Un Bel Disco Di Ispirazione Letteraria. David Starr – Beauty & Ruin

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David Starr – Beauty & Ruin – Cedaredge CD

Pur avendo esordito nel 2003 e vantando una discografia di quasi una decina di unità, il nome di David Starr è abbastanza sconosciuto presso il pubblico. Originario dell’Arkansas ma da anni spostatosi in Colorado, Starr è un cantautore classico, di quelli che si ispirano alla scuola californiana degli anni settanta (Jackson Browne, Dan Fogelberg, ecc.) costruendo le sue canzoni attorno alla voce ed alla chitarra, e rivestendo il tutto con pochi ma selezionati strumenti: una steel in sottofondo, talvolta un organo, una sezione ritmica mai invadente, in certi casi un violino. Per il suo nuovo lavoro Beauty & Ruin David ha scelto di farsi produrre da John Oates, che dopo i fasti del duo Hall & Oates si è reinventato come artista roots-oriented (ottimo il suo album Arkansas del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/13/chiamatelo-pure-mississippi-john-oates-john-oates-arkansas/ ), ed i due hanno selezionato una serie di autori noti e meno noti, tra i quali Jim Lauderdale, il duo formato da Doug e Telisha Williams (più conosciuti come Wild Ponies) ed Oates stesso, dando ad ognuno dei quali una copia del libro Of What Was, Nothing Is Left, opera del 1972 del noto autore Fred Starr (nonno di David), e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ad esso ispirato al quale poi lui e John avrebbero aggiunto la musica.

Il risultato è appunto Beauty & Ruin, un album di ballate intense e profonde suonato da un manipolo di gente molto nota tra cui Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow: musicisti che solitamente troviamo in dischi country, anche se qui il country è solo un tramite (e neanche sempre) per dare un suono ai brani di Starr, che come dicevo poc’anzi derivano direttamente dalla lezione dei cantautori classici dei seventies. Laura è una gentile ballata acustica, profonda ed intensa, con David che canta con voce limpida: un brano da vero songwriter, con strumentazione parca ma dosata al punto giusto e la steel di Dugmore che si staglia sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=pvk2p81XXGk . Bella anche la title track, un pezzo tenue suonato in punta di dita che rimanda allo stile pacato di James Taylor, anche se qui l’accompagnamento è più “rootsy”; Rise Up Again è ariosa e tersa, un brano che sembra uscito proprio da qualche disco degli anni settanta, mentre Bury The Young ha un delicato sapore western ed è dotata di un motivo profondamente evocativo ed emozionante, una gran bella canzone. Il quinto brano si intitola proprio come il libro di nonno Fred, Of What Was, Nothing Is Left, ed è un pezzo attendista che si sviluppa con lentezza intorno alle chitarre, fino al refrain in cui il suono si fa più corposo: David si conferma un autore coi fiocchi, brani come questo non si scrivono per caso.

Cracks Of Time è soffusa e raffinata, con un arrangiamento che valorizza la melodia ed un bel gioco di percussioni, Road To Jubilee (il brano di Lauderdale) ha una strumentazione avvolgente con le chitarre e l’organo che creano un tutt’uno col motivo centrale https://www.youtube.com/watch?v=6RKBZKhFLRA , mentre con My Mother’s Shame torniamo alle atmosfere interiori, e non manca una certa tensione di fondo (non è un brano rock, ma è quello che si avvicina di più) https://www.youtube.com/watch?v=L_31JXbnNIw . Il CD prosegue senza sbavature: Fly By Night ha una bella chitarra che accompagna la melodia solare ed è uno dei brani più belli ed immediati, con un suono vagamente jingle-jangle; chiusura con Laurel Creek, deliziosa ballata dal sapore country, e con I Don’t Think I’ll Stay Here, canzone distesa ed orecchiabile che mette il sigillo ad un bel disco di cantautorato d’alta classe.

Marco Verdi

Tra Texas E Oklahoma, Sempre Ottima Musica Country! Stoney LaRue – Onward

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Stoney LaRue – Onward – One Chord Song CD

Texano di nascita ma cresciuto nella vicina Oklahoma, Stoney LaRue è sempre stato associato al cosiddetto movimento Red Dirt, grazie anche alla sua amicizia con colleghi come Cody Canada, Jason Boland e Bob Childers. E poi il titolo del disco che nel 2005 lo fece conoscere ad una platea più grande, The Red Dirt Album, lasciava ben poco spazio all’interpretazione. LaRue è ormai attivo da più di quindici anni, ed ogni suo lavoro riesce ad ottenere buone critiche ed ultimamente anche un discreto successo di pubblico: countryman dal pelo duro, Stoney non ha mai modificato il suo suono per aver più passaggi in radio, ma è riuscito a ritagliarsi una buona fetta di popolarità rimanendo sé stesso. Musica country vera, di chiara appartenenza texana, con brani dal suono robusto ed elettrico anche nelle ballate ed un sapore rock sudista che emerge spesso: tutti elementi che troviamo anche in questo nuovo Onward, album che segue di quattro anni US Time e che ha tutte le carte in regola per soddisfare i palati più esigenti.

