Quando Il Talento Soccombe Alla Tecnologia! A.A. Bondy – Enderness

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A.A. Bondy – Enderness – Fat Possum CD

A.A. Bondy (le iniziali stanno per Auguste Arthur), pur essendo nativo di Birmingham, Alabama, non fa southern rock, non ci si avvicina neppure. Leader dagli anni novanta fino al 2003 del gruppo rock Verbena, Bondy ha esordito come solista con American Hearts nel 2007, album al quale ne ha fatti seguire altri due ad intervalli di due anni ciascuno, per poi “concerdersi” ben otto anni di pausa fino a questo nuovissimo Enderness, uscito da poco. Ebbene, dopo quasi una decade di silenzio forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa in più di 36 miseri minuti, con l’aggravante di una qualità complessiva abbastanza altalenante: la carriera solista di Bondy è sempre stata all’insegna di una sorta di folk music piuttosto minimalista, con canzoni ottenute per sottrazione, ma comunque facendo uso di una strumentazione classica. Per Enderness invece (minimale fin dalla confezione, con note ridotte all’osso) il nostro ha optato per sonorità decisamente moderne, tutte all’insegna di drum machines, loop e sintetizzatori, limitando al minimo l’utilizzo di strumenti tradizionali (principalmente la chitarra, usata solo in un paio di occasioni).

Ma la tecnologia di per sé non è un male, dipende dall’utilizzo che se ne fa, ed in questo album Bondy alterna momenti in cui i suoni vengono messi al servizio delle canzoni ad altri in cui sembra che non si sappia bene dove voglia andare a parare. Enderness non è un disco rock, forse è pop, ma il problema è la discontinuità: si passa infatti da brani ben scritti e suonati con gusto, ad altri in cui la modernità prende il sopravvento; Bondy poi non è uno che ha nelle sue corde la capacità di entusiasmare e trascinare, è sempre piuttosto freddino, e questa sua attitudine se sommata alle sonorità non proprio “calde” presenti nel disco (e ad una voce melliflua e quasi sonnolenta) fa sì che il risultato finale lasci un po’ perplessi. Diamond Skull fa comunque partire bene l’album, una canzone di stampo classico con suoni moderni, ma c’è una chitarra elettrica in evidenza e la melodia è di notevole impatto, con un bel crescendo che porta ad un ritornello suggestivo. Degna di nota anche Killers 3, che ha uno sviluppo decisamente fruibile e dallo squisito gusto pop: l’accompagnamento è moderno al 100%, ma quando ci sono le idee la veste sonora conta fino ad un certo punto (se no I’m Your Man di Leonard Cohen non sarebbe un grande disco).

In The Wonder è ancora pura elettronica, ed anche il nostro canta con voce spezzata e quasi robotica, ed il brano è un paio di gradini sotto i due precedenti; The Tree With The Lights è un breve strumentale in cui Bondy gioca con loop e diavolerie varie, con esito straniante, ma in compenso Images Of Love (il primo singolo) è molto più canzone, ed anche se la voce è l’unica cosa naturale in mezzo a tecnologia pura, l’insieme è piacevole e perfino rilassante. I’ll Never Know è cadenzata ma dal passo lento, quasi indolente ed un tantino fredda, Fentanyl Freddy non aumenta di molto il ritmo ed è anch’essa piuttosto gelida, direi inquietante, mentre Pan Tran è uno strumentale per synth solista, abbastanza autoreferenziale. Il CD si chiude con #Lost Hills, decisamente monocorde nonostante rispunti la chitarra, e con la title track, quasi cinque minuti di musica ambient strumentale e pretenziosa, un pezzo che non va da nessuna parte ed è buono al massimo come sottofondo di un massaggio orientale https://www.youtube.com/watch?v=J8NURo2WdJY .

Peccato, il talento ci sarebbe anche (canzoni come Diamond Skull, Killers 3 e Images Of Love lo testimoniano), ma tutto viene sacrificato sull’altare della tecnologia e delle stranezze.

Marco Verdi

Ma E’ Veramente Così Brutto Come Dicono (Quasi) Tutti? Waterboys – Out Of All This Blue

