Meno Peggio Del Previsto, Anzi! Eric Church – Desperate Man

eric church desperate man

Eric Church – Desperate Man – EMI Nashville CD

Eric Church non è di certo il mio countryman preferito, anzi non si avvicina neppure alle zone di medio-alta classifica, ma devo riconoscere che nel variegato panorama musicale americano ha saputo, fin dal suo debutto Sinners Like Me del 2006, ritagliarsi una fetta piuttosto grossa di popolarità, il tutto senza ricorrere a sonorità becere come fanno ad esempio Keith Urban e Jason Aldean. Certo, la sua musica non arriverà forse mai a livelli per i quali noi del Blog ci strapperemmo i capelli (almeno chi li ha ancora), ma se non altro i suoi CD si lasciano ascoltare senza far venire voglia di spegnere il lettore dopo tre canzoni https://discoclub.myblog.it/2017/07/21/lui-non-mi-fa-impazzire-ma-stavolta-non-e-malaccio-eric-church-mr-misunderstood-on-the-rocks/ . Desperate Man, il suo nuovo lavoro (il sesto in assoluto), conferma la tendenza di Eric di fare musica abbastanza gradevole, pur mantenendo un’aura di commercialità che lo allontana non poco dagli appassionati di vero country: d’altronde il suo produttore è Jay Joyce, molto noto a Nashville, uno che sa anche produrre artisti di qualità (Emmylou Harris, The Wallflowers, Brandy Clark, Patty Griffin), ma spesso ha la mano pesante e non va tanto per il sottile.

Comunque Church è un uomo del Sud (e nato infatti in North Carolina) nonché un amante del movimento Outlaw degli anni settanta, e quindi la sua musica ha una decisa componente rock, poco presente peraltro in Desperate Man: infatti questa ultima fatica di Eric si rivela essere un disco composto prevalentemente da ballate, anche se lo zucchero stratificato tipico di Nashville è fortunatamente tenuto a bada, e la durata limitata dell’album, 36 minuti, evita che la noia possa affiorare. Il CD in realtà si apre con Tha Snake, un brano di pura swamp music: un lungo arpeggio di chitarra acustica introduce la canzone, poi dopo un minuto il ritmo sale e ci troviamo immersi in un’atmosfera tesa ed inquietante, con un suono paludoso, cupo e profondamente annerito, chiaramente ispirato da uno come Tony Joe White. Un pezzo niente male. Hangin’ Around è molto meno scura, ma è anche la meno riuscita del disco: ritmica scattante e nervosa, una chitarrina funkeggiante ed uno stile un po’ confuso (ma non esattamente country), ed Eric che canta con una strana voce stridula, un deciso downgrade rispetto al brano iniziale; Heart Like A Wheel è una ballata elettrica dal sapore southern soul, abbastanza riuscita sia per il refrain che per l’uso delle voci femminili, anche se la sezione ritmica sembra faticare non poco a “trovare” la canzone.

Anche Some Of It è uno slow, più nello stile country-pop del nostro, ma è suonato con gli strumenti giusti e non sfigura, così come la tenue e gentile Monsters, che non è originalissima ma se non altro ha una buona melodia di fondo e si lascia ascoltare con piacere, mentre con Hippie Radio restiamo in tema di ballate, per un brano elettroacustico prodotto in maniera intelligente, ben suonato e con Church che canta con misura. Higher Wire ha ancora il passo lento ma è più rock, anche se Eric le costruisce intorno un arrangiamento discutibile, meglio la title track (scritta con Ray Wylie Hubbard), che sembra ispirata dai Rolling Stones, con le dovute proporzioni ovviamente, e ha un tiro discreto (peccato per il coretto idiota); Solid, che invece è composta insieme ad Anders Osborne, è uno slow disteso e con un bell’intro di chitarra quasi pinkfloydiano (!), ma poi il brano cambia registro quasi subito per diventare un country-rock ancora con diversi debiti verso il sound della Louisiana. Il CD si chiude con Jukebox And A Bar, gradevole country ballad (forse la più country del disco), e con Drowning Man, solido pezzo elettrico di nuovo con agganci al suono del Sud.

Un album di livello più che accettabile questo di Eric Church, non scevro da imperfezioni ed al quale un po’ più di brio avrebbe sicuramente giovato, ma di certo non quella ciofeca che sarebbe stato legittimo paventare.