Oltre ad avere portato in studio il solito numero di ottime canzoni, in Onward LaRue ha fatto le cose in grande, facendosi produrre dall’esperto Gary Nicholson, uno dei nomi più di rilievo a Nashville anche come songwriter, e chiamando Ray Kennedy al mixer: in più, in session troviamo gente del calibro di Kenny Greenberg (marito di Ashley Cleveland, nonché produttore del bellissimo Blood di Allison Moorer) alle chitarre, Dan Dugmore alla steel, Mickey Raphael all’armonica, Mike Rojas al piano ed organo e, in un brano, Colin Linden alla chitarra. Il disco inizia benissimo con You Oughta Know Me By Now, una country song tersa e limpida che si dipana in maniera scorrevole e viene gratificata da una melodia immediata ed da una bella steel guitar; Hill Country Boogaloo ci mostra invece il lato rock di Stoney, un pezzo elettrico e cadenzato dal deciso sapore southern accentuato dal coro femminile nel refrain. La vivace Falling And Flying è puro country-rock caratterizzato da un motivo che prende fin dalle prime note, ed una fisarmonica sullo sfondo fornisce l’elemento tex-mex, mentre la gradevole Not One Moment, è un midtempo dallo sviluppo melodico fluido e con un’atmosfera d’altri tempi.

Segue Meet In The Middle, un grintoso country’n’roll in cui in nostro duetta con Tanya Tucker. Message In A Bottle non è il noto successo dei Police ma uno scintillante honky-tonk di stampo classico nello stile di George Jones, uno dei pezzi più riusciti del CD; Evil Angel è un gustosissimo e coinvolgente southern gospel nobilitato dalle voci delle McCrary Sisters e del leader degli Asleep At The Wheel Ray Benson https://www.youtube.com/watch?v=UEJX-6kpImA , mentre Drowning In Moonlight è un languido slow che stempera un po’ la tensione elettrica ed offre un momento di quiete. Worry Be Gone è ancora puro country dallo sviluppo contagioso, gran lavoro di piano e dobro ed una tromba a dare un sapore dixieland, la pianistica I Can’t Help You Say Goodbye è ancora una ballata di buon valore e Let’s Chase Each Other Around The Room è un trascinante honky-tonk dal gran ritmo, texano al 100%. Chiusura con la struggente Thought You’d Want To Know, forse il migliore tra i brani lenti del CD, e con la deliziosa High Time, country song elettroacustica in cui il nostro duetta con Brandon Jenkins, altro noto Red Dirt Man.

Stoney LaRue è uno che non tradisce mai, ma questo già lo sapevamo.

Marco Verdi

“Nuovi” Dischi Live Dal Passato 2. Linda Ronstadt – Live In Hollywood

linda ronstadt live in hollywood

Linda Ronstadt – Live In Hollywood – Rhino/Warner CD

Sembra quasi impossibile che un’artista dalla lunga e luminosa carriera (purtroppo interrotta da diversi anni a causa del morbo di Parkinson) come Linda Ronstadt non avesse mai pubblicato un disco dal vivo, pratica quasi obbligatoria per ogni musicista di successo negli anni settanta. E di successo Linda ne ha avuto per davvero, in quanto stiamo parlando probabilmente della cantante donna più popolare in America almeno nella seconda parte dei seventies, con diversi album e singoli andati al numero uno (e quello era ancora il periodo in cui i dischi si vendevano ed in classifica ci andavi solo se eri bravo). Questa mancanza è stata oggi in parte riparata dalla sempre benemerita Rhino con l’uscita di questo Live In Hollywood, testimonianza audio di un concerto televisivo tenuto dalla Ronstadt nell’aprile del 1980 ai Television Center Studios, ed andato in onda all’epoca per il canale via cavo HBO.

Una performance coi fiocchi, i cui nastri si pensava che fossero stati persi da anni, fino a quando il produttore e tecnico del suono John Boylan si è imbattuto quasi per caso nel classico scatolone il cui contenuto non rifletteva quanto c’era scritto all’esterno; Boylan aveva cercato per diverso tempo le bobine originali di questo show, specie dopo aver assistito ad una versione di esso uscita in un bootleg DVD di pessima qualità, ed è riuscito nel suo intento proprio quando aveva cominciato a perdere le speranze. Il risultato finale dimostra però che i suoi sforzi sono valsi a qualcosa, in quanto siamo di fronte ad una performance coi fiocchi da parte di un’artista al massimo del suo potenziale, la cui importanza si capisce ancora di più se si leggono i nomi della band stellare che l’accompagna: Danny “Kootch” Kortchmar alla chitarra, Dan Dugmore alla steel, Billy Payne (dei Little Feat) alle tastiere, Bob Glaub al basso, Russell Kunkel alla batteria, l’ex compagno di Linda negli Stone Poneys Kenny Edwards a banjo e chitarra, oltre al noto produttore Peter Asher alle percussioni e lo stesso Asher con Wendy Waldman alle voci, un gruppo di veri e propri habitué nei dischi dei musicisti che all’epoca contavano, specie in California.

Il concerto originale era durato un’ora e venti, ma per questo CD Boylan ha selezionato con l’aiuto della Ronstadt stessa le dodici performance a loro giudizio migliori (più una bonus track che però altro non è che la presentazione dei musicisti da parte di Linda), per quasi cinquanta minuti di ottimo country-pop-rock made in California, cantato e suonato alla grande, e con la ciliegina di un suono reso eccellente dalle moderne tecnologie. Si inizia con una splendida versione, puro rock californiano, di I Can’t Let Go (di Chip Taylor, come saprete la Ronstadt è sempre stata essenzialmente un’interprete), chitarre in primo piano e prestazione grintosa: Linda è in forma vocale top ed i membri della band si dimostrano subito degni della loro fama. La rilettura da parte della cantante di Tucson del classico di Buddy Holly It’s So Easy è uno dei grandi brani degli anni settanta, e quella sera Linda ne offre una versione più trascinante che mai, mentre tutti sappiamo che Willin’ dei Little Feat è un capolavoro assoluto, e la cantante la riprende con classe e maestria, guidata sapientemente dal piano liquido di Payne (che credo conoscesse la canzone piuttosto bene): interpretazione strepitosa di un brano monumentale.

