Vent’Anni E Non Sentirli: Torna Un Album Classico, Più Bello Che Mai! B.B. King & Eric Clapton – Riding With The King (20th Anniversary Edition Expanded & Remastered)

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B.B. King & Eric Clapton – Riding With The King (20th Anniversary Edition Expanded & Remastered) – Reprise/Warner

Quando Riley “Blues Boy” King e Eric “Slowhand” Clapton si sono incontrati per la prima volta su un palco era il 1967, al Cafe Au Go Go di NYC, l’attrazione era B.B. King e Clapton suonava ancora con i Cream. Poi Eric, che era comunque un ammiratore di B.B. King, ha rivolto le sue attenzioni più verso gli altri King, Albert e soprattutto Freddie. In ogni caso i due non avevano mai inciso nulla insieme, almeno fino al 1997 per il disco di duetti di B.B. King Deuces Wild, nel quale avevano incrociato le chitarre in una gagliarda Rock Me Baby. I due da allora sono rimasti in contatto e Manolenta avrebbe poi più volte invitato King ai suoi Crossroads Guitar Festival, nel 2004, 2007 e 2010. Ma nel frattempo, nel 1999, i due erano riusciti a far coincidere i loro impegni per incidere un album assieme: doveva essere un album di Eric Clapton, con B.B. King come ospite, ma poi il musicista inglese, accompagnato dalla propria band, e con l’aiuto del suo produttore abituale Simon Climie, ha deciso di mettere fortemente al centro dell’attenzione la voce e la chitarra solista del musicista di Indianola, per cui la coppia si divise equamente i compiti, spesso all’interno dello stesso brano, a parte in due canzoni cantate dal solo B.B., Ten Long Years, il classico lentone firmato Taub/King, dove Eric è alla slide, e in When My Heart Beats Like a Hammer, sempre della stessa accoppiata, altro slow micidiale, con King sempre in forma Deluxe, come peraltro in tutto l’album.

Joe Sample al piano è fenomenale, ed eccellente la sezione ritmica con Nathan East al basso e Jim Keltner alla batteria, Doyle Bramhall II e Andy Fairwather Low sono spesso e volentieri la terza e la quarta chitarra, le sorelle Melvoin, Wendy e Susannah, sono le coriste in sei brani, mentre Tim Carmon è il bravissimo organista in tutto l’album e Jimmie Vaughan aggiunge la sua solista in Help The Poor, un brano firmato da Charles Singleton, spesso autore per il King, ma che rimarrà negli annali della musica soprattutto per avere scritto il testo di Strangers In The Night per Frank Sinatra, fine della digressione. Ma se avete già l’album, come immagino sia il caso (se no rimediate subito), quello che risalta è la qualità sopraffina delle esecuzioni, il suono magnifico, ancora migliorato dalla rimasterizzazione per la nuova edizione del ventennale, e l’intesa quasi telepatica tra i due grandi musicisti: i brani si susseguono splendidamente, dalla travolgente Riding With The King, un brano di John Hiatt, che sull’album del 1983 in cui era contenuto sembrava un brano solo normale, ma che nel testo rielaborato da Hiatt per l’occasione, e nella nuova versione della accoppiata Clapton/King diventa perfetto, con i due che si scambiano versi e licks di chitarra in modo fantastico, con le coriste e tutta la band in grande spolvero.

Le canzoni dovreste conoscerle a memoria, sempre se possedete l’album, ma ricordiamole ancora una volta: le due di King le ho appena citate, poi troviamo una acustica, ma con sezione ritmica, Key To The Highway di Big Bill Broonzy, rigorosa ma calda e vibrante. La funky, benché ben strutturata, Marry You, un pezzo R&B nuovo scritto per l’occasione da Bramhall II, Susannah Melvoin e Craig Ross, con un wah-wah che incombe sullo sfondo e un bel assolo di Eric, Three O’Clock Blues di Lowell Fulson è stato uno dei primi successi di King a inizio anni ‘50, il brano più lungo del disco, con i due che “soffrono”, come si conviene nelle 12 battute, in un altro lento di grande intensità dove gli assoli volano altissimi, tra le cose migliori di un disco che comunque si ascolta tutto di un fiato. I Wanna Be di Bramhall e Charlie Sexton, è un altro dei brani scritti appositamente per l’occasione, un sano errebì dove si gusta la sempre potente voce di King, che all’epoca era ancora in pieno controllo delle sue capacità straordinarie di cantante, e anche come chitarrista non scherzava, mentre Worried Life Blues di Big Maceo Merriweather è uno dei cavalli di battaglia di entrambi, se poi li mettiamo assieme si gode ancora di più, pur se in una versione intima e di nuovo rigorosa, ragazzi in fondo parliamo di Blues.

Days Of Old è un’altra canzone della premiata ditta King/Taub, un brano del 1958, quando il blues di B.B. King andava ancora alla grande di swing e Riley e Eric ci danno dentro di brutto anche in questa versione, prima di tuffarsi a capofitto in uno dei capisaldi del suono Stax, la celeberrima Hold On I’m Coming di Sam & Dave, rallentata ad arte per l’occasione, in una versione scandita, che però si anima in un crescendo fantasmagorico, prima di esplodere in una serie finale di assoli devastanti delle due chitarre. In chiusura troviamo Come Rain Or Come Shine uno dei classici assoluti degli standard della canzone americana, a firma Arlen e Mercer, un pezzo raffinatissimo dove, per quanti progressi abbia fatto Clapton come cantante, B.B. King se lo mangia con una prestazione sontuosa, prima di accarezzare Lucille e non so se la chitarra di Eric abbia un nome, ma anche lui la accarezza, Arif Mardin arrangia la parte orchestrale.

Se già non siete convinti, non avendo ancora il CD, nella nuova versione targata 2020 sono state aggiunte due bonus tracks per tentare anche chi il disco lo aveva già comprato all’epoca: una delicata e ricercata versione di Rollin’ And Tumblin’, sempre sulla falsariga degli altri brani elettroacustici presenti in Riding With The King, brano di cui Clapton ha postato un video sul proprio canale YouTube, e una versione impetuosa di uno dei classici assoluti del blues, quella Let Me Love You scritta da Willie Dixon che fa parte del repertorio dei più grandi bluesmen della storia, soprattutto chitarrist e la versione di Mr. B.B. King francamente non poteva mancare, oltre a tutto con Eric Clapton che lo spalleggia alla grande. Il disco vinse anche il Grammy nel 2001, arrivando al 3° posto nelle classifiche Usa e vendendo circa 5 milioni di copie in tutto il mondo.

Ristampa Blues dell’anno? Mi sa tanto di sì!

Bruno Conti

Non E’ Un Brutto Disco, Ma Nemmeno Bello! Robbie Robertson – Sinematic

robbie robertson sinematic

Robbie Robertson – Sinematic – Universal CD

Robbie Robertson, ex leader e principale compositore di The Band (ma che ve lo dico a fa?), ha sempre avuto una passione per le colonne sonore, e da quando ha messo in pensione il suo vecchio gruppo è sempre stato più impegnato a produrre soundtracks che album di canzoni come solista. Eppure da lui sarebbe stato lecito aspettarsi ben altro, dato che stiamo parlando di uno (almeno per il sottoscritto) dei più grandi songwriters di tutti i tempi, titolo guadagnato durante i dieci anni di storia discografica della Band: ma da quando i cinque si sono detti addio all’indomani del mitico concerto The Last Waltz, pare che Robbie abbia voluto in maniera insistita prendere le distanze da loro, e non solo per i cattivi rapporti con Levon Helm. Se era prevedibile il non partecipare alle successive reunion del gruppo, era un po’ meno scontato non riprenderne più il caratteristico sound negli album pubblicati da solista: Robbie Robertson, seppur ottimo, sembrava un disco degli U2 (presenti tra l’altro in session, e poi il produttore era Daniel Lanois), il raffinato Storyville era molto influenzato dal suono di New Orleans, mentre i seguenti Music For The Native Americans e Contact From The Underworld Of Redboy (bello il primo, poco riuscito il secondo) erano due dischi che trattavano il tema appunto dei Nativi Americani (Robbie lo è da parte di madre) con sonorità abbastanza moderne e, nel secondo caso, spiazzanti.

