Il Modo Migliore E Più Economico Per Riscoprire Una Grande Band. Dire Straits – The Studio Albums 1978 – 1991

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Dire Straits – The Studio Albums 1978 – 1991 – Mercury/Universal 6CD Box Set

Nel 2013 era uscito un costosissimo cofanetto in vinile con i sei LP della discografia di studio dei Dire Straits, intitolato appunto The Studio Albums 1978-1991: ora quel box è stato ristampato, ma questa volta è stata pubblicata anche una versione in CD, che a differenza della controparte a 33 giri è veramente a buon mercato (sei CD a poco più del prezzo di uno), e presenta i sei album del gruppo britannico in confezioni vinyl replica con la veste grafica originale in una pratica confezione “clamshell”, senza bonus tracks e con la rimasterizzazione del 1996 (ma i dischi della band hanno sempre suonato benissimo), anche se io avrei aggiunto l’EP del 1982 ExtendeDancEPlay, che tra parentesi non è mai stato pubblicato in CD (*NDB Solo in un videoCD Laserdisc). L’occasione è quindi ghiotta per riascoltare l’opera omnia del gruppo fondato nel 1977 da Mark Knopfler, ex insegnante di inglese con un talento smisurato per la chitarra che negli anni si è creato uno stile personale, riconoscibilissimo e super imitato, grazie ad un fraseggio sublime e particolare dovuto all’uso della tecnica del fingerpicking invece del plettro (e al fatto che era un mancino che suonava come un destrorso).

Ma i Dire Straits erano comunque una grande band a prescindere dal loro leader, una delle migliori degli ultimi 45 anni, con un suono che coniugava uno stile laidback alla J.J. Cale ad un songwriting figlio di Bob Dylan, senza dimenticare la lezione dei pub rockers degli anni 70, il tutto riassunto in qualcosa di personale e identificativo. Un gruppo formidabile quindi, il cui primo nucleo era formato da Knopfler, suo fratello David alla chitarra ritmica, John Illsley (l’unico presente in tutte le configurazioni della band) al basso e Pick Withers alla batteria (vecchio batterista dei Primitives di Mal), e che ebbe grande successo fin dall’album d’esordio Dire Straits del 1978 ****1/2 (prodotto da Muff Winwood, fratello di Steve), nonostante fosse uscito in piena rivoluzione punk. Un disco magnifico ancora oggi, dal sound elegante e coinvolgente al tempo stesso, che deve gran parte della sua fortuna alla splendida Sultans Of Swing, una canzone rock trascinante che sarà sempre considerata la signature song di Knopfler, ricca dei fills di chitarra che diventeranno il marchio di fabbrica del nostro e con un assolo finale incredibile.

Down To The Waterline è nello stesso stile e solo di poco inferiore, mentre sia la countreggiante Setting Me Up che la sensuale ed insinuante Six Blade Knife sono brani di qualità eccelsa, come anche Water Of Love e le conclusive Wild West End e Lions. L’inatteso successo del disco (quinto posto in patria e addirittura secondo in USA) convince i nostri a rimettersi subito al lavoro per produrre un seguito, ma l’errore di base di Communiqué ***1/2 (1979) è di ricalcare troppo gli stilemi del suo predecessore, come se Mark e compagni non avessero voluto rischiare più di tanto, nonostante la produzione del leggendario binomio sudista Jerry WexlerBarry Beckett ed i famosi Compass Studios di Nassau, Bahamas, come luogo delle registrazioni.

Il problema è che i brani qui contenuti sono di qualità inferiore a quelli di Dire Straits (con la possibile eccezione dell’opening track, la raffinata Once Upon A Time In The West, che infatti diventerà un classico), e questo porterà l’album ad avere vendite discrete ma non eccelse. Comunque un buon disco, di piacevole ascolto, con diversi pezzi degni di nota come l’accattivante singolo Lady Writer (forse un po’ troppo simile a Sultans Of Swing), l’affascinante Where Do You Think You’re Going?, dotata di un ottimo crescendo finale, e le piacevoli Angel Of Mercy, Portobello Belle e Follow Me Home, quest’ultima decisamente influenzata da Cale.

All’inizio del 1980 David Knopfler, nel bel mezzo delle registrazioni del terzo album, abbandona il gruppo (che rimane momentaneamente un trio, con Mark che reincide anche le parti ritmiche del fratello): i nostri erano in studio con Jimmy Iovine, che all’epoca era il produttore “da avere”, e con il tastierista della E Street Band Roy Bittan, due scelte azzeccatissime in quanto Making Movies **** si rivela il disco più venduto del gruppo fino a quel momento, ma anche un lavoro eccellente in cui il suono della band assume toni più radio friendly ed anche più profondità grazie allo splendido lavoro di Bittan.

Grande merito va comunque alla strepitosa Tunnel Of Love, un tour de force di otto minuti che per chi scrive è il miglior brano di sempre del gruppo (il finale, con l’assolo di Mark doppiato dal pianismo liquido di Roy, è da antologia), ed alla popolarissima e toccante ballata Romeo And Juliet. Di notevole impatto anche Expresso Love, Skateaway, l’adrenalinica Solid Rock e la scanzonata e divertente Les Boys.

Ormai i Dire Straits sono una realtà mondiale, nonché tra i pochi gruppi dell’epoca che riescono a coniugare vendite copiose e musica di qualità: ancora meglio in classifica andrà Love Over Gold ***del 1982, che toccherà la prima posizione in tutte le principali nazioni nonostante una veste più sperimentale del solito (e con il gruppo che aggiunge ai tre membri fondatori il tastierista Alan Clark ed il chitarrista Hal Lindes).

Sì, perché il disco contiene solo cinque canzoni, tutte discretamente lunghe ed apparentemente senza singoli da classifica, ma all’interno si trovano due capolavori assoluti come Telegraph Road, un brano di quasi 15 minuti con una parte strumentale sublime ed una grande prestazione di Knopfler, e la geniale Private Investigations, un pezzo raffinatissimo con delle soluzioni musicali pazzesche ed un crescendo emozionante, che negli anni rimarrà uno dei brani più amati dai fans.

Chiudono Industrial Disease, la traccia più movimentata dell’album, la lenta e soffusa title track e It Never Rains, altro lungo pezzo sullo stile di Telegraph Road. Dopo un disco dal vivo deludente e poco rappresentativo degli show dei nostri (Alchemy ***, 1984), Knopfler e soci nel 1985 fanno il botto: Brothers In Arms ***1/2 è infatti un successo al di fuori di ogni previsione, un lavoro che va al primo posto letteralmente ovunque e che nel tempo arriverà a vendere ben trenta milioni di copie (ricordo quell’estate, era impossibile accendere la radio senza imbattersi prima o poi in un brano tratto dall’album).