La sbarazzina e solare Just One Look, un successo di Doris Troy, è un’altra grande hit di Linda, e mantiene il suo sapore anni sessanta, Blue Bayou di Roy Orbison (cantante che all’epoca non era ancora stato riscoperto), con ultimo verso cantato un spagnolo, non è esplosiva come quella di Roy, ma resta comunque una bella resa, mentre Faithless Love è una deliziosa country ballad scritta da J.D. Souther. A quell’epoca Linda aveva appena pubblicato un nuovo album, Mad Love, dal quale sono tratte la sinuosa Hurt So Bad (di Little Anthony & The Imperials), puro soft rock californiano di classe, e la roccata e coinvolgente How Do I Make You, scritta da Billy Steinberg, songwriter poco noto al grande pubblico ma responsabile, tra le altre, di vere e proprie hit come Alone delle Heart, Like A Virgin di Madonna, Eternal Flame delle Bangles e True Colors di Cyndi Lauper. Poor Poor Pitiful Me è una delle grandi canzoni di Warren Zevon, e Linda la riprende in modo vivace e ruspante, ma l’highlight del CD è una notevole versione della classica You’re No Good (Dee Dee Warwick), con una strepitosa jam finale guidata da Kortchmar che porta la durata del pezzo a sei minuti. Finale a tutto rock’n’roll con Back In The U.S.A. di Chuck Berry e con l’evergreen degli Eagles Desperado, versione lenta per sola voce e piano, cantata al solito splendidamente.

Ci sono voluti cinquant’anni per avere un disco dal vivo di Linda Ronstadt, e Live In Hollywood ha il merito di farci tornare idealmente nel bel mezzo di un periodo in cui la California, musicalmente parlando, era al centro dal mondo.

Marco Verdi

Dal Country Al Pop Senza Passare Dal Via! Kacey Musgraves – Golden Hour

kacey musgraves golden hour

Kacey Musgraves – Golden Hour – MCA/Universal CD

Terzo album, quarto se contiamo il CD natalizio, per la cantautrice Kacey Musgraves, gran bella ragazza ma anche brava artista, che di lavoro in lavoro mostra indubbi segni di crescita: Golden Hour dovrebbe nelle sue intenzioni essere il disco della definitiva affermazione, dopo che Pageant Material nel 2015 aveva fatto drizzare le orecchie a molti https://discoclub.myblog.it/2015/09/18/ultimi-ripassi-fine-estate-bella-brava-texana-kacey-musgraves-pageant-material/ . E con questa sua nuova fatica  Kacey spariglia le carte in tavola e cambia quasi completamente genere: infatti se prima la sua musica poteva essere definita country di qualità, con più di un rimando a sonorità vintage, con questo album la bruna cantante texana si reinventa come pop singer, ma un pop non da classifica (tranne un paio di casi), ma dai suoni raffinati, ben costruiti e spesso anche intriganti. Certo, tutti i brani presenti sul disco sono adattissimi al passaggio in radio, ma nel 90% dei casi sono in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Gran parte del merito va ai due produttori, Daniel Tashian (leader dei Silver Seas) e Ian Fitchuck, che hanno costruito intorno alla bella voce della Musgraves il vestito sonoro giusto, con un piccolo ma misurato (e non invasivo) aiuto dell’elettronica, hanno scelto musicisti solitamente country (tra cui Dan Dugmore e Russ Pahl) adattando il loro sound a quello del disco.

Il resto lo ha fatto Kacey, che ha scritto in collaborazione con i due produttori una serie di canzoni molto piacevoli e le ha interpretate al meglio, riuscendo secondo me a non far pesare più di tanto il cambiamento stilistico. Slow Burn è un inizio attendista (come da titolo), una ballata di ampio respiro che parte solo con voce e chitarra, poi ad uno ad uno entrano tutti gli strumenti ed il suono si fa pieno ma non ridondante: di country non c’è nulla, ma piuttosto siamo nel pop di fine anni sessanta, tipo i primi Bee Gees. Niente male Lonely Weekend, una pop song solare, quasi californiana, dal refrain orecchiabile e cori che rimandano ai Fleetwood Mac classici https://www.youtube.com/watch?v=Zr3gscRpAhA , ed anche Butterflies prosegue il discorso, un brano semplice e ben costruito, con Kacey che canta benissimo e dimostra anche una certa classe (e l’accompagnamento a base di piano, chitarre e steel è perfetto). L’eterea Oh, What A World è affrontata dalla nostra con il consueto approccio gentile, e l’arrangiamento pop le dona particolarmente, mentre Mother è bellissima, una toccante ballata pianistica che però dura poco più di un minuto; anche Love Is A Wild Thing non è da meno, un intenso slow acustico (spunta anche un banjo), che dopo la prima strofa acquista ritmo anche se sempre all’insegna della leggerezza.

