Visto Il Periodo Non Potevo Esimermi: Per Un’Autentica “Summer Of Love”! Mike Love – 12 Sides Of Summer

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Mike Love – 12 Sides Of Summer – MELECO/BMG Rights Management CD

Tra tutti i membri o ex membri dei Beach Boys, Mike Love è certamente il meno amato dai veri fans dello storico gruppo californiano. Cugino dei tre fratelli Wilson, Love è sempre stato il frontman della band, nonché una delle voci principali ed il secondo compositore dopo Brian Wilson. Se negli anni settanta Mike si caricò il gruppo sulle spalle per cercare di sopperire alle numerose assenze di Brian dovuti ai ben noti problemi mentali e psicologici, in seguito il nostro abusò di questo suo ruolo, pubblicando dischi non esattamente degni del passato della band ed assumendo atteggiamenti discutibili, inclusa un’antipatica disputa legale per crediti non riconosciuti nella scrittura di diverse canzoni. Ma quello che è sempre risultato più controverso nell’atteggiamento di Love, oltre ad essere stato indicato come la principale causa del fallimento del progetto Smile, è il fatto di aver girato per anni a nome “The Beach Boys” insieme a Bruce Johnston (dal 1965 sostituto di Brian dal vivo, ma dotato di un millesimo del suo talento) ed un gruppo di onesti mestieranti, cosa che è ripresa anche all’indomani della reunion dei membri originali ancora in vita avvenuta nel 2012 per il loro cinquantesimo anniversario.

A parte tutto questo, Mike Love non è comunque un personaggio che ispiri grande simpatia (e lui lo sa, al punto che una volta ha dichiarato che “Per tutti quelli che pensano che Brian possa camminare sulle acque, io sono l’Anticristo”), ma è indubbiamente un musicista di primo piano, anche perché non attraversi una storia lunga come quella dei Beach Boys da protagonista se non sei qualcuno. Mike nel tempo ha sempre dedicato i suoi sforzi al gruppo che gli ha dato la fama, pubblicando solo un album da solista nel 1981, il non indimenticabile Looking Back With Love, e qualche singolo sparso sia a nome suo che come leader dell’estemporaneo gruppo Celebration. Ultimamente però Mike sembra aver ritrovato un’energia quasi giovanile, visto che negli ultimi tre anni ha dato alle stampe ben tre album: il doppio Unleash The Love nel 2017 (interessante più che altro per il secondo CD in cui riproponeva vecchi hit dei Beach Boys), il natalizio Reason For The Season (gradevole ma con i limiti tipici di un disco stagionale) ed ora questo 12 Sides Of Summer, che già dal primo ascolto si dimostra il più riuscito di tutti. Mike ha voluto creare una sorta di concept con dodici brani accomunati dal tema dell’estate, scegliendo canzoni non sue in maniera abbastanza eterogenea, qualche rivisitazione ancora dei Beach Boys e completando il tutto con un unico pezzo nuovo, anche se vedremo tra breve che proprio nuovo non è.

Mike ha fatto il disco che tutti i suoi fan si aspettano: musica decisamente piacevole, solare e sufficientemente coinvolgente, incisa benissimo e cantata con consumato mestiere (peccato il ricorso qua e là all’auto-tune). Le atmosfere e le armonie vocali sono quelle tipiche del gruppo che lo ha reso famoso, e nonostante i quattro diversi produttori ed un lungo elenco di sessionmen (non li cito dato che sono tutti abbastanza sconosciuti, a parte Bruce Johnston alle voci in un brano) il suono risulta compatto e non dispersivo. Il CD inizia con California Beach, il brano nuovo che dicevo prima che però è in realtà una outtake del 1979 dei Ragazzi Da Spiaggia, una canzone tipica, scorrevole e molto gradevole, contraddistinta da un suono che fa pensare ad un beach party con cocktail, sole e belle ragazze, un tocco caraibico e gli immancabili coretti. Ci sono poi ben quattro brani dei Beach Boys, a partire da It’s OK che non è tra le più note (era sull’album 15 Big Ones del 1976, che nonostante il titolo non era un’antologia), un pezzo decisamente coinvolgente e con Love assistito alle armonie vocali dal trio degli Hanson, arrangiamento moderno e suono splendido; Surfin’ fu il primo singolo dei BB, e qui mantiene il suo spirito fresco e solare seppur attualizzato nel sound, mentre Surfin’ Safari la conoscono anche i sassi e quindi non ha bisogno di grandi presentazioni, anche se questa versione ha un ritmo più rallentato dell’originale, che resta comunque superiore. Chiude il quartetto di brani dell’ex gruppo di Mike (si può dire ex?) una grintosa rilettura chitarristica e rockeggiante di Keepin’ The Summer Alive, in questo caso forse meglio di quella del 1980.