Escono Withers (che non viene rimpiazzato con un batterista fisso) e Lindes ed entra Guy Fletcher come secondo tastierista, mentre alla produzione a fianco di Knopfler troviamo Neil Dorfsman. Come tutti i dischi di smisurato successo anche Brothers In Arms ha i suoi alti e bassi: se la trascinante Money For Nothing (composta e cantata con Sting) ha un intro emozionante ed uno dei più bei riff chitarristici di sempre e Walk Of Life è un rock’n’roll parecchio divertente, l’iniziale So Far Away è gradevole ma un filo troppo pop, e la sdolcinata Your Latest Trick non l’ho mai digerita molto.

In definitiva il brano migliore è l’epica ballad che intitola l’album, ma da non sottovalutare sono anche la deliziosa Why Worry e la bluesata The Man’s Too Strong. La lunga tournée seguita alla pubblicazione del disco lascia Knopfler, che già di suo è una persona timida e che non ama troppo la ribalta, stanco e forse spaventato dal troppo successo, e quindi per un intero lustro il gruppo viene messo in soffitta a favore di altri progetti come colonne sonore, l’eccellente disco del supergruppo The Notting Hillbillies e lo splendido album Neck And Neck, registrato con l’idolo di gioventù Chet Atkins 

Anzi, se fosse per Knopfler l’avventura dei Dire Straits sarebbe anche finita, ma la pressione dell’opinione pubblica e della casa discografica lo convincono a richiamare Illsley, Fletcher e Clark per un ultimo disco e tour. Ma On Every Street ***(1991), nonostante venda tantissimo più che altro sulla fiducia ed a causa dell’astinenza dei fans, è un lavoro tutto sommato deludente, l’anello debole della discografia dei nostri.

Non è un brutto disco (e risentito oggi forse guadagna mezzo punto), ma con un Knopfler svogliato che alterna buone canzoni a riempitivi di classe che sembrano però esercizi di stile fini a loro stessi. Se The Bug è un buon rock’n’roll che però sembra la fotocopia sbiadita di Walk Of Life, Calling Elvis (*NDB Zucchero ringrazia, e copia) e Heavy Fuel sono due rock songs qualunque, Iron Hand dice poco, Fade To Black è elegante e basta e Planet Of New Orleans è tirata troppo per le lunghe.

I pezzi migliori sono quelli in cui Knopfler introduce un certo suono country-rock (When It Comes To You, Ticket To Heaven, How Long) e soprattutto la bellissima title track, una ballata degna del passato del gruppo con una coda strumentale splendida. Dopo il tour (ed un altro live album poco riuscito, On The Night *** ), Knopfler manda definitivamente in pensione i Dire Straits per dedicarsi ad una carriera da solista che sarà ricca di soddisfazioni e tanta grande musica,

guardate il video sopra, una curiosità poco nota, lasciandoci però questi sei album che testimoniano un’epopea irripetibile e che oggi possiamo riascoltare con immutato piacere ad un prezzo davvero abbordabile.

Marco Verdi

Dire Straits – The Studio Albums 1978-1991. A Breve Nei Negozi Il Box Da 6 CD, Al Prezzo Di Poco Più Di Uno

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Dire Straits – The Studio Albums 1978-1991 – 6 CD Mercury UMC – 09-10-2020

Se nelle vostre discoteche avete una lacuna rispetto all’opera omnia dei CD in studio dei Dire Straits questa è l’occasione ideale per colmarla. All’incirca 7 anni fa era già uscita una versione in vinile (che ora verrà replicata, sempre in 6 LP, ma con un costo superiore ai 130 euro), mentre ora, il 9 ottobre la Universal pubblica il cofanetto con tutti i 6 dischetti in studio della band di Mark Knopfler, registrati tra il 1978 e il 1991, quindi mancano il doppio dal vivo Alchemy, On The Night sempre in concerto, come pure il Mini ExtendedancEPlay e le antologie varie. Ma quello che è estremamente interessante è il prezzo: la confezione dovrebbe costare intorno o poco più di 20 euro. Gli album non sono stati rimasterizzati per l’occasione ma portano il remaster fine anni ’90, quindi il secondo e più recente, in più ogni CD, formato bustina vinyl replica, riporta nel foglietto interno i testi degli album e tutte le note dei dischi originali, anche se nessuna bonus track.

Come al solito ecco la lista completa dei contenuti.

[CD1: Dire Straits]
1. Down To The Waterline
2. Water Of Love
3. Setting Me Up
4. Six Blade Knife
5. Southbound Again
6. Sultans Of Swing
7. In The Gallery
8. Wild West End
9. Lions

[CD2: Communiqué]
1. Once Upon A Time In The West
2. News
3. Where Do You Think You’re Going
4. Communiqué
5. Lady Writer
6. Angel Of Mercy
7. Portobello Belle
8. Single Handed Sailor
9. Follow Me Home

[CD3: Making Movies]
1. Tunnel Of Love
2. Romeo And Juliet
3. Skateaway
4. Expresso Love
5. Hand In Hand
6. Solid Rock
7. Les Boys

[CD4: Love Over Gold]
1. Telegraph Road
2. Private Investigations
3. Industrial Disease
4. Love Over Gold
5. It Never Rains

[CD5: Brothers In Arms]
1. So Far Away
2. Money For Nothing
3. Walk Of Life
4. Your Latest Trick
5. Why Worry?
6. Ride Across The River
7. The Man’s Too Strong
8. One World
9. Brothers In Arms

[CD6: On Every Street]
1. Calling Elvis
2. On Every Street
3. When It Comes To You
4. Fade To Black
5. The Bug
6. You And Your Friend
7. Heavy Fuel
8. Iron Hand
9. Ticket To Heaven
10. My Parties
11. Planet Of New Orleans
12. How Long

Per cui se non avete già tutto o volete rinnovare la vostra collezione questa è l’occasione perfetta e a poco prezzo.

Alla prossima.

Bruno Conti

P.S.

Per curiosità questa è la prima versione di Sultans Of Swing pubblicata nel 1977 sull’album Honky Tonk Demos e trasmessa dal DJ Charlie Gillett il 27 luglio di quell’anno, più di un anno prima di quella ufficiale apparsa nell’album omonimo del 1978 e la potete trovare anche in questo CD della ACE Records.

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Un’altra curiosità che non molti conoscono è che il batterista della band Pick Withers aveva iniziato la sua carriera nei Primitives, proprio il gruppo di Mal.