Space Cowboy, ancora lenta e meditata, è un’altra ballata di gran classe, Happy & Sad è dotata di uno dei migliori ritornelli del CD, mentre Velvet Elvis è fin troppo radio friendly per i miei gusti, ma comunque non da buttare. Wonder Woman è tersa, limpida e solare, ed anche qui sulla melodia niente da dire, ma High Horse è l’unico pezzo veramente da pollice verso, un misto tra pop e dance piuttosto indigesto che andrebbe bene per Madonna o Taylor Swift, e che non rende giustizia a Kacey. Per fortuna sul finale il CD torna su lidi più vicini ai nostri gusti, con la fluida e raffinata Golden Hour https://www.youtube.com/watch?v=maONL_HfI20  e la bella Rainbow, solo voce e piano ma con una notevole carica emotiva. Forse non arrivo ad affermare che la Kacey Musgraves in versione pop mi piaccia di più di quella country, ma di certo la bella cantante con Golden Hour per il momento è rimasta più o meno dalla parte giusta della città.

Marco Verdi

Crisi Del Settimo Album Brillantemente Superata! Kim Richey – Edgeland

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Kim Richey – Edgeland – Yep Roc Records

Cinque anni sono trascorsi dal suo precedente lavoro Thorn In My Heart https://discoclub.myblog.it/2013/07/19/due-signorine-da-sposare-musicalmente-kim-richey-thorn-in-my/ , ma finalmente ora possiamo goderci il ritorno di Kim Richey, una delle cantautrici che meglio esprimono quel sound che tanto amiamo denominato Americana. La bionda Kim, nata in una cittadina dell’Ohio sessantuno primavere fa (ooops, non si dovrebbe rivelare l’età di una signora!) ha girovagato parecchio prima di prender casa a Nashville, collaborando con una vasta schiera di colleghi in qualità di vocalist (Jason Isbell, Ryan Adams, Shawn Colvin, Rodney Crowell, Gretchen Peters, di cui proprio in questi giorni sta aprendo i concerti inglesi, oltre a fare parte del progetto Orphan Brigade ed apparire anche nel nuovo album di Ben Glover) e scrivendo ottime canzoni che altri hanno fatto diventate hit in odore di Grammy, come Believe Me Baby (I Lied) cantata da Trisha Yearwood o Nobody Wins ceduta a Radney Foster. Anche per questo nuovo album, Edgeland, l’ottavo in studio, Kim si è circondata di un folto gruppo di validissimi collaboratori che suonano e partecipano alla composizione dei brani, gente del calibro di Chuck Prophet, Pat Mc Laughlin, Robin Hitchcock, Pat Sansone dei Wilco e lo stesso Brad Jones che si occupa della produzione.

Il risultato è davvero ottimo, dodici canzoni godibili dalla prima all’ultima nota, guidate dalla limpida voce della protagonista e realizzate con suoni ed arrangiamenti brillanti, mai eccessivi o inadeguati. Si parte a tutto ritmo con la solare The Red Line, intima riflessione sulla vita che scorre nell’attesa di un treno che tarda ad arrivare. Chuck Prophet e Doug Lancio conducono la danza con le chitarre, supportati dall’energico violino di Chris Carmichael. Pat Mc Laughlin (le cui lodi non smetterò mai di decantare e che non ha mai avuto i riconoscimenti che merita) offre il suo bel contributo come musicista alla splendida Chase Wild Horses (scritta con Mike Henderson), suonandoci mandolino e bouzouki. Inoltre duetta con Kim nella successiva Leaving Song, caratterizzata da un mid-tempo molto bluesy, arricchita dal banjo elettrico di Dan Cohen e dalla turgida resonator guitar di Pat Sansone. L’atmosfera si fa tesa e drammatica non appena si diffondono le prime note di Pin A Rose, scritta a quattro mani con Prophet, che racconta una triste storia di abusi domestici. Azzeccatissima ancora una volta la strumentazione in cui troviamo slide (pregevole lo stacco nel finale), bouzouki, banjo e pure un sitar elettrico a sottolineare la frase portante del ritornello. Piacevole e rigenerante come un sorso di acqua fresca scorre la folk ballad High Time, che vede la partecipazione ai cori e alla chitarra di Gareth Dunlop e reclama con malinconica consapevolezza la necessità di dare un calcio al passato superando le piccole e grandi tragedie personali. Il romantico duetto vocale con il co-autore Mando Saenz, intitolato The Get Together,  rappresenta il singolo perfetto per scalare le country charts, facendosi apprezzare per la fluida melodia ed l’apporto sullo sfondo della pedal steel di Dan Dugmore che si sovrappone al tappeto orchestrale.

Meglio, per i miei gusti, la seguente Can’t Let You Go che pare un vero tributo al compianto Tom Petty, per il suono delle chitarre e la struttura melodica. Molto gradevole anche I Tried, che avvicina la Richey al bello stile delle composizioni di illustri colleghe come Rosanne Cash e Mary Chapin Carpenter. Oltre al delicato arpeggio della chitarra acustica, le tastiere (addirittura un mellotron) si ergono protagoniste dell’intensa e crepuscolare Black Trees, uno dei vertici dell’intero album, che evoca cieli traboccanti di stelle e profonde meditazioni esistenziali. Non è da meno Your Dear John, composta insieme alla collega Jenny Queen, che esalta la sua componente malinconica grazie all’uso assai efficace di un violoncello. Anche Not for Money Or Love mantiene questo pathos, raccontando del ritorno a casa di un reduce di guerra, con le chitarre e un mandolino che danzano al ritmo di uno struggente valzerone, irrobustito adeguatamente da violino e pedal steel. Come brano di chiusura troviamo un altro duetto, questa volta insieme al già citato Chuck Prophet, un limpido acquarello acustico dai colori tenui, intitolato Whistle On Occasion, ottimo suggello per un album che mantiene alto e costante il suo tasso emotivo, impeccabilmente realizzato da tutti i musicisti che hanno dato il loro personale contributo. Se già non vi faceva parte, non vi resta che aggiungere Kim Richey all’elenco delle migliori cantautrici americane, andando a ripescare, perché no, anche i suoi validissimi sette album precedenti, ne vale la pena.

