Il Lato Oscuro Del Texas! Lord Buffalo – Tohu Wa Bohu

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Lord Buffalo – Tohu Wa Bohu – Blues Funeral CD

I Lord Buffalo sono un quartetto di Austin, Texas (ma il loro leader Daniel Pruitt è originario di Stillwater, Oklahoma) nato nel 2012 dalle ceneri degli Hot Pentecostals, e che ha esordito nel 2017 con l’omonimo (ed introvabile) Lord Buffalo. Il fatto che vengano dal Texas può far pensare che facciano country o southern rock, ma loro si autodefiniscono “mud-folk”: in pratica la loro musica è un cocktail di rock desertico e psichedelia, le atmosfere sono notturne e stranianti, quasi malate, come se i nostri fossero una via di mezzo tra i 13th Floor Elevators di Roky Erickson ed i Dream Syndicate, ma con un uso ancora più massiccio di sonorità plumbee. Tohu Wa Bohu (un’espressione ebraica che indica la condizione della Terra appena prima della creazione della luce nella Genesi, e già questo dovrebbe far riflettere sul tipo di musica contenuta) è il nuovo lavoro del quartetto, che oltre a Pruitt (voce e chitarra) vede Garrett Hellman alla chitarra e organo, Patrick Petterson al basso, violino e violoncello e Yamal Said alla batteria.

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Niente country quindi, e nemmeno sonorità che mettano l’ascoltatore a proprio agio: Tohu Wa Bohu è un disco indubbiamente affascinante e creativo, ma mentirei se dicessi che si lascia ascoltare con facilità; qui tutto è cupo, buio e sofferto, con gli strumenti che vengono usati non nel modo canonico ma per creare un insieme dichiaratamente spiazzante. Otto canzoni che iniziano con Raziel, un avvio inquietante e pieno di tensione, con un violoncello a fendere l’aria (giuro, mi ricorda il brano che accompagnava la scena dell’orgia in Eyes Wide Shut), poi entra una batteria plumbea ed una chitarra leggermente distorta in lontananza, per un brano che fonde psichedelia, folk gotico, rock e musica desertica https://www.youtube.com/watch?v=Jukm0rX-tSs . Il brano è volutamente dissonante, eppure il crescendo elettrico alla fine riesce a catturare l’ascoltatore (forse per ipnosi): quasi al settimo minuto il ritmo sale all’improvviso e sembra di stare all’interno di un incubo popolato da figure sinistre. Wild Hunt inizia con un’insistente percussione doppiata da un pianoforte volutamente monotono, una chitarra si fa largo e Pruitt canta un motivo apparentemente senza melodia fino all’ingresso del resto della band che trasforma il pezzo in una rock ballad ipnotica e destabilizzante https://www.youtube.com/watch?v=9VfSlDs52NY .

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Halle Berry (sì, proprio come la bellissima attrice) vede Pruitt declamare i versi come se fosse un incrocio tra Steve Wynn e Jim Morrison (però fatti di acidi), con dietro di lui una ritmica spezzettata ed il solito tappeto chitarristico obliquo https://www.youtube.com/watch?v=lNY5J_JAMRw . Non è un disco facile, per niente, e sinceramente in un anno cupo come questo 2020, inizio 2021 non so nemmeno se è ciò di cui ho bisogno: Dog Head è una sorta di folk ballad elettrica, con gli strumenti centellinati nel buio, tempo lento ed atmosfera tetra, la title track è un altro pezzo dall’incedere ipnotico e senza squarci di luce, ma anzi con chitarra e violino che fanno a gara a chi va più in distorsione, mentre Kenosis ha uno sviluppo soffuso e sinuoso, con la voce al centro ed un pianoforte gelido alle spalle: meno spiazzante delle precedenti pur rimanendo nelle tenebre. Il CD si chiude con Heart Of The Snake, un pezzo in cui il leader sembra intonare un motivo normale ed i suoi compagni si adattano fornendo un background sonoro che sa di film western psichedelico (forse il brano meno ostico di tutti) https://www.youtube.com/watch?v=1Br2AdK5omU , e con Llano Estacado No. 2, uno strumentale dal mood angosciante ed allucinato.

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Tohu Wa Bohu è quindi un disco strano, difficile e coraggioso, che ha sicuramente delle potenzialità e può anche risultare affascinante, ma che nello stesso tempo non mi sento di consigliare senza remore.