Solo nell’ultimo How To Become Clairvoyant (2011) c’era qualche pezzo che ravvivava la vecchia fiamma della Band https://discoclub.myblog.it/2011/04/07/purtroppo-no-robbie-robertson-how-to-become-clairvoyant/ , ed il disco infatti mi era piaciuto anche più di Music For The Native Americans che aveva ricevuto critiche migliori: quando ho letto che a distanza di ben otto anni da Clairvoyant Robertson stava per pubblicare finalmente un nuovo disco, ho avuto un moto di soddisfazione, che purtroppo non ha avuto seguito una volta ultimato l’ascolto. Con Sinematic (ispirato da due colonne sonore alle quali ha lavorato di recente: il documentario sulla Band Once Were Brothers, in cui finalmente fa pace col suo passato, e l’ultimo film di Martin Scorsese The Irishman) Robbie ha infatti nuovamente evitato di dare al pubblico quello che si aspettava, mettendo insieme una serie di canzoni dal suono decisamente moderno e con soluzioni sonore che mi hanno fatto storcere il naso più di una volta. Va bene che il nostro non si è mai adagiato sugli allori e si è sempre messo in discussione, ma a questo punto mi vengono dei dubbi sul fatto di essere di fronte allo stesso cantautore che cinquant’anni fa faceva vibrare il mondo con canzoni del calibro di The Weight, Up On Cripple Creek e The Night They Drove Old Dixie Down.

In Sinematic ci sono anche delle ottime cose, alternate però a canzoni secondo me non degne del lignaggio musicale di Robertson, e con l’aggravante del fatto che viene spesso premuto l’acceleratore su sonorità troppo moderne, che spersonalizzano un po’ troppo i brani. Manca anche all’interno del lavoro uno stile ben preciso, con alcuni momenti anche parecchio cupi, e poi la voce di Robbie non aiuta di certo le canzoni a risollevarsi ma al contrario rischia di affossarle ancora di più (se nella Band non cantava praticamente mai un motivo ci sarà stato). All’interno del disco ci sono dei musicisti di ottimo pedigree (Glen Hansard, Derek Trucks, Doyle Bramhall II, Jim Keltner, Pino Palladino), ma anche nomi che non vorrei leggere su un album di Robbie, primo tra tutti il produttore hip-hop Howie B, che collabora con il nostro in diverse tracce. L’album (che esce in una bella confezione in digipak con immagini di dipinti dello stesso Robertson) parte comunque alla grande con I Hear You Paint Houses, un soul-errebi bello ed orecchiabile, dal suono moderatamente moderno ed in cui Robbie mostra di essere ancora un eccellente chitarrista, canzone impreziosita ulteriormente dalla partecipazione in duetto del grande Van Morrison (tra i due c’è sempre stata grande stima), anche se il confronto delle due voci è impietoso. Anche meglio Once Were Brothers, una fluida ballata che è anche il tema principale del documentario su The Band, ed è appunto il pezzo che più si avvicina allo stile del suo ex gruppo (immaginatela cantata da Richard Manuel): qui le sonorità moderne sono usate con intelligenza e poi la melodia è molto bella.

Dead End Kid, che vede Hansard alle armonie vocali, è una rock song piuttosto scura ma comunque dotata di un motivo diretto e di un buon tiro chitarristico, e non mi dispiace neppure Hardwired, che pur non essendo un capolavoro è suonata con grinta e si mantiene in ambito rock, anche se il sound è un filo troppo “attuale”. Walk In Beauty Way è una suadente ballata d’atmosfera cantata in duetto con la voce seducente di Laura Satterfield, un brano forse buono da mettere come sottofondo ad una serata alla “50 sfumature (il colore mettetelo voi)”, ma che in un disco di Robertson ci sta come i cavoli a merenda https://www.youtube.com/watch?v=CefxAi1lqAQ . Let Love Reign è un discreto pop-rock dal ritmo sostenuto e con un ritornello accattivante, anche se forse servirebbe un altro cantante, Shanghai Blues non è per niente blues bensì trattasi di un altro lento mellifluo e cupo, più parlato che cantato, mentre Wandering Souls è uno strumentale soffuso che vede Robbie esibirsi in trio chitarra-basso-batteria, con esiti tutto sommato discreti anche se il brano in sé non è nulla di trascendentale. Street Serenade è un lento un po’ banale, ed è strano che uno del livello di Robertson scriva canzoni banali (e l’arrangiamento da pop ballad radiofonica non lo aiuta https://www.youtube.com/watch?v=EYgSXnssjNA ): sembra Eric Clapton quando non azzeccava un disco neanche per sbaglio, periodo PilgrimReptileBack Home. The Shadow è semplicemente brutta, e con un suono orribilmente tecnologico (perché, Robbie?) https://www.youtube.com/watch?v=m3weRjSlEWs , ed anche la tetra Beautiful Madness non fa molto per migliorare le cose. Il CD (58 minuti, forse troppo lungo) si chiude per fortuna in crescendo con la cadenzata Praying For Rain, una buona soul ballad moderna dal motivo fluido e con i suoni finalmente “giusti”, e con Remembrance, un lungo strumentale ancora d’atmosfera ma di ottimo livello, tutto giocato sugli incroci di chitarra tra Robertson, Trucks e Bramhall.

Da alcuni commenti letti in rete temevo che Sinematic fosse persino peggio, ma da uno con il passato di Robbie Robertson sarebbe d’uopo aspettarsi molto di più, specie dopo otto anni di silenzio.

Marco Verdi

Si Può Fare Di Meglio, Grande Tecnica E Talento, Due Canzoni Notevoli, Il Resto Meno. Eric Gales – The Bookends

eric gales the bookends

Eric Gales – The Bookends – Mascot/Provogue          

Secondo album di Eric Gales per la Mascot/Provogue, dopo il discreto Middle Of The Road del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/02/21/anticipazione-nuovo-album-il-24-febbraio-esce-eric-gales-middle-of-the-road/ : come mi è capitato di dire più volte recensendo i suoi dischi, Gales è un vero talento, un ragazzo prodigio all’esordio a 16 anni con la Eric Gales Band in un eccellente album per la  Elektra. Poi da allora 15 album, fino a questo The Bookends, con risultati alterni: la tecnica del mancino di Memphis non si discute, come le sane influenze,  Jimi Hendrix in primis, e Muddy Waters e Howlin’ Wolf, con i quali il nonno di Eric, Dempsey Garrett Sr., era solito cimentarsi in jam sessions, ma anche, tramite i fratelli Eugene e Manuel (conosciuto come Little Jimmy King), Albert e B.B. King. Hendrix è rimasto un imprimatur indelebile, i bluesmen meno, a favore di elementi rock, che sconfinano anche nell’hard e nel metal, oltre, negli ultimi anni, a parer mio purtroppo, pure derive pop, R&B “moderno”, persino hip-hop, con risultati non sempre eccitanti: molti alti e bassi, per quanto, come testimoniano i suoi dischi Live, rimane sempre un grande chitarrista a livello concerti.

Anche questo nuovo album non risolve il dilemma, a fianco di un paio di brani strepitosi, ce ne sono altri veramente scarsi: nella prima categoria metterei una rilettura gagliarda di With A Little Help From My Friends, insieme alla voce femminile del momento, ossia Beth Hart, una versione a due voci dove si apprezza la capacità di interprete di Beth, sempre in grado di incendiare le canzoni dove mette il sigillo della sua voce imponente ed appassionata, e anche il classico dei Beatles che tutti conosciamo nella versione di Joe Cocker, riluce con forza in questa interpretazione magistrale, dove non manca il ruggito vocale della Hart, che è ormai un marchio di fabbrica del brano, naturalmente per chi se lo può permettere, e anche Gales sia a livello vocale che con la sua chitarra contribuisce alla riuscita del tutto. L’altro brano notevole, non casualmente, è un altro duetto, questa volta con Doyle Bramhall II (altro musicista, eccellente come gregario, meno continuo come artista solo https://discoclub.myblog.it/2018/10/09/bravo-come-gregario-chiedere-a-clapton-ed-altri-meno-come-solista-in-proprio-doyle-bramhall-ii-shades/ ), alle prese con Southpaw Serenade, una canzone anni ’40, che qui diventa un lungo blues’n’soul raffinato, ma ricco di trasporto, dove le soliste dei due mancini si scambiano assoli con libidine e classe, sullo sfondo creato dalla band di Gales, dove brillano i suoi compagni di avventura, Mono Neon (Basso), Aaron Haggerty (Batteria),  la moglie LaDonna Gales (alle armonie vocali) e Dylan Wiggins (Organo).