Marco Frosi

Country (Rock) Dal Texas Via Nashville. Eli Young Band – Fingerprints

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Eli Young Band – Fingerprints – Big Machine Label Group/Universal           

Vengono presentati ancora come una “giovane band”, ma in effetti Mike Eli e James Young, ovvero la Eli Young Band dovrebbero essere intorno alla quarantina, e sono in pista dall’inizio anni ’00, avendo già pubblicato sei album di studio, oltre ad alcuni EP e un album dal vivo, a livello indipendente: vengono da Denton, nel nord della Texas, ma ormai da parecchi anni fanno parte della scena country(rock) di Nashville, e quindi anche loro ogni tanto sono soggetti alle sirene del suono più becero della Music City, di solito evitandolo, anche se nel precedente 10,000 Towns, come da loro ammesso, qualche segnale c’era stato, e, temo, anche in questo nuovo. Comunque per lunghi tratti il sound è quello giusto e le canzoni anche, collaborano come autori con gente come Shane McAnally (Miranda Lambert, Brandy Clark, e altri molto meno raccomandabili) e soprattutto in un pezzo, con la brava Lori McKenna; tutte le undici canzoni sono scritte ad hoc per questo progetto, niente cover.

I due co-produttori Ross Copperman (che suona anche un tot di strumenti aggiunti e firma cinque brani) e Jeremy Stover, sono due “professionisti” della scena di Nashville, e tra i sessionmen si segnala Dan Dugmore alla steel. Insomma un onesto e ben fatto album di country-rock, che cerca di mediare tra il sound texano e quello nashvilliano, buone armonie vocali, chitarre anche spiegate a tratti, un mix tra la musica radiofonica commerciale e quella più ruspante: la firma e voce solista principale con otto brani è Mike Eli, James Young è co-autore in tre. Salwater Gospel è una buona partenza, un moderato country-rock dei buoni sentimenti, con piacevoli intrecci vocali, un ritornello che resta facilmente in mente, anche radiofonico, ma nei limiti della decenza, uno di quei brani in equilibrio tra i due mondi sonori del gruppo. La title track è più grintosa, un riff “sudista”, chitarre più arrotate, anche slide, ritmo incalzante, con un sound più “old school”, come lo definiscono loro, rispetto al disco precedente, mentre Never Again, che va di groove, è decisamente più commerciale, niente di criminale tipo l’ultimo NEEDTOBREATHE, ma non entusiasma, per usare un eufemismo. Old Songs, con Young all’armonica e un bel uso di chitarre acustiche ed elettriche, armonie vocali a profusione (anche la voce femminile di Carolyn Dawn Johnson) e un insieme che ricorda molto il country rock classico, sia quello anni ’70, che quello anni ’90 di Jayhawks e Blue Rodeo.

Per rimanere nel tema decadi, Drive è un innocuo rockettino AOR anni ’80, Skin And Bones, scritta con Lori McKenna è uno di quelle morbide ballate midtempo che sono nel DNA della band,con la bella voce di Mike Eli in evidenza, una love song dedicata alla moglie che è anche il primo singolo tratto dall’album; ancora dal lato radiofonico, ma con giudizio, viene A Heart Needs A Break, quei pezzi vagamente antemici che sono croce e delizia di chi non ama troppo il sound dell’attuale country di Nashville. Once, ancora con un approccio più rock, è nuovamente un brano che probabilmente piacerà molto ai fans dal vivo, con un bel tiro delle chitarre, da sentire magari in macchina a volume elevato (se potete sulle Highway americane, se no vanno bene anche le nostre autostrade) e pure Never Land non si distacca di molto dal canovaccio, country poco, rock (un filo commerciale), anche troppo, insomma i tempi di Life At Best sembrano passati http://discoclub.myblog.it/2011/08/22/buon-country-rock-dal-texas-via-nashville-eli-young-band-lif/ , gli arrangiamenti mi sembrano fin troppo pompati.

In God Love The Rain, tornano le chitarre acustiche e i buoni sentimenti di Old Songs, di nuovo con la voce di supporto della Johnson e il tempo della ballata a prevalere, eseguita con diligenza ma senza quel quid che anche nell’ambito dei “revivalisti” distingue il compitino dalla canzone di classe, che è poi comunque anche la cifra di tutto il disco. Per esempio la conclusiva The Days I Feel Alone, che non è una brutta canzone, ricorda un po’ gli ultimi Coldplay con una steel aggiunta e se facessero country, che non so se è una offesa o un complimento, fate voi. Il titolo del Post è simile a quello di sei anni fa, ho solo aggiunto un paio di parentesi intorno a rock!

