Più Di 150 anni In Due Per Rendere Omaggio A Un Secolo Di Blues. Elvin Bishop & Charlie Musselwhite – 100 Years Of Blues

elvin bishop & charlie musselwhite 100 years of blues

Elvin Bishop & Charlie Musselwhite – 100 Years Of Blues – Alligator Records/Ird

Ultimamente entrambi i protagonisti di questo album stanno vivendo un ottimo periodo di creatività: Elvin Bishop, con una serie di ottimi album per la Alligator con il suo Big Fun Trio https://discoclub.myblog.it/2018/08/31/sono-veramente-bravi-tutti-elvin-bishops-big-fun-trio-something-smells-funky-round-here/ , quello del 2017 candidato anche ai Grammy come miglior disco di Blues Tradizionale, e anche Charlie Musselwhite, sia con una serie di album per etichette diverse, sia soprattutto con innumerevoli collaborazioni, sta tenendo alto il vessillo delle 12 battute. Di cui, per rovesciare il solito paradigma non “politically correct” (chissà perché non si può più dire musica nera?), ne sono sempre stati tra i migliori rappresentanti tra i musicisti “bianchi”. Partendo da California e Mississippi e passando entrambi a lungo per Chicago, sono diventati due veri paladini del blues elettrico, e Bishop per diversi anche anche del rock e del southern.

Come ricordano anche le note di copertina, pur avendo creato nella loro lunga carriera all’incirca una sessantina di album complessivamente, i due non avevano mai registrato un disco insieme (anche se probabilmente dal vivo sarà capitato diverse volte), comunque, come era quasi inevitabile, l’alchimia ha funzionato perfettamente, e questo 100 Years Of Blues, registrato ai Greaseland Studios di San Jose, CA, di Kid Andersen, che ha curato anche la produzione, oltre a suonare, stranamente, il contrabbasso in alcuni brani. Per il resto hanno fatto tutto Elvin Bishop, chitarra e voce, Charlie Musselwhite, armonica, e il fedele pard di Bishop negli ultimi anni Bob Welsh, che si è diviso tra chitarra e piano, in un disco che conferma questo ritorno ad un blues tradizonale di grande intensità, che ha caratterizzato per esempio anche le recenti prove di Bobby Rush e dei Pretty Things, tutti rigorosamente, ma creativamente, tornati alla musica che li aveva ispirati ad inizio carriera, e con risultati eccellenti. Entrambi non sono mai stati dei grandi cantanti, e Musselwhite addirittura per l’occasione ne canta solo una, mentre Bishop, con la sua voce vissuta e temprata da mille avventure, ci regala per l’occasione una delle sue migliori performance degli ultimi anni, come dimostra subito con una gagliarda e spigliata interpretazione nella propria Birds Of A Feather, un esempio di quanto viene offerto anche nel resto del disco.

Non la solita liturgia di molti album di blues eseguiti dai cosiddetti “tradizionalisti”, che spesso sono anche dischi piuttosto noiosi e ripetitivi, senza quella scintilla che permette di rivitalizzare una musica che per definizione vive appunto di tradizione, ma ha bisogno di queste botte di ispirazione per creare nuovo interesse in questo genere, di cui, come forse avrete notato, mi occupo spesso e volentieri nelle sue varie connotazioni, fine della concione. Quindi, sintetizzando (ogni tanto mi “scappa” la mano sulla tastiera, e mi dilungo, ma secondo me ci sta), Birds Of A Feather è un omaggio ai blues lovers, come dice il testo, offerto attraverso il basso pulsante di Andersen, le chitarre pungenti di Bishop e Welsh, qualche percussione a colorare il suono, ed una grinta ed energia ammirevoli, con Musselwhite che punteggia il tutto con il soffio della sua armonica (che leggenda vuole sia quella che ispirò Dan Akroyd per il suo personaggio Elwood Blues, nei Blues Brothers, mentre per Jake Joliet Belushi si ispirò a Curtis Salgado). Stranamente nell’album ci sono nove composizioni nuove e solo tre cover, una è quella di West Helena Blues di Roosevel Sykes, un brano non notissimo, che è però è l’epitome dello slow country blues, con Welsh al piano, Bishop alla chitarra elettrica e alla voce (che per smentirmi è viva e pimpante), mentre Musselwhite è sempre magistrale alla mouth harp, What The The Hell?, di nuovo di Elvin, è un classico blues elettrico Chicago Style, con la solista di Bishop in bella evidenza, spalleggiata dall’armonica di Charlie, Musselwhite che sale al proscenio con la propria Good Times, l’unico brano cantato da lui, che passa per l’occasione alla slide, suonata con grande perizia, mentre Andersen al contrabbasso e Welsh al piano contribuiscono al solido sound del pezzo.