Se tutto il disco fosse così non dico che si griderebbe al miracolo, ma sarebbe un bel sentire: come avrete capito anche questa volta non ci siamo del tutto, per usare un eufemismo, anche se grazie a questi due brani il disco si meriterebbe la sufficienza, ma le collaborazioni con B. Slade, ex cantante gospel “pentito”, come Tonéx, e ora artista a cavallo tra neo soul, hip-hop, trance, con qualche ricordo della musica di famiglia, prima illudono nella bella intro acustica di Something’s Gotta Give che poi si trasforma in un discreto duetto di soul moderno, ma poi deludono nella pasticciata bonus Pedal To the Metal (remix), un funkettino insulso https://www.youtube.com/watch?v=UHjuqqZAG6Y , in entrambi i brani si salva giusto il lavoro della solista di Gales. E non è che It Just Beez That Way, dove Eric si cimenta con un beatboxing hip-hop (giuro!) sia molto meglio, anche se il brano contiene la prima volta su disco di Gales alla slide, anche con wah-wah, ma il suono ha sempre questo arrangiamento “moderno” che almeno a chi scrive non piace molto https://www.youtube.com/watch?v=U9kkoYEJEhE . Più interessante, anche se non memorabile, Whatcha Gon’ Do, con qualche spunto hendrixiano, epoca Band Of Gypsys; insomma la produzione di Matt Wallace, famoso per il suo lavoro con i Maroon 5 (!) e che ha sostituito David Bianco, scomparso durante la realizzazione del disco, non entusiasma molto. Discreta la soul ballad How Do I Get You e non male il poderoso rock Reaching For A Change e il vorticoso strumentale virtuosistico Resolution. Finirei con il solito” Mah” che dedico ultimamente alle sue recensioni.

Bruno Conti

Ma E’ Già Natale? Il “Manolenta Natalizio” Però Non Convince Del Tutto. Eric Clapton – Happy Xmas

eric clapton happy xmas

Eric Clapton – Happy Xmas – Polydor/Universal CD

Parlare di musica natalizia a poco più di metà Ottobre suona un po’ strano, per di più con un clima che si avvicina molto di più alla primavera che all’autunno, ma si sa che gli artisti quando decidono di pubblicare dischi a tema festivo si muovono sempre per tempo. In più, stiamo parlando di uno dei maggiori musicisti al mondo, Eric Clapton, che se da una parte ha deciso di non intraprendere più tournée lunghe e faticose (ma concerti singoli o brevi tour, per esempio in Giappone, quelli sì), dall’altra è ancora molto attivo in studio, dato che il suo ultimo album I Still Do è di appena due anni fa. Happy Xmas è il primo lavoro a carattere natalizio per Eric, ed è un lavoro suonato ovviamente benissimo e prodotto anche meglio (il suono è spettacolare) da Clapton stesso insieme all’ormai inseparabile Simon Climie, ma dal punto di vista artistico secondo me non tutto funziona alla perfezione. Eric sceglie di mescolare classici stagionali a canzoni più contemporanee, e non manca di arrangiarne qualcuna in chiave blues, ma non trova il coraggio di fare un disco tutto di blues (probabilmente per arrivare ad una maggiore fetta di pubblico) e così inserisce anche diverse ballate, ma non sempre tiene a bada il tasso zuccherino, usando anche, talvolta a sproposito una sezione archi.

Quindi il disco si divide tra brani ottimi, altri buoni, ed alcuni piuttosto nella media; poi, proprio nel bel mezzo del lavoro, un episodio incomprensibile, un brano elettronico che ci sta come i cavoli a merenda in un album del nostro, e che rischia di gettare un’ombra su tutta l’operazione. Il CD, la cui copertina è disegnata dallo stesso Eric (e ad occhio e croce è meglio come chitarrista che come disegnatore) vede all’opera un manipolo di vecchi amici del nostro, fra cui Jim Keltner alla batteria, Doyle Bramhall II alla chitarra, Nathan East al basso, Dirk Powell alla fisarmonica, violino e pianoforte e Tim Carmon all’organo Hammond. La partenza è ottima, con il superclassico White Christmas rivoltato come un calzino: intro potente di chitarra, ritmica tosta, ed Eric che riesce a dare un sapore blues ad un pezzo che di blues non ha mai avuto nulla, pur senza snaturare la melodia originale. Away In A Manger diventa un delizioso e raffinato blue-eyed soul, e Clapton canta divinamente, grande classe; For Love On Christmas Day è l’unico brano nuovo, scritto da Eric insieme a Climie, un’elegante ballata lenta, pianistica e con una spolverata di archi, però fin troppo sofisticata e leccata: mi ricorda la fase in cui Clapton ne azzeccava poche (il periodo di dischi come Pilgrim, Reptile e Back Home). Molto meglio Everyday Will Be Like A Holiday, una splendida soul song di William Bell, con Manolenta che canta ancora alla grande e ricomincia a graffiare con la chitarra, mentre Christmas Tears è un vero blues, di Freddie King, ed Eric (che l’aveva già fatta in passato sulla compilation A Very Special Christmas Live) la suona come va fatta, cioè come se si trovasse in un club di Chicago (anche se King era texano), grande chitarra e grande feeling.

Home For The Holidays è una canzone antica, la faceva Perry Como, e Clapton la trasforma in una squisita e limpida rock ballad, tra le migliori del CD, sia per la bella melodia sia per il fatto che è suonata in maniera perfetta. Per contro Jingle Bells, forse la canzone natalizia più famosa di sempre, è una porcheria innominabile: Eric la dedica ad Avicii, il giovane DJ svedese morto suicida lo scorso Aprile, e forse proprio per questo la arrangia in modo assurdo, un pezzo techno-disco-dance elettronico che è un pugno nello stomaco https://www.youtube.com/watch?v=2h0Ksg_vy8A . Va bene ricordare una persona scomparsa in maniera così tragica, ma qui corro seriamente il rischio di vomitare il panettone dell’anno scorso. Meno male che si torna con i piedi per terra grazie ad una ancora deliziosa Christmas In My Hometown (di Charley Pride), a metà tra dixieland e country d’altri tempi, davvero bella, e con It’s Christmas, una rock song pura e semplice, originariamente di Anthony Hamilton, diretta, godibile e con ben poco di natalizio, testo a parte. Sentimental Moments (la cantava Joan Bennett nel film Non Siamo Angeli del 1955, con Humphrey Bogart) è una ballatona cantata con trasporto, chitarra slide sullo sfondo e tasso zuccherino tenuto a bada un po’ faticosamente, mentre Lonesome Christmas (Lowell Fulson) è ovviamente puro blues, ritmato, coinvolgente e “grasso”, suonato con la solita classe sopraffina. Chiudono il CD tre classici assoluti: Silent Night, versione cadenzata eseguita da Eric con un coro femminile al quale partecipano anche la moglie Melia e la figlia Sophie, non indispensabile, una solida Merry Christmas Baby trasformata in uno slow blues sanguigno e chitarristicamente godurioso, seppur con il freno a mano un po’ tirato (e poi gli archi che c’entrano?), e finale con una Have Yourself A Merry Little Christmas cantata con stile da crooner, raffinata ma un tantino stucchevole.

Quindi un omaggio al Natale con diversi alti e qualche basso da parte di Eric Clapton, che però prevediamo venderà di più dei suoi ultimi lavori, maggiormente riusciti. Ma quella Jingle Bells elettronica grida vendetta.

