Un “Piccolo Genio” Della Scena Musicale Americana. Paul Burch & WPA Ballclub – Light Sensitive

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Paul Burch & WPA Ballclub – Light Sensitive – Plowboy Records

Nella musica di Paul Burch e della sua combriccola di soci, accoliti ed amici del WPA Ballclub ci sono vari tipi di musica, proposti in una frizzante miscela che unisce sonorità nuove e “antiche”: il nostro amico lo fa ormai dal lontano 1996 e nel corso di una decina di album si è proposto come uno di quei (piccoli) geni che ogni tanto spuntano dalla scena musicale americana. Se ne sono accorti in tanti che hanno chiesto i suoi servigi; infatti Burch ha suonato con Lambchop, Waco Brothers, Clem Snide e decine di altri artisti che non citiamo per brevità. Quindi, in mancanza di una parola per descrivere il suo stile, potremmo prendere a prestito da New Orleans il termine di gumbo, ma per uno che vive ed opera a Nashville non saprei proprio con cosa sostituirlo. Però funziona tutto molto bene, anche perché nel disco suonano diversi “luminari” della musica roots americana, detti alla rinfusa: il suo amico Dennis Crouch che suona basso e contrabbasso e co-produce con Paul, Jen Gunderman che si alterna con Heather Mulder al piano, Justin Amaral alla batteria, Chloe Feoranzo a sax e clarinetto, Fats Kaplin a violino, viola e hawaiian steel, oltre naturalmente a Burch che suona chitarre varie, Wurlitzer, batteria e percussioni.

E già che passavano da Nashville ha coinvolto anche Luther Dickinson, Amy Rigby, Aaron Lee Tasjan e pure Robyn Hitchcock si è prestato a “cazzeggiare” nella splendida ballata sudista, acida e chitarristica On My Flight To Spain, dove appare nella parte dell’Airport Voice Of Reason. Ma tutto l’album è una continua sorpresa di cambi di tempo e genere, dall’iniziale Love Come Back quasi waitsiana nell’intersecarsi di chitarre “in vibrazione”, sax e armonie vocali femminili di Carey Kotsionis, mentre Crouch e lo stesso Burch imbastiscono una intesa tra jazz e scansioni ritmiche sghembe ed inconsuete. Un cambio di a(m)bito e siamo a New Orleans per una Mardi Gras In Mobile, dove i ritmi più rilassati di Nola si fondono con i profumi caraibici del calypso di Harry Belafonte; titoli sempre suggestivi per le canzoni, Jean Garrigue,dedicata ad una poetessa del secolo scorso, è di nuovo una ballata, questa volta notturna e jazzy, con piano e sax, cantata con voce suadente da Paul, mentre Fool About Me, a parte la voce diversa, potrebbe passare per uno di quei brani sornioni ed ironici tipici di Randy Newman, una sorta di ragtime, con la slide di Luther Dickinson che lavora di fino sullo sfondo.

The Tell è “solo” una bellissima canzone, atipica per Burch, nel senso che è molto tradizionale, con una bella melodia impreziosita dalle armonie di Aaron Lee Tasjan, ma il nostro amico si riprende subito con lo strano strumentale Glider, dove la line-up è formata da Jen Gunderman all’harmonium, Fats Kaplin all’hawaiian steel e Paul Burch stesso alla steel, con Crouch al contrabbasso, Haloa! E che dire di Marisol che sembra un tentativo di trasporre i ritmi di Time Out di Dave Brubeck sotto forma di una raffinata canzone, dove brillano la viola di Kaplin, il piano della Gunderman, e la voce di Burch che ci culla sempre con le sue liriche visionarie e qualche ardito falsetto; a proposito di testi, che ne dite di quello di 23rd Artillery Punch che rivaleggia con quelli di Dylan “Fellini Came with a dapper dwarf/In a ballet skirt and a dozen whores/And a crooked cardinal and a horny nun…”), questa volta coniugato a tempo di swing con il clarinetto di Chloe Feoranzo in evidenza.

Come titolo anche Prince Ali’s Fortune Telling Book of Dreams non scherza, con la musica che è un altro flessuoso omaggio a quella di New Orleans, quella un po’ fifties, con pianini, chitarrine, pensate a tutto ciò che finisce in “ine”, appunto anche le vocine divertenti di Amy Rigby e Carey Kotsionis. You Must Love Someone oltre ad essere una doverosa esortazione, è un altro lentone hawaiano a tempo di valzer, con Kaplin di nuovo alla steel e il resto del gruppo che sottolinea con classe il cantato quasi da crooner di un ispirato Burch, che in chiusura lascia scatenare il suo combo in Boogie Back, che come da titolo omaggia quasi il sound alla Rockpile di Lowe ed Edmunds, ma con un suono che sbuca da qualche 78 giri degli anni ‘50. Sarà anche anacronistico e fuori dal tempo, ma Paul Burch è veramente bravo.

