Sempre Uno Dei “Maestri” Del Blues E Del Soul, In Tutte Le Sue Coniugazioni. Delbert McClinton And Self-Made Men + Dana – Tall, Dark And Handsome

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Delbert McClinton And Self-Made Men + Dana – Tall, Dark And Handsome – Hot Shot Records/Thirty Tigers

E al blues e al soul, potremmo aggiungere Americana music, roots rock, country e tutti gli stili che ci girano intorno e vi vengono in mente. Perché il texano Delbert McClinton (come orgogliosamente dichiara lo sticker sulla copertina del CD, che ricorda le sue tre vittorie ai Grammy) nel corso degli anni ha frequentato tutti questi generi, quasi sempre sapientemente miscelati in una serie di album che toccavano tutte queste diverse anime musicali del nostro amico, che non a caso ha vinto un Grammy nel 1992 in ambito rock, in coppia con Bonnie Raitt, un’altra che conosce bene la materia, e due nella categoria Contemporary Blues, nel 2002 e 2006, totalizzando sette nominations complessive. Il musicista di Lubbock è salito per la prima volta su un palco nel 1957 e da allora ha sempre cantato dal vivo,  soprattutto negli States, senza peraltro mai raggiungere la grande fama, visto che il suo album di maggior successo, The Jealous Kind del 1980, è arrivato solo al n° 34 delle classifiche di vendita di Billboard. Ma ancora oggi a quasi 79 anni, li compirà a novembre, è considerato uno dei migliori stilisti e vocalist in circolazione, molto considerato da appassionati, critica e colleghi.

All’inizio di carriera, nel 1972 e 1973, faceva coppia, come Delbert & Glen, con Glen Clark, con cui ha realizzato una eccellente reunion negli anni 2000 , che è stata la sua ultima fatica con la New West https://discoclub.myblog.it/2013/07/07/sembra-quasi-un-disco-di-delbert-mcclinton-delbert-and-glen/, prima di dovere anche lui diventare “indipendente”, fondando una propria etichetta, la Hot Shot Records distribuita da Thirty Tigers, con cui ha pubblicato prima Prick Of The Litter nel 2017, e ora questo Tall, Dark And Handsome, sempre accompagnato dalla sua nuova formazione i Self-Made Men, ai quali si è aggiunta per l’occasione la sassofonista Dana Robbins. il disco è co-prodotto con McCClinton dai suoi abituali collaboratori Kevin McKendree, che è anche il tastierista della band, e Bob Britt, il chitarrista (nonché marito di Etta, che nel 2015 ha dedicato un delizioso disco a McClinton https://discoclub.myblog.it/2015/01/09/amica-delbert-mcclinton-etta-britt-etta-does-delbert/ ). Entrambi i musicisti sono anche i co-autori della gran parte delle canzoni, mentre il disco è stato registrato alla Rock House di Franklin, Tennessee, stato in cui il nostro amico vive ormai da moltissimo tempo. A completare la formazione, oltre alla Robbins, Mike Joyce al basso, Jack Bruno alla batteria e Quentin Ware alla tromba, più diversi altri musicisti e vecchi collaboratori che appaiono solo in alcuni brani.

In fondo, per riepilogare, potremmo definire il suo stile “roadhouse music”, un posto dove ti ristori l’animo lungo la strada e ascolti della buona musica: forse questo nuovo album non è il migliore della sua carriera ( per quanto siamo almeno ai livelli più che rispettabili del precedente), ma è comunque un disco solido, tutto incentrato, come è abitudine del nostro, su nuove canzoni scritte per l’occasione. L’iniziale Mr. Smith è uno shuffle jazz blues per big band, oppure sempre per abbreviare Texas swing ( e si capisce perché i Blues Brothers lo amavano), con fiati impazziti, vocalist di supporto (Vicki Hampton, Wendy Moten, Robert Bailey) molto impegnati, come pure McKendree al piano e la Robbins e Jim Hoke al sax, lui canta alla grande come sempre; la breve If I Hock My Guitar sta giusto a metà strada tra il R&R di Chuck Berry, con la chitarra di Britt in bella evidenza, e un errebì carnale che va molto di groove. No Chicken On The Bone è un divertente western swing con uso violino (Stuart Duncan), sempre con la voce granulosa e sporca (ma è sempre stata così, non è l’effetto dell’età) di McClinton titillata dalle sue coriste.