Old School, come da titolo, è un blues di quelli tosti, se gli aggiungessimo una sezione ritmica alle spalle, avrebbe fatto un figurone nel repertorio della Butterfield Blues Band, mentre If I Should Have Bad Luck, a firma Musselwhite, è un altro ottimo esempio di 12 battute classiche, con Bishop molto efficace alla solista, come pure la cover di Midnight Hour Blues, un pezzo lento ed intenso dal repertorio di Leroy Carr, cantato con passione da Bishop, che poi lascia spazio all’amico Charlie per Blues, Why Do You Worry Me, un ottimo shuffle dove i tre solisti, Musselwhite all’armonica, Bishop alla solista e Welsh al piano, si dividono equamente gli spazi. Molto bello anche lo strumentale South Side Slide, dove è Elvin a salire in cattedra con un bottleneck “cattivo” al quale Charlie risponde colpo su colpo, per poi passare alla guida del combo per la propria Blues For Yesterday, un altro bel lento con uso slide di Elvin, ben coadiuvato dall’armonica di Musselwhite. Le due tracce conclusive sono Help Me, il super classico di Sonny Boy Williamson, ancora con Bishop, Musselwhite a e Welsh a menare le danze ai rispettivi strumenti in una esuberante versione, e la title track 100 Years Of Blues, firmata in coppia dai due titolari, che, a suggello di questo eccellente lavoro, ci raccontano con forza, vigore e orgoglio i loro cento anni complessivi vissuti a spargere il verbo di questa musica senza tempo.

Bruno Conti

Provenienza Dubbia, Ma Buona Qualità E Tanti Ospiti Per L’Album Della Figlia Di B.B. Shirley King – Blues For A King

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Shirley King – Blues For A King – Cleopatra Blues

Presentato da alcuni come l’esordio discografico di Shirley King, l’album ha creato interesse perché stiamo parlando di colei che è stata definita “Daughter of the blues”, in qualità di figlia del grande B.B. King. In effetti la nostra amica non è più una giovinetta, quest’anno ad ottobre compirà 71 anni, e la sua carriera musicale consta solo di un paio di episodi tra fine anni ‘80 e negli anni ‘90 (quindi questo CD non è l’esordio), poi diverse comparsate sia come ospite di artisti più o meno celebri, che del babbo negli ultimi di carriera di quest’ultimo. Nata a West Memphis, Arkansas, lungo le rive del Mississippi, Shirley non è mai stata una stretta praticante del blues, in gioventù più orientata verso gospel, soul, perfino country & western, ma poi già dal 1969 aveva fatto la sua scelta di vita, diventando una ballerina, attività che ha svolto per una ventina di anni, dice lei anche con successo, e con buoni riscontri economici, senza dover essere vista per forza come la “figlia di B.B. King”. Vivendo a Chicago a lungo è venuta in contatto anche con la scena locale, ed ha avuto pure una relazione di 5 anni con Al Green (ma non era Reverendo?).

Poi dal 1989 ha cercato, come detto, la strada del blues, cantando soprattutto grandi classici, senza tralasciare ovviamente i brani del padre, presenti in quantità. Il successo diciamo che non l’ha mai sfiorata, un’onesta carriera ma nulla più: poi arrivano i nostri amici della Cleopatra che le propongono un contratto discografico, per un album che viene realizzato seguendo le metodologie della etichetta di Chicago. Ovvero, repertorio, ospiti e sistemi di registrazione li scelgono loro. Poi piazzano Shirley in studio con le cuffie, senza incontrare ospiti e musicisti, e spesso, come ha ricordato lei stessa in alcune interviste, senza neppure conoscere bene le canzoni che doveva interpretare. Ma alla fine, per una volta (o forse due), devo dire che all’ascolto questo Blues For A King funziona, si ascolta con piacere, ci sono alti e bassi ed evidenti disparate fonti del materiale: per esempio in Hoodoo Man Blues, un grande classico delle 12 battute, oltre a Joe Louis Walker alla solista, appare all’armonica colui che ha portato al successo il brano, quel Junior Wells che però è scomparso nel 1998, comunque la voce di Shirley King è ancora potente e vibrante e il suono vigoroso.