Bruno Conti

Disco Dopo Disco E’ Sempre Più Bravo! Hayes Carll – What It Is

hayes carll what it is

Hayes Carll – What It Is – Dualtone CD

Nuovo album per il cantautore texano Hayes Carll, uno che incide con il contagocce (sei album in diciotto anni di carriera), ma potete stare certi che quando pubblica qualcosa riesce sempre a distinguersi dalla banalità. La peculiarità di Carll è che il livello dei suoi lavori è in continuo crescendo, ed ogni suo disco ha sempre qualcosa in più del precedente: Lovers And Leavers (2016) https://discoclub.myblog.it/2016/04/05/piu-countryman-songwriter-completo-hayes-carll-lovers-and-leavers/  era meglio di KMAG YOYO (2011), che a sua volta era meglio di Trouble In Mind (2008). E What It Is, il suo CD nuovo di zecca, già al primo ascolto si rivela il migliore di tutti, un album composto da una serie di canzoni splendide sempre nello stile tipico del nostro: musica country d’autore, di alto livello e decisamente coinvolgente, ma sono ben presenti anche elementi folk, rock’n’roll e perfino soul. Una cosa che contraddistingue le canzoni di Carll sono anche i testi, intelligenti e sempre sul filo di un’ironia alla John Prine, quando non sfociano nel puro sarcasmo alla Randy Newman. Infine, una spinta alla riuscita di What It Is deve averla data anche la situazione sentimentale di Hayes, che si è fidanzato con la bella e brava Allison Moorer (una delle tante ex mogli di Steve Earle), ed il mio non è solo gossip fine a sé stesso, in quanto la musicista dai capelli rossi è coinvolta anche artisticamente in questo disco, in quanto ne è la produttrice (insieme a Brad Jones), ha scritto diversi brani insieme al suo boyfriend, ed è pure presente in qualità di corista (con Bobby Bare Jr., figlio di cotanto padre).

Un gran bel disco quindi, oltre che per le canzoni anche per i musicisti coinvolti, tra i quali si segnalano il noto Fats Kaplin al violino, mandolino, banjo e steel (fondamentale il suo contributo), Will Kimbrough alle chitarre ed il bravissimo pianista e organista Gabe Dixon. Dodici canzoni, una meglio dell’altra: si parte con None’Ya, eccellente ballata countreggiante, cadenzata e diretta, con un motivo di quelli che restano in testa immediatamente ed un bellissimo violino. Irresistibile poi Times Like These, un rock’n’roll dal ritmo travolgente, elettrico quanto basta ed ancora con il violino a fungere come elemento di disturbo: impossibile tenere il piede fermo, siamo dalle parti del miglior Billy Joe Shaver (anche come timbro vocale); davvero bella anche Things You Don’t Wanna Know, un pezzo stavolta dal chiaro sapore soul (una novità per Hayes), con il nostro che dimostra di essere più che credibile usando fiati ed organo in maniera magistrale, il tutto servito da una melodia decisamente orecchiabile. Che dire di If I May Be So Bold? Una scintillante country song elettrica ancora con Shaver in testa (ma anche Johnny Cash), ritmo alto e gran godimento, mentre Jesus And Elvis è uno slow ancora dal chiaro approccio country, limpido e scorrevole, che ha il passo delle migliori composizioni di John Prine (anche nel testo, tra il poetico e lo scherzoso): splendida anche questa.

Che Carll sia in stato di grazia lo si capisce anche da brani come American Dream, apparentemente un tipo di country song già sentita prima, ma con una marcia in più data dalla brillantezza della scrittura e dall’accompagnamento delizioso da parte della band (ottimo l’intreccio tra chitarre, violino e mandolino); Be There è una ballata fluida, intensa e melodicamente impeccabile (il refrain è perfetto), con una sezione d’archi che la rende emozionante. Beautiful Thing, ancora a metà tra country e rock’n’roll, è nobilitata da un ritmo coinvolgente e dal formidabile pianoforte di Dixon; un banjo apre la squisita What It Is, che porta il disco in territori bluegrass, ed è inutile dire che sia Hayes che la band danno il loro meglio anche qui. Il CD volge (purtroppo) al termine, il tempo di ascoltare ancora Fragile Men, lenta, epica e con un arrangiamento da film western, la potente Wild Pointy Finger, tra country e southern, e con l’intima e folkie I Will Stay, solo voce, chitarra ed archi.