Altro cambio di atmosfera per Let’s Get Down Like We Used To, l’unico brano firmato insieme a Al Anderson degli NRBQ Pat McLaughlin, un pigro e carnale funky-blues con assolo di clarinetto di Hoke, e McKendree sempre elegante al piano elettrico, Gone To Mexico è una delle tre canzoni scritta in solitaria da Delbert, era già apparsa su un disco del 2010 di uno dei figli, Clay McClinton (con quattro dischi nel suo carnet) ed un’altra figlia, Delaney, è una delle coriste impiegate in questo album, brano molto ritmato e percussivo, dagli accenti latini e qualche tocco di salsa, con trombe, fiati e la fisarmonica dell’eclettico Jim Hoke in azione. Lulu è molto jazzy, mi ricorda, anche vocalmente, il Tom Waits anni ’70, raffinata e notturna, sulle ali di piano, chitarra e contrabbasso, mentre Loud Mouth è un blues chitarristico, con il figlio di McKendree, Yates, alla solista, una atmosfera che rimanda molto anche allo stile del Randy Newman più mosso, con le mani di McKendree che volano sul pianoforte https://www.youtube.com/watch?v=duL9um3cbvI , e anche la quasi omonima Down In the Mouth, un altro dei brani firmati in solitaria da McClinton, è un altro Texas blues shuffle di grande appeal https://www.youtube.com/watch?v=45bZwxicVTMRuby And Jules, tra piano jazz e R&B anni ’50 è un’altra delizia per i nostri padiglioni auricolari, sempre con quella voce sublime a sottolinearla, con Any Other Way che è l’unica ballata del disco, struggente e laconica, qualche profumo di New Orleans e nuovamente di Randy Newman, suonata sempre divinamente dai magnifici musicisti di questo disco e con assolo di sax d’ordinanza.

A Fool Like Me, rocca, rolla e swinga di brutto con tutta la band che lo segue come un sol uomo, manco fossero i Little Feat degli anni d’oro;: mentre almeno a livello di testo, come dice lo stesso Delbert, Can’t Get Up,  fa parte dei brani “non ho più l’età per fare queste cose”, ma invece ce l’ha eccome e lo fa benissimo, con McKendree che per l’occasione sfodera un organo Hammond vintage e malandrino per spalleggiarlo. Temporarily Insane è una strana canzone, molto waitsiana dell’ultimo periodo, mezza parlata e senza una melodia definita a sostenerla, non c’entra molto con il resto del CD, ma ha un suo fascino malato. Chiude la brevissima A Poem, altro brano strano che, come direbbe Tonino Di Pietro non ci azzecca molto con con il resto dell’album, un minuto dissonante e frammentario che non inficia comunque l’ottima qualità del resto del disco.

Bruno Conti

 

Voci E Dischi Così Non Se Ne Fanno Quasi Più! Janiva Magness – Love Is An Army

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Janiva Magness – Love Is An Army – Blue Elan Records/Ird

Anno dopo anno, disco dopo disco, Janiva Magness si conferma una delle voci più belle del panorama musicale americano: vogliamo definire il suo genere blues, soul, rock, country, R&B, tutti elementi presenti, ma quello che spicca sempre nei suoi album è  comunque la voce, un timbro, un fraseggio ed una espressività che non hanno nulla da invidiare alle più grandi, da Mavis Staples a Ann Peebles, tra quelle ancora in attività, ma anche le grandi del passato, soprattutto le “voci nere” con cui la nostra amica condivide quel tocco magico che divide le prime della classe dalle scartine. In questo Love Is An Army, il suo 14° album, la bravissima Janiva fonde ancora una volta in maniera magistrale (grazie anche al suo collaboratore storico Dave Darling), le due anime di Nashville e Memphis, il cuore della migliore musica americana, e lo fa senza sforzo apparente, con una classe e una forza espressiva che per certi versi richiama quella di Delbert McClinton, una sorta di controparte maschile della Magness, o viceversa, presente a duettare con lei in un brano e da tantissimi anni anche lui portatore sano di buona musica, quella più genuina e non adulterata, arricchita da infinite perle sonore che parlano di amore, speranza, protesta, con una resilienza acquisita in lunghi anni on the road, non dimenticando mai gli anni bui degli abusi, degli abbandoni, dell’alcolismo e delle droghe, una vita poi riscattata in modo splendido con una carriera ricca di soddisfazioni che le ha portato sette Blues Music Awards e una nomination ai Grammy nel 2016.

