Due “Tipi” Diversi Che Dispensano Talento E Romantiche Emozioni! Ben Glover – The Emigrant/Ed Harcourt – Furnaces

*NDB. Dopo una assenza di qualche mese torna a collaborare con il Blog Tino Montanari, che riparte con una doppia recensione.

ben glover the emigrant

Ben Glover – The Emigrant – Appaloosa Records/I.R.D.

Ed Harcourt – Furnaces – Caroline/Universal

I più attenti lettori di questo “blog” ricorderanno sicuramente che di questo giovanotto, Ben Glover, abbiamo parlato bene in occasione dell’uscita di Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ , ne abbiamo riparlato. ancora meglio, per il progetto Orphan Brigade, con lo splendido Soundtrack To A Ghost Story http://discoclub.myblog.it/2016/01/12/recuperi-inizio-anno-6-delle-sorprese-fine-2015-orphan-brigade-soundtrack-to-ghost-story/ , e ora puntualmente mi accingo a parlare positivamente anche di questo nuovo lavoro The Emigrant (il suo sesto album da solista e dal tema più che mai attuale), composto da dieci brani: suddivisi tra pezzi folk tradizionali, e canzoni composte per l’occasione insieme ad autori come la grande Mary Gauthier, Gretchen Peters, e Tony Kerr.

Con la co-produzione del collega e polistrumentista Neilson Hubbard al basso, percussioni e piano (membro anche lui degli Orphan Brigade), Ben Glover riunisce negli studi Mr.Lemons di Nashville ottimi musicisti fidati, tra i quali Eamon McLoughlin alle chitarre, Dan Mitchell e John McCullough al pianoforte, Skip Cleavinger al violino, Colm McClean alle chitarre acustiche, Conor McCreanor al basso, rispettando musicalmente (come negli album precedenti) le proprie radici irlandesi, impiantate da parecchio tempo nella città di Nashville, dove vive e lavora ormai da sette anni.

L’apertura di questo moderno “concept-album” è rappresentata da un brano folk tradizionale come The Parting Glass (Il Bicchiere Della Staffa), dove un seducente violino accompagna la voce calda e rabbiosa di Ben, a cui fanno seguito la ballata scritta a quattro mani con Tony Kerr A Song Of Home, la pianistica e sofferta tittle-track The Emigrant che vede co-autrice la brava Gretchen Peters per poi tornare ancora ad un famoso brano tradizionale la bellissima Moonshiner (cantata in passato anche da Dylan, ma vi consiglio di ascoltare la versione dei Say Zuzu  dall’album Bull) https://www.youtube.com/watch?v=vaAW1XgROZs , e omaggiare Ralph McTell con una efficace cover di From Clare To Here. Il viaggio riparte letteralmente “con il cuore in mano” di una melodia tipicamente irlandese scritta con Mary Gauthier Heart In My Hand, dove imperversa lo struggente violino di Skip Cleavinger, proseguire con un altro brano di area celtica The Auld Triangle firmato da Brendan Behan, la breve Dreamers, Strangers, Pilgrims, rispolverare un brano del famoso cantautore australiano di origini scozzesi Eric Bogle And The Band Played Waltzing Matilda (una canzone struggente da Pub Irlandese, rivisitata anche dai Pogues, June Tabor, Dubliners, Christy Moore, Joan Baez e moltissimi altri), e andare a chiudere con una visione poetica della sua terra con il tradizionale The Green Glens Of Antrim. Commovente!

ed harcourt furnaces

Ed Harcourt (per chi scrive), è sicuramente uno dei migliori cantautori della scena inglese apparsi negli ultimi anni, fin dall’esordio con Here Be Monster (01). Questo Furnaces è l’ottavo album di Harcourt (compreso l’ottimo mini CD Time Of Dust (14), a distanza di tre anni dall’album solo piano e voce Back Into The Woods (13) http://discoclub.myblog.it/2013/03/29/piano-songs-confidenziali-ed-harcourt-back-into-the-woods/ , con dodici tracce sonore mai cosi ricche e pulsanti, e il merito è sicuramente nella produzione del “mago del suono” Mark Ellis (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Flood), una “personcina” che nella sua carriera ha collaborato con artisti di vaglia come i Depeche Mode, Nick Cave, U2, e anche il nostro Lucio Battisti per l’album Images, come fonico.

Diciamo subito che tutte le canzoni sono concepite come se a suonarle fosse una band, con Ed che ha suonato di tutto, dal suo amato pianoforte, al basso, batteria, synth e chitarre acustiche, aiutato da valenti musicisti (e amici) quali Stella Mozgawa delle Warpaint, il percussionista Michael Blair (del giro di Tom Waits), il bassista Tom Herbert, e la cantante Hannah Lou Clark alle armonie vocali, a certificare un lavoro vario e importante.

