Terzo Album In 47 Anni Per Una Leggenda Del Songwriting. Dan Penn – Living On Mercy

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Dan Penn – Living On Mercy – The Last Music CD

Nel mondo della “nostra” musica i clamori sono quasi sempre andati giustamente a chi ha fatto la storia davanti ad un microfono o con una chitarra a tracolla (oppure seduto dietro ad una tastiera, o a un drumkit), mentre chi si è “limitato” a dare il suo contributo scrivendo canzoni ha avuto meno riconoscimenti dal punto di vista della popolarità. Tra questi, uno dei nomi più leggendari è sicuramente quello di Dan Penn, songwriter dell’Alabama impiegato ad inizio carriera nei mitici FAME Studios e che è responsabile, da solo o con altri colleghi (tra i quali gente come Chips Moman, Spooner Oldham, Eddie Hinton, Buzz Cason e Donnie Fritts) di alcune tra le più belle canzoni soul degli anni sessanta, brani portati al successo da artisti del calibro di Aretha Franklin, Box Tops, Janis Joplin, James Carr, Percy Sledge, Arthur Conley e Ry Cooder, tanto per citarne qualcuno “abbastanza” famoso.

Anche la lista delle canzoni uscita dalla penna di Penn (nomen omen) è impressionante: The Dark End Of The Street, A Woman Left Lonely, Cry Like A Baby, It Tears Me Up, I’m Your Puppet (della quale una volta Lou Reed disse che, se l’avesse scritta lui, avrebbe poi smesso di comporre in quanto non sarebbe stato in grado di superarla), Do Right Woman Do Right Man, You Left The Water Running, Rainbow Road e molte altre. Nella sua lunga carriera Penn ha anche saltuariamente affiancato l’attività di cantante a quella di songwriter, pubblicando però appena due album dagli anni settanta ad oggi, l’esordio Nobody’s Fool del 1973 ed il bellissimo Do Right Man del 1994, nel quale riprendeva a modo suo alcuni dei suoi capolavori (i successivi Blue Nite Lounge del 1999 e Junkyard Junky del 2008 sono in realtà due collezioni di demo, non incisi originariamente per essere pubblicati). Poche settimane fa Dan si è rifatto vivo alla tenera età di 78 anni (saranno 79 a novembre) con Living On Mercy, terzo “vero” album della sua discografia e nuova eccellente prova d’autore.

Penn ha infatti scritto 13 canzoni nuove di zecca insieme ad alcuni collaboratori storici (Oldham, Cason, Gary Nicholson) ed altri più recenti, eseguendole in perfetto stile blue-eyed soul con una solida ed esperta band che vede Will McFarlane alle chitarre, Clayton Ivey alle tastiere, Michael Rhodes al basso, Milton Sledge alla batteria, una sezione fiati di tre elementi e le backing vocals dello stesso Buzz Cason oltre che di Cindy Walker (che non è ovviamente la celebre songwriter country scomparsa nel 2006) e Marie Lewey. E Living On Mercy, registrato tra Nashville e Sheffield, Alabama, è un signor disco, un album di puro soul ed errebi eseguito da uno di quelli che ha contribuito attivamente allo sviluppo del genere: nonostante gli anni sulle spalle Penn non ha assolutamente perso il tocco per scrivere belle canzoni, ed anche la voce è sorprendentemente profonda ed efficace (personalmente mi ricorda molto quella di Eric Clapton). L’album inizia in modo splendido con la title track, una calda e suadente soul ballad dalla melodia decisamente bella e scorrevole ed un accompagnamento classico che vede piano elettrico ed organo dettare legge. Molto raffinata anche See You In My Dreams, un lento dal sapore errebi suonato in punta di dita e forse un tantino levigato nel suono e nei coretti femminili, ma Penn ha una presenza vocale forte ed il brano si mantiene ampiamente al di sopra del livello di guardia.