Lo stesso anno in cui ha pubblicato l’ottimo Love Wins Again https://discoclub.myblog.it/2016/05/11/piu-che-lamore-la-voce-che-vince-volta-janiva-magness-love-wins-again/ , poi raddoppiato nel 2017 con il mini album Blue Again, altrettanto bello. In passato Janiva ha cantato spesso e volentieri anche canzoni di altri, interpretandole in modo sublime, ma in questo nuovo Love Is An Army, forse il suo disco più bello in assoluto, ha deciso di rivolgersi ad un repertorio originale, pezzi scritti da lei, da Dave Darling e da altri collaboratori che hanno saputo pescare nei sentimenti più genuini e veraci, poi il resto ancora una volta lo ha fatto lei con la sua voce splendida, e anche tutti i musicisti incredibili che suonano nel disco: da Darling alla chitarra, passando per le sezione ritmica impeccabile di Stephen Hodges, batteria e Davey Faragher, basso, Arlan Schierbaum, tastiere (per lunghi anni con Bonamassa, Beth Hart e anche John Hiatt), Doug Livingston al dobro e alla pedal steel (ma in un brano, splendido, c’è anche Rusty Young dei Poco), e ancora Phil Parlapiano al piano e in alcuni brani. una sezione fiati con Darrell Leonard, Joe Sublet e Alfredo Ballesteros, oltre a svariati backing vocalists che illuminano con la loro presenza le sfumature delle canzoni.

Oltre a Young ci sono vari altri ospiti che duettano con la nostra amica: dall’iniziale Back To Blue, che stabilisce subito i confini musicali, tra Stax e Hi Records, più la prima nel caso specifico, con echi del profondo southern soul che usciva dai solchi dei dischi degli Staples Singers, ma anche da quelli di Ann Peebles, con la voce che galleggia su un mare di voci, fiati, tastiere, l’organo magnifico, la chitarra malandrina, con risultati speciali. Hammer aggiunge al menu anche tocchi più blues, grazie alla presenza di Charlie Musselwhite all’armonica, per un brano ritmato e scandito, quasi funky, che fonde mirabilmente le 12 battute e il R&B più genuino, per poi sfociare in un country got soul magnifico, dove la pedal steel di Rusty Young disegna traiettorie adorabili che ci spediscono diritti negli anni magici delle più riuscite e nobili fusioni tra la musica nera e quella bianca, On And On è una di quelle canzoni perfette, cantata in modo mirabile dalla Magness, che sfodera per l’occasione una delle sue interpretazioni più memorabili, semplicemente magnifica, sentire per credere. Tell Me è un “soul psichedelico” tra Heard It Through The Grapevine e i Temptations, con la chitarra “sporca e cattiva” di Darling in bella evidenza, Love Is An Army è un’altra bellissima ballata dal retrogusto country, a tutta steel, cantata divinamente in coppia con il compagno di etichetta, il texano Bryan Stephens, un altro brano delizioso e sognante.