California Sun è un’oscura pop song degli anni sessanta che i BB hanno eseguito qualche volta dal vivo in passato, e qui è un trascinante rockabilly con fiati aggiunti ed un delizioso sapore sixties: pura fun music ma fatta benissimo; On And On And On degli ABBA deve piacere particolarmente al nostro dato che l’aveva già incisa per Looking Back With Love, e questa rilettura ci fa lasciare la fredda Svezia per adagiarci su un’assolata spiaggia californiana. Here Comes The Sun dei Beatles è proposta in una strana veste che la fa diventare una raffinata ballata d’atmosfera peraltro un po’ leccata, una soluzione che sinceramente non mi fa impazzire, meglio il superclassico bossa nova The Girl From Ipanema che con lo stesso tipo di arrangiamento suona molto più azzeccata: niente atmosfere brasiliane (che non ho mai potuto soffrire) e grande classe, oltre ad un apprezzabile tentativo del nostro di cantare in portoghese. Detto di una gradevolissima Over And Over dei Dave Clark Five in puro stile reggae-caraibico che farebbe la felicità di Jimmy Buffett, il CD si chiude con due dei pezzi migliori, cioè un’energica e trascinante Summertime Blues di Eddie Cochran ed una sorprendente Rockaway Beach, una canzone dei Ramones che qui suona in tutto e per tutto come una “lost gem” dei Beach Boys, pur mantenendo lo spirito rock’n’roll della band dei Queens.

Non è certo un capolavoro questo 12 Sides Of Summer, ma è piacevole, ben fatto e, in mancanza degli originali, è quanto di più vicino ai Beach Boys a cui oggi si possa ambire.

Marco Verdi

Ogni Tanto Si Rifà Viva Anche Lei! Ronnie Spector – English Heart

ronnie spector english heart

Ronnie Spector – English Heart – 429 CD

E’ di pochi mesi fa il mio post sul Best Of dedicato a Veronica Yvette Bennett, meglio conosciuta come Ronnie Spector, un’ottima antologia con qualche rarità che però non conteneva nulla di nuovo http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/ : l’ultima fatica dell’ex leader delle Ronettes (ed ex moglie del leggendario produttore Phil Spector) risaliva a ben dieci anni fa, il discreto ma non eccelso Last Of The Rock Stars. Ma Ronnie nel corso della sua carriera ha pubblicato davvero poco come solista, e quindi ogni suo disco deve essere considerato come un piccolo evento, essendo lei una delle artiste di punta dei vocal groups tanto in voga nella musica pop degli anni sessanta. English Heart, il suo nuovissimo album, è però un disco particolare: se la quasi totalità dei gruppi e solisti inglesi dei sixties si rifacevano dichiaratamente ad un suono di origine americana (chi blues, chi rock’n’roll, chi soul), con questo lavoro Ronnie ha voluto fare il percorso inverso, omaggiando tutta una serie di artisti e di brani a lei particolarmente cari, dichiarando anche nelle note di copertina il suo smisurato amore per la musica britannica dell’epoca. Quindi un disco di cover, scelte per lo più in maniera personale dalla cantante di origini afro-irlandesi, con pochi pezzi veramente famosi anche se presi dai songbook di band popolarissime: l’album è prodotto da Scott Jacoby, uno con un curriculum non proprio aderente ai gusti abituali di chi scrive su questo blog (Coldplay, Sia, John Legend), ma che qua ha fatto un lavoro impeccabile a livello di suono (tranne un caso), rivestendo i brani di suoni moderni ma nello stesso tempo mantenendo un certo sapore d’altri tempi, utilizzando una lunga serie di sessionmen proprio come faceva l’ex marito di Ronnie (ed i cui nomi, devo confessare, mi sono sconosciuti).

