (che esce anche in doppio vinile con allegato un 45 giri contenente l’inedita Truth Kills ed una versione dal vivo di Rainbow Of Colors) inizia sorprendentemente in maniera delicata con Think Of Me, una limpida folk ballad con Neil alla chitarra acustica ed armonica e Nils al pianoforte, ed un suono che sembra più figlio di Harvest che di un qualsiasi album con i Crazy Horse. Il rock entra subito dopo con She Showed Me Love, una cavalcata di quasi 14 minuti dominata dalle chitarre sporche del duo Neil & Nils, una canzone potente ma cupa e priva di una melodia vera e propria, dove non mancano gli assoli a profusione ed un finale quasi ipnotico, ma alla fine il brano non è di facile assimilazione, ed è molto lontano dalle atmosfere “crowd-pleasing” di pezzi come Like A Hurricane, Hey Hey, My My o Powderfinger (ed è anche tirato un po’ per le lunghe).

La cadenzata Olden Days è più canzone, ha una parte di chitarra più lirica ed un motivo accattivante, anche se la traccia vocale di Neil poteva essere migliore. Help Me Lose My Mind è dura e potente, ma Neil parla invece di cantare e la fluidità del brano ne risente, anche se le parti strumentali sono esenti da pecche; Green Is Blue è invece un’oasi pianistica, con un’atmosfera sognante e caratterizzata dalla voce fragile del canadese, mentre Shut It Down è di nuovo dura, rocciosa, ancora con Neil che più che cantare declama, ed il pezzo fa fatica ad emergere. Milky Way, sempre elettrica, è un lento sullo stile di Cortez The Killer, ma qui c’è una parte vocale approssimativa ed uno script che fa un po’ acqua, Eternity non presenta neppure una chitarra, in quanto Young suona il piano e Lofgren…balla il tip-tap (però il brano ha un suo fascino perverso). Finale con la roccata e corale Rainbow Of Colors, che finalmente offre una melodia epica degna del suo autore (il brano migliore, nonostante qualche stonatura vocale), e con la tenue, ed un po’ soporifera, I Do, cantata quasi sottovoce da Neil e con Nils all’organo a pompa. Un discreto ritorno quindi, un lavoro certamente migliore sia di Peace Trail che di The Visitor, ma non il grande disco che mi sarei aspettato, al punto che quando ho finito di ascoltarlo ho voglia di inserire nel lettore Psychedelic Pill o Ragged Glory. E questo vorrà pur dire qualcosa.

Marco Verdi

Non Un Capolavoro, Ma Un Disco Onesto E Personale. Nils Lofgren – Blue With Lou

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Nils Lofgren – Blue With Lou – Cattle Track Road CD

L’album di cui mi accingo a parlare ha origini lontane, e più precisamente nel 1978, anno in cui Nils Lofgren era in studio con il noto produttore Bob Ezrin per registrare il suo disco Nils. Il nostro era in un momento di impasse, avendo pronte le musiche di una manciata di canzoni ma con la difficoltà a trovare dei testi che lo soddisfacessero: fu così che Ezrin gli propose di incontrare Lou Reed per vedere se fosse possibile iniziare una collaborazione, e Nils gli diede retta. I due si piacquero subito (cosa non scontata quando c’era di mezzo l’ex Velvet Underground), e Lofgren diede a Lou un nastro con tredici canzoni per vedere se riusciva a cavarci qualcosa: dopo qualche giorno di silenzio, la classica telefonata in piena notte, con il rocker newyorkese che si dichiarò positivamente colpito dalle musiche di Nils, ed iniziò letteralmente a dettargli al telefono i testi appena scritti per quei brani (immagino il costo della bolletta telefonica).