Bruno Conti

Musica Per “Sottrazione”, Ma Di Grande Intensità! Dan Layus – Dangerous Things

dan layus dangerous things

Dan Layus – Dangerous Things – Plated CD

Dan Layus è un musicista originario di San Diego, già leader degli Augustana, un gruppo di alternative country e roots rock con alle spalle ben cinque album pubblicati dal 2003 al 2014, di cui diversi addirittura per una major (la Epic). Dire però che Layus è il leader del gruppo è riduttivo, in quanto in realtà egli “è” il gruppo, nel senso che negli anni ha fatto e disfatto come più gli piaceva, fino a restare nell’ultimo lavoro, Life Imitating Life, senza altri membri oltre a lui, ed in pratica ha assunto il ruolo di one man band. Ora ho tra le mani il suo ultimo disco, Dangerous Things, è Dan deve aver pensato che intitolarlo nuovamente ad una band che di fatto non esiste più doveva essere troppo, anche perché le canzoni di questo album non suonano affatto come un lavoro di gruppo, bensì al 100% come l’opera di un cantautore. Infatti Layus, che ha anche prodotto il disco insieme a Rich Egan, ha optato per una veste sonora che definire spoglia è un eufemismo: negli undici brani del CD troviamo solo lui con la sua chitarra ed il piano, due violiniste (Anne Buckle e Kelly Aus), il noto steel guitarist Dan Dugmore e, alle armonie vocali le bravissime Laura e Lydia Rogers, meglio conosciute nel mondo musicale come The Secret Sisters. Niente di più, almeno a livello sonoro (e steel e violino mai nella stessa canzone), dato che dal punto di vista qualitativo Dangerous Things si rivela essere una vera e propria sorpresa, un lavoro di una’intensità unica, con il nostro che dimostra di essere un songwriter coi controfiocchi, al quale basta poco per emozionare. E d’altronde, scegliendo la strada della sottrazione, il rischio era quello di risultare ripetitivo ed addirittura di annoiare, ma questo non avviene, anzi in almeno tre-quattro casi ci troviamo davanti a canzoni di qualità eccelsa, con country e folk come background ed una semplicità di fondo che è poi ciò che fa la differenza. Un signor disco quindi, che catapulta all’improvviso tra noi un nuovo talento che personalmente non conoscevo.

L’album inizia alla grande con la splendida title track, che vede Dan accompagnato solo dalla sua chitarra, dalle voci delle sorelle Rogers e dalla steel di Dugmore in sottofondo, ma la melodia è decisamente bella ed intensa, nobilitata ulteriormente dalla voce espressiva del leader. La tenue Driveway è uno slow cantato con voce quasi sussurrata ma con notevole pathos, e l’effetto finale, grazie anche alla languida steel, è emozionante: una voce e due strumenti, ma non serve di più. In Four Rings Layus si sposta al piano, dimostrando di essere capace di un fraseggio eccellente, ed il brano è un’altra struggente ballata, arricchita solo da uno splendido coro delle due Sisters, che dona un tono gospel, e da un malinconico violino; stessa formazione, ma con Dan alla chitarra, per la profonda You Can Have Mine: la strumentazione ridotta non permette voli pindarici o brani rockeggianti, ma credetemi se vi dico che il disco possiede un’intensità rara.

Only Gets Darker vede ancora il trio Layus-Sisters-Dugmore, un pezzo dalla melodia cristallina di derivazione country (lo vedrei bene riproposto da Emmylou Harris), mentre i seguenti quattro brani hanno come protagonisti solo i due Dan (con Layus che si alterna a piano e chitarra), e meritano una menzione d’onore la splendida Let Me Lose You, una fantastica ballata pianistica, dal motivo superbo ed eseguita alla grande, tra le più belle del CD, e la vivace Destroyer, forse l’unica a cui avrebbero giovato un paio di strumenti in più (altro ottimo pezzo comunque). La toccante Enough For You è l’unica con il nostro in perfetta solitudine, mentre la conclusiva The Nightbird è l’ennesima struggente ballad, questa volta dai toni soul, con Dan ancora al piano e le sorelle a ricamare vocalmente nel retro, anche questa davvero bella. Un piccolo grande disco, intenso, emozionante e, perché no, sorprendente.

Marco Verdi

Il Classico Disco Che Non Ti Aspetti… Ma In Questo Caso Non E’ Del Tutto Un Complimento! Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth

sturgill simpson a sailor's guide to earth

Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth – Atlantic CD

I primi due album di Sturgill Simpson, musicista del Kentucky di grande talento, mi erano piaciuti molto: il suo esordio del 2013, High Top Mountain, era un perfetto album di Outlaw Country moderno, pieno di ritmo, grinta ed ottime canzoni, con uno stile ed una voce che si rifacevano chiaramente a Waylon Jennings (e Simpson ebbe i compimenti anche dal figlio di Waylon, Shooter), e l’anno dopo Metamodern Sounds In Country Music era anche meglio, con il nostro che introduceva nel suono elementi più rock e perfino psichedelici https://www.youtube.com/watch?v=mlYgTU1QAjE&list=PL8c2CQ3JiUNFt4-q3JiMlppKCuUTYeDot . Il produttore di quei due album era l’ormai onnipresente Dave Cobb, che oltre ad aver dato il suono giusto ai brani di Simpson era probabilmente riuscito anche a contenerne la personalità vulcanica, che si intuiva da alcune pieghe del suono, dai testi ma anche dalle copertine dei CD, non proprio tipicamente country. Per questo nuovo A Sailor’s Guide To Earth (dedicato a suo figlio, con titolo e copertina a tema marinaresco, ma più sullo stile di una band rock anni settanta che di uno come Jimmy Buffett) Sturgill decide di prodursi da solo, e la scelta, se dal punto di vista tecnico può risultare anche azzeccata, da quello artistico è discutibile: il nostro infatti decide di cambiare completamente il suo stile, lascia affiorare in molti brani una vena rhythm’n’blues e soul che non pensavamo avesse (ed il fatto che il CD esca per la Atlantic può non essere casuale), ma se si fosse limitato a questo avrei applaudito lo stesso in quanto la bravura nel songwriting è rimasta la stessa di prima.