Un Doveroso Recupero Per Uno Dei Migliori Album Del 2019. J.J. Cale – Stay Around

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J.J. Cale – Stay Around – Because Music/Universal CD

Quest’anno nella mia personale classifica dei dieci dischi migliori usciti nel corso degli ultimi dodici mesi ho inserito ben due album postumi, l’emozionante Thanks For The Dance di Leonard Cohen ed il lavoro di cui mi accingo a parlare: Stay Around di J.J. Cale (che all’epoca della sua uscita, fine Aprile, non è stato recensito sul blog come mi ha ricordato Bruno, probabilmente per un classico caso di “lo faccio io-lo fai tu-non lo fa nessuno”). A differenza però del disco finale di Cohen, che è stato creato dal figlio Adam partendo da tracce vocali del padre al quale sono state poi aggiunte musiche registrate per l’occasione, l’album di Cale si compone di brani incisi dal musicista dell’Oklahoma nel corso degli anni e da lui prodotti e mixati ma poi lasciati in un cassetto. Il periodo indicativo delle varie registrazioni di Stay Around va dalla fine degli anni ottanta all’inizio dell’attuale secolo, ed i 15 brani sono stati selezionati dalla moglie di Cale, Christine Lakeland (musicista a sua volta) e masterizzati dal grande Greg Calbi: la Lakeland non ha dovuto aggiungere nulla, le canzoni erano già belle che pronte, ma la selezione è stata fatta con tale cura ed amore che Stay Around non sembra per nulla una collezione di outtakes, ma un disco pensato per essere pubblicato così com’è.

Già avere un nuovo lavoro ascritto a Cale a dieci anni da Roll On è una bella notizia (dalla sua morte improvvisa nel 2013 per infarto non era ancora stato pubblicato nulla), ma che fosse possibile ascoltare un album di questa qualità era aldilà di ogni più ottimistica previsione, in quanto (almeno a mio parere) siamo di fronte ad un disco che si pone tranquillamente nella Top Five del barbuto songwriter e chitarrista (*NDB A questo link trovate la Top 8 che gli avevo dedicato poco prima dell’uscita dell’album sia sul Buscadero che sul Blog https://discoclub.myblog.it/2019/04/19/in-attesa-del-nuovo-album-stay-around-in-uscita-il-26-aprile-ecco-8-dischi-da-avere-se-amate-la-musica-di-jj-cale-parte-i/ e in una rarissima circostanza, nel banner pubblicitario della etichetta Because Music, a fianco di Mojo e Uncut, era stato citato appunto anche il Buscadero) . Stay Around vede infatti il nostro cimentarsi con una serie di canzoni di primissima scelta (tutte scritte da lui tranne My Baby Blues che è della Lakeland) nel suo tipico stile “laidback” tra rock, country e blues, un suono che Cale avrebbe potuto sostenere di avere praticamente inventato se non fosse stato una persona di una modestia rara.

In più, nel disco troviamo una serie di sessionmen formidabili, nomi di primissimo piano che chi legge queste pagine virtuali conosce alla perfezione: David Briggs, Kenny Buttrey, Bobby Emmons, Tim Drummond, Spooner Oldham, Jim Keltner e Reggie Young. Lights Down Low fa iniziare il CD in modo eccellente con un saltellante country-blues suonato in punta di dita, in cui il mix elettroacustico delle chitarre con il piano elettrico è goduria pura; Chasing You è una canzone mossa ed allegra, quasi rock’n’roll, con Cale che canta in modo diretto una melodia vincente (forse il nostro non aveva una voce straordinaria, ma era perfettamente adeguata al suo concetto di laidback music), ed è seguita da Winter Snow, blues elettroacustico di stampo rurale nel tipico stile di J.J. La title track è un mezzo capolavoro, una slow ballad che profuma di country, suonata in maniera fantastica e cantata in maniera quasi sussurrata (con la voce che doppia sé stessa): grandissima classe.

Tell You ‘Bout Her ha una ritmica insinuante ed uno sviluppo a metà tra rock e jazz (per non parlare della solita performance chitarristica di grande finezza, ma dovrei dirlo ad ogni brano), uno dei pezzi più immediati del CD; splendida la folkeggiante Oh My My, eseguita in totale solitudine da J.J., voce e chitarra acustica, ma con un feeling enorme ed una mastria unica nel far scorrere le dita sul manico, mentre My Baby Blues è un rock-blues elettrico e decisamente trascinante, anche se come al solito Cale non perde il suo aplomb. Girl Of Mine è un godurioso blues acustico che ci porta idealmente sulle rive del Mississippi, Go Downtown è una suggestiva ballatona d’atmosfera nella quale si capisce da dove ha preso spunto Mark Knopfler per dare un suono ai suoi Dire Straits, If We Try è ancora uno slow acustico che sa di country e blues, puro e cristallino. La jazzata e cadenzata Tell Daddy, in cui il pianoforte ha un ruolo importante, è un brano di classe sopraffina che precede la bucolica Wish You Were Here, dall’ennesimo magistrale lavoro chitarristico, e la ritmata e coinvolgente Long About Sundown, puro Cale (un pezzo che Eric Clapton potrebbe far suo senza problemi). Il CD si chiude con la melodia orecchiabile di Maria, dal sapore vagamente latineggiante, e con la rilassata e suadente Don’t Call Me Joe.

Stay Around è quindi il miglior testamento musicale possibile per l’esimio J.J. Cale, un lavoro ispiratissimo e di grande livello artistico: se ve lo siete perso non è mai troppo tardi per rimediare.

 Marco Verdi

Un Disco Bello Al Cinquanta Per Cento, Forse Qualcosa Di Più. Rod Melancon – Pinkville

rod melancon pinkville

Rod Melancon – Pinkville – Blue Elan CD

Terzo lavoro per Rod Melancon, giovane rocker della Louisiana, a distanza di due anni dal più che discreto Southern Gothic https://discoclub.myblog.it/2017/09/12/vibrante-rocknroll-dalla-louisiana-rod-melancon-southern-gothic/ , un album che, pur con un paio di perdonabili cadute di tono, ci presentava una serie di rock’n’roll songs di buon livello, molto dirette e non necessariamente in stretta relazione con la musica del bayou, ma in generale più vicine ad un suono tra Rolling Stones, southern rock e Americana. Pinkville nasce come un’immaginaria colonna sonora di un fantomatico film dallo stesso titolo (un po’ come per Greendale di Neil Young, che però esisteva anche come lungometraggio), con una storia che narra di questa città immaginaria abitata da gente in cerca di riabilitazione e reinserimento nella società, siano essi reduci dal Vietnam, ex galeotti o in generale persone con le quali la vita non è stata benevola, uno scenario un po’ alla Cormac McCarthy, che infatti è una delle influenze principali di Rod dal punto di vista letterario.