Di questi tredici pezzi, tre se li prese lo stesso Reed per il suo album del 1980 The Bells (Stupid Man, City Lights e With You), altri tre finirono sul già citato Nils (A Fool Like Me, I’ll Cry Tomorrow e I Found Her) ed altri due li ritroveremo su due album successivi di Lofgren, Life su Damaged Goods (1995) e Driftin’ Man su Breakway Angel (2002). Il resto è storia recente: inattivo discograficamente dal 2011 (Old School), Nils ha approfittato della pausa concessa da Bruce Springsteen alla E Street Band (e prima di tornare in pista con Neil Young & Crazy Horse al posto di Frank “Poncho” Sampedro) per pensare ad un nuovo album da solista, e siccome non aveva ancora avuto modo di omaggiare Reed (scomparso nel 2013), ha avuto l’idea di utilizzare i restanti cinque brani della loro collaborazione, oltre a scriverne uno dedicato a lui e ad offrire una sua rilettura di City Lights. Il risultato, dall’emblematico titolo di Blue With Lou, è quindi un vero e proprio tributo all’amico che non c’è più, ed è uno dei lavori più personali dell’intera carriera di Lofgren (anche per altre due “canzoni-omaggio” che vedremo tra poco, ma non scritte pensando a Reed) oltre che uno dei più positivi da Crooked Line (1992) in avanti. Nils a mio parere non è mai stato un fuoriclasse come artista in proprio: ottimo sideman, eccellente chitarrista, ma un disco intero a suo nome si fa un po’ fatica a reggerlo dall’inizio alla fine, sia per qualche limite dal punto di vista del songwriting, ma anche a causa del fatto che madre natura lo ha dotato di una voce sì intonata, ma un po’ monocorde e scarsamente dotata di sfumature.

Blue With Lou, pur avendo dei difetti e qualche episodio sottotono, si mantiene comunque ben al di sopra della sufficienza, ed anzi in molti punti è perfino ottimo: prodotto da Nils con la moglie Amy, l’album è stato registrato in presa diretta dal nostro con una configurazione a trio, molto essenziale, dove però i compagni di lavoro sono Kevin McCormick al basso ed Andy Newmark alla batteria, cioè due musicisti con un pedigree lungo come da qui a New York. Il disco ha quindi un suono secco, potente e diretto, tipico dei lavori incisi live in studio, con una serie di backing vocals sia maschili che femminili a dare più profondità. Comincerei senz’altro proprio dai sei brani scritti dal nostro insieme a Lou: Attitude City ha un ritmo pulsante, riff di chitarra quasi creedenciano e Nils che canta con la sua tipica voce pulita ma un po’ chioccia, una rock’n’roll song diretta e potente che fa comunque iniziare il disco col giusto piglio. Give è un funk-rock annerito e dal tempo veloce, non un grande brano dal punto di vista compositivo, ma suonato con una bella dose di grinta, con Nils che comincia a mostrare la sua abilità chitarristica. Talk Thru The Tears è invece una rock ballad pianistica (anche le tastiere sono suonate da Lofgren) dal ritmo sempre cadenzato e la chitarra che si fa spazio da par suo, con un coro maschile sullo sfondo quasi ecclesiastico, che crea un deciso contrasto con la strumentazione tipicamente rock.

Gli ultimi due inediti a firma Lofgren/Reed sono Don’t Let Your Guard Down, un rock’n’roll molto piacevole con la solita ottima chitarra ed un motivo diretto ed immediato, e Cut Him Up, rock song ariosa e limpida che si pone tra le più riuscite, grazie anche al tocco chitarristico sopraffino; e poi c’è City Lights, che viene riletta da Nils con un arrangiamento in stile reggae ed il sax di Brandford Marsalis a riempire gli spazi, una veste sonora molto distante da quella di Lou ma gradevole e ottimamente eseguita. La title track è invece un brano nuovo di zecca, seppur ispirata da Lou, ed è un pezzo di sette minuti dalla ritmica pulsante e con una slide tagliente, atmosfera bluesata e decisamente “black”, niente male. Le restanti cinque canzoni, tutte opera di Lofgren, partono con Pretty Soon, un buon folk-rock elettroacustico dal tempo sostenuto, una melodia discorsiva e distesa e splendidi riff di chitarra slide (odo qualche vago richiamo allo stile del Boss). La chitarristica Rock Or Not è aggressiva e vibrante, anche se forse concede poco all’ascoltatore e ha un ritornello un po’ sopra le righe, mentre Too Blue To Play è molto bella, una ballata acustica toccante ed intensa nonostante un altro coro maschile “strano” e la poco duttile voce di Nils, ma il brano ha uno script solido ed una parte di chitarra superlativa. Il finale rende Blue With Lou ancora più personale, in quanto presenta due omaggi a perdite recenti: Dear Heartbreaker è dedicata a Tom Petty, una rock ballad discretamente piacevole anche se un po’ ripetitiva e forse mancante del pathos necessario, mentre Remember You è dedicata al cane di Nils, Groucho, scomparso da poco, un pezzo lento e melodicamente intenso, anche se avrei evitato il sottofondo a base di synth: dal secondo minuto in poi il ritmo cresce, entra la chitarra ed il brano migliora sensibilmente.