Living On Mercy è prevalentemente un disco di ballate, e Dan ce ne offre una di livello superlativo con la pianistica I Do, delizioso pezzo di chiaro stampo sixties dotato di un motivo molto piacevole: probabilmente se fosse stata scritta cinquant’anni fa sarebbe diventata un classico. Bella anche Clean Slate, un blue-eyed soul melodicamente perfetto, suonato con classe e cantato dal nostro con la padronanza ed il carisma che tanti giovani cantanti di “plastic soul” si sognano. What It Takes To Be True è un lento toccante e dal pathos elevato nonostante un synth che scimmiotta una sezione d’archi, I Didn’t Hear That Coming vede aumentare il ritmo e si rivela un pimpante errebi guidato dal piano, anche se nei due bridge il tasso zuccherino si alza leggermente, mentre Down On Music Row fin dalle prime note di piano elettrico si annuncia come una calda e struggente ballata sudista tra soul e gospel, con il suono che ricorda anche certe cose di The Band, soprattutto per l’uso particolare dei fiati: uno dei brani più riusciti del CD.

Ottima e abbondante anche Edge Of Love, con ritmo cadenzato, pianoforte alle spalle e botta e risposta tra fiati e chitarra elettrica (e Dan canta sempre meglio); Leave It Like You Found It non è male specie nella linea melodica (una costante del disco), ma è anche quella più carica di saccarosio, a differenza di Blue Motel che è uno slow cantato col cuore in mano ed uno dei pezzi in cui l’intesa tra voce solista e coro funziona meglio. Il CD termina con Soul Connection, soul-rock immediato e coinvolgente con la chitarra che assume il ruolo di strumento guida, l’elegante Things Happen, con il nostro che fa il romanticone, e One Of These Days, ennesima ballata di grande finezza dotata di un motivo tra i più belli e diretti del lavoro. Chiaramente auguro a Dan Penn una vita ancora lunga e ricca di soddisfazioni, ma non mi stupirei se in ogni caso Living On Mercy fosse il suo ultimo album come artista in proprio: se così sarà, si tratta di un congedo pienamente degno della sua reputazione.

Marco Verdi

Torna Il Rocker Del Mississippi Con Uno Dei Dischi Più Divertenti Dell’Anno. Webb Wilder – Night Without Love

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Webb Wilder – Night Without Love – Landslide CD

L’ultima volta che mi sono occupato di Webb Wilder (che a dirla tutta era anche la prima) è stato quando due anni fa ho recensito il divertentissimo Powerful Stuff, che non era un album nuovo ma una collezione di outtakes registrate tra il 1985 ed il 1993 https://discoclub.myblog.it/2018/06/08/unora-di-divertimento-assicurato-webb-wilder-the-beatnecks-powerful-stuff/ . Oggi però Wilder torna davvero tra noi a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Mississippi Moderne) con questo Night Without Love, che fin dal primo ascolto si afferma come uno dei dischi più godibili ed “entertaining” (termine inglese intraducibile – intrattenevole? – ma che rende benissimo l’idea) del 2020. Se non avete mai sentito nominare Wilder non preoccupatevi, in quanto è uno dei tanti “signor nessuno” del mondo della musica mondiale: esordiente nel 1986 con l’album It Came From Nashville, Webb ha sempre tirato dritto infischiandosene del fatto che i suoi lavori non vendevano una cippa, proponendo la sua miscela spesso irresistibile di rock’n’roll, country, boogie e power pop al fulmicotone, che lo faceva sembrare una via di mezzo tra Commander Cody ed i Blasters.