Marco Verdi

Il Diavolo Secondo Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can

Ray Wylie Hubbard Tell the Devil

Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can – Bordello Records/Thirty Tigers

Parafrasando un vecchio detto “non c’è due senza tre”, dopo The Grifter’s Himnal (12), e The Ruffian’s Misfortune (15) http://discoclub.myblog.it/2015/04/17/grande-vecchio-texano-doc-ray-wylie-hubbard-the-ruffians-misfortune/ , torno a parlarvi sul Blog di Ray Wylie Hubbard, un vero musicista di culto della scena musicale texana, in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro, dal titolo lunghissimo che per comodità abbreviamo in Tell The Devil…, il diciassettesimo della sua carriera (se non ho sbagliato i conti con il pallottoliere). Proseguendo nelle tematiche degli ultimi lavori e miscelando sempre più sacro e profano, Hubbard porta negli studi di registrazione The Zone a Dripping Springs, Texas, un manipolo di validi musicisti, a partire da suo figlio Lucas Hubbard (sempre più bravo) alle chitarre elettriche, Kyle Schneider e Joseph Mirasole  che si alternano alla batteria, l’ottimo Jeff Plankenhorn a dobro, lap steel guitar e mandolino (e ottimo cantautore anche in proprio), Pat Manske al basso, e il grande Bukka Allen (BoDeans, Joe Ely, Alejandro Escovedo e figlio di Terry Allen) all’Hammond B3, con l’aggiunta di validi “turnisti” locali tra i quali Edward Braillif, Billy Cassis, Jack O’Brien, Lisa Mednick Powell, Curtis Roush e con il produttore Mike Morgan, che è anche il proprietario degli studi di registrazione, i quali, tutti insieme a Ray Wylie (armonica, chitarra acustica e elettrica, e voce), danno vita ad undici brani “diabolici”, con la partecipazione non secondaria di ospiti vocali di grande valore come Lucinda Williams, Patty Griffin, Eric Church; canzoni intrise come al solito di rock, blues, e sonorità voodoo, con una spruzzata abbondante di country texano.

I sermoni si aprono con la spettrale God Looked Around (ispirata dal Libro Della Genesi), con un bel giro di armonica che la caratterizza, a cui fanno seguito lo sporco blues di Dead Thumb King, le sonorità voodoo di una ossessiva Spider, Snaker And Little Sun, un tributo a “Spider” John Koerner, Dave “Snaker” Ray e Tony “Little Sun” Glover,  passando poi per lo sferzante groove di Lucifer And The Fallen Angels, un lungo viaggio letterale nell’inferno, che Hubbard dice essere stata ispirata da Turn the Page di Bob Seger. Con l’acustica Open G Hubbard dimostra di essere anche un chitarrista slide di prim’ordine, mentre la tagliente ballata House Of The White Rose Bouquet racconta la storia di un rapporto tra un giocatore e una “Lady”, preludio alla meravigliosa Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, cantata in duetto con Eric Church e Lucinda Williams (una voce talmente personale che si riconosce anche in punto di morte), con uno splendido finale chitarristico, e che sempre secondo l’autore si rifà alle sonorità di Rod Stewart in Maggie May, con mandolino e organo in evidenza, per riscoprire pure le sonorità “psichedeliche” in The Rebellious Sons, suonata al meglio con i Bright Light Social Hour (una poco conosciuta rock band “psichedelica”di Austin). Ci si avvia alle “fiammate” finali con il blues ballabile di Old Wolf  (con tanto di ululato simulato), una sofferta melodia alla Townes Van Zandt come Prayer, e chiudere in gloria questa favola “rock-blues con la delicata In Times Of Cold cantata in duetto con la brava Patty Griffin, con solo accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

Questo signore ha superato i settanta (e li dimostra tutti guardando la cover del CD), ma sono anche cinquant’anni che Ray Wylie Hubbard è in pista fra palchi e studi di registrazione, e questo nuovo Tell The Devil….prosegue nel solco degli ultimi due dischi citati ad inizio Post, disco che lo certifica ancora una volta come una figura di culto nell’ambito della scena musicale “texana”, con il suo cocktail affascinante composto da rock, blues e roots music, e per chi lo segue da sempre c’è la certezza che dalla sua penna usciranno comunque eroi e perdenti che non sono né buoni né cattivi, ma che lottano e si dibattono tra il bene e il male. Personaggio difficilmente “etichettabile”, Ray Wylie Hubbard per chi lo conosce ed ama sta diventando sempre più importante disco dopo disco,  ed al quale manca soltanto (e per chi scrive, fortunatamente) la celebrità, che non arriverà neppure dopo questo lavoro, da assaporare comunque con gusto fino all’ultima nota.