Marco Verdi

Un Album Spiazzante, Sicuramente Difficile, Ma Affascinante. The Dream Syndicate – The Universe Inside

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The Dream Syndicate – The Universe Inside – ANTI CD USA 10-04-2020/Download

Andiamo con ordine. Quando nel 2017 i Dream Syndicate avevano pubblicato il loro comeback album How Did I Find Myself Here?, avevo giudicato il disco sorprendente non tanto per il fatto che fosse uscito (dopotutto i nostri si erano riformati come live band nel 2012, ed era dunque lecito aspettarsi un nuovo lavoro prima o poi) quanto per la bontà del contenuto, una miscela vincente di rock’n’roll urbano, punk e psichedelia che riportava i nostri ai fasti degli anni ottanta: Un album che era l’ideale seguito più del mitico Medicine Show che del loro epitaffio Ghost Stories, ed era anche meglio di tutta la discografia solista del leader Steve Wynn, con la possibile eccezione dei notevoli Kerosene Man e Fluorescent. Lo scorso anno era poi uscito These Times, questa volta sì un po’ a sorpresa in quanto non mi aspettavo un seguito così presto https://discoclub.myblog.it/2019/05/19/la-reunion-prosegue-ed-anche-molto-bene-the-dream-syndicate-these-times/ , e di sicuro non di livello quasi comparabile al precedente: il disco era però in parte diverso, con un maggior ricorso all’elettronica pur dosata in maniera intellingente, ed un ruolo decisamente più importante per le tastiere di Chris Cacavas (ex Green On Red), un lavoro cupo e pessimistico sia dal punto di vista dei testi che del sound, e che non aveva mancato di suscitare perplessità ed attirarsi qualche timida critica.

A meno di un anno di distanza il Sindacato del Sogno è di nuovo tra noi con The Universe Inside (che, coronavirus permettendo, uscirà in CD il primo maggio (a parte negli States, dove è in vendita dal 10 aprile, per ora è solo in download), un album ancora più imprevedibile e spiazzante nel quale i nostri in cinque lunghi pezzi ci fanno vedere quello che sono oggi, cioè una band in cui il Paisley Sound degli inizi ha ceduto ormai il passo ad una musica che fonde in maniera solo apparentemente caotica avanguardia europea, jazz-rock, progressive e massicce dosi di psichedelia. Registrato in presa diretta durante una notte di fine anno scorso (80 minuti poi ridotti a 58), The Universe Inside ci mostra che i nostri oggi non concepiscono la loro musica secondo schemi classici, e le cinque tracce presenti non è neppure il caso di chiamarle “canzoni”, bensì un viaggio lisergico ed allucinato nei bassifondi di Los Angeles (o di New York, i bassifondi sono tutti uguali, marci e malati allo stesso modo), un disco che avrebbe potuto concepire uno come Lou Reed se fosse stato ancora tra noi, ed in cui la voce di Wynn non è una guida melodica ma una sorta di strumento aggiunto. In questo lavoro vengono poi fuori le radici avanguardistiche dell’altro chitarrista Jason Victor e quelle jazz della formidabile sezione ritmica formata da Mark Walton e Dennis Duck: infatti l’approccio musicale si potrebbe paragonare a quello che diede vita al leggendario Bitches Brew di Miles Davis, cioè un’unica ed improvvisata session che fu poi leggeremente accorciata in sede di post-produzione.

E’ un po’ come se Wynn e soci ci avessero detto: “Eccoci di nuovo qui: ora vi facciamo vedere che siamo ancora capaci di fare quello che sapevamo fare negli anni ottanta (How Did I Find Myself Here?). Attenzione però, noi non siamo più quelli, ma il nostro suono si sta evolvendo (These Times), ed oggi siamo questi qua (The Universe Inside)”. L’album non mette dunque l’ascoltatore in posizione privilegiata, ma in realtà è come se lo caricasse di botte ed alla fine lo lasciasse a terra malconcio e sanguinante (e magari in overdose), ma se riuscirete ad “entrare” nel disco per il verso giusto, come sono fortunatamente riuscito a fare io, non potrete che rimanerne affascinati. Se la struttura vi può sembrare simile a quella di The Third Mind, esordio omonimo del supergruppo guidato da Dave Alvin, tenete presente che là i brani erano un omaggio al rock psichedelico di fine anni sessanta ed il suono decisamente più accomodante https://discoclub.myblog.it/2020/03/06/un-dave-alvin-diverso-ma-sempre-notevole-the-third-mind/ : qui di accomodante non c’è assolutamente nulla.