Ma se i testi sono indubbiamente interessanti, per quanto riguarda la musica a mio giudizio Pinkville segna un passo indietro rispetto a Southern Gothic, in quanto Melancon spesso si trova a dover accompagnare le liriche piuttosto pessimistiche con una musica altrettanto dura e cruda, come se avesse privilegiato la parte rock del suono dimenticandosi però di accompagnare il tutto con delle canzoni fatte e finite. Intendiamoci, l’album (prodotto da Adrian Quesada e Will Walden e suonato da un essenziale quartetto formato da chitarra (lo stesso Walden), basso, batteria e tastiere) non è da bocciare, ma a mio parere risulta discontinuo e con troppa differenza tra il Melancon rocker dal pelo duro ma con poche idee ed il songwriter dalle diverse e più interessanti sfumature. Pinkville parte proprio con la title track, che nei suoi due minuti di durata (infatti è più un’introduzione che una canzone vera e propria) ha più riferimenti al suono della Louisiana che in tutto il disco precedente: infatti il brano è percorso per tutta la sua durata da una chitarra dal chiaro sapore swamp e da un’atmosfera plumbea, ma Rod non canta, limitandosi a parlare con un tono da voce narrante. Goin’ Out West è invece un’esplosione rocknrollistica dal ritmo sostenuto, basso pulsante, chitarra in tiro e voce aggressiva al limite del “growl”, un pezzo duro e spigoloso che non regala molto all’ascoltatore, ma risulta a suo modo trascinante.

L’intro chitarristico e ritmico di Westgate rimanda subito agli Stones, poi però Rod inizia ancora a parlare più che cantare e nel refrain tira ancora fuori una voce piuttosto sguaiata: una buona rock song dal punto di vista strumentale (c’è anche un ottimo assolo centrale di Walden), ma un po’ latitante da quello compositivo. Rehabilitation è notturna e suadente, con una chitarrina che si muove sinuosa nell’ombra, una ritmica cadenzata ed un piano elettrico che colora il suono, un mood che mi fa pensare ad una versione aggiornata dei Doors, anche per il tono vocale “morrisoniano” (nel senso di Jim) da parte del nostro; completamente diversa è Corpus Christi Carwash, una ballatona dal sapore anni sessanta, con tanto di chitarrone twang alla Duane Eddy, e sempre con i piedi ben saldi al Sud: finora il brano più orecchiabile e riuscito. Abbastanza intrigante anche The Heartbreakers, un boogie alla La Grange con attacco tipico ed uno sviluppo fluido degno di una blues band sudista, con annesso splendido assolo di piano, mentre con Lord Knows siamo in pieno Muscle Shoals Sound, un pezzo di ottimo impatto in cui il suono caldo del Sud incontra il songwriting di Bob Dylan e l’eleganza formale dei Dire Straits (in pratica ho descritto il suono di Slow Train Coming, ed infatti siamo da quelle parti, pur senza le tematiche mistiche).

Manic Depression è un vibrante brano di stampo country-rock, che non ha niente a che vedere con l’omonimo classico di Jimi Hendrix, a differenza di 57 Channels che è proprio quella di Bruce Springsteen, già non un granché nella versione originale, e non molto meglio neanche qui (ma con tutto quello che ha scritto il Boss proprio questa?): se una canzone è brutta rimane brutta. La potente Cobra chiude il disco con lo stesso tono cupo con cui era iniziato, un rock-blues-swamp molto elettrico ma tutt’altro che irresistibile. Un disco quindi a fasi alterne, che contrappone il Rod Melancon capace e financo raffinato songwriter del Sud al rocker duro e vigoroso ma dalla scarsa fantasia.

Marco Verdi

Niente Di Nuovo All’Orizzonte, Ma Suonato Con La Solita Classe. Robin Trower – Coming Closer To The Day

robin trower coming closer to the day

Robin Trower – Coming Closer To The Day – Mascot/Provogue

Torna Robin Trower, il grande chitarrista inglese, uno dei migliori rappresentanti di quello stile a cavallo tra rock e blues che da sempre è il suo marchio di fabbrica: per il disco n°23 di studio della sua lunga carriera, più una decina di live, un decina di compilations e cinque album con l’amico scomparso Jack Bruce (d’altronde Trower ha compiuto 74 anni in questi giorni e i suoi inizi, prima con i Paramounts e poi con i Procol Harum, risalgono a circa la metà anni ’60), Robin ha deciso di accasarsi con una nuova etichetta, la Mascot/Provogue, che ormai sta cercando di rastrellare in giro per il mondo il meglio di quanto prodotto in ambito rock/blues. Non che questo significhi sostanziali cambiamenti di stile nel suo approccio, la formula è quella solita del power trio (anche se Trower in questo nuovo Coming Closer To The Day, come aveva fatto nel precedente Time And Emotion https://discoclub.myblog.it/2017/05/29/passa-il-tempo-ma-le-emozioni-rimangono-anche-senza-i-vecchi-amici-robin-trower-time-and-emotion/ , suona anche le parti di basso, lasciando al batterista Chris Taggart la parte ritmica principale), liquido e sognante, con le influenze hendrixiane sempre ben presenti, e il lavoro pregevole della immancabile Fender Stratocaster che è il suo fiore all’occhiello da sempre.

Registrato lo scorso anno allo Studio 91 di Newbury, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Sam Winfield, il disco presenta dodici nuove composizioni di Trower che riflettono filosoficamente sull’inesorabile scorrere del tempo, perché come ricorda lui stesso sin dal titolo dell’album  “Ormai mi trovo più vicino alla fine che all’inizio, ma questo non mi spaventa…”. In effetti sin dalla iniziale Diving Bell, dall’incedere lento e maestoso, il nostro amico ribadisce quello stile unico che per certi versi ne ha fatto una sorta di erede del Jimi Hendrix più “spaziale” ed estatico, con il pedale del wah-wah subito impegnato ad estrarre dalla sua solista quelle note lunghe e ricche di feeling che sono da sempre il suo tratto più caratteristico. Truth Or Lies ha un gusto più mosso e vicino al R&B classico, anche se la voce “ringhiante” e pigra di Trower, come al solito, non è particolarmente memorabile, pure se la chitarra “rimedia” abbondantemente, come ribadisce la title-track Coming Closer To The Day, dove il lavoro della solista è variegato e ricco di inventiva, anche se forse nell’album complessivamente,  al di là di qualche eccezione, non ci sono brani memorabili.

Una delle eccezioni è proprio lo splendido slow blues intenso e lancinante proposto nella notturna Ghosts, dove Robin lascia libero sfogo alla propria ispirazione “inimitabile”; Tide Of Confusion è il presunto singolo che ha preceduto l’album, un po’ più mossa e “commerciale” vagamente alla ZZ Top e con una voce femminile a contrappuntare quella di Trower. The Perfect Wrong è un altro rock-blues di quelli più cattivi, con un riff marcato e qualche parentela ai Dire Straits del periodo di mezzo, con il wah-wah mordente che è ancora una volta il punto di forza della canzone, Little Girl Blue è una ballata sospesa e assorta, raffinata e con un tocco jazzy, con Someone Of Great Renown più scandita e grintosa, ma come molti altri pezzi poco incisiva, al di là del lavoro chitarristico che è sempre al centro della costruzione melodica, mentre Lonesome Road, una riflessione sulla vita in giro per il mondo a suonate la propria musica, è nuovamente un blues lento dove viene fuori il classico suono hendrixiano del miglior Trower, ricco di maestria e tecnica sopraffina. E pure Tell Me è una ennesima (piccola) variazione sul tema, con Don’t Ever Change che lo denuncia anche nel titolo e nel suono, così come la conclusiva Take Me With You. Quindi solita musica, buona e suonata con classe, ma niente di nuovo all’orizzonte.