Marco Verdi

Bravo Come “Gregario”, Chiedere A Clapton Ed Altri, Meno Come Solista In Proprio. Doyle Bramhall II – Shades

doyle bramhall II shades

Doyle Bramhall II  – Shades – Mascot/Provogue

Concludevo la recensione del suo precedente album  Rich Man, uscito nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/16/promosso-qualche-riserva-lamico-eric-doyle-bramhall-ii-rich-man/ , così: “Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo”.! E invece mi sbagliavo, a soli due anni di distanza esce questo nuovo Shades: nuova etichetta, la Mascot/Provogue, ma a grandi linee stessi musicisti impiegati, Adam Minkoff polistrumentista,  impegnato anche con gli arrangiamenti degli archi, Chris Bruce al basso, e Abe Rounds e Carla Azar, alla batteria, che apparivano nello scorso CD , stessi ospiti, Eric Clapton, Tedeschi Trucks Band e Norah Jones, oltre ai compatrioti texani, i Greyhounds. E pure lo stile del disco è molto simile a quello che lo ha preceduto, in quanto Doyle Bramhall II ha questa passione insita per la musica nera, soul, R&B e funky, oltre agli immancabili blues e rock, non sempre coniugata con risultati eclatanti ed eccitanti, almeno a mio parere, spesso annacquata da arrangiamenti di tanto in tanto blandi, ballate melliflue e derive commerciali che rimandano allo stile di Prince e Lenny Kravitz. Anche se la chitarra del mancino texano ogni tanto ci ricorda perché il suo amico Clapton lo considera un eccellente chitarrista, si intuisce perché il nostro non ha mai sfondato come solista, vista la sua tendenza ad essere più un gregario, magari uno molto ricercato dai colleghi (sentire l’eccellente lavoro fatto nel disco di Amy Helm https://discoclub.myblog.it/2018/10/01/unaltra-rampolla-di-gran-classe-sempre-piu-degna-figlia-di-tanto-padre-amy-helm-this-too-shall-light/ ), a scapito della possibilità di avere nei propri dischi una musica più definita e meno sfuggente, che complessivamente anche in questo Shades, a parte qualche guizzo di classe, manca di una direzione sonora chiara.

Ovviamente siamo ben lungi dal dire che il disco sia brutto, anzi, si ascolta più che volentieri, chi ama il rock e il blues meticciati con la musica nera troverà motivo per apprezzarlo. Insomma soliti pregi e difetti che seguono Bramhall nella sua strada verso la musica mainstream, come l’amico Eric, che però ha ben altra consistenza, per cui accontentiamoci di quello che passa il convento. Shades spazia dal funky-rock atmosferico della iniziale Love And Pain, dove prevale il suono “lavorato” che Bramhall predilige, sia pure con inserti chitarristici sempre pungenti, ad una Hammer Ring più incalzante nei suoi  complessi ritmi rock, passando per la collaborazione con Eric Clapton in Everything You Need (nel cui video il nostro non si vede anche se aleggia la sua presenza), una morbida ballata dove si apprezza il lavoro delle due soliste, ma meno l’arrangiamento troppo appesantito da zuccherini strati di armonie vocali che spingono verso un soul radiofonico contemporaneo. London To Tokyo rimane su queste coordinate sonore, ma con arrangiamenti stratificati di archi fin troppo carichi e che quasi coprono anche le evoluzioni della solista.

Il duetto con Norah Jones, Searching For Love, come da copione, è una elegante e raffinata ballata pop, molto più vicina allo stile della cantante di New York che a quello di Bramhall, che comunque lavora di fino con la sua solista, quasi claptoniana per l’occasione. Decisamente più rock e vibrante la collaborazione con i Greyhounds in Live Forever,  brano dove tutti ci danno dentro di gusto e ci sono anche vaghi elementi psych che ricordano gli Spirit degli anni d’oro https://www.youtube.com/watch?v=QXFU6kgAHZM , mentre Break Apart To Mend è una intensa e sognante ballata pianistica di ottima fattura, quasi da cantautore classico, nobilitata da un lirico assolo di chitarra nella parte centrale.  Non male anche la blues ballad She’ll Come Aound e discreto il morbido soul proposto in The Night; non manca il consueto omaggio alla sua passione per la musica orientale con Parvanah, che però miscela questo sound con il solito morbido soul con risultati non memorabili, a parte gli spunti della solista.

Consciousness introduce  qualche elemento country-folk con risultati più apprezzabili, lasciando la conclusione a Going Going Gone, il pezzo forte dell’album, ripresa anche da Gregg Allman sull’ultimo Southern Blood https://discoclub.myblog.it/2017/09/07/il-vero-sudista-quasi-un-capolavoro-finale-gregg-allman-southern-blood/ . Si tratta proprio di una cover del sognante brano di Bob Dylan tratto da Planet Waves, in una bellissima versione suonata e cantata splendidamente con la Tedeschi Trucks Band, in un tripudio di fiati, voci e chitarre, tra la slide di Trucks e la solista di Bramhall, magari fosse stato così tutto l’album .

Bruno Conti

Un’Altra “Rampolla” Di Gran Classe, Sempre Più Degna Figlia Di Tanto Padre. Amy Helm – This Too Shall Light

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Amy Helm – This Too Shall Light – Yep Rock

Anche nel recensire il precedente album di Amy Helm https://discoclub.myblog.it/2015/08/02/degna-figlia-tanto-padre-amy-helm-didnt-it-rain/ non avevo potuto fare a meno di citare, sin dal titolo, lo stretto grado di parentela di Amy con quella che giustamente è considerata una delle figure più importanti della scena musicale americana, ovvero il babbo Levon Helm, di cui peraltro la nostra amica è stata negli ultimi anni di vita del musicista dell’Arkansas, una delle più strette collaboratrici a livello musicale, oltre a coltivare nello stesso periodo una carriera in proprio come leader di quella piccola grande band che sono stati (e forse saranno ancora, visto che non hanno mai ufficializzato un eventuale scioglimento), ovvero gli Olabelle  https://discoclub.myblog.it/2011/09/01/forse-non-imprescindibile-ma-sicuramente-molto-bello-ollabel/, oltre ad essere apparsa nel corso degli anni come ospite in dischi dei musicisti più disparati che si possono considerare suoi spiriti affini. Per questa nuova avventura This Too Shall Light, il suo secondo album da solista, la Helm ha scelto di farsi produrre da un artista che di solito è garanzia di qualità, per cui ha preso baracca e burattini e si è trasferita dall’amata base casalinga in quel di Woodstock a Los Angeles, agli United Recording Studios di Hollywood, quelli dove opera abitualmente Joe Henry, perché è lui che ha curato la cabina di regia di questo nuovo disco, coadiuvato dalla solita pattuglia di eccellenti musicisti che abitualmente si alternano nei dischi di Henry: Jay Bellerose alla batteria, Jennifer Condos al basso, Adam Minkoff alla chitarra acustica, l’ottimo tastierista Tyler Chester (alcuni ascoltati anche nel recente album di Joan Baez https://discoclub.myblog.it/2018/03/12/uno-splendido-commiato-per-una-grandissima-artista-joan-baez-whistle-down-the-wind/ , prodotto proprio da Henry), con l’aggiunta alle chitarre di Doyle Bramhall II, altro produttore ed arrangiatore di valore, di cui a giorni è in uscita un nuovo album Shades, che lo conferma ancora una volta ottimo come gregario di lusso per altri musicisti, ma non del tutto convincente in proprio, come leggerete a breve nella mia recensione.

Tornando al disco della Helm, un altro degli ingredienti fondamentali è la presenza di molte voci di supporto, oltre a Bramhall e Minkoff, anche JT Nero Allison Russell, che sono essenziali nel creare quella ambientazione gospel-soul che tipicizza il folk-country-rock, vogliamo chiamarla Americana music, che da sempre caratterizza la musica di Amy. Importante è anche stata la scelta dei brani: Joe Henry, per chiarire quale tipo di musica avrebbe voluto creare ha fatto sentire alla Helm Motel Shot di Delaney & Bonnie, che non è una brutta base di partenza da cui sviluppare le sonorità di un disco. Che poi l’album sia venuto meno “esuberante” e più intimo e raccolto è dovuto anche alla personalità ed alla voce forse meno esplosiva della Helm stessa. Comunque un ottimo disco, che si apre sulle note della title track This Too Shall Light, un brano scritto da M.C. Taylor Josh Kaufman degli Hiss Golden Messenger, che benché “nordisti” come Amy, hanno, come lei, un profondo amore per la musica del Sud degli States, per il gospel e e il soul, meticciati con il rock e il blues, e il cui testo cita Voices Inside (Everything Is Everything) di Donny Hathaway, uno degli autori considerati minori della musica nera, ma grande talento: la canzone è una delle più mosse del disco, una ballata mid-tempo guidata dalla chitarrina insinuante di Bramhall, dalle tastiere risonanti di Chester e dalle voci di supporto che avvolgono la calda e partecipe tonalità di Amy che intona la melodia con spirito delicato ma forte al contempo di questa splendida canzone che conferma la classe innata della figlia di Levon, lei che si ispira da sempre a personaggi come gli Staples Singers per la propria musica intrisa di vibrante spiritualità.Odetta che è il brano che lo stesso Joe Henry ha portato alle sessions, è stato ovviamente riadattato per la voce e lo stile più emozionale della Helm, cantante dalla voce sempre carica di pathos, un brano elettroacustico, molto variegato, ma anche vicino alle traiettorie sonore più raffinate degli arrangiamenti della Band, con piano, soprattutto, e chitarra acustica, in bella evidenza, che sposano il country-gospel-rock con l’appeal di una cantautrice classica, sempre con le voci di supporto immancabili in questo dipinto sonoro.