Il “problema” è che Sturgill ha voluto andare oltre, ha aggiunto anche elementi puramente pop, ma un pop molto romantico e super arrangiato come si usava fare negli anni sessanta, ed inoltre in mezzo ci ha pure ficcato sonorità rock e ancora psichedeliche, dando a mio parere l’impressione di confusione (ed utilizzando un numero di musicisti e di strumenti impressionante, quando la fortuna dei suoi primi due dischi l’avevano fatta anche la compattezza del suono ed il numero limitato di sessionmen). Un disco che non posso definire brutto, le buone canzoni ci sono eccome, ma spesso annacquate in sonorità che a mio giudizio appartengono poco al suo autore: non dico che deve ripetere alla nausea lo stesso tipo di country-rock (anche se Waylon lo faceva e nessuno ci trovava da ridire, dopotutto chiunque ha un suo stile), ma qui ci sono cambiamenti a 360 gradi che non so quanto gli gioveranno. Un esempio calzante può essere il brano iniziale, Welcome To Earth (Pollywog), con un avvio quasi psichedelico, poi arriva un pianoforte malinconico, e la bella voce del nostro che intona una melodia forte, con un arrangiamento quasi cameristico da pop band sixties, un big sound che ad un certo punto cambia di botto, il ritmo aumenta, arrivano i fiati (il gruppo funk-soul Dap-Kings) ed il pezzo si tramuta in un errebi molto energico, sullo stile di Nathaniel Rateliff: un inizio spiazzante, con il nostro che non si capisce dove voglia andare a parare.

Breakers Roar è una ballata acustica, sognante ed eterea, ancora con archi a profusione e leggero accompagnamento ritmico, non è male ma sembrano più i Bee Gees dei primi dischi (quelli belli, comunque) che un countryman definito il nuovo Outlaw; Keep It Between The Lines è un funky molto annerito, con i fiati protagonisti ed un marcato sapore New Orleans, un cocktail di suoni e colori accattivante, mentre con Sea Stories Sturgill torna per un momento sui suoi vecchi passi, una solida ballata country-rock elettrica dal sapore sudista, suono diretto e melodia vincente, con ottimi interventi della steel di Dan Dugmore e della slide di Laur Joamets (?): sarò scontato, ma questo e lo Sturgill Simpson che preferisco. In Bloom dei Nirvana è la cover che non ti aspetti, ma chiaramente Simpson non è Kurt Cobain e la canzone assume tonalità pop d’altri tempi, quelle canzoni d’atmosfera avvolgenti tipiche degli anni a cavallo tra i sessanta e settanta ed echi, perché no, di Van Morrison (compreso l’uso dei fiati nella seconda parte, anche se l’irlandese aveva arrangiamenti più sobri); Brace For Impact (Live A Little) è il singolo estratto https://www.youtube.com/watch?v=BlOk5wV0DRo , una rock song elettrica e cadenzata, suonata e cantata con grinta ma poco creativa dal punto di vista dello script, ed inoltre troppo lunga e con soluzioni sonore un po’ discutibili: è ormai chiaro che il Simpson dei primi due dischi qui non c’è, ma abbiamo un artista che vuol dimostrare di saper tenere i piedi in più scarpe, ma secondo me lo fa a discapito dell’unitarietà. All Around You è comunque un ottimo blue-eyed soul, un pezzo altamente godibile e suonato alla grande, che non ha nulla da invidiare al bravissimo Anderson East: certo che se tutto il disco fosse stato su questi livelli avrei comunque applaudito al riuscito cambio stilistico del nostro, che però ha voluto strafare perdendo un po’ il filo conduttore.

Con Oh Sarah torniamo in territori country-pop gradevoli ma un po’ demodé, sembra Waylon, ma quello pre-Outlaw degli anni sessanta; chiude il CD (38 minuti) l’energica Call To Arms, gran ritmo, ancora a metà tra rock, southern e soul e con basso e batteria che sembrano quasi andare fuori giri (ma c’è un breve ma irresistibile assolo di Jefferson Crow al pianoforte).

Non so se A Sailor’s Guide To Earth segni l’inizio di una nuova fase della carriera di Sturgill Simpson, certo è che se voleva spiazzare gli ascoltatori c’è riuscito alla perfezione.