l pezzo più lungo, The Regulator, è messo proprio all’inizio, più di venti minuti che partono con un ritmo sostenuto, una chitarra per ognuno dei due lati dello stereo che vanno ciascuna per conto suo riuscendo però a non perdere il filo con il tema musicale di base (“melodia” mi sembra una parola grossa), con l’aggiunta dei riff di un sitar elettrico suonato da Stephen McCarthy dei Long Ryders; poi una chitarra parte per la tangente con suoni distorti, così come distorta è la voce di Wynn (sembra più Leonard Cohen all’inizio ed Iggy Pop alla fine), mentre Cacavas comincia a farsi largo con un piano elettrico ed un synth usato in maniera “giusta”, e spuntano anche un’armonica, il sax di Marcus Tenney suonato proprio alla maniera di Miles Davis (so che Miles era un trombettista, ma sto parlando dello stile) ed un coro quasi onirico, fino all’esplosione sonora finale. Musica in assoluta libertà, di chiaro impianto psycho-jazz (se mi passate la definizione), ma decisamente intrigante. In confronto la seguente The Longing (“solo” sette minuti e mezzo) è una canzonetta: con il suo ritmo cadenzato ed i riff chitarristici lancinanti alla Neil Young, il brano è un rock psichedelico e notturno che rimanda ai Dream Syndicate classici, con un motivo di fondo abbastanza definito che mi ricorda un po’ anche il David Bowie più sperimentale e che si potrebbe anche definire piacevole (almeno fino al quinto minuto, dato che il finale è puro trip lisergico).

Apropos Of Nothing (nove minuti e mezzo) è un potente rock’n’roll elettrico alla maniera dei nostri, leggermente più disteso dei precedenti ma sempre con un’aura psichedelica, con una steel in sottofondo che cerca di ammorbidire il suono: Steve canta nel suo tipico stile ed in leggero contrasto con l’accompagnamento strumentale, ed il tutto risulta anche gradevole (nel senso più “perverso” del termine) e meno difficile del resto, nonostante anche qui la parte centrale sembri la colonna sonora di un “viaggio” a base di allucinogeni, con tanto di accelerazione ritmica finale. Lo strumentale Dusting Off The Rust, altri dieci minuti, inizia in maniera obliqua con le chitarre decisamente “avant-garde” ed i suoni elettronici di Cacavas che prendono il sopravvento, mentre il sax tenta di riportare il tutto ad una dimensione terrena riuscendoci a poco a poco visto che il sound si fa più morbido con il passare del tempo, ed il brano diventa quasi fruibile pur rimanendo nei binari dell’improvvisazione “free”; chiusura con gli undici minuti di The Slowest Rendition, un pezzo che parte lento, etereo e dissonante, con Wynn che interviene in maniera discorsiva con voce quasi narrante, poi entra una ritmica ossessiva dai suoni sintetici trasformando la canzone nell’ideale soundtrack di un film sperimentale di ambientazione post-apocalittica, per quello che è l’episodio più ostico di The Universe Inside.

Un disco non facile quindi, che necessita di più ascolti per essere assorbito a dovere: una cosa è sicura, e cioè che i Dream Syndicate non sono certo una band che si adagia sugli allori.

Marco Verdi

 

La Punta Di “Diamantini” Del Rock Italiano! Cheap Wine – Faces

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Cheap Wine – Faces – Cheap Wine Records/IRD CD

A due anni di distanza da Dreams https://discoclub.myblog.it/2017/09/26/anteprima-nuovo-album-grande-rock-made-in-italy-si-puo-fare-cheap-wine-dreams/ , che concludeva una ideale trilogia iniziata con Based On Lies e proseguita con Beggar Town, tornano i Cheap Wine, rock band pesarese guidata dai fratelli Diamantini (Marco alla voce e Michele alle chitarre, come sempre con la sezione ritmica di Andrea Giaro, basso, e Alan Giannini, batteria, e con le tastiere di Alessio Raffaelli) con Faces, decimo full-length di studio del quintetto e realizzato ancora grazie al crowdfunding. Faces è un album che, seppur “sganciato” dai tre precedenti, in un certo senso ne porta avanti le tematiche: i personaggi del disco sono infatti persone comuni, gente spaesata che mal si adatta alla realtà odierna, fatta di relazioni finte, di rapporti fittizi. Un mondo in cui tutti in un certo senso indossano una maschera e fanno finta di essere ciò che non sono, e coloro che cercano di distinguersi dalla massa vengono guardati come dei reietti, anche se ogni tanto qualcuno rischia la fuga da questa situazione opprimente.