Night Without Love dovrebbe essere il decimo album di Wilder, e posso affermare senza tema di smentita che è uno dei suoi migliori di sempre, undici canzoni divise tra cover e brani originali che ci fanno ritrovare un rocker che ha sempre fatto musica “just for fun”, riuscendoci peraltro perfettamente. Il disco (la cui copertina è disegnata da James Flournoy Holmes, l’uomo dietro alle copertine di Eat A Peach degli Allman, Fire On The Mountain della Charlie Daniels Band e In The Right Place di Dr. John) vede Webb accompagnato dal suo abituale collaboratore George Bradfute, che suona qualsiasi tipo di strumento oltre a produrre il lavoro, ma anche da Rick Schell alla batteria, Bob Williams alla steel ed il noto chitarrista Richard Bennett in un brano. Trentasette minuti di musica, non un secondo da buttare. Si parte alla grande con Tell Me What’s Wrong, trascinante rock’n’roll dalla ritmica potente cantato dal nostro con una voce alla Johnny Cash, per proseguire sullo stesso livello con la title track (scritta da R.S. Field, produttore dei primi album del nostro), energica ballata sfiorata dal country con un mood anni sessanta e tanta grinta, e con il rockin’ country a tutto ritmo e chitarre Hit The Nail On The Head, vigorosa cover di un pezzo dei quasi dimenticati Amazing Rhythm Aces.

Holdin’ On To Myself, scritta da Chip Taylor, è uno scintillante honky-tonk dominato dalla steel, ma il capolavoro del disco secondo me arriva con il brano seguente: per il sottoscritto Be Still era già nella sua versione originale uno dei migliori brani dei Los Lobos (lo trovate su The Neighborhood, 1990), ma questa rilettura di Webb è strepitosa, in quanto fa ancora di più uscire la splendida melodia non cancellando le radici messicane ma aggiungendo una patina malinconica da vero balladeer. In poche parole, una goduria. A questo punto abbiamo cinque canzoni consecutive scritte da Wilder da solo o in compagnia: la deliziosa e coinvolgente rock song “californiana” Illusion Of You, con uno stile che ricorda parecchio gli Heartbreakers di Tom Petty, la splendida Buried Our Love, country-rock bello come se ne sentono pochi, la squisita Sweetheart Deal, ballata guidata dall’organo con un sapore blue-eyed soul e scritta nientemeno che con Dan Penn, la contagiosa Ache And Flake, tra rock’n’roll e power pop con un refrain vincente, e la fluida folk-rock ballad The Big Deal. Chiusura con una travolgente rilettura del classico jump blues di Tommy Tucker (ma inciso tra gli altri anche da Elvis e Chuck Berry) Hi Heel Sneakers, nobilitata da un farfisa dal suono decisamente vintage ed un approccio che ricorda quello dei già citati Blasters.

Se dovessi fare una scommessa, forse Night Without Love non entrerà nella Top Ten dei migliori album del 2020, ma sono quasi certo che sarà uno dei CD che ascolterò di più.

Marco Verdi

Per Gli Amanti Del Folk Di “Classe”! June Tabor & Oysterband – Fire & Fleet

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June Tabor & Oysterband – Fire & Fleet – Running Man Records – CD – Download

A distanza di 30 anni dalla loro prima collaborazione con l’album Freedom And Rain (90), e verso i dieci dal meraviglioso Ragged Kingdom (11) https://discoclub.myblog.it/2011/09/30/che-disco-june-tabor-oyster-band-ragged-kingdom/ , ritornano a sorpresa due “icone” del folk britannico, e precisamente la brava June Tabor, una delle voci più belle e raffinate (in circolazione dalla metà degli anni settanta), accompagnata dalla Oysterband capofila insieme ad altri attuali gruppi importanti quali Men They Couldn’t Hang, Wolfstone, Four Men & A Dog, Saw Doctors, Goats Don’t Shave, e altri, di una musica popolare viva e impegnata, che all’occorrenza sa tingersi anche di “roots”, che sono ritornati in studio per assemblare questo Fire & Fleet, con una formula molto simile a quella della fortunata esperienza precedente, composta in buona parte da brani dal vivo eseguiti nel Fire And Fleet Tour dello scorso anno, sei canzoni un mix di brani tradizionali e quattro “covers”, registrate nei Rockfield Studios vicino a Monmouth nel Galles, con la supervisione del loro produttore storico Al Scott.