Altrove, come nell’iniziale All Of My Lovin’, un brano dal repertorio della Motown, sempre con Walker alla chitarra, la voce di Shirley pare più roca e vissuta, come ribadisce la successiva eccellente cover del brano dei Traffic Feelin’ Alright, con Duke Robillard alla solista, guizzante ed inventiva https://www.youtube.com/watch?v=DNaJhEwkKk0 . Chitarristi che si susseguono brano dopo brano, per esempio nel classico Chicago Blues I Did You Wrong troviamo Elvin Bishop, anche se il suono della base sembra quello di una registrazione di decine di anni fa, scherzi dell’immaginazione o ripescaggio da archivi datati? Per That’s All Right Mama, il classico di Arthur Crudup e di Elvis, si materializza Pat Travers, gagliardo nel suo assolo, però forse un po’ troppo sopra le righe; Can’t Find My Way Home, a conferma della scelta eclettica del repertorio e delle sonorità, è proprio il classico dei Blind Faith con Martin Barre dei Jethro Tull alla solista, versione decisamente rock, ma ben realizzata e con la King che si adatta al suono più “moderno”.

Johnny Porter è un vecchio brano minore dei Temptations, e prevede un duetto con un altro bluesman “attempato” come Arthur Adams, discepolo di babbo Riley, ma alla fine i due se la cavano egregiamente, anche se gli archi sintetici non quagliano molto con il resto. Feeling Good, con sezione fiati e archi aggiunti, è un brano che hanno cantato in tanti, da Nina Simone a Michael Bublé, la nostra amica ci mette impeto e passione, alla solista viene accreditato Robben Ford e lascia il suo segno, Give It All Up francamente non so da dove provenga, ma è un gioioso errebì molto piacevole, con Kirk Fletcher alla chitarra. Il traditional Gallows Pole con Harvey Mandel alla solista in modalità wah-wah, sembra quasi un brano psych-rock e rimandi ala versione dei Led Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=NTYWZOVEUXE , e in conclusione troviamo una buona cover del super classico di Etta James At Last, con archi a profusione e ci sta, la King la canta con grande trasporto e Steve Cropper ci mette il suo tocco discreto. Non un capolavoro ma tutto sommato un album onesto.

Bruno Conti

Sono Veramente Bravi Tutti! Elvin Bishop’s Big Fun Trio – Something Smells Funky ‘Round Here

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Elvin Bishop’s Big Fun Trio – Something Smells Funky ‘Round Here – Alligator/Ird

Con l’album omonimo dello scorso anno hanno rischiato di vincere il Grammy per il miglior disco di Blues tradizionale nel 2018 https://discoclub.myblog.it/2017/02/04/come-il-buon-vino-invecchiando-migliora-elvin-bishops-big-fun-trio/ , ed Elvin Bishop era già stato candidato nel 2008 con The Blues Rolls On: nel 2015 era anche entrato nella Rock And Roll Hall Of Fame come componente della Butterfield Blues Band, quest’anno a ottobre compirà 76 anni, ma il chitarrista e cantante californiano (cittadino onorario di Chicago, per i suoi meriti nella musica blues) non sembra intenzionato ad appendere la chitarra al chiodo. Si è inventato questa formula del trio dopo tanti anni on the road ,con una big band che aveva almeno sette/otto elementi in formazione, ma ha dichiarato che non è stato per motivi economici che ha cambiato il formato, quanto perché si era stufato di aspettare che il suonatore di trombone finisse il suo assolo (lo humor non gli è mai mancato). Quale che sia il motivo comunque i risultati si sentono: Bishop si è scelto due soci di grande spessore, Willy Jordan (John Lee Hooker, Joe Louis Walker e Angela Strehli), al cajon, e soprattutto vocalist formidabile e Bob Welsh (Rusty Zinn, Charlie Musselwhite, Billy Boy Arnold, James Cotton), piano e chitarra, che sono, come leggete appena sopra, musicisti dal pedigree notevole e tutti e tre insieme fanno un “casino” notevole, inteso nel senso più nobile del termine.