Tino Montanari

Lui Non Mi Fa Impazzire, Ma Stavolta Non E’ Malaccio! Eric Church – Mr. Misunderstood On The Rocks

eric church mr. misunderstood on the rocks

Eric ChurchMr. Misunderstood On The Rocks: Live And (Mostly) Unplugged – EMI Nashville EP/CD

Non sono un grande fan di Eric Church, country rocker del North Carolina in attività da poco più di dieci anni, ed oggi uno dei musicisti più popolari in USA, perlomeno in ambito country. Eric non era neppure partito male, esordendo con un discreto album di robusto country chitarristico (Sinners Like Me, 2006) e bissando tre anni dopo con l’altrettanto valido Carolina: peccato che, con l’aumentare delle vendite, Church sia scivolato disco dopo disco verso una musica sempre più commerciale, un country finto southern di grana grossa, ma in fin dei conti perfettamente allineato con quello che chiedono a Nashville. Il suo live album del 2013, Caught In The Act, era piuttosto buono, elettrico e roccato al punto giusto, ma sia The Outsiders che Mr. Misunderstood, i suoi due ultimi lavori in studio, non avevano certo le carte in regola per piacere a chi ama il vero country. Mr. Misunderstood tra l’altro ha venduto meno della metà del suo predecessore, segno che anche in America forse un certo tipo di musica fatta per le classifiche comincia a stufare: è forse per questo che Eric ha appena pubblicato un altro disco dal vivo, un EP con solo sette canzoni, che però si candida da subito come una delle sue cose migliori.

Mr. Misunderstood On The Rocks è intanto registrato nella suggestiva cornice del Red Rocks Amphitheatre in Colorado, un luogo capace di tirare fuori il meglio da chiunque, e poi Church sceglie di presentarsi in una veste spoglia, acustica al 90%, come recita il sottotitolo del CD. Non è da solo sul palco, anzi in un paio di brani c’è la sua band al completo, ma se si eccettua una occasionale chitarra elettrica, il suono è più intimo, più vero, meno legato alle sonorità dei dischi di studio; ed Eric si dimostra un buon performer, in grado anche di emozionare: peccato che il dischetto duri solo poco più di mezz’ora. Apre un medley decisamente interessante che, partendo dalla sua Mistress Named Music, tocca vari classici come Like A Rock di Bob Seger, Danny’s Song di Loggins & Messina, Willin’ dei Little Feat, Piano Man di Billy Joel (accolta da un’ovazione) e Troubadour di George Strait, il tutto eseguito solo con l’ausilio della chitarra acustica, ma senza rinunciare al feeling.

Con Chattanooga Lucy arriva la band, per una robusta canzone dal ritmo sostenuto e potente anche in questa versione stripped-down, con umori southern neanche troppo nascosti; Mixed Drinks About Feelings (bel titolo, molto Jimmy Buffett) vede il nostro in trio con il piano di Jeff Cease ed il controcanto femminile di Joanna Cotten, per una toccante ballata dalla melodia ulteriormente valorizzata dalla veste acustica (e che voce lei), mentre Knives Of New Orleans, ancora con Eric da solo sul palco, è comunque un pezzo con una certa vitalità. Kill A Word è ancora elettroacustica e con il gruppo al completo, maschia, vibrante e soprattutto privata delle diavolerie in studio per renderla commerciale; l’intensa Record Year, ancora in trio (ma con due chitarre ed il piano) e molto amata dal pubblico, conduce al brano conclusivo, una versione voce e chitarra (elettrica) del superclassico di Leonard Cohen Hallelujah, rilettura che tiene presente quella di Jeff Buckley ma rimane comunque personale e soprattutto sentita. Non sto dicendo che questo dischetto sia imperdibile, tutt’altro, ma se anche voi non siete estimatori di Eric Church sappiate che qui troverete solo la parte buona di lui.