Milk Carton Kids, altri recenti “clienti” di Joe Henry, offrono alla causa la loro Michigan, dal secondo disco Prologue, un brano che grazie all’organo fluente di Chester, che rimanda a quello del grande Garth Hudson, è un altro acquerello delizioso e delicato che unisce le distese dei Grandi Laghi del nord con la musica del più profondo Sud, un altro gospel soul di grande intensità vocale e strumentale, con l’organo che mi ha ricordato anche il suono quasi “classico” del non dimenticato Matthew Fisher dei Procol Harum, una meraviglia cantata in modo quasi trasfigurato dalla nostra amica. Anche Allen Toussaint, un’altra delle leggende del deep soul intriso di gospel della musica di New Orleans, viene omaggiato con una intensa rilettura di una delle sue canzoni più vicine allo spirito sociale della dichiarazione per i diritti sociali come Freedom For The Stallion, altra piccola meraviglia di equilibri sonori dove la voce trae ispirazione da quella di grandi cantanti nere come Gladys Knight Ann Peebles, ma anche di Mavis Staples, ed il breve break chitarristico di Bramhall è un’altra piccola perla, all’interno dello scrigno. Mandolin Wind era una delle più belle canzoni nel disco più bello di Rod Stewart Every Picture Tells A Story, e uno, vista la presenza di una mandolinista provetta come Amy Helm, degna erede del babbo anche nell’uso di quest strumento, si sarebbe aspettato un uso massiccio dello stesso, invece astutamente nell’arrangiamento viene sostituito dalla slide insinuante di Bramhall, eccellente nel suo contributo alla grana sonora malinconica e romantica del pezzo, dove anche tutto il resto della band, piano in primis, fornisce un apporto corale ad una interpretazione vocale da incorniciare. Ancora un organo sontuoso apre la parafrasi sonora di un brano come Long Daddy Green, una canzone di impianto jazzy di una cantante minore come Blossom Dearie, che Amy ascoltava con grande piacere nella sua formazione musicale giovanile e che rinasce a nuova vita come un blues solenne frequentato dai fantasmi delle grandi voci del passato.

Papà Levon viene ricordato con un brano scritto da Robbie Robertson The Stones I Throw, una composizione che viene dal periodo pre-Band, 1965, quando si chiamavano ancora Levon And The Hawks, un brano gioioso ed esuberante, nuovamente tra gospel, rock e soul, in quello stile che poi avrebbero perfezionato negli anni a venire, ma che era già perfettamente formato all’epoca e viene felicemente catturato in questa elegante riproposizione. Per Heaven’s Holding Me, l’unico brano originale scritto a quattro mani dalla Helm con Joe Henry, Paul Owen e Ted Pecchio, Amy estrae per una unica volta dalla custodia il suo mandolino, per una canzone d’amore gentile e dai sentimenti delicati dove spicca ancora la grande sensibilità ed il talento di interprete sopraffina di una voce per l’occasione anche fragile e quasi vicina al punto di rottura, ma che però non si spezza, sempre sorretta comunque dalla estrema raffinatezza degli arrangiamenti che circondano il suo percorso sonoro. T-Bone Burnett è sicuramente uno dei grandi rivali di Joe Henry tra i produttori più bravi e ricercati in circolazione, ma per l’occasione appare come autore di River Of Love, un brano poco noto tratto dal suo album omonimo del 1986, altra canzone di ottima fattura, con il piano nuovamente in bella evidenza, ancora una volta a sottolineare quello spirito gospel e soul malinconico, veicolato quasi in modo vulnerabile dalla voce raccolta e intima, sempre comunque ben sostenuta dalle sottolineature precise dei cantanti di supporto. E proprio un gospel tradizionale come Gloryland, cantato a cappella dalla Helm con il supporto corale di tutti gli altri vocalists, chiude un album che la conferma come una delle interpreti più interessanti e solide della musica d’autore. In definitiva direi veramente un bel disco, per chi ama la buona musica.

Bruno Conti

Una Delle Sorprese Piacevoli Di Quest’Ultimo Periodo. E Che Voce! Ann Wilson – Immortal

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Ann Wilson – Immortal – BMG CD

Mi sono sempre piaciute le Heart, duo femminile formato dalle sorelle Ann e Nancy Wilson, sia nelle loro espressioni più rock (spesso influenzate dai Led Zeppelin), sia nelle pagine più AOR della loro carriera (la seconda metà degli anni ottanta) https://discoclub.myblog.it/2016/12/24/un-po-di-sano-classic-rock-al-femminile-heart-live-at-the-royal-albert-hall/ , anche se non le ho mai seguito più di tanto né i loro progetti collaterali (The Lovemongers) né i loro album solisti. Sono stato però da subito incuriosito da questo Immortal, nuova fatica di Ann Wilson senza la sorella Nancy (ad undici anni dal suo primo solo album Hope & Glory, mentre i due EP a nome Ann Wilson Thing sono storia recente), in quanto trattasi di un album di cover. Fin qui nulla di strano, anche Hope & Glory non presentava brani originali, ma qui Ann ha deciso di omaggiare artisti che l’hanno influenzata od altri che semplicemente le piacciono, però con il comune denominatore del fatto che tutti i dieci nomi omaggiati sono ormai passati a miglior vita. Un tributo quindi sentito a musicisti che non sono più tra noi, con alcune scelte logiche ed altre decisamente più sorprendenti (lo dico subito, gli Zeppelin non ci sono, forse Ann ha considerato John Bonham un personaggio “collaterale” per quanto riguarda le composizioni dello storico gruppo).

Il disco, prodotto dalla Wilson insieme a Mike Flicker, è decisamente riuscito, in quanto Ann nella maggior parte dei casi reinterpreta brani più o meno noti con indubbia personalità, senza riproporre delle copie carbone degli originali, ed in più confermando di avere una delle più belle e potenti voci dell’intero panorama rock femminile. Un valido aiuto glielo ha dato anche la house band (Craig Bartok, chitarre, Andy Stoller, basso, Daniel Walker, tastiere, e Denny Fongheiser, batteria) ed un ridotto numero di validissimi ospiti che vedremo tra poco. Da un cover album di Ann Wilson mi sarei forse aspettato una preponderanza di omaggi a cantanti donne, ma in realtà ne troviamo solo due: You Don’t Own Me, grande successo della quasi dimenticata Lesley Gore, apre il CD in maniera splendida, con nientemeno che Warren Haynes alla chitarra solista, una versione solida, potente e bluesata, molto diversa dall’originale, cantata in maniera divina da Ann e con Warren che fende l’aria da par suo (e la mente va alle migliori pagine della collaborazione tra Beth Hart e Joe Bonamassa), mentre la nota Back To Black, di Amy Winehouse, è tutta giocata sulla vocalità profonda e ricca di sfaccettature della Wilson, un’interpretazione drammatica e densa di pathos (il languido violino è di Ben Mink, noto per le sue collaborazioni con k.d. lang) che rende giustizia nel modo migliore alla cantautrice inglese entrata a far parte del cosiddetto “Club dei 27”.

Ann si ricorda anche di Chris Cornell, ma non ripropone un pezzo dei Soundgarden, bensì degli Audioslave, I Am The Highway, che diventa una toccante rock ballad elettroacustica, cantata ancora splendidamente e con voce leggermente arrochita, mentre l’accompagnamento è limpido e scintillante, quasi di stampo californiano: bella canzone e grandissima interpretazione, una delle migliori del disco. Non viene dimenticato Tom Petty, anche se viene scelta la poco nota Luna (dal disco d’esordio del 1976 del biondo rocker), ancora con Haynes protagonista: la struttura del pezzo rimane “pettyana”, ma Warren le dona un tocco blues ed Ann canta in maniera decisamente sensuale, aiutata anche dal ritmo soffuso del brano. Grande classe. Anche I’m Afraid Of Americans non è tra i pezzi più noti di David Bowie (scritta dal Duca Bianco con Brian Eno, era sul controverso Earthling del 1997), ed Ann elimina le sonorità techno e drum’n’bass dell’originale e la indurisce oltremodo, con un mood quasi zeppeliniano (eccallà, direbbero a Roma), complici anche certi passaggi strumentali orientaleggianti: versione tosta di un brano comunque non memorabile. Con Politician (Cream, l’omaggio è chiaramente per Jack Bruce) la Wilson è invece nel suo ambiente naturale: canzone che già in origine era possente e granitica, e la “sorellona” non deve far altro che sfoderare la sua voce più “plantiana” per portare a casa il risultato, aiutata anche dagli ottimi interventi alla solista di Doyle Bramhall II https://www.youtube.com/watch?v=5qLRh6vYqqU .