*NDB Non essendoci ancora video pronti del nuovo album vi segnalo le date del tour di presentazione di Faces, a ritroso quelle ancora da effettuare.

23 novembre 2019
CANTU’ (CO) – All’1,35 Circa
22 novembre 2019
GATTORNA (GE) – Alzati Lazzaro
9 novembre 2019
LUGAGNANO DI SONA (VR) – Club Il Giardino
8 novembre 2019
CONCORDIA SAGITTARIA (VE) – Sacco & Vanzetti
2 novembre 2019
CHIARI (BS) – Salone Marchetti
1 novembre 2019
GENOVA – Ostaia Da-U Neo
31 ottobre 2019
FIRENZE – Teatro del Sale
4 settembre 2019
PESARO – Dalla Cira
16 marzo 2019
CANTU’ (CO) – All’1,35 Circa
15 marzo 2019
VIGNOLA (MO) – Stones Cafè
14 marzo 2019
FIRENZE – Teatro del Sale
7 febbraio 2019
PESARO – Prima Hangar
16 gennaio 2019
MILANO – Nidaba Theatre
15 gennaio 2019
MILANO – GhePensi M.I.
10 novembre 2018
LUGAGNANO DI SONA (VR) – Club Il Giardino
9 novembre 2018

L’unico modo di capire lo stato d’animo di queste persone è guardandole in faccia, perché le facce (da qui il titolo del CD) non tradiscono mai e raccontano anche senza parlare, basta saper leggere negli occhi altrui. I testi sono di conseguenza cupi, pessimistici, è difficile che filtri anche un piccolo raggio di sole, ed anche le musiche sono tese, dure, nonostante i nostri non tradiscano lo spirito rock’n’roll che li ha accompagnati durante tutta la carriera: Faces è quindi l’ennesimo album di puro rock da parte del quintetto, che canta in inglese non per snobismo ma perché l’inglese è appunto la lingua del rock. Le nove canzoni presenti in questo CD sono come sempre basate sul suono ruspante della chitarra di Michele, anche se ho l’impressione che stavolta le tastiere abbiano uno spazio maggiore rispetto a prima, pur non risultando affatto invadenti: un suono rock moderno, figlio dei nostri giorni, che in alcuni momenti mi ricorda non poco quello dell’ultimo album dei Dream Syndicate. Il CD si apre in maniera decisamente vigorosa con Made To Fly, una rock song affilata come una lama, che inizia con la chitarra elettrica a macinare riff, poi entra forte e chiara la voce di Marco e la sezione ritmica fa il suo dovere: un avvio potente, con Michele che chiude il brano con un lungo assolo purtroppo sfumato.

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Head In The Clouds inizia con effetti sonori un po’ stranianti, poi entra la chitarra acustica ed il brano si apre a poco a poco fino all’ingresso dell’elettrica dopo la prima strofa, con la canzone che si trasforma in una rock ballad ancora molto tirata, con solito assolo torcibudella: dal vivo prevedo che farà faville. The Swan And The Crow è più distesa ma si avverte lo stesso una certa tensione, sembra quasi una ballatona urbana alla Iggy Pop; The Great Puppet Show è ancora rock’n’roll, caratterizzato dal suono potente della chitarra, ritmo sostenuto e feeling a mille: nessuno in Italia fa musica rock a questo livello, elettrica e coinvolgente. La title track, cupa, nervosa e dal suono moderno, fa veramente venire in mente il Sindacato del Sogno (e la voce non è distante da quella di Steve Wynn), mentre Misfit è una splendida rock ballad, tosta, diretta e dotata di un motivo di sicura presa: tra le più riuscite dell’intero lavoro. Molto bella anche Princess, uno slow d’atmosfera guidato dalla slide, un pezzo che non rinuncia comunque agli elementi rock e ricorda certe cose di Tom Petty. Finale con la trascinante Disguise, puro rock’n’roll dal ritornello vincente (altro pezzo che vorrei sentire live), e con New Ground, che nonostante mantenga un suono decisamente elettrico è più distesa e fluida.