waterboys out of all this blue

Waterboys – Out Of All This Blue – BMG Rights Management – 2 CD – 3 CD Deluxe

Purtroppo, anche se in questo sito i Waterboys sono sempre stati molto amati e portati in palmo di mano, devo dire che la risposta è un bel sì: diciamo quasi. O se preferite, come recita il titolo del quarto brano, If The Answer Is Yeah, direi comunque “Yeah”! A volere essere generosi, prendendo in esame la versione Deluxe tripla che riporta ben 34 brani, a fatica, se ne salvano dieci. A malapena. E il motivo di tutto ciò? Pare sia l’amore: dopo l’uscita di Modern Blues nel 2015, Mike Scott si è innamorato dell’artista giapponese Megumi Igarashi, meglio conosciuta come Rokudenashiko, o ancora “l’artista della vagina” (giuro!), la coppia ha avuto anche un figlio e Scott ha deciso di scrivere queste canzoni sull’amore romantico e la felicità, intitolando l’album Out Of All This Blue, “Fuori da tutta questa tristezza”!. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, anzi. Ma il problema nasce del fatto che ha voluto accoppiarle con un sound ispirato dall’hip-hop, dalla musica elettronica (con ampio uso di batteria sintetica) e dalla vecchia disco music, rivelando anche questo suo nuovo amore riguardo a queste forme musicali,  o musica funky, come pare l’abbia definita, che però francamente, anche per gli estimatori del genere, pare non siano molto innovative, quindi musica “bruttarella” e pure vecchia. Per l’amor di Dio, la voce è la solita, qualche guizzo di classe c’è, ma, dispiace dirlo, il suono è bolso e ripetitivo, le canzoni sono molto simili tra loro e anche l’uso di chitarre elettriche, acustiche, violino e delle tastiere è infestato comunque da quei ritmi fastidiosi. Pure in passato i Waterboys (e Mike Scott come solista) avevano pubblicato dei dischi non impeccabili, tipo A Rock In The Weary Land, il disco del 2000 dal suono AOR americano e pure Book Of Lightning non era un capolavoro, ma poi negli ultimi anni, in occasione anche delle celebrazioni per Fisherman’s Blues, sembravano avere ritrovato una buona vena musicale.

Stranamente a qualcuno il disco è anche piaciuto: Q magazine e l’Indipendent gli hanno dato 8, Uncut 7, ma Mojo o il Buscadero in Italia, un tre stellette, penso di stima. D’altronde prendiamo la sequenza iniziale, i primi quattro brani (fatico a sentire tutto il disco in una volta, devo prenderlo a rate): Do We Choose Who We Love ha la costruzione sonora di un classico brano dei Waterboys, quella Big Music “inventata” negli anni ’80, una bella melodia, impreziosita da coretti di stampo soul, peraltro non memorabili ma diversi dal “solito” MIke Scott, l’uso di chitarre e tastiere che quasi fanno dimenticare l’uso della drum machine, quasi. Ma già If I Was Your Boyfriend ricorda quel “nu soul” radiofonico e sempliciotto, che imperversa nell’etere americano, tutte canzoni uguali fra loro. Santa Fe potrebbe essere anche una bella canzone, anzi lo è, ma l’arrangiamento “bass heavy” dopo un poco diventa seccante, per non parlare della disco music di seconda mano di If The Answer is Yeah. Love Walks In sarebbe anche una bella ballata, avvolgente e con uso di piano e pure una bella melodia e un bell’arrangiamento, ma il suono metronomico della batteria elettronica dopo un po’ diventa irritante. Ci sono vari brani lunghi nell’album; New York I Love You sfiora gli otto minuti, un pezzo rock che però si perde nelle solite sonorità banalotte. The Connemara Fox. con il violino presumo di Wickham, e citazioni di Kris Kristofferson, è disco-folk. The Girl In The Window Chair invece è una delle rare ballate acustiche, solo voce,  piano, dei tocchi di tastiera e chitarra, intensa ed intima, un’oasi nell’orgia elettronica, che viene nuovamente interrotta da un bel pezzo rock come Morning Came Too Soon, per oltre otto minuti dove quella che pare una batteria vera detta i ritmi incalzanti di una canzone che confrontata con il resto del disco pare un capolavoro. Ma è un attimo perché il primo CD si conclude con Hiphopstrumental 4 (Scatman) il cui titolo dice tutto.

Vediamo velocemente il resto: The Hammerhead Bar, sempre con le solite liriche visionarie e complesse di Scott (quelle non mancano nell’album), grazie al violino folleggiante di Wichkam e a un ritmo rock ancora coinvolgente, è un altro dei brani apprezzabili. Mister Charisma ha quasi velleità jazzistiche, ma dura troppo poco, a differenza dell’ottima Nashville; Tennessee, che sembra registrata dal vivo, ma non lo è, e che è uno dei brani epici di celtic-soul-rock per cui amiamo Mike Scott. Ma con Man What A Woman torniamo al suono parzialmente sintetico che caratterizza l’album, anche se la canzone non è male; Girl In A Kayak è un breve sketch strumentale per violino e batteria elettronica, Monument è nuovamente penosa disco music anni ’80, Kinky’s History Lesson, ispirata dal cantante Kinky Friedman è una leggiadra, ironica e sarcastica traccia, quasi a tempo di valzerone country, non mi dispiace. Skyclad Lady è un breve frammento che fa da prologo a Rokudenashiko, una delicata canzone d’amore dedicata alla nuova campagna. Ma poi si scade nel vaudeville disco-rock della sconcertante Didn’t We Walk On Water e pure la gotica e recitata The Elegant Companion diciamo che non è memorabile nel suo elettronico dipanarsi. Yamaben in compenso è decisamente peggio, disco rock di seconda mano, e pure su Payo Payo Chin che chiude il secondo CD, stenderei un velo pietoso. Il terzo CD, quello bonus, contiene alcune versioni alternate, strumentali e remix che vorrei sorvolare, ma purtroppo ci sono; si salvano, a fatica, la breve Epiphany On Mott Street, per sola voce e piano e un altra versione country, questa volta davvero dal vivo di Nashville, Tennessee. Va bene che in pratica il terzo CD te lo regalano, visto che la confezione costa come un doppio, ma insomma.

Quindi, salvata quella decina scarsa di canzoni che possiamo, direi di concludere con un Provaci Ancora Mike.

Bruno Conti