Cambio completo di registro con la soffusa A Thousand Kisses Deep di Leonard Cohen, guidata ancora dal violino di Mink e con un background musicale da club jazz-lounge (ed anche i rumori di sottofondo sembrano provenire dall’interno di un bar), con la Wilson che mostra di saper usare anche il fioretto, modulando la voce con un tono confidenziale da femme fatale. Forse per omaggiare Glenn Frey c’erano canzoni più rappresentative di Life In The Fast Lane, che vede sì Glenn tra gli autori ma è sempre stata una canzone più di Henley e Walsh: Ann elimina il noto riff chitarristico, rallenta il tempo e le dona un sapore funky ed un arrangiamento moderno che non mi convince molto, anche se un mezzo scivolone si può perdonare. Come chiusura dell’album ecco due brani che non mi aspettavo: A Different Corner è un pezzo di George Michael, uno che non mi sarebbe mai passato per la testa di omaggiare, ma Ann non la pensa come me e ne fornisce una rilettura fin troppo sofisticata, che non solleva i dubbi del sottoscritto né sulla canzone né sull’arrangiamento un po’ artefatto; meglio Baker Street, il classico per antonomasia di Gerry Rafferty: ritmo accelerato, arrangiamento anche qui moderno ma con un marcato mood folk-rock, ed un notevole crescendo elettrico che rinuncia al celebre riff di sax: quasi un’altra canzone.

A parte un paio di incertezze, Immortal è quindi un gran bel disco, ed Ann Wilson conferma di avere una voce straordinaria, unita ad una capacità interpretativa non comune.

Marco Verdi

Più Che Fuori, Dentro Al Blues, E Anche Al Blue Eyed Soul Più Raffinato. Boz Scaggs – Out Of The Blues

boz scaggs out of the blues

Boz Scaggs – Out Of The Blues – Concord/Universal

Boz Scaggs, viene da Canton, Ohio, e dopo una giovinezza passata con la sua famiglia, girando anche per Oklahoma e Texas, dove incontra per la prima volta Steve Miller, di cui sarà il cantante nei primi due album registrati a San Francisco, dove approda nell’epopea gloriosa della musica psichedelica: prima ancora, in una trasferta europea che lo aveva portato brevemente a Londra e poi in Svezia, aveva registrato già nel 1965, il suo primo album Boz, un album di blues acustico immediatamente scomparso nella notte dei tempi e di cui si sono perse le tracce. Ma al di là delle ottime prove nei due dischi come cantante della Steve Miller Band, Children Of The Future Sailor, entrambi del 1968, parte della sua fama (forse meglio dire reputazione, visto che l’album non vendette molto), risiede in Boz Scaggs, un LP omonimo registrato nel 1968 e pubblicato l’anno successivo, ai leggendari Muscle Shoals Sound Studios di Sheffield, Alabama, con gli splendidi musicisti che vi suonavano, tra cui spiccava la presenza di Duane Allman all’epoca sessionman di lusso in quegli studi. E come ho ricordato altre volte, in un disco comunque molto bello di country got soul e blues, spiccava la presenza di una canzone come Loan Me A Dime, un slow blues formidabile scritto da Fenton Robinson, dove sia Scaggs che Duane Allman (superlativo quest’ultimo) rilasciavano delle rispettive performance di una intensità e di una classe veramente superbe.

Poi nel corso degli anni il nostro amico, lentamente, attraverso una serie di album interlocutori, è arrivato nel 1976 al grandissimo successo con un disco, Silk Degrees, che ha venduto più di 5 milioni di copie, dove suonavano dei musicisti che poi avrebbero fondato i Toto, e che era l’epitome del sound edonistico di quegli anni, tra rock, funky, le prime avvisaglie della disco music, un suono vellutato infarcito di blue eyed soul felpato e soft rock, che poi Scaggs ha “sfruttato” ancora negli anni a venire. Dischi per certi versi sicuramente commerciali, ma anche suonati benissimo e con la voce splendida del nostro che certamente era uno degli atout di queste prove discografiche. Passato il grande successo, sempre più decrescente fino al 1980, Boz si è preso una prima lunga pausa fino al 1988, anno in cui è ritornato con un disco come Other Roads, dal sound tipicamente e orribilmente anni ’80, prima della svolta definitiva della sua carriera, con due album eccellenti come Some Change del 1994 e soprattutto Come On Home, disco del 1997 che si può considerare come un preludio (riuscitissimo) del nuovo Out Of The Blues: entrambi immersi tra cover di blues e soul e qualche brano originale. Da allora Boz Scaggs ha realizzato ancora ottime prove come Dig, il jazzato But Beautiful Speak Low, ma è con la trilogia iniziata con l’eccellente https://discoclub.myblog.it/2013/02/27/la-classe-non-e-acqua-boz-scaggs-memphis/  (dove per primo rendeva omaggio al recentemente scomparso Willy DeVille con una sua canzone), proseguita con il riuscitissimo A Fool To Care del 2015 e ora completata con Out Of The Blues, il 19° album di studio della carriera di uno dei più bravi cantanti americani in circolazione, ancora oggi a 74 anni in possesso di una delle voci più emozionanti ed espressive che sia dato sentire, sempre in bilico tra musica bianca e nera, uno strumento unico.

Scaggs ha anche sempre (o quasi sempre) saputo scegliere i suoi collaboratori; in questo caso partendo dall’autore dei quattro brani originali, l’amico di lunga data Jack “Applejack” Walroth, co-autore di canzoni in passato anche con Elvin Bishop. E pure la produzione, a differenza dei due dischi precedenti dove era affidata a Steve Jordan, questa volta è divisa tra lo stesso Boz, Michael Rodriguez Chris Tabarez, che era stato l’ingegnere del suono di parecchi degli ultimi album, quindi il sound rimane inalterato, caldo ed avvolgente, intimo ma incisivo, con delle analogie con gli album precedenti e l’ottimo Come On Home. Ed eccellente è anche la scelta dei musicisti: grandissima sezione ritmica con Willie Weeks al basso e Jim Keltner alla batteria, due dei migliori al mondo, Jim Cox alle tastiere, Charlie Sexton Doyle Bramhall II alle chitarre (e Steve Freund in un brano), oltre ad una piccola sezioni fiati impiegata in alcune tracce. Il risultato complessivo è delizioso, con delle punte di eccellenza in alcune canzoni; non tanto dissimile da quello dei dischi dell’amato Bobby “Blue” Bland, già avvicinato stilisticamente in alcune delle prove più riuscite di Scaggs, quelle citate nella recensione: l’apertura è affidata a Rock And Stick, uno shuffle bluesato e raffinato con il cantato che ondeggia tra voce normale e falsetto alla Al Green, mentre gli strumentisti accarezzano i loro strumenti e l’autore del brano Walroth soffia nell’armonica con classe e souplesse, ricorda quel blue eyed soul and blues frequentato anche con gli amici Donald Fagen Michael McDonald nei Dukes Of September. I’ve Just Got To Forget You, di Don Robey alias Deadric Malone, è uno dei brani tratti dal repertorio di Bobby Bland, una perla di soul fiatistico cantata divinamente da Scaggs il cui timbro vocale sembra oscillare tra quello di Art e Aaron Neville, mentre I’ve Just Got To Know di Jimmy McCracklin è un jump blues classico. di nuovo con uso fiati, quasi alla Van Morrison (altro seguace di Bland), molto bello e pungente l’inserto chitarristico di Charlie Sexton.