Oltre a June Tabor alla voce, la “line-up” della Oysterband presenta John Jones alla fisarmonica e voce, Alan Prosser alle chitarre, Dil Davies alla batteria, Ian Telfer alle tastiere e violino, Adrian Oxaal al cello, e il citato Al Scott al basso e mandolino, per un lavoro di una quarantina di minuti che non delude le aspettative, specie per tutti quelli che avevano apprezzato i due CD precedenti.

Si parte con la rivisitazione di alcuni brani “traditional”, a partire dalla ballata “Appalachi” False True Love del gruppo The Furrow Collective, ma portata al successo da Shirley Collins, dove la calda e bella voce della Tabor incontra la delicata ritmica della Oysterband, passando per la melodia d’antan di I’ll Show You Wonders, e recuperare da una serie drammatica della BBC The Living & The Dead, un vecchio brano tradizionale inglese Lyke Wake Dirge (nel repertorio fra i tanti degli Steeleye Span e Pentangle), cantata quasi a “cappella” da June. Con On One April Morning (recuperato da Aleyn) inizia il set “live”, una dolcissima fiaba musicale con la fisarmonica di Jones e il violino di Telfer ad assecondare il canto di June, per poi omaggiare il grande Dan Penn con una straordinaria rilettura dello standard-soul The Dark End Of The Street (reso immortale da James Carr, ma ricordo versioni in ambito folk anche dei Moving Hearts e di Linda & Richard Thompson, oltre a quella spendida di Ry Cooder).

A seguire una sentita ed appassionata interpretazione di Roseville Fair di Les Barker (ne esiste anche una ottima versione country di Nanci Griffith), per poi arrivare finalmente alla reinterpretazione della celebre Love Will Tear Us Apart dei Joy Division (un classico del post-punk), dove la tristezza dell’originale viene trasformata in una struggente ballata, accompagnata da violino e chitarra acustica. Ci si avvia alla parte finale del lavoro, andando a pescare una ballata scozzese dimenticata (del 18° secolo) (When I Was No But) Sweet Sixteen, rivoltare come un calzino una straordinaria White Rabbit dal repertorio dei mai dimenticati Jefferson Airplane di Grace Slick, con la Oysterband sugli scudi, e concludere al meglio recuperando meritoriamente dalla band di Canterbury un brano dimenticato come Molly Bond (lo trovate su Step Outside(86), una ballata che nell’occasione viene riletta con un folk-rock più grintoso, che chiude nel modo migliore questo inaspettato loro terzo lavoro Fire & Fleet.

In un mio ipotetico podio musicale dei gruppi folk-rock della scena britannica, dopo gli inarrivabili Fairport Convention e gli Steeleye Span, un posticino lo troverei per questa collaborazione tra June Tabor e la Oysterband (occasionale ma meravigliosa nell’arco dei 3 CD), in quanto tutte le tre formazioni fondono perfettamente la tradizione acustica tradizionale, con le ampie possibilità di un “folk-rock” più moderno, con la similitudine (non di poco conto) che sia i Fairport come gli Span avevano nelle cantanti (Sandy Denny e Maddy Prior) uno dei punti di forza della formazione, cosa che si ripete con June Tabor e la Oysterband. Imperdibile per gli amanti del “folk” e del bel canto!