Quindi un disco che non posso definire perfetto al 100%, ma comunque con molti più momenti positivi che sottotono, e di certo profondamente onesto e sincero: direi che può bastare.

Marco Verdi

Il Secondo Cofanetto Della Serie Archives O Magari Il Nuovo Album Con I Crazy Horse? Ma Quando Mai: Per Il 7 Giugno Neil Young Annuncia Un “Nuovo” Live Del 1973 Con Gli Stray Gators Tuscaloosa.

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Neil Young + Stray Gators – Tuscaloosa – Reprise/Rhino – 07-06-2019

Mesi fa Neil Young aveva annunciato per maggio l’uscita del secondo box della serie Archives, ma mancando tre giorni direi che a questo punto sembra alquanto improbabile l’uscita e a nessuno è dato sapere quando avremo il piacere di vederlo pubblicato. Ma poi il canadese un paio di settimane fa ha fatto sapere che erano pronte almeno 11 canzoni nuove e sarebbe entrato a giorni in studio con i Crazy Horse (tra l’altro nella nuova formazione con Nils Lofgren che ha sostituito il dimissionario Frank “Poncho” Sampedro che lascia il gruppo dopo quasi cinque decadi di onorata carriera). E quindi, direte voi, ecco che viene annunciata la data per il nuovo disco di studio, il primo dai tempi di Psychedelic Pills del 2012 con i Crazy Horse: ovviamente, se avete letto il titolo del Post, non è così, l’annuncio c’è stato, ma per la pubblicazione di un concerto inedito registrato il 5 Febbraio del 1973 all’Università di Tuscaloosa in Alabama, accompagnato dagli Stray Gators, ovvero Tim Drummond, Kenny Buttrey, Jack Nitzsche e Ben Keith. Il disco è stato prodotto dallo stesso Neil Young con Elliot Mazer.

Un concerto particolare e comunque di notevole interesse, dove Young esegue un brano tratto dal primo album, mentre il grosso delle canzoni viene da After The Gold Rush Harvest, ma c’è anche la title track di Times Fades Away che uscirà solo a fine 1973 e dei brani che poi verranno pubblicati su Tonight’s The Night solo nel 1975. Quindi esibizione particolarmente interessante di cui vi riporto la tracklist completa qui sotto:

1. Here We Are In The Years
2. After The Gold Rush
3. Out On The Weekend
4. Harvest
5. Old Man
6. Heart Of Gold
7. Time Fades Away
8. Lookout Joe
9. New Mama
10. Alabama
11. Don’t Be Denied

Anche per oggi è tutto: nei prossimi giorni, tra l’altro, anche altre notizie su varie ristampe di prossima uscita, tra cui il nuovo cofanetto di Bob Dylan Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings di cui è stata ufficializzata la data sempre per il 7 giugno, ma non è ancora definitiva la lista dei brani contenuti nei 14 CD e il prezzo indicativo che avrà il box.