Marco Verdi

Una (Parziale) Rivincita Per L’Hank “Sbagliato”! Hank Williams Jr. – It’s About Time

hank williams jr. it's about time

Hank Williams Jr. – It’s About Time – Nash Icon/Universal CD

Nascere figli di Hank Williams e voler fare i musicisti non è facile, ma Hank Williams Jr., nel corso delle ormai quasi sei decadi di carriera, ci ha messo spesso e volentieri del suo per offrire il fianco alle critiche, complice una qualità media discografica altalenante (però comprensibile quando hai quasi sessanta album all’attivo, live ed antologie esclusi) e soprattutto testi che palesavano uno spirito patriottico un tantino qualunquista (per usare un eufemismo), una religiosità un po’ stucchevole ed una simpatia politica abbastanza evidente per il partito repubblicano (quasi un peccato mortale in ambito artistico per l’intellighenzia americana, mentre io penso che ognuno abbia il diritto di professare la propria ideologia in santa pace, tanto quello che conta è la musica). Ma Hank Jr. non è mai stato un beniamino della critica, anche perché musicalmente molto spesso si è lasciato andare a soluzioni non proprio raffinatissime, altre volte rivestendo le proprie canzoni con arrangiamenti discutibili, ma sovente, bisogna dirlo, i suoi dischi non sfiguravano affatto nell’ambito di un certo country-rock imparentato con la musica del Sud (sua area d’origine peraltro), e diverse volte il suo suono robusto non ha mancato di intrattenere a dovere gli ascoltatori, come è successo anche con il suo penultimo lavoro, il discreto Old School New Rules del 2012.

Ora Hank fa anche meglio, in quanto It’s About Time è, testi a parte, un signor disco di rockin’ country vigoroso ma non banale, con una dose più che sufficiente di feeling ed una serie di buone canzoni, suonate e cantate con il piglio giusto ed arrangiamenti asciutti e diretti (la produzione è di Julian Raymond, già collaboratore per molti anni di Glen Campbell): un bel disco dunque, direi anche un po’ a sorpresa dato che Williams Jr. non ha mai sfornato capolavori, né ha mai goduto di un gran credito (a differenza dei figli Holly, davvero brava, e Hank III, che però a fianco di ottimi dischi country ha pubblicato anche immani porcate quasi metal) ed è sempre stato guardato dall’alto in basso. L’album inizia subito col piede giusto, intanto perché Are You Ready For The Country di Neil Young è una grande canzone, e poi perché Hank ne fa una versione accelerata e decisamente più roccata (tra l’altro in duetto con Eric Church), un trattamento che dà nuova linfa ad un classico: chitarre e sezione ritmica dominano, ma c’è anche un tagliente violino a dire la sua (il grande Glen Duncan, e nel disco suona anche il leggendario steel guitarist Paul Franklin). La sciovinista Club U.S.A. è un rock’n’roll tiratissimo che non sfigurerebbe nel repertorio dei migliori Lynyrd Skynyrd, che in quanto a sciovinismo pure loro non scherzano, un pezzo davvero trascinante (e Hank, è giusto ricordarlo, ha anche una bella voce), God Fearin’ Man è ancora un southern country roccioso e potente, Hank non molla la presa e ci circonda di ritmo e chitarre a manetta (ed anche il refrain non è niente male), mentre Those Days Are Gone è più rilassata, un honky-tonk cadenzato dal suono comunque pieno e con la giusta dose di elettricità e “sudismo”.

https://www.youtube.com/watch?v=aoA-KwmUaAk

La divertente (nel testo) Dress Like An Icon ha anch’essa un bel tiro e non fa calare la tensione di un disco fino a questo momento sorprendente; God And Guns la conoscevamo già nella versione proprio degli Skynyrd (era anche il titolo di un loro album del 2009), e se il testo è una dichiarazione di intenti a favore di Donald Trump (o di chiunque vincerà le primarie repubblicane), musicalmente il brano è un southern rock teso ed affilato, con un trascinante finale a tutta potenza. Just Call Me Hank è invece una ballata scorrevole e molto più country, ma con un suono sempre deciso, la saltellante Mental Revenge (un classico di Mel Tillis, ne ricordo una bella versione anche dei Long Ryders) è scintillante e godibilissima; la title track è invece un country-rock dalla melodia contagiosa che conferma lo stato di ottima forma di un musicista spesso bistrattato.     L’album si chiude con il rutilante swing roccato di The Party’s On, la lunga Wrapped Up, Tangled Up In Jesus, puro gospel del Sud ( e ci sono le McCrary Sisters ai cori), dal ritmo sempre sostenuto e con un tocco swamp, e con la travolgente Born To Boogie (titolo che è tutto un programma), nella quale Hank divide il microfono con Brantley Gilbert, Justin Moore e Brad Paisley, il quale rilascia anche un assolo chitarristico dei suoi.

Bando agli snobismi: Hank Williams Jr. non sarà certo diventato all’improvviso un genio della musica, ma It’s About Time è un bel disco, e questo bisogna riconoscerglielo.

Marco Verdi