Fin dall’introduzione che sembra un brano uscito dai solchi di Michah P.Hinson, si capisce cosa si va ad ascoltare, e la successiva e maestosa The World Is On Fire ne è la conferma, seguita da Loup Garou dalla ritmica insistita, la title track Furnaces, ariosa con grande uso di archi, passando per il blues moderno e elettronico di Occupational Hazard, e la intrigante, scarna e sensuale Nothing But A Bad Trip.

Il “nuovo corso” del cantautore britannico, riparte con l’indolente e meravigliosa ballata You Give Me More Than Love, con la tambureggiante Dionysus, la sincopata There Is A Light Below, per poi passare alle atmosfere care ai migliori Arcade Fire con Last Of Your Kind, andando a chiudere con una Immoral dall’arrangiamento cinematografico, e i titoli di coda di una carezzevole Antarctica.

Ho l’impressione che questo lavoro di cantautorato “indie”, sia una svolta per la carriera di questo bravissimo instancabile polistrumentista (recentemente ha collaborato con Marianne Faithfull per lo splendido Live No Exit http://discoclub.myblog.it/2016/10/06/unaltra-splendida-quasi-settantenne-marianne-faithfull-exit/ e Sophie Ellis-Bextor, qui approvo meno), depositario di un “songwriting” elaborato ma affascinante e coinvolgente, e Furnaces lo testimonia con una musicalità varia e curata in ogni sfumatura, che forse necessita di ascolti ripetuti, ma il risultato credetemi è coinvolgente ed emozionante e merita una doverosa e meritoria attenzione. Camaleontico!

Tino Montanari

Un’Altra Splendida (Quasi) Settantenne! Marianne Faithfull – No Exit

marianne faithfull no exit

Marianne Faithfull – No Exit – EarMusic DVD – BluRay – DVD + CD – BluRay + CD

Ormai quasi tutti i musicisti per i quali vibriamo stanno celebrando, o hanno già celebrato da qualche anno, i cinquanta anni di carriera. Anche Marianne Faithfull, cantante londinese musa nei sixties di Mick Jagger e Keith Richards (con Mick ha avuto anche una lunga e burrascosa relazione), oggi sessantanovenne (ne fa settanta a Dicembre), ha tagliato il traguardo due anni orsono, e ha festeggiato l’evento con una tournée che sulla carta doveva promuovere il suo ultimo disco di studio, l’ottimo Give My Love To London (uno dei suoi migliori, ma è già da diversi anni che la bionda Marianne fa solo dischi belli), ma in pratica è diventata un pretesto per rileggere pagine più o meno note del suo percorso d’artista. Molto famosa negli anni sessanta, anche per la sua maliziosa bellezza, Marianne ha avuto un crollo di popolarità nei seventies, anche in conseguenza di uno stile di vita non proprio da monaca: è arrivata fino a conoscere l’inferno, ma ha saputo risalire e reinventarsi, più o meno dall’album Broken English del 1979, come raffinata chanteuse ed interprete sopraffina (ma continua anche oggi a scrivere diverse canzoni di suo pugno), complice anche una metamorfosi vocale, causata da sigarette e stravizi, che ha aggiunto ancora più fascino alle sue canzoni, una voce quasi “brechtiana”; d’altronde la Faithfull ha origini mitteleuropee, essendo discendente da parte di madre della nobile dinastia dei Von Sacher – Masoch (un nome che solo a sentirlo fa venire in mente giarrettiere, guepières e frustini di pelle nera).

Oggi Marianne è una signora invecchiata e con qualche problema fisico (nel BluRay di cui mi accingo a parlare cammina accompagnata da un bastone e ha chiari problemi di movimento), ma il viso reca ancora tracce di quando faceva girare la testa a mezza Londra, e quando apre bocca, sia per introdurre in maniera pacata le canzoni sia per cantarle, rivela una classe immensa ed immutata, ad un livello che recentemente ho riscontrato solamente in Joan Baez e, parlando di uomini, in Leonard Cohen. No Exit è il suo nuovo DVD dal vivo (o BluRay, filmato in una splendida definizione), registrato a Budapest (quindi non lontano da dove discende), che mette in fila in un’ora e mezza precisa sedici brani scelti tra più o meno famosi con, nella versione doppia, una selezione di dieci pezzi dallo stesso concerto (due-tre in più ci stavano, se proprio non si voleva fare un CD doppio). Marianne sopperisce la scarsa forma fisica con una capacità interpretativa formidabile, con la sua voce figlia di mille battaglie che si staglia carismatica e fragile nello stesso tempo, una voce che è uno strumento in più aggiunto a quelli presenti sul palco: la band è ridotta, solo quattro elementi, ma suonano in maniera davvero sopraffina, specialmente lo straordinario pianista Ed Harcourt (che è anche un artista in proprio avendo già pubblicato sette album), dotato di un tocco e di una liquidità scintillante (e comunque gli altri tre non sono di molto inferiori: Rob McVey, chitarrista misurato e sempre funzionale alla canzone, mai una nota fuori posto, e la superba sezione ritmica formata da Jonny Bridgewood al basso e Rob Ellis alla batteria).