Bruno Conti

Altro Disco “Fantomatico” Purtroppo, Anche Se Molto Bello! Apple City Slough Band – Lower Highland To Paradise

apple city slough band lower highland to paradise

Apple City Slough Band  – Lower Highland To Paradise – Apple City Slough Band CD (forse) – Download Digitale

Per parafrasare una vecchia pubblicità, esagerando, si potrebbe dire: “Le Jam Band sono tante, milioni di milioni, ma la Apple City Slough Band vuol dire qualità”! Anche se non fa rima e forse è appunto un po’ esagerato: ma il sestetto californiano (da Watsonville, la Apple City della Contea  di Santa Cruz, da cui il nome) si autodefinisce una Americana Mountain Jam Rock Band, termine che indica sia il loro stile che la provenienza geografica. Sono insieme dal 2015 e questo Lower Highland To Paradise è il loro esordio, pubblicato dopo tre anni on road, con concerti tenuti soprattutto nei weekend e durante il tempo libero in fiere e picnic vari, visto che tutti i musicisti hanno un lavoro a tempo pieno per mantenersi e suonano per passione, però con la giusta attitudine, con un repertorio che attinge, oltre che dalle proprie canzoni, da Creedence, Grateful Dead, Allman Brothers, Clapton, alternati nei propri concerti.

Per il disco, registrato a Boulder Creek nel fine settimana del giorno della Festa della Mamma (quindi prima domenica di Maggio del 2018), si sono affidati semplicemente ad un ingegnere del suono Barry Tanner, che li ha aiutati a mettere su nastro, con molta semplicità, ed un suono ruspante, basico, ma vibrante, dieci canzoni originali, tutte tra i cinque e i sei minuti, dove la voce piacevole ed ispirata di Jamie Norton, il leader della band, è sostenuta dalla chitarra guizzante di Danny Grilli, dalle tastiere di Lindsey Bearden, unica presenza femminile, da una sezione ritmica precisa e senza particolari virtuosismi, Dave Ott, basso e Sparky (Ken) Klinger alla batteria, con l’aggiunta di Bobby Yliz alla chitarra ritmica e armonie vocali. Il risultato, come detto, è molto semplice e fresco, ci sono tutte le influenze citate, e il suono finale è un roots-rock che deve molto a tutti i nomi citati, probabilmente senza i virtuosismi di Allman, Clapton e Fogerty, ma con l’approccio dei Dead meno ricercati ed improvvisativi. Comunque estremamente godibile all’ascolto e di qualità molto buona, come certifica immediatamente l’iniziale Into The Blue dove la voce classica da cantautore di Norton si libra sulla liquida e guizzante chitarra di Grilli che lavora di fino e di continuo nel brano, ben sostenuta dal piano della Bearden https://www.youtube.com/watch?v=LYzWozxaypk ; Glow Upon The Steel è anche meglio, su un ritmo incalzante che ricorda vagamente i primi Dire Straits, sempre con la solista in bella evidenza, la band improvvisa con gusto e misura.

Don’t Mean Nothing è una tersa ed ariosa ballata anni ’70 che ricorda il miglior country-rock dell’epoca, o il sound della California da cui vengono anche i nostri amici https://www.youtube.com/watch?v=4Sve3VGlEfA . Riley Mae Never di nuovo costruita su un ritmo incalzante, ha degli agganci ancora con i Dead del periodo elettroacustico, un’altra piccola perla, Grilli non è Jerry Garcia, ci mancherebbe, ma suona con impeto, passione e bella tecnica. The Mud Just Might, ancora con un suono saltellante figlio dei Grateful Dead, prosegue con brio questa raccolta di belle canzoni, ripeto, semplici ma veramente gustose, come conferma pure Next Stop Siena (un omaggio all’Italia o si tratta di qualche strana località americana?), un’altra ballata sognante ricca di fascino senza tempo, sempre arricchita dall’eccellente lavoro di Grilli alla solista, che poi improvvisa su un riff di stampo decisamente più rock in Destination Unknown, uno dei brani più mossi ed elettrici del CD. Something I Ain’t Never Done prosegue questo viaggio nelle delizie dell’Americana Mountain Jam Rock degli Apple City, che poi sfoderano una Thinking Out Loud alla giusta intersezione tra Creedence e Grateful Dead, prima di congedarci con Orange Jam un pezzo più improvvisato e rock da jam band pura, sempre molto basilare nel suono naturale e senza produzioni ricercate di studio, ma per questo forse ancora più godibile https://www.youtube.com/watch?v=7JAHrMk17Mo . Al solito la reperibilità non è il punto di forza del CD, anzi, quindi se non avete previsioni di viaggi a Santa Cruz, buona caccia. Ne varrebbe la pena, i dischi belli diventano sempre più difficili da trovare. Se no, per una volta, ripiegate sul download digitale (siamo contrari, ma se non c’è alternativa).

Bruno Conti

Uno “Stilista” Del Blues, In Trasferta Al Sud. Tas Cru – Memphis Song

tas cru memphis song

Tas Cru – Memphis Song – Subcat Records

Ogni tanto, quando l’impulso creative lo assale, Tas Cru ci delizia con un nuovo album: e lo fa con alacre regolarità, visto che la sua discografia ormai conta una decina di album usciti tra il 2006 e il 2018 https://discoclub.myblog.it/2017/01/11/una-chitarra-e-una-voce-che-vivono-lo-spirito-del-blues-tas-cru-simmered-and-stewed/ , l’ultimo, questo Memphis Song, uscito  ormai qualche mese or sono. Perché il “problema” principale, direi quasi cronico, per i cosiddetti artisti di culto, è la scarsa reperibilità delle loro produzioni: in qualche caso però vale la pena di insistere. Come per Tas Cru, vero nome dell’artista newyorchese  Richard Bates, che è anche un divulgatore del blues, uno che gira per le scuole, pubblica anche dischi per bambini, per spargere il verbo delle 12 battute, e poi pubblica dischi dove il suo spirito eccentrico e l’arguzia e l’ironia dei suoi testi si sposano con una lettura del blues che miscela il suono classico, con derive rock, country, da cantautore, con tocchi errebì, come nel nuovo disco, che prende spunto dalla musica di Memphis per tornare ai suoi vecchi umori abituali.