Altro ottimo disco quindi per i Diamantini Brothers: i Cheap Wine sono da tempo una delle più belle realtà musicali del nostro paese, ed è una vergogna che dopo oltre vent’anni siano ancora “solo” una band di culto.

Marco Verdi

La Reunion Prosegue, Ed Anche Molto Bene! The Dream Syndicate – These Times

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The Dream Syndicate – These Times – Anti CD

Quando nel 2017 Steve Wynn aveva pubblicato un disco nuovo di zecca a nome dei riformati Dream Syndicate, l’eccellente How Did I Find Myself Here?, non avevo pensato ad una reunion estemporanea https://discoclub.myblog.it/2017/10/04/sventagliate-elettriche-come-ai-bei-tempi-the-dream-syndicate-how-did-i-find-myself-here/ , anche perché era dal 2012 che avevano ripreso a fare concerti insieme, ma con tutto l’ottimismo possibile non avrei creduto di ritrovarmi dopo soli due anni a commentare un altro album ad opera loro. E non è che la cosa mi dispiaccia, in quanto These Times dimostra che quanto di buono fatto vedere dal disco di due anni fa non era un fuoco di paglia, anche se comunque ci sono delle differenze sia nel suono che nelle canzoni, ma il tutto nel rispetto della continuità. So che quest’ultima può sembrare una frase in “politichese” che afferma una cosa ed il suo contrario, ma vedo di spiegarmi meglio: These Times è un album dai testi profondamente pessimistici, che parla dei problemi enormi del mondo e della società odierna (come da titolo), e parecchi pezzi riflettono il mood delle liriche, suonando cupi, pressanti e con pochi spiragli di luce.

In più i nostri sperimentano suoni più moderni, a differenza di How Did I Find Myself Here? che era un disco di rock chitarristico abbastanza classico nella sua confezione: qui invece c’è anche l’uso della tecnologia, si sente il suono dei synth in diversi momenti (ad opera di Chris Cacavas, entrato a far parte in pianta stabile del gruppo, e quindi essendo l’unico ad aver militato nei due gruppi cardine del cosiddetto Paisley Underground, cioè i Green On Red ed appunto i Syndicate), ed anche l’uso della strumentazione ha meno agganci col passato. Ma, ed ecco il discorso sulla continuità, si tratta sempre e comunque di rock’n’roll con elementi punk e qualcosa di psichedelico, le chitarre non si tirano mai indietro e le atmosfere sono quelle tipiche dei nostri, solo con un occhio più attento ai tempi attuali, ma comunque senza mai perdere il senso della misura. Prodotto dal fido John Agnello, These Times non presenta ospiti esterni a parte un paio di backing vocalists femminili, e quindi vede i già citati Wynn e Cacavas affiancati dalla seconda chitarra di Jason Victor e dalla sezione ritmica (sempre grande protagonista) di Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria. Il CD si apre con The Way In, un brano potente e chitarristico del tipo a cui i nostri ci hanno abituato, solo con un synth in sottofondo che però non infastidisce: ritmica pressante ed atmosfera cupa e tagliente (può essere tagliente un’atmosfera? Ascoltate questo brano e mi darete ragione) e nessuno squarcio di luce.

Put Some Miles On continua in maniera aggressiva, siamo quasi in zona punk anche se i nostri hanno una tecnica ed una professionalità che i gruppi punk si sognano: ritmo forsennato e chitarre stridenti, con Wynn che “loureedeggia” con la voce; Black Light inizia con un suono di tastiere “strano”, poi il brano parte con un basso pulsante ed una ritmica incalzante, ed anche qui i nostri non danno speranze nel testo e si approcciano in modo duro, secco e senza fronzoli. Da questo avvio These Times potrebbe sembrare più ostico dell’album di due anni fa (che in certi punti era perfino orecchiabile) ma il piacere dell’ascolto non ne è di certo inficiato, solo non lo metterei ad un appuntamento galante. Bullet Holes stempera un po’ la tensione, complice anche una chitarra acustica, ed il brano stesso è decisamente più immediato e fruibile, quasi un folk-rock urbano dalla melodia più definita, mentre Still Here Now è un’autentica rock song alla maniera dei nostri, chitarre e piano elettrico in evidenza ed un motivo diretto che continua con l’opera di distensione sonora rispetto ai primi tre pezzi. Speedway è ancora una canzone dall’incedere aggressivo ed incombente, ma anche coinvolgente, con il synth usato a mo’ di organo farfisa e le chitarre che arrotano che è una bellezza.