Radiator 110 di nuovo di Walroth, è più funky-rock, nella migliore accezione del termine, e “riffata”, con un bel tiro di chitarre suonate da Scaggs, Walroth e Steve Freund che le danno un impianto molto godibile, mentre l’organo lavora di fino sullo sfondo, come pure l’armonica. Little Miss Night And Day, l’unico brano con lo zampino del nostro amico come autore, ricorda certi brani di Chuck Berry, un R&R scandito cantato con la classica flemma da Boz Scaggs, che lascia anche ampio spazio al piano di Cox e alle chitarre di Sexton e Bramhall che non si fanno certo pregare con ficcanti assoli. Forse il brano più bello dell’album è una splendida e sorprendente rilettura di On The Beach, con il brano di Neil Young che diventa una ballata notturna cantata con stile quasi da crooner, uno che però ama molto anche il blues, con la sezione ritmica minimale e perfetta, l’organo che scivola quasi sui lati più scabrosi del testo e la chitarra  appena accarezzata, con passione. Down In Virginia è l’omaggio sentito ad un altra delle grandi passioni di Boz, Jimmy Reed, uno dei maestri assoluti del blues, con un brano che profuma delle 12 battute più classiche, sempre con armonica e chitarre a dividersi equamente le parti strumentali mentre il cantato è rilassato e mai sopra le righe, con la voce vissuta di Scaggs che compensa la forza del passato con l’esperienza acquisita nello scorrere del tempo. Those Lies l’ultimo brano di Walroth è un altro ritmato blues-rock nel classico stile del cantante, scandito dall’uso dei fiati sincopati e sempre con l’uso molto piacevole dell’organo e delle chitarre, misurate ma come sempre efficaci,mentre la chiusura è affidata ad un’altra composizione sempre di Robey, pure questa proveniente dal repertorio di Bobby Blue Bland, notturna e jazzata, nuovamente con l’approccio quasi da crooner di Boz Scaggs che lascia che la sua voce galleggi negli spazi lasciati liberi dagli interventi di sax, piano e organo. Se amate le belle voci e le belle canzoni qui trovate entrambi gli elementi in abbondanza.

Bruno Conti

 

Promosso Con Qualche Riserva “L’Amico” Di Eric! Doyle Bramhall II – Rich Man

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Doyle Bramhall II  – Rich Man – Concord                          

Devo dire che avevo una certa aspettativa per il nuovo album solista di Doyle Bramhall II, in base a quello che avevo letto, ma poi, fedele praticante del vecchio motto di Guido Angeli “provare per credere”, preferisco sempre verificare di persona. Insomma, fra poco capiamo meglio. Il nostro amico, nel corso degli anni si è indubbiamente costruito una solida reputazione: texano di Austin, figlio di Doyle Bramhall (a lungo amico e collaboratore di Stevie Ray Vaughan), cresciuto a pane, blues, soul e R&B, ma anche il rock di Hendrix e SRV, poi fondatore con  Charlie Sexton degli Arc Angels, una band che non ha reso come prometteva il potenziale, una carriera solista con alcuni buoni album, di cui l’ultimo Welcome, uscito nel 2001. Da allora è iniziata una lunga collaborazione con Eric Clapton, che lo considera uno dei migliori chitarristi su piazza, ma anche con Derek Trucks e Susan Tedeschi, con Sheryl Crow, di cui è stato  produttore dell’ottimo 100 Miles From Memphis, e ancora una copiosa serie di collaborazioni che non citiamo, ma è lunga come le Pagine Gialle (se esistono ancora). Torniamo quindi a Rich Man: le premesse per un buon album, leggendo quanto appena scritto, ci sarebbero tutte e il sottoscritto si è dedicato con impegno all’ascolto di questo nuovo album. Verdetto? Promosso, con piccole riserve, vediamo perché.

Il disco nell’insieme è buono, ma in alcuni brani c’è una tendenza sonora verso derive che si avvicinano pericolosamente ai brani più commerciali di Prince e Lenny Kravitz (cioè quasi tutti), mentre altrove, spesso e volentieri, ci si rivolge al funky-rock-soul, quello dei primi anni ’70, di recente rivisitato, per esempio, nell’ottimo Love And Hate di Michael Kiwanuka http://discoclub.myblog.it/2016/08/04/michael-kiwanuka-love-hate-supera-brillantemente-la-prova-del-difficile-secondo-album/ : ed ecco quindi che nell’iniziale Mama Can’t Help You (Believe It) il brano sia stato scritto da Bramhall proprio per svilupparsi intorno ad un groove di batteria creato da James Gadson, quello che suonava in alcuni dischi di Bill Withers, Temptations, Charles Wright & the Watts 103rd Street Rhythm Band, tutti luminari del funky e del soul di quel periodo, e il risultato è assai gradevole, con il suono avvolgente delle chitarre, delle tastiere, degli archi accennati e delle voci di supporto che ruota attorno alla bella voce di Doyle, che poi rilascia un assolo di chitarra lancinante e incisivo, bella partenza. Non male anche la successiva November, un brano dedicato allo scomparso padre di Doyle, con cui condivideva, come ricordato, una passione per questo R&B meticciato con  il rock, qui il suono è perfino troppo lussureggiante, con strati sovrapposti di fiati e archi che circondano questa bella ballata d’amore per il padre perduto https://www.youtube.com/watch?v=LungqZ0bJ-0 . The Veil ricorda molto proprio il sound del disco di Kiwanuka ricordato poc’anzi, un funky soul targato 70’s con piccoli tocchi di wah-wah e organo a tratteggiare un soul orchestrale influenzato da Withers, Gaye e altri praticanti dello stile, avvolgente e sospeso, qualche inserto di falsetto e il solito bel assolo di Bramhall che è un eccellente solista. Profumi d’oriente per My People, un’altra delle passioni di Doyle, con la parte iniziale dove un sarangi, la chitarra a 12 corde, l’harmonium e percussioni varie rimandano alle atmosfere di certi brani di George Harrison, ma poi il brano si sviluppa in un rock-blues mid-tempo di buona fattura, con i consueti ficcanti inserti della solista del nostro.

Per mantenere i contatti con la musica indiana nel successivo brano Bramhall chiama la figlia di Ravi Shankar, Norah Jones, che però appare nel brano, New Faith, in qualità di raffinata chanteuse tra pop e jazz, per un brano elettroacustico, intimo e raccolto, dove la voce della Jones viaggia all’unisono con quella del titolare, per una piacevole ballata in leggero crescendo, assai godibile. Fin qui tutto bene, Keep You Dreamin’ parte con tocchi hendrixiani, ma poi vira verso quelle derive Prince/Kravitz non del tutto impeccabili e il solo di wah-wah non basta a redimerla, e anche Hands Up, collegata nel testo ai disordini razziali dello scorso anno, al di là del favoloso lavoro della solista di Bramhall, qui in grande spolvero nella parte centrale, è forse un tantino pasticciata, ma magari sbaglio io. Rich man, di nuovo con un ricco arrangiamento degli archi, è un altro esempio dell’orchestral soul che prevale in gran parte dl disco, poi ribadito nella successiva Harmony, che sembra una ballata (bella) di quelle di Prince. Cries Of Ages ha un bel testo, buon lavoro di chitarra, ma la trovo un po’ confusa e pomposa, mentre sui ritmi orientali di Saharan Crossing, con continui oh-oh-oh vocali, stenderei un velo pietoso. Molto bello il finale rock, prima con una lunga The Samanas, dai suoni futuribili e selvaggi, che rendono omaggio alla terza facciata sperimentale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, poi citato direttamente con una bella versione di Hear My Train a Comin’, inutile dire che in entrambi i brani Doyle Bramhall II si sbizzarrisce alla grande alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=puuVXZeFHy8 . Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo album.