Sono con lui in questa nuova avventura  Bob Purdy al basso, Dick Earle Ericksen all’armonica, Andy Rudy piano/clavichord, Guy Nirelli organo, Sonny Rock, Ron Keck e Andy Hearn che si alternano alla batteria, oltre alle voci di supporto femminili di Donna Marie Floyd-Tritico e Patti Parks, e la presenza di Mary Ann Casale che firma un paio di brani con Tas Cru, gli altri dieci sono suoi. Mentre nella title track appaiono come ospiti Victor Wainwright al piano e il giovane Pat Harrington alla slide, sempre proveniente dalla band di Wainwright https://discoclub.myblog.it/2018/04/14/un-grosso-artista-in-azione-in-tutti-i-sensi-victor-wainwright-the-train-victor-wainwright-and-the-train/ , che aumentano questo spirito che trasuda dai locali di Memphis lungo Beale Street. Cru non è un cantante fenomenale, diciamo comunque più che adeguato (laconico e stringato, vagamente alla JJ Cale), ma compensa con la sua abilità alla chitarra e come autore e arrangiatore raffinato, e Memphis Song, la canzone, lo dimostra abbondantemente, con il suo fluire accidentato, tra colline e vallate, di suoni che profumano di Americana music. L’altro brano firmato con la Casale è l’iniziale Heal My Soul, un nuovo vibrante e galoppante esempio del blues-rock coinvolgente del nostro amico, tra chitarre acustiche, piano, organo e armonica, che sostengono il call and response tra Tas e le voci femminili di supporto; Fool For The Blues ricorda vagamente i primi Dire Straits, altri discepoli di JJ Cale, sempre tra rock e blues, con l’organo di Nirelli a sostenere le divagazioni della solista del nostro.

In Give A Little Up Casale e Cru duettano con brio, in un brano dove l’armonica di Ericksen punteggia, su un ritmo funky-reggae vagamente alla Steely Dan, le eleganti divagazioni della band; la divertente Daddy Didn’t Give You Much è un funky blues più riflessivo, quasi un blue eyed soul, nuovamente ricercato nei suoni, dove organo e chitarra si intersecano tra loro, fino all’eccellente solo di chitarra, tutto feeling, di Cru. Have A Drink accelera i tempi e viaggia tra swing jazz leggero e boogie, con chitarra, organo e voce ben supportate dalle backing vocalists che rispondono con eleganza alle sollecitazioni della musica, mentre That Look è un altro funky-blues-rock molto sofisticato, siamo un po’ dalle parti del Robben Ford più carnale, e anche la discorsiva One Eyed Jack rimane in questi territori sonori, con l’aggiunta dell’armonica e un fluido solo di Tas Cru. Queen Of Hearts rimane nell’ambito dei semi delle carte, ma aggiunge una sognante ballata al menu del disco, sempre suonata con grande classe e souplesse, tra le cose migliori del disco, assolo incluso https://www.youtube.com/watch?v=pppjQPMfrpM ; Don’t Lie To That Woman, fin dal titolo, si avvicina al suono pigro e laidback del JJ Cale più jazzy, ma anche con un groove alla Donald Fagen, con Cru questa volta impegnato alla solista acustica. Feel So Good è un bel “bluesazzo” di quelli tosti, con interplay classico tra chitarra e armonica, sempre eseguito con lo stile elegante e mai sopra le righe del musicista di New York, che ci congeda con la lunga Can’t Get Over Blues, altro ottimo esempio del suo solismo squisito e di gran classe. Per chi ama gli “stilisti” del blues, quelli che sanno emozionare con garbo e talento.

Bruno Conti

Ennesimo Album Raffinato E Di Gran Classe Da Parte Di Un Vero Gentiluomo Inglese. Mark Knopfler – Down The Road Wherever

mark knopler down the road wherever

Mark Knopfler – Down The Road Wherever – Virgin/Universal CD

Mark Knopfler è il classico musicista che non tradisce mai, e dal quale sai esattamente cosa aspettarti: in inglese quelli come lui li chiamano “acquired taste”, gusto acquisito, cioè artisti che, pur non ripetendo all’infinito lo stesso disco, hanno uno stile ed un approccio ben riconoscibile; tanto per fare un esempio con due songwriters che in passato hanno duettato con Knopfler, pensate a Van Morrison e James Taylor. Ed anche l’ex leader dei Dire Straits ha una maniera collaudata di costruire i suoi dischi, usando cioè sonorità molto classiche ed altamente raffinate, eseguendo i suoi brani con estrema pacatezza e mescolando in modo assolutamente naturale rock, folk, country ed un pizzico di blues ogni tanto. E poi non cambia quasi mai collaboratori, e questo alla fine si sente, in quanto non ha bisogno di così tante prove per trovare un suono compatto ed unitario: anche in questo ultimo Down The Road Wherever i compagni del nostro sono i soliti noti (Guy Fletcher, Richard Bennett, Jim Cox, Glenn Worf, Ian Thomas), e quindi l’ascolto si rivela foriero di sensazioni già provate, ma sempre piacevoli. Quello che al limite può cambiare da un disco all’altro è il livello delle canzoni, che dipende dall’ispirazione del momento: se per esempio i suoi due primi album solisti, Golden Heart e Sailing To Philadelphia, erano ottimi, i tre lavori centrali (The Ragpicker’s Dream, Shangri-La, Kill To Get Crimson) stavano a mio giudizio un gradino sotto, mentre con gli ultimi tre, Get Lucky, Privateering e Tracker, Mark era tornato ad alti livelli (ed eccellente, anzi uno dei suoi album migliori, era anche il disco insieme ad Emmylou Harris, All The Roadrunning).

Dopo un attento ascolto, anche Down The Road Wherever può rientrare a pieno diritto nella categoria dei lavori più riusciti di Knopfler, che non ha assolutamente perso il tocco per un certo tipo di musica d’alta classe, suonata come al solito alla grande (il timbro della sua chitarra si riconosce dopo due note) e cantato con voce sempre più calda e profonda. Il disco è abbastanza lungo, 71 minuti nella versione normale (14 canzoni) e quasi ottanta in quella deluxe di 16 brani, che è quella che vado ad esaminare. L’inizio è buonissimo, con la ritmata Trapper Man, un brano fluido, disteso e cantato con la pacatezza di sempre, magari la melodia non è niente di rivoluzionario ma il tutto si ascolta con piacere (e poi quando entra “quel” suono di chitarra la temperatura sale immediatamente). Back On The Dance Floor è un brano rock d’atmosfera che può anche ricordare gli esordi dei Dire Straits, un bel gioco di percussioni, piano elettrico, la solita inimitabile chitarra ed un ritornello diretto: una canzone di quelle che crescono a poco a poco, ma crescono. A tal punto che una volta finita la rimetto da capo. Nobody’s Child è una deliziosa ballata elettroacustica dal sapore folk, suonata al solito con classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=qL305ux-1VU , la cadenzata Just A Boy Away From Home è un rock-blues asciutto ed essenziale, tutto giocato sulla voce e sulla chitarra slide, suonata con la consueta maestria. Una languida tromba introduce la lenta When You Leave, elegante pezzo afterhours, Good On You Son è già conosciuta (gira in rotazione ormai da più di due mesi), ed è un brano rock dalla fruibilità immediata, guidato dalla chitarra di Mark e da una batteria che suona in maniera creativa.