Recovery Mode ha un refrain orecchiabile ed è quanto di più vicino al pop possa esprimere il gruppo di Los Angeles, con le tastiere qui in prima fila rispetto alle chitarre, mentre The Whole World’s Watching vede il basso dominare in partenza, poi entra una chitarra sghemba ed il solito synth che però qui secondo me non era necessario (avrei preferito l’organo): Steve inizia a cantare dopo due minuti ed il brano si impenna di brutto. Chiusura con la roboante Space Age, altro rock’n’roll di grande energia e vigore chitarristico (e notevole godimento per chi ama il vero rock) e con Treading Water Underneath The Stars, finale a ritmo più contenuto ed atmosfera oscura simile a quella dei brani iniziali, anche se i decibel non sono certo messi a riposo. These Times non sarà forse immediato come How Did I Find Myself Here? e forse è anche un gradino sotto come canzoni, ma rimane comunque un signor disco di moderno rock, del tipo che oggi si sente sempre meno.

Marco Verdi

Sventagliate Elettriche Come Ai Bei Tempi! The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here?

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The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? – Anti CD

Quando nel 2012 Steve Wynn aveva riformato per una serie di concerti i Dream Syndicate, gruppo cardine insieme ai Green On Red del cosiddetto movimento Paisley Underground (nato a Los Angeles negli anni ottanta), mi sarei aspettato che prima o poi la band si sarebbe ritrovata in studio per dare un seguito al loro ultimo lavoro, Ghost Stories (1988). Quello che non avevo immaginato è che i quattro (oltre a Steve l’unico altro membro fondatore è il batterista Dennis Duck, mentre il bassista Mark Walton era entrato nel 1986 e Jason Viktor è il chitarrista dei Miracle 3 di Wynn) avessero ancora nelle corde un disco del livello di questo How Did I Find Myself Here? L’album infatti, più che il seguito di Ghost Stories, si ricollega direttamente al leggendario Medicine Show, splendido secondo lavoro dei nostri che aveva seguito l’altrettanto fulminante esordio di The Days Of Wine And Roses: How Did I Find Myself Here? è infatti un disco di una potenza ed energia straordinarie, con la tipica miscela di rock e psichedelia del gruppo portata a livelli molto alti, otto canzoni coi fiocchi suonate alla grande, come se trent’anni non fossero passati.

Stupisce anche la lucidità di Wynn come songwriter, dato che, dopo i promettenti inizi da solista (gli ottimi Kerosene Man e Dazzling Display e lo splendido Fluorescent), negli anni a seguire si era un po’ perso, alternando dischi di discreta fattura ad altri meno brillanti, ma senza più centrare l’album da copertina. Qui invece funziona tutto a dovere (complice anche il contributo determinante alle tastiere di Chris Cacavas, ex Green On Red) ed il disco si rivela tra i migliori album di rock chitarristico da me ascoltati ultimamente: potrei fare un paragone con il sorprendente reunion album dei Sonics di due anni fa (This Is The Sonics http://discoclub.myblog.it/2015/12/23/recuperi-sorprese-fine-anno-1-aiuto-il-lettore-va-fuoco-the-sonics-this-is-the-sonics/ ), non per il genere di musica ma per il fatto che spesso per fare del grande rock è preferibile avere una carta d’identità un po’ ingiallita. Il CD inizia in maniera strepitosa con la potente Filter Me Through You, brano chitarristico e cadenzato dal drumming possente ma anche con un motivo orecchiabile, il tutto nella più perfetta tradizione del quartetto californiano, un vero muro del suono che ci riporta indietro di trent’anni. Glide se possibile è ancora più elettrica e pressante, in contrasto con la voce declamatoria di Wynn, qui messa quasi in secondo piano rispetto alla veemenza chitarristica, mentre Out Of My Head aumenta ancora il ritmo e sfocia quasi nel punk, anche se di gran classe (so che punk e classe nella stessa frase fanno a pugni, ma fidatevi), con qualche traccia anche del Lou Reed più aggressivo: energia allo stato puro, senza dimenticarsi però della sostanza delle canzoni.