Il concerto si apre con la saltellante title track del disco di due anni fa, scritta insieme a Steve Earle, un brano dalla melodia immediata anche se ripetitiva, alla quale la voce di Marianne dona profondità; Falling Back (scritta con la cantautrice Anna Calvi) ha una splendida introduzione full band, con un suggestivo riff di pianoforte, ed il brano fa venire la pelle d’oca tanto è bello, grazie anche all’interpretazione da brividi di Marianne e la formidabile performance di Harcourt. Broken English non ha bisogno di presentazioni, è uno dei classici della Faithfull, e questa versione decisamente elettrica e pulsante le rende giustizia, una rinfrescata ad un brano che ha dato una svolta alla sua carriera; Witches Song, che Marianne dice di aver composto dopo aver visto Il Sabba Delle Streghe di Goya al Prado di Madrid, è un pezzo ritmato, vivace e più solare dei precedenti, con una chitarra acustica a scandire il ritmo ed il solito bel piano liquido, mentre Price Of  Love, una cover di un brano degli Everly Brothers, ha un arrangiamento “cattivo” e dai toni rock-blues. Marathon Kiss è invece stata scritta da Daniel Lanois (che aveva prodotto per Marianne il bellissimo Vagabond Ways), e presenta le tipiche sonorità rarefatte del musicista canadese, un gran bel pezzo che la Faithfull ci propone con un feeling enorme: si sente la fragilità della voce, ma proprio per questo il tutto risulta più vero e spontaneo. L’acustica ed intensa Love More Or Less (se non vi emozionate all’ascolto di brani come questo non siete umani) precede la classica As Tears Go By, il noto brano dei Rolling Stones che all’epoca Marianne fece sua, la canzone non perde un’oncia della sua bellezza, e la voce matura e profonda della leader ne offre la versione forse definitiva: brividi lungo la schiena.

Splendida anche la mossa Come And Stay With Me , un pezzo scritto per lei nel 1965 da Jackie DeShannon, caratterizzata da una melodia pop diretta e godibile; Mother Wolf ha invece una ritmica cupa e minacciosa, ed è meno immediata delle precedenti, ma poi è la volta della celeberrima Sister Morphine, il pezzo scritto dagli Stones pensando a lei (che è anche co-autrice), un brano ancora oggi drammatico e di una potenza emotiva incredibile, punteggiata dai lancinanti riff di chitarra di McVey (nell’originale degli Stones la suonava Ry Cooder). Bella ed intensa anche Late Victorian Holocaust di Nick Cave, un autore molto amato da Marianne; Sparrows Will Sing è invece stata donata alla Faithfull da Roger Waters, e ha una melodia tipica del suo autore, con un arrangiamento forte e molto rock ed una sezione ritmica pulsante, mentre The Ballad Of Lucy Jordan, del noto autore Shel Silverstein, è una grande canzone, una delle migliori del concerto, che dà il meglio di sé in questa resa acustica ma full band ed è ulteriormente valorizzata dalla voce incredibile di Marianne: una meraviglia. Il concerto si chiude con la rara Who Will Take My Dreams Away, ancora drammatica (ma che intensità!), e con Last Song, scritta con Damon Albarn dei Blur (una sera, dice Marianne, nella quale erano tutti e due ubriachi fradici), bellissima anche questa: applausi scroscianti e sipario. Come bonus, quattro pezzi tratti dalla performance alla Roundhouse di Londra, tre dei quali in comune con la serata di Budapest (Give My Love To London, Late Victorian Holocaust e Sister Morphine) ed una intima rilettura di It’s All Over Now, Baby Blue di Bob Dylan.

Assieme al settantacinquesimo di Joan Baez ed al Live In San Diego di Eric Clapton (ma di interessanti ne devono ancora uscire), questo No Exit è uno dei dischi dal vivo dell’anno.

Marco Verdi