Notevole pure Down Below, un pezzo dove appare il virtuoso del banjo e della chitarra Courtney Hartman, dalla band Della Mae, altro brano incalzante dal gusto rootsy che illustra il sound complesso di questo album; What’s That Say About You è un altro pezzo “nero”, potente e ritmato degno della gesta degli Staple Singers. What I Could Do, l’unica cover, un pezzo scritto dal bravissimo Paul Thorn, è l’occasione per il duetto citato con Delbert McClinton, una ballata melliflua e delicata cantata in modo radioso dai due che si integrano alla perfezione, teneri e vissuti come solo i grandi sanno essere. Un pizzico di blues del Delta per il quasi gospel di Home dove la chitarra di Cedric Burnside è elemento portante, mentre Love To A Gunfight, ancora con la pedal steel di Doug Livingston in grande spolvero, è un altro esempio del miglior country got soul che si possa immaginare, elevato alla quasi perfezione, e poi ripetuto nella fragile e cristallina When It Rains, dove sembra di ascoltare la migliore Joan Armatrading degli anni ’70, vulnerabile e delicata nel mettere a nudo il proprio animo. Janiva Magness ci regala un’ultima perla del suo perfetto phrasing nella emozionante Some Kind Of Love, una ballata gospel solo voce e piano di una bellezza disarmante, cantata in modo sontuoso. Voci così non se ne fanno più.

Bruno Conti  

Forse L’Ultima Occasione Per Un “Cantante Vero”! Frankie Miller’s Double Take

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Frankie Miller – Frankie Miller’s Double Take – Universal CD – CD+DVD

Per chi non lo sapesse, e purtroppo temo siano in molti, soprattutto tra i più giovani, Frankie Miller è stato uno dei più grandi cantanti inglesi della storia del rock (e pure del soul, non solo quello blue eyed, ma in generale), un interprete ed autore assolutamente alla pari, anche superiore per certi versi, a gente come Rod Stewart o Paul Rodgers, ma anche andando a ritroso, Eric Burdon, Joe Cocker, Chris Farlowe, Steve Marriott, uno in grado di interpretare brani di Otis Redding e Marvin Gaye, infondendo nelle canzoni il fuoco dell’interprete sublime o del rocker selvaggio, ma anche autore di splendide canzoni, che se non hanno infiammato le classifiche nel suo periodo aureo, sono state apprezzate da tutti gli amanti della musica più genuina, grazie a una potenza vocale inaudita, un phrasing perfetto ed una grinta incredibile, soprattutto nei concerti dal vivo (andatevi a recuperare il triplo CD o doppio DVD del Rockpalast, è fenomenale), ma anche i dischi in studio, soprattutto i sette incisi tra il 1973e il 1980, e raccolti nello splendido cofanetto That’s Who: Complete Chrysalis Recordings 1973-1980, sono tra le migliori cose di sempre prodotte dal rock britannico (anzi scozzese, perché il nostro viene da Glasgow).

Tra le sue collaborazioni sono famose quelle con Phil Lynott dei Thin Lizzy per Still In Love With You e quelle dal vivo con Rory Gallagher, un altro genuino e istintivo come lui  https://www.youtube.com/watch?v=OUAM66Oc-ck. Un paio di brani nei top 10 inglesi, alcune canzoni in film e serie televisive, i suoi pezzi sono stati incisi anche da Ray Charles, Rod Stewart, Etta James, Johnny Cash, Roy Orbison e i Traveling Wilburys, qualche apprezzata esperienza come attore, poi i suoi brani hanno cominciato ad avere successo in ambito country, ma dal 1985 non riusciva più ad incidere un album nuovo. Nel 1994 si era trasferito a New York per formare un nuovo gruppo, con Joe Walsh alla chitarra, Nicky Hopkins al piano e Ian Wallace alla batteria, quando improvvisamente una notte, il 25 agosto del 1994, la luce si è spenta, Miller ha avuto una emorragia cerebrale per cui ha rischiato di morire, è rimasto molti mesi in coma, ma caparbiamente, anche se dicevano che non avrebbe più camminato e recuperato l’uso delle sue funzioni vitali, ha ripreso la vita per i capelli, e anche se non ha più potuto cantare e scrivere canzoni, come racconta l’ottimo documentario della BBC Stubborn Kinda Fella https://www.youtube.com/watch?v=DI24jV1AxwE , comunque si è impegnato per riavere quello che era possibile.