Sono solo dieci brani, ma uno più bello dell’altro, l’album complessivamente mi sembra addirittura superiore al precedente, insomma un gran bel disco di blues, con abbondanti elementi rock, soul e di quant’altro volete sentirci: la title track Something Smells Funky ‘Round Here è firmata da tutti e tre, anche se il testo è di Bishop, che dice di non essere una persona molto politicizzata abitualmente, però l’ultimo inquilino della Casa Bianca è riuscito a fare “incazzare” anche lui, il tutto viene spiattellato a tempo di un rock-blues vibrante e tirato quanto consente un trio in teoria non elettrico, ma con le chitarre che ci danno dentro di gusto. La cover di (Your Love Keeps Lifting Me) Higher And Higher di Jackie Wilson è semplicemente splendida, accompagnamento minimale, ma la voce di Willy Jordan tenta dei falsetti acrobatici e spericolati che neanche Wilson ai tempi raggiungeva, mentre Bishop e Welsh con piccoli accenni di chitarra e slide danno il loro tocco di classe; Right Now Is The Hour è una nuova versione di un pezzo del 1978 che era su Hog Heaven, cantata a due voci da Jordan e Bishop, non sfigura rispetto all’originale del disco Capricorn che aveva un arrangiamento sontuoso, tanta grinta e chitarre anche nella nuova rivisitazione. Pure Another Mule di Dave Bartholomew, il pard storico di Fats Domino, era uscita su un disco di Bishop del 1981, e questa nuova versione mescola Chicago e New Orleans Blues in grande scioltezza, mentre la chitarra è sempre felpata e con sprazzi di gran classe in questo sinuoso blues.

That’s The Way Willy Likes It parte cantata coralmente poi diventa un blues and soul godurioso cantato alla grande da Jordan, con Bishop e Welsh sempre precisi e puntuali alle chitarre. I Can Stand The Rain è l’altra grande cover di un classico della soul music, questa volta di Ann Peebles, di nuovo cantata magnificamente da Wily Jordan, mentre la slide di Bishop e l’organo di Welsh aggiungono ancora tocchi di genio ad una versione intensa, mentre in precedenza in Bob’s Boogie Welsh aveva fatto volare a tutta velocità le mani sulla tastiera del  suo piano. Anche Stomp è un altro strumentale, questa volta di Bishop, sempre a tempo di boogie, con Elvin che mostra la sua abilità sia alla slide come alla solista; prima della conclusione arriva uno dei classici blues confidenziali di Bish che “conversa” con il suo pubblico su pregi  e difetti della terza età, con ironia e dosi di piano e stridente chitarra sparse a piene mani, e ancora il cajun soul godurioso della cover di un vecchio brano di Edwin Hawkins (quello di Oh Happy Day, scomparso di recente a gennaio), con l’accordion di Andre Thierry a duettare brillantemente con piano e chitarra.

Bruno Conti

Forse La Migliore Band Di Blues Elettrico “Bianca” Di Tutti I Tempi, Al Top Della Forma! Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield – Born In Chicago/Live 1966

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Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield – Born In Chicago/Live 1966 – Live Recordings

Il nome dell’etichetta (?!?) già vi fa capire a cosa ci troviamo di fronte, ma il contenuto, sottolineato dalla scritta “Classic Radio Broadcast”, è, viceversa, splendido. Per il resto stendiamo un velo pietoso: il CD riporta solo i titoli dei brani, non ci sono i nomi dei musicisti, né tanto meno la data e il luogo in cui è stato registrato, e pure l’immagine di copertina è fuorviante, perché nonostante il disco annunci la Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield, poi la foto ritrae in primo piano Elvin Bishop. Comunque niente paura, l’anno coincide, è il 1966, secondo alcune fonti siamo al Fillmore West, secondo gli archivi del Concert Vault di Bill Graham, la location è il Winterland Ballroom di San Francisco, visto che la data coincide, il 30 settembre. Il materiale era già uscito in un doppio bootleg giapponese intitolato Droppin’ In With The Paul Butterfield Blues Band, in cui gli ultimi otto brani del secondo CD riportavano questa performance. E’ una delle ultime uscite di Bloomfield con la band e nel concerto viene eseguita anche Work Song dal LP East/West: il materiale è anche abbastanza differente dal live “ufficiale” Got a Mind To Give Up Living: Live 1966, pubblicato dalla Real Gone nel 2016, e che avevo recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2016/07/09/ripescato-dalle-nebbie-del-tempo-suonavano-peccato-il-suono-the-paul-butterfield-blues-band-got-mind-to-give-up-living-live-1966/ , per me un eccellente documento anche se in quel caso la qualità del sonoro non era impeccabile, soprattutto la voce di Butterfield non svettava, ma il contenuto era fantastico.