La gradevole My Bacon Roll è una ballata midtempo ancora con reminiscenze Straits, ma stavolta quelli dell’ultimo periodo, con Mark che accarezza il suo strumento con estrema gentilezza; Nobody Does That è quasi funky, anzi togliete il quasi, dal ritmo acceso e con una sezione fiati a colorare il sound, ma secondo me non è un genere pienamente nelle corde del nostro, al contrario di Drovers’ Road che è una lenta ma vibrante canzone di puro stampo folk irlandese, decisamente emozionante e con la solita splendida chitarra: tra le più belle canzoni del CD https://www.youtube.com/watch?v=g8DN96BTcTA . Eccellente anche One Song At A Time, altro pezzo di gran classe, una rock song in giacca e cravatta dotata di una melodia di prim’ordine e, ma sono stufo di dirlo, un suono di chitarra godurioso; la tranquilla e pacata Floating Away è l’ennesimo brano con accompagnamento di estrema finezza: qualche rintocco di piano, batteria appena accennata ed ottimo assolo centrale. La pianistica Slow Learner è, come da titolo, uno slow jazzato e, indovinate? Esatto, raffinatissimo! Heavy Up è solare e quasi caraibica (con qualcosa anche di certi episodi “etnici” di Paul Simon), ed è una vera delizia per le orecchie, mentre la gradevole Every Heart In The Room riporta il disco su toni più cantautorali e “British” (ma la chitarra qui sembra suonata da Ry Cooder). Il CD si chiude con la guizzante Rear View Mirror, in cui vedo qualcosa del Van Morrison più “leggero”, e con la toccante Matchstick Man, solo voce e chitarra acustica.

Altro ottimo lavoro dunque per Mark Knopfler, un disco perfetto per riscaldare le nostre future serate autunnali (e invernali).

Marco Verdi

E Questa Invece E’ Brava: Se Lo Dice Anche Bonamassa Sarà Vero! Joanne Shaw Taylor – Wild

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Joanne Shaw Taylor  – Wild – Axehouse Music

La regola, ricordata in un famoso detto, dovrebbe essere, “chi si loda si imbroda” e una come Joanne Shaw Taylor che nel suo sito viene presentata come “the finest female blues rock singer and guitarist” (ma Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, per citarne due, saranno contente?) potrebbe rientrare nella categoria delle “montate”, ma visto che invece non siamo molto lontani dalla verità, se aggiungiamo “one of” all’inizio della frase ci siamo, e poi la nostra amica, è giovane (30 anni nel 2016, ops mi è scappata l’età, non si dovrebbe), bionda, carina e pure brava. La sua crescita qualitativa è esponenziale, prima l’ottimo Live Songs From The Road http://discoclub.myblog.it/2013/12/16/bella-brava-bionda-suona-il-blues-joanne-shaw-taylor-songs-from-the-road/ , poi il trasferimento negli States (la Shaw Taylor è inglese, se non lo avevamo detto) per un primo album, The Dirty Truth http://discoclub.myblog.it/2014/11/23/porti-la-chitarra-bella-bionda-joanne-shaw-taylor-the-dirty-truth/ , registrato a Conce, Tennessee, con la produzione di Jim Gaines e l’aiuto di alcuni eccellenti musicisti locali; ora per il nuovo Wild, quinto disco di studio, trasferta di poche miglia ai Grand Victor Sound Studios di Nashville, dove opera abitualmente Kevin Shirley, il produttore di Joe Bonamassa, che ha espresso più volte il suo apprezzamento per Joanne, definendola una delle migliori cantanti, autrici e chitarriste del blues contemporaneo, utilizzandola anche come opening act nel suo recente tour dedicato alla British Blues Explosion e addirittura “prestandole” una parte della sua band per la registrazione del nuovo album.

Infatti nel disco appaiono il bassista Michael Rhodes, la sezione fiati di Paulie Cerra e Lee Thornburg, oltre alle tre splendide coriste Mahalia Barnes, Juanita Tippins e Jade MacRae, con l’aggiunta di Rob McNelley alla seconda chitarra, Steve Nathan alle tastiere e Greg Morrow alla batteria. Ma protagoniste assolute sono le canzoni dell’album, incanalate attraverso la voce roca e la Gibson della Shaw Taylor. Dying To Know è una bella partenza, tra boogie e classico british blues alla Rory Gallagher, ma pure vicina ovviamente al sound dell’ultimo Bonamassa, con la chitarra subito in azione, fluida ed aggressiv ; Ready To Roll, anche se le coriste ci mettono del loro nel call and response, è un rock-blues funky ed energico, ma più scontato nello svolgimento, anche se la chitarra fa sempre il suo dovere, e Get You Back, sempre con i dovuti distinguo, sembra comunque ispirarsi di nuovo alle atmosfere del Rory Gallagher più aggressivo, con le linee della solista sempre interessanti e le coriste scatenate https://www.youtube.com/watch?v=yRQbOd_1h1c . No Reason To Stay, con una atmosferica introduzione di piano, tastiere e chitarra, poi si sviluppa come un brano dei primi Dire Straits, incalzante e con un bel crescendo chitarristico  https://www.youtube.com/watch?v=bsVfuKSjdqg. Wild Is The Wind è il classico pezzo di Dimitri Tiomkin, la facevano anche Nina Simone e David Bowie, qui diventa una sorta di moderna soul ballad, cantata con passione dalla Shaw Taylor che sfodera anche un paio dei suoi migliori assoli del disco, lirici ed avvolgenti.

Wanna Be My Lover torna al rock-blues potente ed aggressivo che è una delle prerogative della bionda inglese, con tutta la band ben evidenziata dalla produzione nitida di Shirley. I’m In Chains vira verso un hard-rock made in the 70’s, con potenti riff alla Deep Purple, ma anche derive boogie sudiste, chitarre taglienti e le coriste che tornano più agguerrite che mai. I Wish I Could Wish You Back, titolo da scioglilingua amoroso, è una bella ballata, impreziosita dalla voce roca della Shaw Taylor, molto presa da questa canzone di rimpianti di amore, arrangiamento comunque di raffinata complessità. A sorpresa poi arriva My Heart’s Got A Mind Of Its Own, un brano tra swing con fiati, soul e il classico sound pianistico di Leon Russell, che è il co-autore del brano, una canzone dove Kevin Shirley applica le variazioni sonore utilizzate negli album di Bonamassa in coppia con Beth Hart, mentre in conclusione la Shaw Taylor si inventa un assolo alla BB King. Nothing To Lose torna al miglior blues-rock, potente e vigoroso, con notevoli fiammate chitarristiche.