Bruno Conti

Un Neil Young Acustico Fa Sempre Bene Alla Salute! Neil Young – Songs For Judy

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Neil Young – Songs For Judy – Reprise/Warner CD – 2LP

Nuovo episodio delle Performance Series di Neil Young a pochi mesi di distanza da Roxy: Tonight’s The Night Live https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/nessun-paradosso-solo-grande-musica-neil-young-roxy-tonights-the-night-live/ (ed entrambi i live probabilmente ce li ritroveremo anche sul prossimo volume degli Archivi, che a quanto dice il musicista canadese potrebbero uscire la prossima primavera, ma chissà perché non mi fido): Songs For Judy, si tratta di un live registrato nel novembre del 1976 durante una breve tournée che prevedeva una prima parte acustica prima di essere raggiunto sul palco dai Crazy Horse per concludere le esibizioni, ed è un disco che i fans del Bisonte favoleggiavano da anni, e che è anche noto come The Bernstein Tapes, in quanto molte delle canzoni presenti erano state incise su una cassetta di proprietà del celebre fotografo rock Joel Bernstein. Il 1976 era stato un anno molto impegnativo per Neil, che prima aveva pubblicato Zuma insieme ai Crazy Horse, uno dei suoi album migliori della decade, e poi aveva registrato l’acustico Hitchhiker, rimasto però nei cassetti fino al Settembre del 2017; Songs For Judy è come ho detto prima un album che vede il solo Young sul palco accompagnarsi con chitarra, armonica, pianoforte ed organo, non riferito ad un solo concerto ma bensì ad un collage del meglio di diverse date americane.

Ed il CD è notevole: Neil è in ottima forma, suona e canta con forza e partecipazione, senza le incertezze e le occasionali stonature presenti nei tour precedenti (ed anche all’interno del pur ottimo Roxy: Tonight’s The Night Live), e ci consegna un album lungo (quasi 80 minuti) ma che si ascolta tutto d’un fiato. Una performance dunque ricca di feeling e con più di un momento all’insegna della grande musica, nel quale il nostro ripercorre in 22 tracce la sua carriera fino a quel momento, inserendo anche diverse chicche e brani all’epoca inediti. Il titolo del CD non si riferisce a Judy Collins (che tra l’altro l’inciucio sentimentale lo aveva avuto con Stephen Stills), ma all’attrice Judy Garland, che oltre a comparire sull’immagine di copertina è anche la protagonista di un surreale e scherzoso racconto narrato da Neil ad inizio concerto. Le note del libretto interno sono a cura del già citato Bernstein, che era a seguito del tour, e del regista Cameron Crowe, che all’epoca scriveva come giornalista per la rivista Rolling Stone (ed appare anche nella foto interna del CD). Parlando del contenuto musicale, non mancano certo le hits ed i brani più noti del canadese, come Heart Of Gold, accolta da un prevedibile boato, la magnifica e sempre toccante After The Gold Rush, una Mr. Soul eseguita con grande forza (unico rimando al periodo Buffalo Springfield), la deliziosa Harvest, la drammatica The Needle And The Damage Done e la countreggiante Roll Another Number. C’è anche qualche classico minore: una applauditissima Tell Me Why, la maestosa A Man Needs A Maid, resa ancora più struggente dall’introduzione suonata con l’organo a pompa, Mellow My Mind, tra le più intense dell’album Tonight’s The Night, e Sugar Mountain posta in chiusura, che nonostante fosse in origine un lato B è molto popolare.

Chiaramente, dato che stiamo parlando di Neil Young, trovano spazio nella setlist anche canzoni più oscure, come The Laughing Lady e Here We Are In The Years dal suo primo album, Journey Through The Past, che non proviene dal film con lo stesso titolo ma dal live Time Fades Away, la fluida Give Me Strength, che non è inedita solo perché è stata pubblicata lo scorso anno su Hitchhiker, o The Losing End, che è uno dei pezzi meno conosciuti di quel capolavoro che è Everybody Knows This Is Nowhere; per la verità un inedito assoluto c’è, ed è una ballatona pianistica tipica del nostro intitolata No One Seems To Know, un brano discreto anche se non memorabile. E poi, dulcis in fundo, abbiamo un bel gruppetto di brani che all’epoca di questi concerti erano inediti, e che Neil renderà ufficiali solo in seguito, come il pezzo messo in apertura, Too Far Gone, una country song pura e bellissima che finirà su Freedom nel 1989, White Line, che in versione molto diversa e decisamente più rock andrà nel 1991 su Ragged Glory, la nota Human Highway, da anni già nel repertorio live di Neil, ma messa solo due anni dopo su Comes A Time, la già splendida Pocahontas, una delle migliori canzoni del lato acustico di Rust Never Sleeps (già presente anche su Hitchhiker), e due pezzi che di lì a pochi mesi Young inserirà tra gli inediti della compilation Decade, cioè la militaresca Campaigner e Love Is A Rose, che il pubblico mostra di conoscere in quanto l’anno prima era stata un successo per Linda Ronstadt.