Diciamo che qui la voce è molto più “presente”, anche se il suono è pur sempre quello di un broadcast registrato nel lontano 1966. I tre solisti, Butterfield, Bloomfield e Bishop, sono in gran forma, e Mark Naftalin alle tastiere, Jerome Arnold al basso e Billy Davenport alla batteria completano una line-up formidabile. Droppin’ Out, inedita su album all’epoca, uscirà solo su The Resurrection of Pigboy Crabshaw nel 1967, è un  impeccabile Chicago blues elettrico scritto da Butterfield, con qualche nuances psych-rock, vibrante e potente, con la voce “cattiva” del leader subito in bella evidenza, mentre Bloomfield e Bishop cominciano ad interagire con le loro soliste leggermente acide. La tracklist del CD riporta come secondo brano Baby, Please Don’t Go, il pezzo che quasi tutti ricordiamo nella versione dei Them di Van Morrison, ok scordiamocela, e anche quella originale di Big Joe Williams del 1935: nella tracklist del sito Concert Vault è riportata come Mother-In-Law Blues (sapete che nel blues i brani hanno mille vite e mille titoli diversi, ognuno piglia quello che può), direi che la versione della Butterfield Blues Band è ritagliata su quella di Muddy Waters per la Chess, primi anni ’50, con l’armonica di Paul pronta alla bisogna e in gran spolvero e la qualità sonora che, visto il periodo, ripeto, è più che buona, in tutto il CD, con la voce e gli strumenti bel delineati, grande blues elettrico di una band ai vertici del proprio rendimento.

(Our Love Is) Drifiting, dal primo album eponimo, è un blues lento magistrale con la chitarra di Mike Bloomfield limpida e cristallina, molto simile come timbro a come l’avremmo sentita nella Supersession con Stills e Al Kooper e nelle altre “avventure” di fine anni ’60, con la voce nera di Butterfield a guidare le danze. Born In Chicago è uno dei loro cavalli di battaglia, immancabile, e sul quale molti gruppi blues venuti dopo (anche in Italia) ci hanno costruito una carriera, sincopata e trascinante con un grande drive da parte di tutta la band e il call and response armonica, voce e le due pimpanti e swinganti chitarre, impeccabile; Willow Tree, inedita su album è un altro slow blues splendido, con le chitarre che centellinano note in risposta all’accorato cantato del leader, che soffia anche nell’armonica da par suo https://www.youtube.com/watch?v=1s5p2hfxywY . Anche My Babe, inedita su album, era uno dei punti di forza dei loro concerti, il classico brano di Willie Dixon scritto per Little Walter, uno dei brani più noti e più belli della storia del Chicago blues, grande versione. La cover di Kansas City è una rara occasione per sentire Mike Bloomfield alla voce solista, un pezzo che all’epoca faceva anche Jorma Kaukonen nei Jefferson Airplane, e l’approccio in entrambi i casi ha un che di psichedelico, come era tipico di quegli anni, un tocco che è presente in tutto il disco, blues va bene, ma anche rivisitato con classe e grinta. E per concludere in gloria, una versione fantasmagorica di Work Song, il brano di Cannonball Adderley che era uno dei punti di forza di East-West, 13 minuti di pura libidine sonora, con i solisti che improvvisano in modo libero ed incredibile (l’organo purtroppo si sente in lontananza), tra jazz, blues, rock e derive orientali, splendido, come tutto il CD: ritiro tutto quello che ho detto e pensato della etichetta Live Recordings. Da avere assolutamente.

Bruno Conti

Grande Disco, “Con Un Piccolo Aiuto Dagli Amici”, E Che Amici! Mitch Woods – Friends Along The Way

mitch woods friends along the way

Mitch Woods – Friends Along The Way – Entertainment On

Mitch Woods, pianista e cantante di blues e boogie-woogie, da oltre trent’anni ci delizia con i suoi Rocket 88, band con cui rivisita classici della musica americana e composizioni proprie, con uno stile che lui stesso ha definito con felice espressione “rock-a-boogie”, e la cui summa è forse il CD uscito alla fine del 2015 Jammin’ On The High Cs Live, dove il nostro, nel corso della Legendary Blues Cruise, indulgeva nell’arte della collaborazione con altri artisti, diciamo della jam per brevità, che è una delle sue principali peculiarità http://discoclub.myblog.it/2016/01/06/nuovo-musicisti-crociera-mitch-woods-jammin-on-the-high-cs-live/ . In quella occasione Woods era affiancato da fior di musicisti, Billy Branch, Tommy Castro, Popa Chubby, Coco Montoya, Lucky Peterson, Victor Wainwright, membri sparsi dei Roomful Of Blues e Dwayne Dopsie, ma per questo nuovo album Friends Along The Way l’asticella viene ulteriormente alzata e alcuni degli “amici” coinvolti in questa nuova fatica sono veramente nomi altisonanti: c’è solo una piccola precisazione da fare, il disco, inciso in diversi studi e lungo gli anni, è principalmente acustico, non c’è il suo gruppo e neppure una sezione ritmica, a parte la batteria in tre brani, e un paio dei friends che appaiono nel CD nel frattempo ci hanno lasciato da tempo.