Tino Montanari

Un Grande Autore Rende Omaggio Ad Una Leggenda Del Soul. Donnie Fritts – June A Tribute To Arthur Alexander

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Donnie Fritts – June (A Tribute To Arthur Alexander) – Single Lock Records

La Single Lock Records è una piccola etichetta indipendente americana che ha la sua sede a Florence, Alabama, quindi profondo Sud degli Stati Uniti: tra i fondatori Ben Tanner degli Alabama Shakes, Will Trapp e John Paul White. Tra gli artisti sotto contratto, oltre a White, Dylan LeBlanc, Nicole Atkins e Cedric Burnside, di cui leggerete a parte. Il repertorio pesca dalla zona Shoals dell’Alabama, e quindi rappresenta i famosi Muscle Shoals Studios e una delle vere leggende della musica “southern” americana, ovvero Donnie Fritts, che pubblica il suo secondo album per la Single Lock, dopo l’ottimo Oh My Goodness del 2015, che si pensava potesse essere il suo ultimo album https://discoclub.myblog.it/2015/10/25/il-ritorno-forse-commiato-grande-donnie-fritts-oh-my-goodness/ . Invece, a 75 anni, Fritts è entrato ancora una volta in studio, per una serie di sessioni serali tenute ai Muscle Shoals, per realizzare un tributo al suo grande amico e mentore Arthur Alexander: dieci canzoni legate al grande cantante soul di You Better Move On, e a decine di altri brani che hanno fatto la storia della musica black, proprio a partire dal brano citato, che nel 1962 fu il primo successo ad uscire dall’area di Muscle Shoals, uno dei tre firmati dal solo Alexander.

Poi ne troviamo quattro che sono collaborazioni con Fritts, una firmata anche dal grande Dan Penn, ed infine, Soldier Of Love, comunque legata al repertorio di Arthur. Alle registrazioni dell’album, sempre essenziale ed intimo nelle sue riletture country-soul, ma non privo di momenti più mossi, hanno partecipato, oltre a White e Tanner chitarre, David Hood al basso, Reed Watson alla batteria, Kelvin Holly ancora alle chitarre e lo stesso Fritts al Wurlitzer e alle tastiere. Il risultato, lo ribadisco, è un piccolo gioiellino di equilibri sonori, intimi e confidenziali, con altri più movimentati e raffinati. D’altronde le canzoni sono tutte decisamente belle, l’interprete, per quanto la sua discografia sia veramente molto scarna, è uno che ha scritto, in tutti i sensi, la storia della musica, quindi il disco si ascolta con assoluto piacere: June, come ricorda lo stesso Donnie nelle note del libretto, invero scarne pure quelle, era il nomignolo con cui era conosciuto Arhur Alexander, e la canzone era stata scritta nel 1993 sull’onda emotiva della sua scomparsa, ed appare come toccante brano di apertura in questo album, solo la voce e il piano elettrico di Fritts, sembra una di quelle ballate romantiche in cui è maestro Randy Newman, e anche il timbro vocale è quello,  violino e viola in sottofondo e tanto feeling, deliziosa, una vera perla.

Ancora  raffinati tocchi di archi, il piano elettrico e una delicata melodia per In The Middle Of It All, una soul ballad  intimista, scritta dal solo Alexander, e apparsa nel suo album omonimo del 1972. You Better Move On l’hanno incisa in tantissimi, vorrei ricordare le versioni di Willy DeVille e degli Stones (e pure i Beatles si sono cimentati con Anna (Go To Him), il suo brano di maggior successo, viene riproposto in una sorta di unplugged version, mentre All The Time, una delle loro collaborazioni autoriali, è una deliziosa ballata country got soul, con le armonie vocali delle Secret Sisters, una sezione ritmica finalmente presente e organo e chitarre acustiche a colorare il suono. Anche I’d Do It Over Again beneficia di un arrangiamento corale, splendido ed avvolgente, con  tastiere, chitarre e voci di supporto semplicemente perfette. Ancora un arrangiamento sontuoso alla Randy Newman  per un’altra soul ballad di grana finissima come Come Along With Me, cantata sorprendentemente bene dal nostro amico che sfoggia una interpretazione da manuale https://www.youtube.com/watch?v=2CvPl12wgOc ; Lonely Just Like Me è un altro dei capolavori assoluti di Alexander, e anche il titolo del suo album finale pubblicato nel 1993, poco prima della sua scomparsa a soli 51 anni, altra versione da manuale, con quel tocco latino che sia DeVille che il Warren Zevon di Carmelita avevano cercato di carpire a Arthur, e gli echi della migliore soul music mai suonata e cantata da chicchessia, una vera chicca sonora anche in questa rilettura magnifica https://www.youtube.com/watch?v=M8ztC3ZFJIY .