Songs For Judy è il quinto live acustico pubblicato da Neil Young nell’ambito dei suoi concerti d’archivio e, sia per la scaletta che per la qualità della performance, può essere tranquillamente considerato uno dei migliori.

Marco Verdi

Nessun “Paradosso”, Solo Grande Musica! Neil Young – Roxy: Tonight’s The Night Live

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Neil Young – Roxy: Tonight’s The Night Live – Reprise/Warner CD – LP

Il titolo del post è un gioco di parole che coinvolge anche l’altro album pubblicato da Neil Young in questo mese di Aprile, cioè la colonna sonora del film Paradox, un disco strano, non brutto ma dalla qualità altalenante come ho avuto modo di illustrare nella mia disamina di tre settimane fa circa https://discoclub.myblog.it/2018/04/02/una-colonna-sonora-strana-ma-qualcuno-si-aspettava-il-contrario-neil-young-promise-of-the-real-paradox/ . Invece questo Roxy: Tonight’s The Night Live, nuovo episodio tratto dagli archivi del musicista canadese, è un album bellissimo senza se e senza ma, preso da un concerto del 1973 tenuto dal nostro nella settimana di apertura del mitico Roxy Theatre di Los Angeles (una venue nella quale verranno registrati una lunga serie di lavori da parte di una moltitudine di artisti, per esempio il recente cofanetto di Frank Zappa). Come il titolo lascia intuire, in quella serata Neil ed i suoi Santa Monica Flyers (una versione allargata dei Crazy Horse, con la sezione ritmica di Billy Talbot e Ralph Molina affiancata da Ben Keith alla steel guitar e da Nils Lofgren stranamente al pianoforte, propongono in anteprima l’album Tonight’s The Night, che originariamente sarebbe dovuto uscire proprio in quelle settimane, ma poi venne posticipato al 1975 dato che la Reprise era un po’ spaventata dalla natura poco commerciale del disco.

Tonight’s The Night è infatti il lavoro più drammatico di Young, il punto più alto della cosiddetta “trilogia del dolore” (insieme a Time Fades Away e On The Beach), un album con testi cupi e senza speranza che parlano di morte, ispirati dalle premature scomparse del roadie Bruce Berry e del chitarrista del Cavallo Pazzo Danny Whitten, un disco in cui Neil non si preoccupa di mettere a nudo la sua fragilità ed il fatto che la sua voce suoni spesso stonata o ubriaca. Durante la serata al Roxy le cose sono in parte diverse, in quanto sia Young che la band sembrano più sobri (ho detto sembrano), i suoni sono forti, centrati e più rock che sul disco in studio, e le stonature vocali sono limitate al minimo sindacale. In più Neil tende a sdrammatizzare i temi trattati con brevi e divertiti monologhi in cui affronta svariati argomenti (da Perry Como a David Geffen, che oltre ad essere il famoso discografico che tutti conosciamo e il suo manager, era anche uno dei soci fondatori del Roxy), e la performance risulta dunque splendida, dato che comunque Tonight’s The Night è sempre stato un grande disco. I brani sono presentati non nell’ordine che verrà dato nella versione in studio del 1975, e mancano anche tre canzoni che finiranno sull’album ma che non fanno parte di quelle sessions (Come On Baby, Let’s Go Downtown, Borrowed Tune e Lookout Joe), ma quello che c’è basta ed avanza, ed è eccellente: si comincia ovviamente con Tonight’s The Night, la canzone, una lettura lunga, solida e vigorosa, tra le più riuscite tra quelle da me sentite negli anni, molto più rock che in studio e con Lofgren che si destreggia ottimamente al piano.