Poi c’è la voce della Spector, sempre bellissima e resa ancora più affascinante da un misto di età, sigarette e chissà cos’altro, che le ha conferito un timbro giusto a metà tra la limpidezza dei brani con le Ronettes ed il tono roco e vissuto di Marianne Faithfull (un’altra che non si è mai fatta mancare niente): il tutto per un dischetto (meno di 35 minuti) che, anche se non imprescindibile, posso tranquillamente definire riuscito, in quanto non annoia e si lascia ascoltare con piacere (e la cosa secondo me non era scontata, in certi casi il pericolo ciofeca è sempre dietro l’angolo). L’album inizia con Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby), ripresa molto sofisticata e quasi afterhours di un successo minore di Lulu, con un marcato retrogusto soul (una costante nel disco), non malaccio anche se un po’ più di brio non avrebbe guastato. Because è un vecchio pezzo dei Dave Clark Five, B-side in Inghilterra ma lato A in America, proposta con un arrangiamento più vintage (anche se si sente benissimo che è incisa oggi), un botta e risposta tra leader e coro femminile che fa molto Ronettes e melodia squisitamente sixties, e che voce che ha ancora Ronnie.

I’d Much Rather Be With The Girls è una canzone poco nota dei Rolling Stones (scritta dall’inedita coppia Keith Richards – Andrew Loog Oldham e pubblicata nella compilation di rarità Metamorphosis), un brano che già in origine era un omaggio a Spector (il marito), e quindi Ronnie non deve cambiare molto per portare a casa il risultato pieno (a parte il titolo, dove Boys viene sostituito da Girls); Don’t Let The Sun Catch You Crying (Gerry & The Pacemakers) è invece ripresa in maniera quasi cameristica, con solo due chitarre acustiche ed un violoncello (ed anche una leggera percussione) ad accompagnare la voce carismatica di Ronnie, una rilettura di classe, parola non abitualmente associata ad una che ha il soprannome di “bad girl of rock’n’roll”. Tired Of Waiting è una (bella) canzone dei Kinks, anche se non tra le più note, e la nostra Veronica la rifà con un approccio rock asciutto e diretto ed un leggero sapore errebi che non guasta; Tell Her No (Zombies) è la più mossa finora, con ancora un arrangiamento in perfetto stile anni sessanta, un blue-eyed soul di presa immediata, mentre con I’ll Follow The Sun (Beatles, of course) non si sforza più di tanto, lasciando intatta la struttura folk dei Fab Four ed eseguendola con due chitarre e poco altro. You’ve Got Your Troubles è un oscuro brano di un’altrettanto oscura band (The Fortunes) ed è il primo e per fortuna unico caso di suono un po’ finto, con drum programming e synth ben in vista, ed anche la canzone non è niente di che, meglio Girl Don’t Come (di Sandie Shaw, la “cantante scalza” molto popolare anche in Italia), che mantiene il gusto pop dell’originale ed è suonata in maniera classica, e pur non essendo un grande brano si lascia ascoltare.

Don’t Let Me Be Misunderstood è invece un capolavoro della nostra musica (ed è anche la più famosa tra le canzoni scelte dalla Spector), ed anch’essa viene rivestita di sonorità tra rock e rhythm’n’blues, dando un sapore nuovo ad un pezzo che ha avuto più di una versione superlativa (Animals e Nina Simone su tutte… e che nessuno si azzardi a dire Santa Esmeralda, a parte Carlo Conti!): gran ritmo e melodia trattata con il dovuto riguardo. Il CD si chiude con l’unico “sconfinamento” negli anni settanta, con la nota How Can You Mend A Broken Heart dei Bee Gees, un pezzo che non ho mai amato particolarmente (ma è un mio problema, Ronnie la rifà bene): quindi, ripeto, un dischetto forse non indispensabile, ma in definitiva ben fatto ed ottimamente interpretato, e vista la (poca) regolarità con la quale incide Ronnie Spector, l’acquisto ci può anche stare.

Marco Verdi