In conclusione un classico di Gershwin con cui già in passato si sono confrontati colossi del rock, Summertime (penso alla versione di Janis Joplin a cui chiaramente si rifà questa della Shaw Taylor): niente male, con inserti pianistici ad impreziosirla ed una buona prestazione vocale della nostra amica, molto impegnata anche alla solista con una serie di assoli notevoli. Come è ormai diventata (pessima) usanza, visto quanto le fanno pagare, c’è anche una Deluxe edition singola, con due tracce aggiunte, Sleeping On A Bed Of Nails e Your Own Little Hell, due ulteriori buoni pezzi che confermano la qualità complessiva di questo Wild e il talento della bionda Joanne Shaw Taylor.

Bruno Conti

Nonostante I Continui Riferimenti Al Suono Di “Quella Band”, Un Bel Disco! John Illsley – Long Shadows

john illsley long shadows

John Illsley – Long Shadows – Creek Records CD

Confesso che per me John Illsley è stato per anni “solo” il bassista dei Dire Straits (hai detto niente, uno degli acts più popolari di sempre), tra l’altro l’unico membro del gruppo, a parte il leader Mark Knopfler, ad essere presente su ogni disco ed in ogni tour della celebrata band inglese. Un paio di dischi solisti negli anni ottanta, passati perlopiù inosservati, e due album agli inizi del nuovo secolo insieme al cantautore irlandese Greg Pearle. Poi nel 2010 mi sono imbattuto quasi per caso in Streets Of Heaven (forse incuriosito da una recensione positiva letta da qualche parte), primo vero lavoro da solista di John dai tempi di Glass (1988), e ne sono rimasto talmente folgorato da metterlo addirittura nella mia top ten dell’anno. Un disco bellissimo, suonato alla grande e con una serie di canzoni superlative, che avevano un unico difetto (ma che per me difetto non era): suonavano in tutto e per tutto come brani inediti del gruppo grazie al quale Illsley era diventato famoso, le stesse atmosfere laidback, una chitarra dal timbro decisamente “knopfleriano”, ed anche la voce sussurrata di John che ricordava molto quella del suo ex boss; per dirne una,  l’opening track Toe The Line da sola era meglio di tutto il materiale incluso in On Every Street, l’ultimo deludente album di studio dei Dire Straits. Nel 2014 Illsley ha pubblicato il discreto Testing The Water, nettamente inferiore al precedente, nonostante la presenza di Knopfler in qualche brano, e lo scorso anno è uscito il godibile Live In London, un album dal vivo ben fatto che però scontava l’effetto cover band quando John intonava i pezzi degli Straits, canzoni che non gli appartengono se non perché ci ha suonato.

E’ quindi con interesse che mi sono avvicinato al nuovo Long Shadows, e devo dire che ne sono rimasto soddisfatto: il CD, otto canzoni per 35 minuti di musica, è molto meglio di Testing The Water ed appena un gradino sotto a Streets Of Heaven, e presenta una serie di ottime canzoni (tutte di John) al solito ottimamente suonate e cantate con buon piglio dal nostro, che come voce non è eccezionale ma molto meglio di tanti altri sidemen che si mettono a fare i solisti (chi ha detto Bill Wyman?), con un timbro che ricorda abbastanza quello di Knopfler ma ha anche dei punti in comune con Leonard Cohen, anche se il canadese ha una tonalità più profonda. Certo, il disco presenta sempre il solito “difetto”, cioè di suonare più Dire Straits di quanto non facciano gli album solisti di Knopfler, ma, ripeto, se le canzoni ci sono per me non è assolutamente un problema. Gran parte del merito (o della responsabilità, a seconda dei punti di vista) del suono va al polistrumentista nonché produttore Guy Fletcher, membro degli Straits dal 1984 e compagno di lungo corso del Knopfler solista, uno quindi che in questi suoni ci sguazza; nel disco troviamo anche fior di musicisti (oltre a John che suona la chitarra acustica oltre naturalmente al basso e Fletcher alle tastiere), come l’ex Pretenders e Paul McCartney band Robbie McIntosh alla solista, Phil Palmer ancora alla sei corde (uno che ha suonato davvero con tutti, da Bob Dylan, Eric Clapton, Roger Daltrey, fino ai nostri Lucio Battisti, Pino Daniele e…Paola E Chiara!), Steve Smith al piano e Paul Beavis alla batteria, ed una serie di backing vocalists utili a sostenere la voce non certo potente del leader.

Il CD a dire il vero comincia in maniera particolare, con uno strumentale intitolato Morning, per piano, chitarra acustica arpeggiata e quartetto d’archi, un inizio imprevisto ma poi se vogliamo neanche tanto strano se pensiamo a brani come Private Investigations (l’uso della chitarra lo ricorda vagamente); con In The Darkness si entra nel vivo, un suggestivo uptempo molto raffinato anche se derivativo (indovinate da che cosa), la voce knopfleriana di John intona una melodia decisamente orecchiabile, sostenuta a dovere dal big sound creato dal gruppo, compreso un assolo chitarristico denso di riverberi. L’inizio di Comes Around Again è puro Straits sound, dall’accompagnamento vellutato alla chitarrina evocativa, ma poi la canzone prende una direzione quasi da western song, ancora caratterizzata da una melodia fluida ed un ottimo ritornello corale, mentre There’s Something About You è una ballata soffusa e di gran classe, con una strumentazione rarefatta che ha quasi dei punti in comune con il suono di Daniel Lanois, mentre la melodia è più dalle parti di Cohen: decisamente il brano meno dipendente dall’ex gruppo di Illsley. Ship Of Fools (i Grateful Dead non c’entrano, la canzone è originale come tutte le altre) è ancora una raffinatissima ballad (la classe non manca al nostro) che sconfina addirittura nello stile del Knopfler solista, soprattutto per il sapore leggermente folk (e qui vedo lo zampino di Fletcher), ma il motivo ed il refrain sono di primissima qualità, come anche la coda strumentale; Lay Me Down sembra quasi una outtake da Brothers In Arms, un delizioso e vivace motivo con un tocco country, di quelli che fanno muovere da subito il piedino. L’album si chiude in crescendo con la splendida Long Shadow, una rock song trascinante e dal ritmo acceso, bella slide ed altro chorus diretto e fruibile, e con Close To The Edge, brano d’atmosfera suonato alla perfezione e con la chitarra che ricorda indovinate chi, ma il brano sta in piedi sulle sue gambe, ed anzi si propone come uno dei più riusciti.

Se, come me, avete sempre considerato John Illsley soltanto un ottimo bassista, accaparratevi Long Shadows (ma anche Streets Of Heaven) e forse comincerete a cambiare opinione. E poco importa se penserete di avere fra le mani un disco dei Dire Straits cantato da un altro.

Marco Verdi