Bruno Conti

Ca…spita Se Suonava(no), Uno Dei Migliori Concerti di Sempre Di Eric Clapton – Live In San Diego (With JJ Cale)

eric clapton live in san diego

Eric Clapton – Live In San Diego (With Special Guest JJ Cale) –  2 CD Reprise/Warner EU/

Come dicevo in fase di presentazione del disco, nella rubrica delle anticipazioni, più di un mese fa, lo scorso anno Eric Clapton ha annunciato il suo ritiro dalle scene, poi “fotografato” nei concerti di addio e nella pubblicazione dell’ottimo Slowhand At 70: Live At The Royal Albert Hall, e noi del Blog nel Post dedicato all’evento abbiamo titolato http://discoclub.myblog.it/2015/11/30/speriamo-che-ci-ripensi-eric-clapton-slowhand-at-70-live-at-the-royal-albert-hall/. In effetti il buon Eric da allora sembra averci ripensato: a maggio è uscito un nuovo album http://discoclub.myblog.it/2016/05/22/si-era-ritirato-fortuna-che-almeno-studio-lo-fa-eric-clapton-i-still-do/, preceduto da una serie di date in Giappone, in contemporanea alle date alla RAH lo scorso anno era uscita anche una raccolta Forever Man, dedicata al suo periodo con la Warner Bros e nel 2016 sembrava esserci  una nuova edizione del Crossroads Guitar Festival, ma era un refuso creato da un video in rete https://www.youtube.com/watch?v=Nn8tfnF39ek (in cui era caduto anche chi scrive)  e dall’apparizione di un cofanetto in 3 CD, peraltro bellissimo,con il meglio delle varie edizioni passate http://discoclub.myblog.it/2016/08/27/eric-clapton-guests-crossroads-revisited-i-dvd-ecco-il-cofanetto-triplo-i-cd/. Non contenti di tutto ciò ieri è uscito questo Live In San Diego di cui andiamo a parlare tra un attimo.

Breve premessa: in occasione della pubblicazione del disco The Road To Escondido, registrato in coppia con il suo amico e mentore JJ Cale, non fu intrapresa nessuna tournée particolare per promuovere l’album, per la nota riluttanza di Cale ad esibirsi dal vivo, ma Eric Clapton era già in giro per gli Stati Uniti con una super band. dove oltre ad Eric, alle chitarre c’erano anche Derek Trucks Doyle Bramhall II, entrambi presenti nel disco, oltre a Willie Weeks al basso e Steve Jordan alla batteria, più le doppie tastiere di Tim Carmon Chris Stainton, e le vocalist aggiunte Michelle John Sharon White, per dirla alla Pozzetto, una band della Madonna! Allora Clapton era in uno dei suoi vari vertici espressivi e il tour, in particolare la data al iPayOne Center di San Diego, dove Cale si unì alla compagnia per eseguire cinque brani nel corso del concerto, sono tra le cose migliori mai sentite (almeno dal sottoscritto) nell’intera carriera concertistica di Manolenta, una serata magica, non ancora inficiata dai problemi di salute, parlando con serietà dell’annunciato ritiro, causati dalla malattia degenerativa nervosa, una neuropatia periferica, che gli procura dei dolori molto forti che gli impediscono di suonare come lui sa, o comunque ne limitano parecchio il lavoro chitarristico.

Quel tour fu anche l’occasione per Eric, avendo altri due chitarristi in formazione, di proporre molti brani tratti dal disco classico di Derek And Dominos Layla & Other Assorted Love Songs: e infatti il concerto si apre con ben cinque brani tratti da quell’album splendido. In tutto il concerto le chitarre, e quella di Eric in particolare, sono il punto nodale dell’esibizione, con una serie di assoli fluidi e ricchi di tecnica ed improvvisazione, come solo in particolari e rare occasioni è dato sentire, La tetralogia di brani tratti da Layla si apre con una vibrante Tell The Truth, dove la slide di Derek Trucks si divide subito gli spazi solisti che le chitarre di Clapton e Bramhall, mentre la band crea un suono potente e corale, dove Doyle e le coriste sostengono con le loro voci quella di Eric e anche tastiere e ritmica sono immediatamente sul pezzo. Key To The Highway è uno degli standard assoluti del blues, qui ripresa in una versione elettrica e vibrante che non ha nulla da invidiare a quella  del disco originale, sempre con Bramhall II nella parte di seconda voce che fu di Bobby Whitlock,  la slide guizzante di Trucks nel ruolo di Duane Allman e il piano di Stainton a cesellare note. Ottima anche la ripresa di Got To Get Better In A Little While con la batteria di Steve Jordan che trovato un groove funky e coinvolgente non lo molla più, ben coadiuvato da tutta la band, Willie Weeks in particolare, mentre la versione di Little Wing, il pezzo di Jimi Hendrix che nel corso degli anni è diventato a sua volta uno standard nei concerti di Clapton, questa volta è più vicina al mood della ballata originale di Jimi, meno “galoppante”, più lenta e sognante, splendida e liquida come sempre, a parere di chi scrive una della dieci canzoni più belle della storia del rock, Per concludere la prima parte del concerto rimane Anyday, brano scritto con la collaborazione di Whitlock, un altro blues got rock got soul che esemplifica alla perfezione lo spirito e l’ispirazione di quell’album seminale per la carriera solista di Eric.

A questo punto viene chiamato sul palco JJ Cale per un quartetto di brani tratti dal meglio del suo repertorio e uno tratto da The Road To Escondido: bellissima l’apertura con Anyway The Wind Blows, che ci introduce subito al sound pigro e ciondolante tipico dei brani di Cale, per cui è stato coniato giustamente il termine laidback, JJ e Enrico la cantano all’unisono e il brano che si intensifica lentamente in un crescendo inesorabile si gusta alla grande, seguita da After Midnight, il brano apparso nel primo album di solista di Clapton, quello dove c’erano Delaney & Bonnie, e che fece conoscere il musicista dell’Oklahoma al mondo intero, con la band che si adegua allo stile più raccolto e meno scintillante di Cale, con i vari solisti più misurati nei loro interventi. Who I Am Telling You? è una delle canzoni meno conosciute del songbook di JJ, ai tempi era nuovissima, ma fa la sua bella figura, una ballata pianistica calda ed avvolgente, cantata a voci alternate; Don’t Cry Sister è un pezzo di taglio blues-rock, appariva su 5, forse non ha la fama di altre canzoni di Cale, ma conferma il gusto squisito e la finezza delle composizioni del chitarrista americano, anche nella versione che appare in questo Live In San Diego. Il riff di Cocaine è entrato nel subconscio di tutti gli amanti della musica rock, inconfondibile ed inesorabile, ti prende e ti trascina in un gorgo di sensazioni senza tempo che ammaliano il pubblico presente, assoli brevi e concisi per tutti, ma grande musica.

La parte finale del concerto è quella più blues, ma anche dei classici: Motherless Children, un altro dei riff più noti del canzoniere di Enrico, con l’uso della doppia slide e l’andatura incalzante tipica di questa versione dello standard di Blind Willie Johnson. Poi una versione monstre di Little Queen Of Spades, oltre diciassette minuti per questo brano di Robert Johnson che Clapton eseguiva già negli anni ’70, ma ha riscoperto nell’ultimo periodo, la versione di San Diego di questo slow blues è una delle più belle mai sentite, con il piano di Stainton che si prende i suoi spazi in vari momenti del pezzo e la solista di Eric che ci regala un primo assolo fluido e tagliente, nella migliore tradizione di quello che è stato definito, non a caso, “God”, per il suo stile unico ed inarrivabile (anche se l’arrivo di Hendrix da un altro universo, ai tempi gli creò non pochi problemi), nel prosieguo del brano anche Bramhall e la slide di Trucks hanno diritto ai loro interventi, fino al tripudio finale. Nel greatest hits di Clapton anche Further On Up The Road, uno splendido shuffle con uso di chitarre e assolo di organo, ha il suo giusto spazio, mentre Wonderful Tonight è una delle sue ballate più note, forse un filo caramellosa ma non può mancare nei concerti del nostro, scritta ai tempi per Pattie Boyd, rimane una delle più belle canzoni amore della storia della musica rock e la versione di San Diego non è priva di finezze, mentre Layla è un altro dei dieci pezzi rock all-time preferiti dal sottoscritto, qui riproposto nella prima versione, con Derek Trucks impegnato alla slide a non far rimpiangere quella che fu la parte di Duane Allman, e devo dire che ci riesce, in una versione gagliarda ed imperiosa, elettrica e vibrante, in una parola, splendida. Per l’ultimo brano, visto che i chitarristi erano pochi, sale sul palco pure Robert Cray, anche voce solista, in una ripresa solida e poderosa di un altro degli highlights del repertorio di Clapton, Crossroads, intensa e palpitante in un vorticoso interscambio di chitarre, per un trionfo del rock e del blues. Grande concerto, direi imperdibile, senza tema di ripetermi.

*NDB Anche se la presenza di tanti filmati del concerto in rete mi fa sperare (o temere) che prima o poi uscirà anche la versione video.

Bruno Conti