Certo i nomi coinvolti sono veramente notevoli: Van Morrison e Taj Mahal, impegnati in terzetto con Woods in ben tre brani, prima in una splendida Take This Hammer di Leadbelly, con Van The Man voce solista e Mitch e Taj che lo accompagnano a piano e chitarra acustica, mentre lo stesso Morrison agita un tamburello, comunque veramente versione intensa e di gran classe. Pure la successiva C.C Rider, con i rotolanti tasti del piano di Woods che sono il collante della musica, non scherza, Taj Mahal e Van Morrison si dividono gli spazi vocali equamente e la musica fluisce maestosa. Più avanti nel disco troviamo la terza collaborazione, Midnight Hour Blues, altro tuffo nelle 12 battute per un classico di Leroy Carr, dove Morrison è ancora la voce solista e suona pure l’armonica, mentre Mahal è alla National steel, con il consueto egregio lavoro di Woods al piano (stranamente alla fine del CD c’è una versione “radio” del primo brano, che tradotto significa semplicemente che è più corta). Già questi tre brani basterebbero, ma pure il resto dell’album non scherza: Keep A Dollar In Your Pocket, è un divertente boogie blues con Elvin Bishop, anche alla solista, e Woods che si dividono la parte vocale, mentre Larry Vann siede dietro la batteria; notevole Singin’ The Blues, una deliziosa ballata cantata splendidamente da Ruthie Foster, che ne è anche l’autrice, come pure la classica Mother in Law Blues, cantata in modo intenso da John Hammond, che si produce anche da par suo alla national steel con bottleneck.

Cryin For My Baby è un brano scritto dallo stesso Woods, che la canta ed è l’occasione per gustarsi l’armonica di Charlie Musselwhite, un blues lento dove anche il lavoro pianistico di Mitch è di prima categoria; Nasty Boogie, un vecchio pezzo scatenato di Champion Jack Dupree, vede il buon Mitch duettare con Joe Louis Walker, impegnato anche alla chitarra, mentre in Empty Bed offre il suo piano come sottofondo per la voce ancora affascinante e vissuta di Maria Muldaur. Blues Mobile è un pimpante brano scritto dallo stesso Kenny Neal, che ne è anche l’interprete, oltre a suonare l’armonica e la chitarra, in uno dei rari brani elettrici con Vann alla batteria, The Blues è un pezzo scritto da Taj Mahal, che però lo cede ad una delle leggende di New Orleans, il grande Cyril Neville, che la declama da par suo, sui florilegi del piano di Woods, che si ripete anche nella vorticosa Saturday Night Boogie Woogie Man, di nuovo con Bishop alla slide, prima del ritorno ancora di Musselwhite con la sua Blues Gave Me A Ride, lenta e maestosa. Chicago Express è una delle registrazioni più vecchie, con James Cotton all’armonica, per una train song splendida, prima di lasciare il proscenio ad un altro dei “maestri, John Lee Hooker, con la sua super classica Never Get Out Of These Blues Alive, al solito intensa e quasi ieratica nel suo dipanarsi. In chiusura, oltre all’altro pezzo con Morrison e Mahal, troviamo un duello di pianoforti, insieme a Marcia Ball, in una ondeggiante In the Night, un pezzo di Professor Longhair che chiude in gloria questa bella avventura musicale. Sono solo tre parole, ma sentite; no, non sole, cuore e amore, direi più “gran bel disco”!

Bruno Conti

Come Il Buon Vino, Invecchiando Migliora! Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio

elvin bishop's big fun trio

Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio – Alligator/Ird

L’idea di base di partenza è interessante e stimolante: fare un disco di blues in trio, con tre ospiti all’armonica. Ovviamente è la formazione che è “strana”: a fianco di Elvin Bishop, voce e chitarra, ci sono Bob Welsh, pianista, che si disbriga con abilità, quando serve, anche alla chitarra, e Willy Jordan al cajòn, voce solista e armonie vocali (il cajòn è quello strumento a percussione di origine Peruviana, a forma di cassetta, e che si suona sedendoci sopra). I tre armonicisti ospiti, ciascuno presente in un brano, sono Charlie Musselwhite, Rick Estrin e Kim Wilson. Devo dire che il disco, pur non essendo un capolavoro assoluto, ha un suo perché: Elvin Bishop ormai ha una voce da vecchio maestro del blues (quale è diventato), una specie di roco ghigno un po’ sfiatato, ma vissuto e divertito, al quale si accodano i suoi pard per l’occasione, in grado di regalarci un piccolo ripasso del blues, del soul e del R&R, oltre a sette brani a sua firma, tra i quali una ripresa di Ace In The Hole, la title track del suo terzo album per la Alligator, pubblicato nel 1995. Al solito, se volete il mio parere, che vi do comunque, preferisco il Bishop “elettrico” dell’ultimo Can’t Even Do Wrong Right, pubblicato sempre per l’etichetta di Chicago, e che era un ritorno in parte al sound dei suoi dischi targati anni ’70 http://discoclub.myblog.it/2014/08/23/siamo-sulla-stessa-barca-del-blues-elvin-bishop-cant-even-do-wrong-right/ , ma questo Elvin Bishop’s Big Fun Trio non è niente male.