Marco Verdi

Le Due Facce Di Un Moderno Outlaw! – Whitey Morgan

whitey morgan sonic ranch

Whitey Morgan And The 78’s – Sonic Ranch – Whitey Morgan CD

Whitey Morgan – Grandpa’s Guitar – Whitey Morgan CD

Prima di affrontare la recensione volevo fare una precisazione: non è che Whitey Morgan abbia pubblicato due dischi contemporaneamente, anzi, a ben vedere nessuno dei due è nuovo, ma siccome di Sonic Ranch (che è dello scorso anno) questo blog non se ne era occupato (ed è un gran bel disco) e che Grandpa’s Guitar è addirittura della fine del 2014, ma arriva solo ora dalle nostre parti, ed entrambi sono di difficile reperibilità, credo sia venuto il momento di omaggiare un countryman che sta contribuendo a rinvigorire, insieme a gente come Jackson Taylor, Jamey Johnson e Sturgill Simpson, il movimento Outlaw, in auge negli anni settanta. Morgan (vero nome Eric David Allen) è di Flint, Michigan, un posto che ben poco ha da spartire con la musica country, ma sembra un texano fatto e finito: fin dagli esordi (Honky Tonk & Cheap Motels del 2008 e soprattutto Whitey Morgan & The 78’s del 2010) il nostro ha infatti proposto un country robusto, chitarristico e maschio, diretto discendente di leggende quali Waylon Jennings (il suo riferimento più marcato), Willie Nelson e Merle Haggard, una musica non soltanto muscolare ma capace anche di far vibrare le corde giuste, grazie ad un songwriting maturo e ad una band solida e rocciosa (la line-up corrente vede Brett Robinson alla steel, Alex Lyon al basso, Joey Spina alla solista e Fred Eltringham alla batteria).

Sonic Ranch è stato pubblicato lo scorso anno, a ben cinque anni di distanza dal lavoro precedente (in mezzo, l’ottimo live Born, Raised And Live From Flint, uscito nel 2014 ma registrato nel 2011, ed il già citato Grandpa’s Guitar che però ha avuto una distribuzione, per usare un eufemismo, un po’ lenta), ma dimostra che Whitey non ha perso smalto, anzi è maturato e la gavetta on the road è servita, in quanto il disco è un ottimo esempio di vera country music, senza fronzoli e sdolcinature di sorta, arrangiato in modo diretto e con una bella serie di canzoni originali e qualche cover di vaglia: l’album è prodotto da Ryan Hewitt e vede tra gli ospiti, entrambi alla steel, Dan Dugmore e soprattutto l’ottimo Larry Campbell.  

Apre il disco Me And The Whiskey, robusto outlaw country con il vocione di Morgan a dominare, tempo cadenzato e chitarre in gran spolvero; Low Down On The Backstreets è puro Waylon, atmosfera leggermente più country, un piano da saloon che fa capolino ed una melodia decisamente anni settanta; Waitin’ Round To Die è uno dei brani più drammatici di Townes Van Zandt (uno la cui musica di solito non veniva suonata alle feste), e l’interpretazione del nostro è tesa ed affilata come una lama, e, grazie anche ad un arrangiamento rock, rende pienamente giustizia all’originale. Still Drunk, Still Crazy, Still Blue è una ballata distesa, ancora con Jennings (ma anche Willie) ben in mente (e pure il titolo fa molto Waylon), grande pathos e nessuna concessione “radiofonica” nel suono; Leavin’ Again è invece un honky-tonk classico, che si distacca da quanto sentito finora: il mood è meno teso, più rilassato (siamo più dalle parti di Haggard), ma Whitey risulta credibile, e godibile, anche in questa veste. La mossa Goin’ Down Rockin’ è proprio una delle ultime canzoni scritte da Waylon (insieme a Tony Joe White) prima di morire, ed è inutile dire che la memoria del barbuto texano è onorata al meglio; Good Timin’ Man è un intenso intermezzo di base acustica, poi entrano anche gli altri strumenti ed il brano si tramuta in una sontuosa ballata crepuscolare. L’album si chiude con due covers, Drunken Nights In The City di Frankie Miller, un altro slow pieno di feeling, e la splendida That’s How I Got To Memphis di Tom T. Hall, un brano terso e limpido, tra i migliori del CD, ed un pezzo originale (Ain’t Gonna Take It Anymore, un rockin’ country roboante e diretto).

whitey morgan grandpa's guitar

Grandpa’s Guitar è invece un album particolare: intanto è acustico (ma Whitey non è solo, ci sono anche Dugmore e Robinson alla steel e Jason Roberts al violino), ed è un lavoro che il nostro ha dedicato al nonno (musicista anche lui), del quale aveva trovato in cantina una cassetta con una serie di incisioni di brani da lui amati, un reperto che Morgan ha sempre custodito gelosamente tra i suoi ricordi più cari e che, parole sue, ha ispirato tutto quello che ha fatto negli ultimi quindici anni.    L’album contiene in maggioranza covers, a partire da una languida interpretazione della malinconica You’re Still On My Mind (un successo di George Jones), per poi mettere in fila una bella serie di classici, tra i quali spiccano il consueto omaggio a Waylon (Just To Satisfy You), uno Springsteen d’annata (la sempre splendida Highway Patrolman), un paio di pezzi di Haggard (I’ll Leave The Bottle On The Bar e la nota Today I Started Loving You Again), una bella ripresa del purtroppo quasi dimenticato Lee Clayton (If You Could Touch Her At All), e la grandissima Dead Flowers dei Rolling Stones, una canzone che farebbe bella figura anche nelle mani di Gigi D’Alessio (…forse ho esagerato…); per chiudere con due brani originali (le intense Grandpa’s Guitar e Another Wine) ed il traditional I Know You preso direttamente dalla cassetta del nonno William.

Se non avete nulla di Whitey Morgan forse Grandpa’s Guitar non è quello da cui cominciare (Sonic Ranch invece è indicatissimo), ma se già lo conoscete può essere un’aggiunta più che interessante.

Marco Verdi