Altra delizia per i padiglioni auricolori è Soldier Of Love, suonata e cantata con un impeto ed una intensità pregevoli ,e non si scherza neppure con il deep soul screziato di gospel di una intensa e sgargiante Thank God He Came con le Secret Sisters scatenate a livello vocale in un finale veramente ispirato. A chiudere il CD Adios Amigo, titolo del tributo del 1994 e altra canzone epocale, di nuovo rivista in modo più intimo, solo il Wurlitzer, gli archi e le voci delle sorelle Rodgers https://www.youtube.com/watch?v=nhWkBfDxNAk . Disco commovente e intenso, a dimostrazione che la classe non è acqua.

Bruno Conti

Di Padri In Figli. AJ Croce – Just Like Medicine

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AJ Croce – Just Like Medicine – Compass Records CD

Il plurale nel titolo è voluto: diciamo che i “padri” sono quello vero, genetico, Jim Croce, uno dei cantautori più validi (e anche di successo) dei primi anni ’70, tra gli inventori di quello stile che poi è stato definito soft-rock, scomparso in un incidente aereo nel settembre del 1973, e Dan Penn, uno dei padri della soul music, autore, cantante e produttore tra i più prolifici nella diffusione della musica nera di qualità, scritta e suonata anche dai bianchi. E tra gli ospiti di questo Just Like Medicine, alla chitarra troviamo anche Steve Cropper, un altro che dell’argomento se ne intende. Penn negli ultimi anni ha ripreso ad apparire, di tanto in tanto, sia come ospite, ad esempio nello splendido Soul Searchin’ di Jimmy Barnes http://discoclub.myblog.it/2016/07/10/supplemento-della-domenica-favoloso-vero-soul-australiano-jimmy-barnes-soul-searchin/  o in Dedicated il tributo del 2011 ai Five Royales proprio di Cropper, sia come produttore, penso ad alcuni dischi degli Hacienda Brothers negli anni 2000, a uno di Julian Dawson nel 2008 e al bellissimo Make It Through This World, il disco del 2005 del compianto Greg Trooper. Per cui ogni sua apparizione è preziosa, e quando avevo letto che avrebbe prodotto il nuovo album di Aj Croce ero curioso di sentire quali sarebbero stati i risultati.

Il figlio di Jim (e Ingrid) Croce forse non ha il talento dei genitori, ma nel corso della sua carriera, iniziata nel 1993 con il disco omonimo, ogni tanto ha saputo proporre dei dischi di buona qualità, dove accanto alle sue indubbie qualità di pianista e organista si potevano gustare anche canzoni raffinate dove il blues, il rock, un pop raffinato con qualche venatura country e degli elementi New Orleans, venivano veicolati attraverso una voce duttile e con qualche similitudine con quella del babbo, nonché quella di altri praticanti di quello stile che fonde musica nera e rock bianco: uno di questi firma, in una delle sue ultime apparizioni, come co-autore, una delle canzoni migliori di questo album, parlo di Leon Russell, che firma appunto con Croce The Heart That Makes Me Whole, il brano dove compare anche Steve Cropper come chitarrista aggiunto; un pezzo che pare uscire dai solchi di qualcuno dei vecchi dischi Stax che Penn produceva ai tempi d’oro, e non guasta certo la presenza degli attuali Muscle Shoals Horns, Charles Rose, Doug Moffet Steve Herrmann, oltre che delle McCrary Sisters alle armonie vocali, di David Hood al basso, Bryan Owings alla batteria e del chitarrista Colin Linden, un canadese prestato alla scena musicale della Nashville più ruspante. Con tutti questi luminari in azione non solo il brano in oggetto, ma tutto il disco profuma di soul e R&B, la canzone in particolare è ruspante e fiatistica, ma si apprezzano anche momenti più ricercati e sonicamente diversi, come l’atmosferica e swampy Gotta Get Outta My Head, dove i ritmi salgono e scendono a comando in una bel ambiente sonoro persino leggermente futuribile, o il recupero di un brano inedito di Jim Croce, la godibilissima The Name Of The Game, dove il country-blues-pop del musicista della Pennsylvania rivive nell’ugola del figlio, pezzo che vede anche la presenza della chitarra acustica di Vince Gill, altro ospite di pregio del disco.