Questa volta il sound è più intimo e raccolto, peraltro non privo di brillantezza e suonato con la giusta forza, insomma non si corre il rischio di appisolarsi. Fin dall’iniziale vorticoso boogie, per piano e chitarra, Keep On Rollin’, i tre si divertono, con la chitarra di Bishop che svolge anche un supporto ritmico al lavoro di Jordan (che ha pure una ottima voce, cosa che non guasta), oltre a ritagliarsi i suoi spazi solisti. A seguire una ripresa di Honey Babe, un vecchio brano di Lightnin’ Hopkins, sempre caratterizzato da questo suono elettroacustico ma vibrante; It’s You è il brano con Kim Wilson all’armonica, classico Chicago blues, con l’ottimo Welsh al piano e uno scatenato Jordan che oltre a tenere il tempo con brio, come detto poc’anzi, ha una voce da gran cantante. Ace In The Hole, più lenta e sorniona, è cantata da Elvin, mentre Let’s Go, con un bel groove R&R, è un brano mezzo strumentale e mezzo parlato, con retrogusti alla Bo Diddley prima maniera. Delta Lowdown, con Rick Estrin all’armonica, come da titolo, è di nuovo blues puro della più bell’acqua, uno strumentale brillante dove si apprezza l’interscambio dei vari solisti; It’s All Over Now è una ripresa del vecchio classico di Bobby Womack (e degli Stones), che nonostante l’approccio sonoro raccolto del trio, non perde nulla del vigore delle versioni più conosciute, con Jordan che canta alla grande e Bishop che si inventa un assolo di gran classe anche in questa dimensione semi-unplugged.

100 Years of Blues vede la presenza di Charlie Musselwhite all’armonica e voce solista, il classico blues lento e cadenzato che si suona da almeno 100 anni, a giudicare dal titolo, con Bishop che lancia l’assist vocale con un talkin’ blues e Musselwhite che raccoglie e rilancia; Let The Four Winds Blow non avrà 100 anni (solo 55) ma il classico di Fats Domino viaggia a tutto ritmo sulle ali del piano di Welsh e della slide di Bishop, per una versione di gran classe. Il trittico finale di brani firmati da Bishop forse (ma forse) non ha la forza di quanto ascoltato finora, però la divertente That’s What I’m Talkin’ About si lancia anche su derive R&B e gospel, senza dimenticare l’immancabile blues misto a R&R, con Jordan che si conferma non solo percussionista di pregio, ma anche vocalist di talento, forgiato da lunghi anni di militanza sui palchi di New Orleans e dintorni. E pure il blues sanguigno di Can’t Take No More, dove Jordan si lancia in un ardito falsetto, non manca di entusiasmare, più di quanto mi sarei aspettato da un disco così particolare. Il finale, manco a dirlo, è affidato a una Southside Slide, uno strumentale dove Elvin Bishop ci delizia con la sua abilità alla bottleneck guitar. Lo dico di nuovo? Meglio di quanto mi aspettassi, viste le premesse: ancora una volta, 74 anni e non sentirli! Esce ufficialmente il 10 febbraio.

Bruno Conti

Ripescato Dalle Nebbie Del Tempo, Questi Suonavano Come Pochi, Peccato Per Il Suono Non Perfetto! The Paul Butterfield Blues Band – Got A Mind To Give Up Living – Live 1966

paul butterfield blues band live 1966

The Paul Butterfield Blues Band – Got A Mind To Give Up Living – Live 1966 – Real Gone Music/Elektra/Rhino