Dopo un breve accenno al divertente brano popolare Roll Out The Barrel (o Beer Barrel Polka, da noi nota come Rosamunda), abbiamo una bellissima Mellow My Mind, ballata tipica di Neil, tra rock e country e cantata con sforzo vocale notevole, seguita dalla roccata e pressante World On A String, uno dei classici minori del nostro, che ancora oggi la ripropone dal vivo ogni tanto.  Speakin’ Out è un gustoso slow blues con notevoli performance di chitarra e piano (il Lofgren pianista è, almeno per me, una sorpresa), Albuquerque una fluida ballad tipicamente californiana, che profuma di tramonti sul Laurel Canyon e di grigliate a base di peyote https://www.youtube.com/watch?v=UCWD9Qq4-Fc , mentre la breve New Mama vede Neil solo all’acustica (ma con piano e coro alle spalle) per un folk blues puro e cristallino, dall’aura malinconica. L’honky-tonk elettrico ed un po’ sbilenco Roll Another Number (For The Road) è sempre stata una delle mie preferite, e questa splendida versione e perfino superiore a quella “ubriaca” che finirà poi sul disco; la performance di Tonight’s The Night volge al termine, ma c’è ancora spazio per la tristissima Tired Eyes, una delle canzoni più drammatiche di Young https://www.youtube.com/watch?v=BPDvY6-mU0M , e per una ripresa della title track, che però dura praticamente quanto quella messa in apertura. Come bonus abbiamo una elettrica e vibrante Walk On, anch’essa all’epoca sconosciuta (finirà l’anno successivo su On The Beachhttps://www.youtube.com/watch?v=wNNAc9V_jJU . Quando Neil Young attinge ai suoi archivi non sbaglia un colpo, e questo nuovo episodio live è uno dei più brillanti, oltre ad essere un documento di grande valore storico.

Marco Verdi

Si Potrebbero Fare Anche Meno Dischi, Ma Più Centrati! Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor

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Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor – Reprise/Warner CD

Negli ultimi anni Neil Young è più attivo che mai: esattamente un anno fa, a dicembre, aveva pubblicato il non eccelso Peace Trail (che avevo indicato come delusione del 2016) http://discoclub.myblog.it/2016/12/11/supplemento-della-domenica-disco-normale-neil-forse-anche-troppo-neil-young-peace-trail/ , mentre quest’anno fino a questo momento si era occupato di archivi, prima con l’inedito Hitchhiker (molto bello) http://discoclub.myblog.it/2017/09/01/anteprima-bis-una-gradita-sbirciatina-agli-archivi-neil-young-hitchhiker/ , poi con i due cofanettini contenenti i suoi album degli anni settanta http://discoclub.myblog.it/2017/08/27/uno-sguardo-al-passato-per-il-bisonte-parte-2-neil-young-original-release-series-discs-8-5-12/  , fino al primo di questo mese, quando ha messo online (e gratuitamente, per ora) sul proprio sito il suo intero archivio, una mossa senza precedenti che spero non precluda in futuro la pubblicazione dello stesso anche su supporti fisici. *NDB Se volete divertirvi, finché non si paga, perché dopo l’iscrizione vi arriverà una mail che vi avvisa di quanto segue: (And don’t worry; once your trial is up, you’ll be able to sign up for a subscription at a very modest cost.) Nel frattempo  https://www.neilyoungarchives.com/#/?_k=o9fnm8

Nella stessa data è uscito anche The Visitor, nuovissimo album registrato insieme ai Promise Of The Real, messo sul mercato un po’ a sorpresa anche se si sapeva della sua esistenza (ma con il Bisonte, fino a quando un disco non è nei negozi, non si sa mai). The Visitor è il terzo lavoro che Neil pubblica con il gruppo guidato da Lukas Nelson (figlio di Willie, e nel CD suona anche l’altro figlio Micah anche se non farebbe tecnicamente parte dei POTR) dopo The Monsanto Years ed il live Earth. The Monsanto Years era un buon disco, ma non un grande disco, comunque da classificare tra quelli riusciti del rocker canadese, mentre Earth, aldilà della bizzarria dei versi degli animali tra un brano e l’altro, secondo me non rendeva assolutamente la potenza di uno show di Young coi POTR (li ho visti lo scorso anno a Milano e, credetemi, ho goduto come un riccio).