Dopo un inizio in sordina finalmente anche il 2019 sta cominciando a produrre dischi degni di nota, e questo nuovo tassello della carriera di Hayes Carll è al momento nella mia Top Five.

Marco Verdi

Da Nashville, Tennessee Un Bravissimo Rock Troubadour Americano. Will Hoge – Anchors

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Will Hoge – Anchors – Edl Records/Thirty Tigers

Will Hoge non è un novellino, esordisce nel 2001 con Carousel pubblicato dalla Atlantic (ma ne aveva già pubblicato uno autogestito nel 1997 Spoonful – Tales Begin To Spin), presentandosi come un cantautore rock abbastanza tirato, non molto dissimile (salvo forse nel talento) dall’amico Dan Baird dei Georgia Satellites, che gli dà una mano in questo primo album per una major, discreto ma non memorabile, senza una direzione musicale ben definita. L’Atlantic gli dà fiducia e nel 2003 esce un nuovo album per loro, Blackbird On A Lonely Wire: Baird non c’è più, ma il chitarrista che lo sostituisce non scherza, tale Brian Layson, che oggi è uno dei sessionmen più apprezzati a Nashville, tra gli ospiti troviamo la rocker Michelle Branch, Rami Jaffee dei Wallflowers all’organo, e un sound che rimane energico ma vira verso un buon blue collar rock con elementi jangle. Naturalmente il disco non vende e Hoge viene scaricato, ma persiste con la sua musica, pubblicando un terzetto di album per la Rykodisc negli anni che vanno tra il 2007 e il 2009, tra cui Draw The Curtains, di nuovo con Baird e Jafee, ma anche Garrison Starr; Pat Buchanan Reese Wynans, che mostra una vena sudista e The Wreckage, forse il suo migliore fino ad oggi, prodotto da Ken Coomer dei Wilco, che suona anche la batteria nel disco, dove appare la futura Pistol Annie Ashley Monroe e il bravissimo chitarrista Kenny Vaughan dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, disco che vira verso un country(rock) di qualità, già presente comunque anche negli album precedenti e che contiene Even If It Breaks Your Heart, che gli frutterà un numero 1 nelle classifiche country nella versione della Eli Young Band.

Pure in Number Seven, a dimostrazione della stima di cui gode Hoge tra i colleghi arriva come ospite Vince Gill, e ad affiancare Vaughan come chitarrista ci sono anche Carl Broemel dei My Morning Jacket, Bucky Baxter alla pedal steel e Kenny Greenberg. Senza dimenticare che comunque nei dischi di Will suona spesso anche la band con cui gira l’America per concerti. Finito il periodo Rykodisc Hoge pubblica due ulteriori dischi a livello indipendente, Never Give In, che grazie alla presenza di Doug Lancio alla chitarra, tra i tantissimi musicisti impiegati, molti gli stessi dei dischi precedenti, indica una influenza di Hiatt, ma anche Mellencamp e Bob Seger vengono citati tra le fonti di ispirazione e l’ultimo Small Town Dreams,sempre per la piccola etichetta di Nashville, la Cumberland Records, disco che conferma le bontà delle sue composizioni (non a caso tra quelli che firmano i brani con lui c’è un certo Chris Stapleton) e le influenze country-rock, roots e blue collar, con una predilezione per le ballate.

Come si evince da questa lunghissima introduzione (ma il personaggio merita) Will Hoge è uno di quelli bravi, come conferma il nuovo Anchors, disco numero 10 della sua discografia, autoprodotto per la propria etichetta Edl Records e poi affidato alla eccellente Thirty Tigers che ne cura la distribuzione. Nel frattempo il nostro amico ha sciolto la band che lo accompagnava nei concerti, girando da solo nel 2016, solo voce, chitarra e tastiere (ma nei suoi dischi lo ha sempre fatto, suonando anche armonica e vibrafono) e preparando le canzoni per il nuovo album, dove si produce da solo, ma utilizza ancora una volta ottimi musicisti come Jerry Roe, batterista (Emmylou Harris & Rodney Crowell, ma anche l’ultimo ottimo di Shannon McNally) il bassista Dominic Davis (Jack White, Wanda Jackson; Luther Dickinson, Jim Lauderdale) e i due chitarristi Brad Rice (Son Volt, Rayn Adams) Thom Donovan (Ruby Amanfu e in passato Robert Plant), Dave Cohen al piano (anche lui con Shannon McNally di recente) oltre a Fats Kaplin, violino, mandolino e pedal steel, nonché una piccola sezione fiati in un brano. Come ospite, a duettare in un pezzo è presente Sheryl Crow, che è la seconda voce in Little Bit Of Rust, uno dei pezzi più country del disco, una bella ballata midtempo rootsy-rock con uso di mandolino e violino affidati a Kaplin e un tagliente assolo di slide che non guasta, tra le migliori del disco, che comunque mantiene un ammirevole elevato livello qualitativo in tutti i gli undici brani che lo compongono.