E ora, dopo molti anni e molti tributi, tramite l’interessamento di Rod Stewart, suo grande ammiratore, che lo ha definito l’unico cantante bianco “in grado di portare una lacrima al mio occhio”, e che ha contattato il produttore australiano David Mackay chiedendogli se era a conoscenza di materiale inedito di Frankie Miller, il quale a sua volta lo ha chiesto alla moglie di Miller Annette, sempre rimasta al suo fianco in questi anni difficili, che gli ha spedito due sacchettoni pieni di demos, dal quale sono emersi i diciannove pezzi che compongono questo Frankie Miller’s Double Take. Come direbbe Fantozzi, paventavo “una cagata pazzesca” e invece l’album, che ho sentito ripetutamente in streaming prima dell’uscita e di nuovo in questi giorni, è decisamente buono, non un capolavoro, ma assolutamente degno delle glorie passate di Frankie. Canzoni interpretate nell’album sotto forma di duetto con ospiti illustri: dal rock iniziale di Blackmail, con l’amico Joe Walsh alle chitarre, anche slide, passando per Where Do The Guilty Go, che sembra una canzone perduta del Elton John anni ’70, con Steve Cropper alla chitarra. Way Past Midnight, un poderoso rock’n’soul faitistico con Huey Lewis, True Love, una bella ballata con Bonnie Tyler, seconda voce meno “pomposa! del solito, perché comunque la protagonista assoluta del disco è la voce di Miller, forte e potente come sempre, e il contorno musicale creato è assolutamente all’altezza. In Kiss Her For Me, il duetto con Rod Stewart, è difficile distinguere le voci dei due, stesso timbro, stesso phrasing, ottima canzone, Gold Shoes, il pezzo con Francis Rossi, sembra uno di quelli belli degli Status Quo, deliziosa anche la canzone con Kiki Dee e Jose Antonio Rodriguez (?), e persino Kid Rock fa un figurone in Jezebel Jones, un pezzo che ricorda moltissimo Bob Seger (che ha ammesso le influenze di Miller nella sua musica).

Grande tiro in When It’s Rockin’, il duetto con Steve Dickson, che rievoca le vecchie glorie dei Full House, la sua band dell’epoca, tra fiati e slide a manetta. Frankie Miller e Delbert McClinton sono due gemelli separati alla nascita nella tirata Beginner At The Blues, e Kim Carnes ha lampi del vecchio splendore nella ballata To Be With You Again; Willie Nelson aggiunge la sua classe e un assolo di Trigger nello splendido country-soul che risponde al nome di I Want To Spend My Life With You. Se il disco si fosse limitato a queste dodici canzoni sarebbe stato un album da tre stellette e mezzo, delle altre sette aggiunte, con vecchie glorie perlopiù bollite, si salvano ancora i duetti con Paul Carrack e quello con Lenny Zakatek, della band inglese funky anni ’70 Gonzalez, oltre alla conclusiva I Do, in solitaria e un’altra ballata The Ghost, con Tomoyasu Hotel (?!?), che a tratti sembra Purple Rain di Prince. A dispetto delle premesse, un vero disco per un cantante “vero”.

Bruno Conti

Gli Amici “Leggendari”, Lui Meno! T.G. Sheppard – Legendary Friends & Country Duets

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T.G. Sheppard – Legendary Friends & Country Duets – Cleopatra Records 

Quando leggo Cleopatra Records vedo subito rosso, ma non per la rabbia, come i tori, è piuttosto un effetto simile a quello di trovarsi di fronte ad un semaforo: ti fermi e guardi bene, a destra e sinistra, per capire cosa succede e dove dirigerti, perché la “fregatura” spesso è lì, vicino all’incrocio. Cosa ti hanno combinato questa volta? E soprattutto chi è questo T.G. Sheppard che ha “Leggendari Amici”? In effetti già quando avevo visto nella lista delle uscite questo Legendary Friends & Country Duets, senza sapere che era su etichetta Cleopatra, mi aveva incuriosito per lo schieramento di cantanti celebri che Sheppard era riuscito a riunire per questo album: un onesto, ma non celeberrimo cantante country, in azione già dagli inizi anni ’70, sia come cantante che come discografico, senza mai raggiungere vette qualitative particolarmente significative e operando in quel di Nashville in un ambito country-pop, ben rappresentato sia dai suoi successi come “A.R. Man” per Elvis, Perry Como e John Denver e poi con una serie di dischi a nome proprio che non hanno mai infiammato noi appassionati di un country più illuminato e meno legato all’industria.