Con The Visitor (prodotto da Neil con John Manlon) purtroppo ci risiamo, in quanto si tratta di un disco discontinuo e troppo variegato negli stili, ma anche con diverse canzoni che avrebbero fatto meglio a restare inedite: Young non è uno al quale va detto quello che deve fare, ha sempre fatto ciò che voleva anche da giovane figuriamoci adesso, ma il problema di The Visitor è che ci sono fin troppe idee, ma mescolate non nel modo migliore, ed i POTR, che sono ottimi musicisti (oltre ai due fratelli Nelson abbiamo Corey McCormick al basso, Anthony LoGerfo alla batteria e Tato Melgar alle percussioni), fanno comunque fatica a star dietro al vulcanico canadese. Dal punto di vista dei testi, se The Monsanto Years se la prendeva con le multinazionali produttrici di OGM, in maniera anche ironica, qui c’è invece un attacco frontale all’amministrazione Trump, ma con modalità un po’ banalotte e con slogan a mio parere un po’ stereotipati e poco efficaci (e poi parlar male dell’attuale presidente sta diventando lo sport nazionale americano, oggi non sei nessuno se non hai la tua bella canzone contro Trump). Ma il problema, lo ripeto, è la musica: ci sono troppi stili, si passa dal rock, al folk, al blues, alla ballata e perfino al rock latino ed al musical: l’album è comunque migliore di Peace Trail, se non altro per quelle due-tre canzoni che fanno la differenza. L’iniziale Already Great è fin dal titolo la risposta allo slogan elettorale di Trump (“Make America great again”, con Young che si professa innamorato degli USA nonostante sia canadese), e musicalmente è un buon avvio, una ballatona rock lenta ma potente (stile Cortez The Killer, ma non a quel livello), con anche il piano che si fa sentire con nitidezza, anche se il testo procede un po’ troppo per slogan.

La breve Fly By Night Deal ha un buon ritmo, ma non è una canzone, in quanto Neil si limita a parlare con tono declamatorio su un ritornello corale ripetuto all’infinito, mentre la tenue Almost Always ci riporta lo Young che conosciamo: una ballata acustica (ma full band) deliziosa, che sembra provenire dal periodo Harvest Moon: anzi, il riff iniziale di chitarra è identico a quello di Unknown Legend. Ottima Stand Tall, una rock ballad potente ed epica, molto Crazy Horse nella ritmica “sporca” e con un ritornello di quelli a cui il nostro ci ha abituato; splendida poi Change Of Heart, una canzone acustica ma dal ritmo spedito, con Neil che canta con una tonalità molto bassa ed atipica, ed uno sviluppo melodico decisamente intenso e toccante: forse il capolavoro del CD. Carnival è il già citato brano di rock latino, dal ritmo accelerato e melodia un po’ bizzarra, con un gioco di percussioni che ricorda non poco Carlos Santana: non posso dire che sia brutta, ma non è il tipo di canzone che associo a Neil (che tra l’altro gigioneggia oltremodo con la voce), ed è pure troppo lunga, più di otto minuti. Diggin’ A Hole è un altro brano con poco senso, un blues elettrico monotono e ripetitivo, che mi ricorda un po’ T-Bone da Re-Ac-Tor (e non è un complimento), quasi un’offesa al Neil Young songwriter.

Children Of Destiny è la cosa più strana del CD, un pezzo che sembra preso pari pari da un musical di Broadway, con un accompagnamento orchestrale tronfio ed un coro da varietà del sabato sera che non è da meno: Neil aveva già usato l’orchestra in Storytone con esiti ottimi, ma qui si sfiora il ridicolo (ed il testo è di una banalità sconcertante per uno come lui). L’album si chiude con il brano più corto e quello più lungo: When Bad Got Good, due minuti di rock dal ritmo spezzettato e senza il minimo accenno di melodia, e Forever, un’altra ballata acustica intensa e rassicurante, tra le più riuscite del lavoro (ma dieci minuti sono decisamente troppi). Diciamo che se Neil Young voleva cantarle a Trump adesso con The Visitor si è tolto il pensiero, ed auspico per il prossimo disco una maggior serietà nell’approccio musicale e, perché no, un impegno più profondo.

Marco Verdi