Per intenderci siamo dalle parti di quei troubadours alla Hayes Carll, Pat Green Jack Ingram, forse non dei numeri uno, ma comunque ottimi autori e cantanti. Will Hoge ha una voce leggermente roca e vissuta il giusto, come confermano brani come la splendida southern ballad Cold Night In Santa Fe, che ha profumi che rimandano addirittura alla Band. Ottima anche l’iniziale The Reckoning, una country song cadenzata che ricorda i primi Son Volt o i Wilco, quelli più melodici e avvolgenti, con un bel lavoro elettroacustico delle chitarre, oppure la deliziosa 17, una canzone dove qualcuno ha visto delle analogie con il miglior Bob Seger degli anni ’70, e quando entrano i fiati nel finale e una slide di nuovo a tagliare in due il brano, qualche elemento del Van Morrison californiano aggiungerei io, ebbene sì è così bella. Young As We Will Ever Be rimanda al jingle jangle del miglior Tom Petty, con le chitarre spiegate e un assolo alla Mike Campbell; groove e ambiente sonoro poi replicati anche nell’eccellente Baby’s Eyes che è più dalle parti di Wildflowers, con qualche tocco anche alla George Harrison, sempre bella comunque.

The Grand Charade è un’altra ballatona di quelle malinconiche e dolenti, brani come quelli che si trovano nei migliori dischi country dei cantanti californiani degli anni ’70, con un bel lavoro del piano di David Cohen. Non manca il R&R a tutte chitarre presente nei dischi precedenti e (This Ain’t) An Original Sin ne è un ottimo esempio, ritmo, grinta, sudore, coretti springsteeniani e riff a tutto spiano, per un brano da sentire a volume adeguato mentre viaggiate in automobile. Will Hoge veleggia per i 45 anni e tiene famiglia, ma ogni tanto gli scappa la ballata “amorosa” come la delicata Through Missing You, con un breve assolo di slide degno del miglior David Lindley. Per non dire della splendida Angels Wings una country ballad di quelle perfette nobilitata dal grande lavoro di Fats Kaplin alla pedal steel, brano che rimanda di nuovo alle canzoni più emozionanti del Bob Seger targato anni ’70 con una interpretazione vocale veramente ispirata di Will Hoge. Manca ancora la title-track Anchors (come avrete notato i brani non appaiono nella recensione nella sequenza del disco, ma in fondo chi se ne frega), un altro mid-tempo dall’andatura riflessiva e sobria, dove le chitarre acustiche ed elettriche costruiscono ancora una volta una sognante atmosfera sonora di grande impatto emotivo per l’ascoltatore, Per il sottoscritto, fino a questo punto, il disco è una delle più piacevoli sorprese del 2017. Peccato non averlo visto quando è venuto in Italia all’anteprima del Buscadero Day il 4 luglio scorso.

Bruno Conti

Un Omaggio A Jimmie Rodgers E Alla “Vecchia” Musica Country Delle Origini. Paul Burch – Meridian Rising

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Paul Burch – Meridian Rising – Plowboy Records 

Paul Burch è uno dei tanti musicisti che vivono ed operano nel “lato buono” di Nashville, quello lontano dal country-pop plastificato delle majors, e vicino alla musica delle radici, al country più genuino, alla buona musica insomma. Il nativo di Wahington, DC festeggia quest’anno venti anni di attività discografica, con una dozzina di album pubblicati a proprio nome. Da molti anni nei suoi dischi suonano i WPA Ballclub, un collettivo di musicisti ed amici che ricorrono anche in questo album, con un cenno di merito per Fats Kaplin, violino, chitarre, banjo, nonché l’ottimo Dennis Crouch, contrabbassista di grande gusto e tecnica,tra i musicisti preferiti di T-Bone Burnett, che lo usa spesso e volentieri nelle proprie produzioni. In questo Meridian Rising troviamo anche Jen Gunderman a piano e fisa, Tommy Perkinson e Justin Amaral, che si alternano alla batteria, e tra i tanti ospiti presenti nel disco, ricordiamo Richard Bennett alla chitarra, Jon Langford (Waco Brothers(, vocalist aggiunto, Tim O’Brien al bouzouki e Garry Tallent, bassista di quel gruppo di cui al momento mi sfugge il nome, nelle inconsuete vesti di suonatore di tuba.