Sentite pure la saltellante 80 West, qui siamo forse oltre la forza di Medicine Show, come se gli anni che sono passati avessero accentuato al massimo la furia elettrica dei nostri; Like Mary molla un po’ la presa, spunta anche una chitarra acustica, e Wynn si prende il centro della scena con il suo tipico stile da rocker notturno, ricordandoci anche che quando vuole è un cantautore coi fiocchi. The Circle coniuga ancora alla perfezione potenza (tanta) e fruibilità, un attacco frontale di notevole impatto, mentre la title track è il pezzo centrale del disco: inizio sghembo, con gli strumenti che vanno ognuno per i fatti suoi e dove non è estranea una buona dose di psichedelia, poi Viktor ricuce tutto insieme, Wynn inizia a cantare ed il brano scorre fluido per undici minuti ad alto tasso elettrico. Kendra’s Dream, che chiude il CD, è a sorpresa cantata da Kendra Smith, bassista degli esordi dei Syndicate e poi con gli Opal, un pezzo ipnotico, obliquo, con le chitarre al limite della distorsione e la voce particolare e vissuta in puro stile Marianne Faithfull  della Smith a creare un mix straniante ma di indubbio fascino.

Meno male che c’è in ancora in giro qualche band in grado di fare del rock come Dio comanda, ed i Dream Syndicate fanno senz’altro parte di questo, ahimè, sempre più ristretto gruppo.

Marco Verdi

Anteprima Nuovo Album: Grande Rock Made In Italy? Si Può Fare! Cheap Wine – Dreams

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Cheap Wine – Dreams – Cheap Wine CD

Quest’anno i Cheap Wine, rock band italianissima originaria di Pesaro, festeggiano i vent’anni dal loro esordio discografico (il mini album Pictures), vent’anni di musica orgogliosamente indipendente e priva di compromessi. Personalmente non ho iniziato a seguirli da subito, avevo ascoltato un paio dei loro primi album e mi erano piaciuti, ma ritengo che la svolta artistica della loro carriera sia avvenuta prima con Freak Show (2007), ma più ancora con il bellissimo Spirits (2009), un lavoro maturo, profondo, decisamente “americano” e di un livello professionale davvero alto. Il live doppio dell’anno seguente, Stay Alive!, mi aveva poi letteralmente steso, un disco di una potenza e di un’intensità quasi impossibili da trovare in una band italica: mi aveva colpito a tal punto che lo avevo inserito tra i dieci dischi più belli di quell’anno, ed io non sono uno che guarda tanto all’interno dei propri confini quando si tratta di fare delle liste. Nel 2012 un altro disco bellissimo, Based On Lies, un album dai testi pessimistici e cupi, che narrava di una società allo sbando nella quale nessuno diceva la verità, una situazione ancor di più aggravata dalla crisi economica. Testi amari, ma grande musica, con alcune delle canzoni più belle del gruppo (Waiting On The Door, Give Me Tom Waits, la title track e la magnifica The Vampire), che rivelavano le nobili influenze della band guidata dai fratelli Marco e Michele Diamantini, da Bruce Springsteen a Neil Young, passando per Tom Petty ed anche gruppi “minori” (il virgolettato è ironico) come Dream Synidicate e Green On Red (ed il loro nome deriva proprio da un brano del primo disco della band di Dan Stuart, Gravity Talks…e meno male che non hanno scelto di chiamarsi Narcolepsy, che è il titolo della canzone che veniva dopo). Due anni dopo ecco Beggar Town, un disco ancora più cupo del suo predecessore, stavolta anche nelle musiche, con tracce anche di Leonard Cohen e Lou Reed, un vero e proprio seguito di Based On Lies, con i protagonisti delle canzoni che dovevano far fronte ai disastri causati dai problemi emersi sul primo disco, e trovare la forza di risollevarsi http://discoclub.myblog.it/2014/10/06/il-grande-rock-abita-anche-italia-molto-tempo-cheap-wine-beggar-town-album-concerto/ . Dopo un altro eccellente live, Mary And The Fairy (2015), i Cheap Wine hanno ora completato la trilogia con Dreams, un album di dieci canzoni selezionate accuratamente su una quantità decisamente superiore, e pubblicato tramite un crowdfunding iniziato i primi mesi di quest’anno (ne parlo in anteprima in quanto ho partecipato alla sottoscrizione e ne ho ricevuta una copia, il disco sarà in commercio in questi giorni, ufficialmente esce il prossimo 3 ottobre 2017 con distribuzione Ird).