Cures Just Like Medicine è una bella e tersa ballata sudista, che si spinge fino al profondo Sud, anche delle Louisiana, ma attinge pure dal roots-rock e dall’Americana sound della Band e dal gospel-soul impersonificato dalle splendide voci delle sorelle MCCrary. Il disco, dieci brani, dura solo poco più di 31 minuti, ma nella sua compattezza risiede anche gran parte della qualità globale dell’album stesso: Move On rimanda alle ballate rock’n’soul di Russell o Joe Cockertre minuti quasi perfetti, replicati nella deliziosa The Other Side, la canzone scritta insieme a Dan Penn. Full Up, con un Aj Croce magistrale al piano, potrebbe uscire da qualche album di Dr. John, puro New Orleans sound. Forse se un appunto si può fare è alla voce di AJ, che pur essendo un buon cantante non è un fuoriclasse come quelli frequentati da Penn in passato. godibile ed intenso ma non memorabile, per esempio nella romantica I Couldn’t Stop, dove fa capolino anche la fisarmonica di Jeff Taylor, una grande voce avrebbe potuto fare sfracelli. Hold You è un altro mid-tempo fiatistico di classe cristallina, degno confratello dei brani che Penn componeva a getto continuo negli anni gloriosi del Muscle Shoals Sound, nuovamente breve e conciso, senza un oncia di “grasso” da scartare. E pure il pop alla Box Tops della conclusiva The Roads non delude l’ascoltatore innamorato delle vecchie sonorità classiche. Che come si è capito abbondano in questo Just Like Medicine, forse non arte pura ma artigianato vintage di onesta fattura, che però può bastare per gli amanti della buona musica.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Favoloso “Vero Soul” Australiano! Jimmy Barnes – Soul Searchin’

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Jimmy Barnes – Soul Searchin’ –  Liberation Music (2 CD Deluxe Edition)                    

Jimmy Barnes è uno dei rocker più gagliardi mai prodotti dal continente australiano: nel 2014 ha festeggiato con 30:30 Hindsight 30 anni di carriera discografica come solista http://discoclub.myblog.it/2014/11/04/30-anni-jimmy-barnes-hindsight/ . Ma prima ancora, dal 1973, e dal 1978 discograficamente parlando, è anche il leader dei Cold Chisel, il gruppo a cui deve la sua fama, e che nel 2015 si sono ritrovati per un secondo album, The Perfect Crime, dopo la reunion del 2012. Ma una delle altre principali passioni del musicista di origini scozzesi (oltre al rock) è sempre stata la musica nera, rivista attraverso la sua particolare ottica rock, ma sempre con un sano rispetto per i musicisti ed i brani originali: il nostro amico ha dedicato una tetralogia a questa passione, Soul Deep del 1991, Soul Deeper…Songs From The South del 2000, The Rhythm And The Blues del 2009 e ora il nuovo Soul Searchin’, di cui ci occupiamo tra un attimo, oltre a molti album Live dove ha sviscerato ulteriormente l’argomento. Inutile dire che, assieme ad alcune prove con i Cold Chisel, questi dischi sono probabilmente i migliori della sua carriera. E l’ultimo è forse il migliore in assoluto.