Forse non abbiamo ancora detto che questo album è un tributo alla musica di Jimmie Rodgers, ma non attraverso la rivisitazione delle sue canzoni, come avevano fatto il compianto Merle Haggard con Same Train, A Different Time o Bob Dylan con il Songs Of Jimmie Rodgers, bensì attraverso una sorta di autobiografia fittizia costruita dallo stesso Paul Burch, che immagina di raccontare attraverso una serie di canzoni scritte per l’occasione, la vita e la musica di colui che è stato definito di volta in volta, “The Father Of Country Music”, “Singing Brakeman”, “The Blue Yodeler”, “Yodeling Cowboy”, inserendo anche nei brani elementi di western swing, blues, folk, jazz e musica tradizionale in generale, quello che si sentiva in quell’epoca, durante  una vita, breve ma intensa, durata solo dal 1897 al 1933. Il risultato di questo album mi ha ricordato in parte quei dischi anni ’70 di David Bromberg, album in cui questi generi venivano frullati in una sorta di composito che brillava per la capacità, l’ironia, il gusto per l’old fashioned che si sprigionava da quei solchi. Mi sembra che pure Paul Burch, con il suo stile laconico ma espansivo, pieno di affetto per la musica che rivisita, in modo rigoroso ma anche divertente, abbia centrato l’obiettivo che si era proposto, ovvero trasportare quella musica e quelle melodie nel 21° secolo, senza essere troppo didascalico, ma un poco sì, perché l’insieme lo richiede: forse già sentito altre volte, ma quando è ben fatto si ascolta con piacere, sarà pure revivalismo, ma non è solo fine a sé stesso.

Burch, come si può rilevare dal suo sito http://www.paulburch.com/the-story-of-meridian-rising , ha fatto un accuratissimo lavoro di ricerca sulla vita di Rodgers, quindi la biografia in musica è assolutamente attendibile e i brani sono tutti molto gradevoli: dall’apertura con la piacevole Meridian, un brano attraversato dal clarinetto di Chloe Feoranzo, che potrebbe quasi uscire da un disco di Bix Beiderbecke, non fosse per la chiarezza cristallina del suono, perfettamente delineata da una produzione quasi filologica; Cadillacin’ è un boogie swing pianistico che racconta l’abitudine di Jimmie di girare gli States con la sua Cadillac per recarsi ai concerti da una città all’altra, mentre Us Rte 49 ci trasporta sulla Route 49 con un brano dove il blues, misto a ragtime, è il tema del pezzo. Non poteva mancare Baby Blue Yodel, un breve tuffo nello yodeling tipico di Rodgers, molto bella la delicata Black Lady Blues, ambientata in Louisiana e con il violino di Fats Kaplin, oltre al sax baritono di Cal Gray ed alla tuba di Tallent. Bromberg a parte, si potrebbero ricordare gli album di Pokey La Farge http://discoclub.myblog.it/2013/07/14/uno-strano-tipo-bravo-pero-5509769/  o di Meschiya Lake http://discoclub.myblog.it/2014/02/15/giovane-vecchia-meschiya-lake-the-little-big-horns-foolers-gold/ , altri revivalisti doc, oppure potrei citare Maria Muldaur e il suo folk country blues da jug band, anche se il sound è più complesso.

jimmie rodgers meridian

Ain’t That Water Lucky è più “scura” e malinconica, un country-blues lungo il Mississippi, con June che è uno dei vari brevi sketches strumentali che punteggiano la narrazione, ce ne sono altri cinque fino alla fine del disco, con il dixieland di Oh, Didn’t He Ramble che chiude la storia. Ma prima troviamo il viaggio in Europa di To Paris (with regrets) dove la fisarmonica di Kaplin, aggiunge ulteriori sapori retrò allo stile Reinhardt/Grappelli del brano, con Gunter Hotel Blues, che con le sue 12 battute classiche tiene fede al titolo, o la divertente The Girl I Sawed In Half, che racconta di quegli anni di feste paesane e circhi itineranti, in questo caso a tempo di deliziosa New Orleans music. O la denuncia sociale del valzerone country di Poor Don’t Vote e la divertente e soffusa diapositiva seppiata rappresentata in Back To The Honky Tonks, cantata in modo sornione da Paul Burch. Piacevole e diverso da molta musica in circolazione al momento.

Bruno Conti