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Dreams è un lavoro più ottimistico dal punto di vista dei testi, e descrive il bisogno di amore e di sogni che hanno le persone per affrontare i problemi, e per sogni si intendono quelli che si fanno per il futuro ma anche quelli notturni, magari strani e particolari ma che possono anche lasciare sensazioni bellissime. Per quanto riguarda le musiche invece Dreams è a mio parere superiore a Beggar Town, e si mette sullo stesso piano di Based On Lies, diventando uno dei più belli del gruppo pesarese, almeno a mio giudizio: Marco Diamantini è un cantante dalla voce calda e con sfumature che gli permettono di passare con disinvoltura da un genere all’altro, il fratello Michele un chitarrista formidabile, potente e vigoroso ma quando serve anche raffinato, tecnica e feeling allo stato puro, Alessio Raffaelli un tastierista ormai indispensabile al suono della band, e la sezione ritmica formata da Andrea Giaro (basso) ed Alan Giannini (batteria, un macigno, il Kenny Aronoff, o Max Weinberg, italiano) è tra le migliori al momento nella nostra penisola. Il CD, in digipak e con i testi scritti sia in inglese che in italiano, inizia con la tonante Full Of Glow, una rock’n’roll song chitarristica dal ritmo trascinante e basso e batteria che picchiano come fabbri, come se Steve Wynn fosse per un giorno il cantante dei Rolling Stones. Una parola per la pulizia e la qualità del suono, davvero spettacolare. Naked ha un intro di chitarra younghiano, ma subito entra un organo insinuante ed il brano si sviluppa sinuoso e diretto nello stesso tempo, con Michele che inizia ad arrotare alla grande, peccato soltanto che l’assolo sia sfumato nel finale. La cadenzata The Wise Man’s Finger, con un ottimo lavoro di piano elettrico, è suadente e con un mood notturno, una melodia fluida che Marco porge nel modo migliore, con una punta di “viziosità” che non guasta, mentre Pieces Of Disquiet è scura, cupa e drammatica, cantata con un tono di voce basso e ricco di fascino, ed uno uso intrigante del piano, un pezzo che rimanda quasi alle cose migliori di Nick Cave: il brano ha uno sviluppo ricco di pathos e dimostra che i ragazzi sono ormai una realtà di livello internazionale, grande canzone.

Bellissima anche Bad Crumbs And Pats On The Back, una rock song dura e diretta come un pugno, con la chitarra che fende l’aria da par suo, ed il motivo è decisamente immediato; Cradling My Mind è una ballata sempre elettrica ma con un mood più rilassato, e Marco dimostra di avere una buona duttilità vocale: una boccata d’aria fresca prima di tornare in ambito rock’n’roll con l’irresistibile For The Brave, gran ritmo, chitarre a palla ed organo dal suono vintage, impossibile tenere fermo il piede (dal vivo farà certamente faville). I Wish I Were The Rainbow è splendida, una rock ballad dal suono classico, un organo caldo ed una melodia distesa e fluida, per uno dei testi più ottimisti del disco, una sorta di ringraziamento verso una persona cara per l’aiuto che fornisce nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Il CD, 44 minuti spesi benissimo, termina con la dolce Reflection, un raro episodio acustico con tanto di violoncello e tastiere anni sessanta, quasi pop ma di gran classe, e con la title track, un pezzo che nel testo riassume tutto il senso del disco (citando anche il titolo del primo album della trilogia, Based On Lies), mentre musicalmente è un altro slow intenso ed emozionante, con Marco che lo interpreta in maniera decisamente toccante, un misto di cantato e talkin’, quasi alla Roger Waters, ed un crescendo strumentale notevole, un finale perfetto per un altro splendido lavoro.

Ho pochi dubbi: in questo momento i Cheap Wine sono la migliore rock band italiana. E se dovessero passare dalle vostre parti, non fateveli sfuggire. (*NDB. Saranno a Milano allo Spazio Teatro 89 sabato 14 ottobre, proprio a presentare il nuovo album).

Marco Verdi