Questo è un disco fantastico, ripescato dalle nebbie del tempo, ci mostra la Butterfield Blues Band all’apice della propria curva qualitativa, catturata in un concerto dal vivo all’Unicorn Coffee House di Boston nel maggio 1966, dopo l’uscita del primo omonimo album e due mesi prima della registrazione dello straordinario East-West, che poi verrà pubblicato nell’agosto sempre di quell’anno. Della formazione del primo album non c’è più il batterista Sam Lay, fuoriuscito dal gruppo per gravi problemi di salute e sostituito dall’ottimo Billy Davenport, ma gli altri ci sono tutti: Jerome Arnold al basso, Mark Naftalin alle tastiere, presente solo in alcuni brani del 1° album, e soprattutto i tre formidabili solisti; Elvin Bishop, che non era certo uno scarso e uno straordinario Mike Bloomfield alle chitarre, e il leader Paul Butterfield all’armonica e voce solista. L’anno prima al Festival di Newport alcuni di loro avevano accompagnato Dylan in una delle sue primissime esibizioni elettriche, ma soprattutto stavano per rivoluzionare l’apporto dei musicisti bianchi alla scena blues di Chicago, con una delle prime formazioni multirazziali della storia, dove gli elementi classici delle dodici battute si incontrano con il jazz, la libera improvvisazione, le derive modali ispirate dagli ascolti di musica indiana di Naftalin e Bloomfield e soprattutto la straordinaria tecnica dei solisti della band. Nel concerto ci sono già quattro brani che poi verranno inseriti in East-West, tra cui una fantastica versione di oltre 12 minuti del classico strumentale Work Song di Nat Adderley, dove prima Butterfield, poi Bloomfield, Naftalin e Bishop, in continua alternanza inanellano una serie di soli strepitosi che annunciano l’irrompere del rock nell’improvvisazione del jazz.

La qualità sonora è buona (si tratta di una pubblicazione ufficiale di un ex bootleg, quello qui sopra, con l’apporto della Elektra/Rhino che ha migliorato il suono nei limiti del possibile), ovviamente parliamo di una registrazione del 1966, forse solo la voce di Butterfield, presumo catturata dallo stesso microfono dell’armonica, a tratti, ma non sempre, è distorta, comunque sempre su livelli tecnici di discreta qualità: diciamo che gli costa una mezza stelletta in un disco che ne poteva valere quattro per importanza storica. Pero, per intenderci; siamo su livelli sonori nettamente superiori alle recenti pubblicazioni da moltii osannate dei Bluesbreakers di John Mayall con Peter Green (ma non dal sottoscritto che pure ne ha parlato bene http://discoclub.myblog.it/2016/05/10/chi-si-accontenta-gode-john-mayalls-bluesbreakers-live-1967-volume-two/), relative al 1967, non c’è paragone a livello tecnico. E il contenuto musicale è notevole: dalla breve Instrumental Intro, un omaggio alle introduzioni delle band di soul, R&B e musica nera dell’epoca, tipo quella di James Brown, poi si parte subito sparati con una poderosa Look Over Yonders Wall, seguita dal loro cavallo di battaglia Born In Chicago, firmata da Nick Gravenites, dal primo slow blues della serata, una torrida Love Her With A Feeling, dove Bloomfield comincia a scaldare l’attrezzo, e ancora la ritmata Get Out Of My Life, Woman, un brano di Allen Toussaint, che apparirà in East-West da lì a poco e che era un successo R&B per Lee Dorsey in quel periodo.

Anche Never Say No, un traditional, andrà nel nuovo album ed è un altro lento di grande intensità, tipico del revival del blues elettrico di quei tempi, mentre One More Heartache è di nuovo classico Chicago Blues elettrico, seguito dalla splendida Work Song, poc’anzi ricordata, e da una altrettanto vorticosa Comin’ Home Baby, sempre con i solisti assai impegnati e con un sound quasi psichedelico che anticipa nell’interscambio tra organo e chitarre acide quello che i Doors e altre band californiane metteranno sul piatto a breve, fantastica anche questa. Memory Pain di Percy Mayfield non era su nessuno dei due album, quindi una mezza rarità, un altro pezzo di taglio errebì, dove in effetti la voce è parecchio distorta, mentre I Got A Mind To Give Up Living, che dà il titolo al CD e che sarà pubblicata sull’imminente secondo album, è un altro slow blues da brividi con la solista di Mike Bloomfield che taglia l’aria a fettine, e Butterfield che canta e suona l’armonica da par suo; e pure Walking By Myself, la quintessenza del blues, firmata da Jimmy Rodgers, per usare un eufemismo non è male, Per finire in gloria una potentissima e sapida Got My Mojo Working. Disco da avere assolutamente, occhio al suono, ma  secondo me vale la pena di “rischiare”, anche perché le parti strumentali sono nettamente preponderanti!

Bruno Conti