Già leggendo la lista, peraltro importante, dei partecipanti ai duetti, si intuisce il solito “progetto” Cleopatra dalla temporalità dubbia: cioè, quando è stato inciso il disco? Conway Twitty è morto dal 1993, George Jones da un paio di anni, Jerry Lee Lewis non incide più molto spesso. Ma proprio il brano scritto da Sheppard con la moglie Kelly Lang (non è quella di Beautiful) e lo stesso Lewis, The Killer, prende bene, oltre che per il suo spirito autobiografico, anche per l’andamento country-soul, tra chitarre, fiati, il piano inconfondibile e le belle voci di T.G. e Jerry Lee, niente di imprescindibile, ma una bella canzone, come quella posta in apertura, Down In My Knees, un gradevole country-gospel cantato in coppia con gli Oak Ridge Boys https://www.youtube.com/watch?v=FjlCSdxSCHs , e niente male, anche se i primi segnali zuccherosi si fanno strada, la versione di Why Me Lord un brano di Kris Kristofferson sotto forma di tipica ballata country, cantata proprio con Conway Twitty. Pure Song Man, un brano di Merle Haggard cantato in coppia con l’autore, non dispiace, con una pedal steel ed una acustica che convivono con una marimba (??) che fa molto Nashville pop, ma non riesce a rovinare del tutto la canzone. Piacevolissimo viceversa l’arrangiamento, in puro stile country-Tex Mex Mariachi, di una divertente Fifteen Rounds Of Jose Cuervo, cantata con Delbert McClinton https://www.youtube.com/watch?v=HSgC-Sv6dTA .

E fin qui tutto bene, diciamo che l’album si è guadagnato la sufficienza risicata, ma da qui in avanti l’effetto Cleopatra si fa sentire: già il duetto con Lorrie Morgan, in una The Next One orchestrale, molto crooner after hours, che c’entra come i cavoli a merenda con il resto del disco, potrebbe essere piacevole in un tributo a Sinatra, ma in un disco country? 100% Chance Of Pain, cantata con BJ Thomas e Jimmy Fortune degli Statler Brothers (che a dispetto del nome non erano neppure parenti), è quanto di più pacchiano ci si potrebbe aspettare e anche It’s A Man Thing, il duetto con uno sfiatatissimo George Jones a fine carriera, rischia di rovinare la reputazione del grande “Possum” e sarebbe stato meglio lasciarlo negli archivi https://www.youtube.com/watch?v=rPndtDldf14 . Wine To Remember And Whiskey To Forget, il duetto con Mickey Gilley, l’urban cowboy più famoso per essere stato il cugino di Jerry Lee Lewis che per la sua carriera e Dead Girk Walking, in coppia con la moglie Kelly Lang (che ha scritto anche la gran parte dei brani), sono senza infamia e senza lode, belle voci tutti, anche lo stess T.G. Sheppard, ma suscitano poche emozioni. Quelle che crea Willie Nelson anche quando è alle prese con l’elenco telefonico, ma che nel caso è ben servito da una ottima In Texas, un brano di Dennis Linde che risolleva in parte le sorti di questo album, anche se l’arrangiamento sfiora sempre il pacchiano https://www.youtube.com/watch?v=QRnZN0Rn620 . Ma il duetto con Engelbert Humperdinck sembra un pezzo di Iglesias (il babbo) in versione country e anche nell’accoppiata con Crystal Gaylein I’m Not Going Anywhere, si rischia un attacco di diabete. If You Knew, una ballata malinconica con Ricky Skaggs e le Whites, non sarebbe neppure male, ma l’arrangiamento è da denuncia penale!

Bruno Conti