Anche se questi album vengono sempre pubblicati solo per il mercato australiano (e raramente poi su quello americano) e quindi la reperibilità è difficoltosa e il costo elevato, vale assolutamente la pena di effettuarne la ricerca. Soul Searchin’ esce addirittura anche in una versione Deluxe in 2 CD, con 8 brani aggiunti, registrati nelle stesse sessions a Nashville dello scorso anno, sotto la produzione di Kevin Shirley, e con la partecipazione in studio dei Memphis Boys, i leggendari musicisti che hanno partecipato ad alcune registrazioni di Elvis Presley degli anni d’oro, tra cui In The Ghetto e Suspicious Minds, ma anche ai dischi di Aretha Franklin, Dusty Springfield, Box Tops, Bobby Womack, Wilson Pickett e molti altri artisti, anche country, all’American Sound Studio di Memphis. Come detto, questa volta sono tutti in trasferta a Nashville, a un altro celebre studio, il Grand Victor, quello costruito da Chet Atkins nel 1965, oltre ai Memphis Boys (Cogbill. Leech, Reggie Young, Bobby Emmons, Bobby Wood eccetera), presenti in quattro brani e che veleggiano verso gli 80 anni, ma da come suonano non si direbbe, ci sono anche Steve Cropper, Dan Penn, una pimpante sezione fiati e un piccolo gruppo di background vocalists e, ad abbassare la media, come età, anche Joe Bonamassa, alla chitarra, in una poderosa rilettura di In A Broken Dream il famoso brano dell’australiano Python Lee Jackson, nella cui versione originale cantava Rod Stewart https://www.youtube.com/watch?v=aGA96kM7-CU .

Per il resto sono tutti pezzi soul o quasi, molti oscuri, cercati appositamente da Barnes, altri celeberrimi, ma tutti bellissimi ed eseguiti veramente bene, con gusto e feeling, oltre ad avere un suono splendido. Ed ecco scorrere She’s Looking Good, che apre l’album, un classico minore di Wilson Pickett, Hard Working Woman, uno splendido brano del recentemente scomparso Otis Clay (l’8 gennaio di quest’anno, lo stesso giorno di Bowie, e quindi non lo ha ricordato quasi nessuno), più avanti, nelle bonus, c’è anche I Testify, e ancora una fantastica A Woman Needs To Be Loved del carneade Tyrone Fettson, incorniciata da uno splendido assolo di chitarra e da una interpretazione magnifica di Barnes. Cry To Me di Solomon Burke la conoscono tutti ed è sempre bellissima, come la giri https://www.youtube.com/watch?v=d4WNRCv05iI , mentre If Loving You Is A Crime (I’ll Always Be Guilty), il primo pezzo con i Memphis Boys, è una deep soul ballad emozionante, anche questa di uno sconosciuto, Lee Moses, seguita da It’s How You Make It Good, un altro uptempo con fiati scritto da Paul Kelly, anche questo con solo lancinante di chitarra e classici urletti R&B di Jimmy.

I Worship The Ground You Walk On è un brano firmato dalla premiata ditta Dan Penn/Spooner Oldham, con Steve Cropper alla chitarra, e Barnes racconta che Penn era presente alla registrazione di questo e di altri due brani, e di come fosse “strano” ed emozionante, mentre si registrava, avere qualcuno che ti diceva “questa l’ho scritta io, e anche questa”. Per esempio The Dark End Of The Street, versione splendida, con Penn che duetta con Jimmy Barnes https://www.youtube.com/watch?v=nwLZ271g-jg . Insomma per farla breve, tutto il disco è di grande spessore, ci sono anche Lonely For You Baby, una splendida Mercy Mercy di Don Covay (la facevano anche gli Stones), ancora due brani di Wilson Pickett, Mustang Sally e In The Midnight Hour, Drowning In The Sea Of Love e l’omaggio a Elvis di Suspicious Minds. Ma non c’è un brano scarso. Grande disco, super consigliato a tutti, non solo per gli amanti della soul music.

Bruno Conti