Non Delude Neppure Questa Volta, Con Un Disco Acustico Disponibile Solo Per Il Download E In Vinile Colorato Limitato – Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids

anders osborne orpheus and the mermaids

Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids – 5th Ward Records Download/Streaming e Vinile Limitato Colorato

Credo che per tutti coloro che amano la buona musica, oltre che un piacere, sia quasi un dovere conoscere quella di Anders Osborne. Nativo di Uddevalla, Svezia, è ormai da moltissimo tempo cittadino di New Orleans, Louisiana, dove arriva dopo una infanzia ed una adolescenza passate ad ascoltare blues, jazz, e i grandi cantautori, da Dylan a Joni Mitchell, Ray Charles e Lowell George, Neil Young e Jackson Browne, ma anche il cowboy di Belfast, Van Morrison): quando arriva negli States, fine anni ‘80, inizio anni ‘90, dopo il giusto periodo di gavetta, tra tour e le prime pubblicazioni con la Rabadash, una etichetta locale di New Orleans, ha la fortuna di trovare un contratto discografico per la Okeh, e pubblica nel 1995 l’eccellente Which Way To Here, che ottiene un discreto riscontro di vendite, con l’utilizzo dei suoi brani anche in colonne sonore di film importanti, e ottimi giudizi dalla critica.

Da allora inizia la solita trafila degli artisti di culto: prima una serie di dischi per la Shanachie, poi uno per la M.C. Records e il successivo contratto per la Alligator, dove pubblica complessivamente quattro dischi che sfiorano il livello del capolavoro, l’ultimo Peace, con la bimba in copertina che mostra il dito medio. Ma siamo arrivati alla grande crisi dell’industria discografica e quindi bisogna passare al fai da te: album creati in proprio e distribuiti tramite la sua Back On Dumaine Records, sempre molto belli, magari un filo inferiori ai precedenti, sempre difficili da trovare, per quanto pubblicati anche in CD https://discoclub.myblog.it/2016/06/01/nuove-avventure-underground-lo-svedese-new-orleans-anders-osborne-spacedust-and-oceans-views/ , incluso Freedom And Stars, la collaborazione come NMO insieme ai fratelli Dickinson https://discoclub.myblog.it/2015/02/23/disco-bellissimo-peccato-esista-nmo-anders-osborne-north-mississippi-allstars-freedom-and-dreams/ .

L’ultimo capitolo, il suo 17°, questo Orpheus And The Mermaids, è un ulteriore passaggio: esce solo per il downlaod oppure in vinile colorato costosissimo. Ma la musica rimane sempre di una bellezza inalterata, Osborne è forse meno incazzoso verso il mondo di un tempo (forse il fatto di avere ritrovato la sobrietà, grazie ad una famiglia con due figli, aiuta) ma è comunque in grado di sfornare brani di grande qualità che citano spesso i suoi punti di riferimento ricordati all’inizio: l’iniziale Jacksonville To Wichita, con l’armonica aggiunta ad una acustica arpeggiata, sta al crocevia tra Dylan, Young e Morrison, un brano malinconico e tremendamente bello, con citazioni di Townes Van Zandt nel testo e una serenità invidiabile. La successiva Light Up The Sun ha una struttura sonora più complessa, ma si basa sempre sulla calda voce di Anders e sulla sua chitarra, di cui è un virtuoso anche in modalità acustica, ogni tanto la voce viene raddoppiata, ma l’impianto complessivo è minimale, non per questo meno affascinante, in queste reminiscenze sulla vita che passa nella propria famiglia e sui suoi demoni tenuti a bada https://www.youtube.com/watch?v=vIw3kZJQbvo . Last Days In The Keys è una affettuosa e commossa dedica a Neal Casal scomparso suicida due anni fa, anche attraverso le storie di altri amici e persone che ci hanno lasciato attraverso questo atto estremo e disperato, che non perdona i momenti di sconforto e debolezza, sempre con la chitarra acustica e l’armonica che sottolineano questo racconto in modo crudo ma partecipe.

Forced To ha una struttura più bluesy, sempre con quel tocco da cantautore raffinato che me lo fa avvicinare ad un altro Beautiful Loser come il bravissimo Grayson Capps https://discoclub.myblog.it/2020/09/01/una-sorta-di-antologia-rivisitata-per-celebrare-un-grande-cantautore-grayson-capps-south-front-street-a-retrospective-1977-2019/ , senza dimenticare il primo “Bobby Dylan” https://www.youtube.com/watch?v=A81xq-1pukI  . Pass On By, accompagnata da un bellissimo video dedicato a New Orleans, pubblicato il giorno di Natale, e che vi consiglio di cercare, nella quale Osborne si destreggia tra accordature “normali” e uso del bottleneck per una canzone che ricorda un altro dei suoi preferiti, quel Jackson Browne di cui attendiamo a breve il nuovo album (ora si parla di luglio). Welcome To The Earth, voce riverberata e chitarra incalzante è un altro ottimo esempio di questo folk ricercato che sembra essere la chiave del nuovo album, Dreamin’, ca va sans dire, è più sognante, con una armonica che rimanda a Elliott Murphy e il tessuto musicale a Paul Simon, comunque bellissima https://www.youtube.com/watch?v=mfrK267VNG0 , mentre Earthly Things, di nuovo con la voce raddoppiata, emana ancora una aura di grande serenità attraverso un complesso lavoro di due chitarre acustiche e la conclusiva Rainbows ci riporta di nuovo al primo Neil Young, per l’uso della armonica, sempre con accenni dell’amato Jackson. *NDB Se volete provare ad acquistarlo lo trovate qui https://anders-osborne.myshopify.com/collections/orpheus-and-the-mermaids ma costa un bel 35 dollari più la spedizione dagli USA.

Bruno Conti

Per Ora Solo Download E Streaming, Il CD Uscirà 14 Maggio! David Gray – Skellig

david gray skellig

David Gray – Skellig – Laugh A Minute Records

Nella seconda parte del 2020 appena concluso c’era stata una fioritura di uscite discografiche, materiale registrato durante la pandemia, sia nel corso dell’estate, come pure nei mesi precedenti, o addirittura appena prima della scoperta del Covid. E quindi le case discografiche si erano affrettate a pubblicarle, pur nella mancanza della possibilità di promuoverli con tour o apparizioni televisive. Questo in attesa che la situazione migliorasse: cosa che come stiamo vedendo non è ancora del tutto avvenuta. Per cui in questi primi mesi del 2021 dischi nuovi ne stanno uscendo abbastanza pochi, e parecchie di queste uscite avvengono prima soprattutto in download e streaming, con la pubblicazione delle versioni in CD e LP previste spesso per mesi dopo. Tra i tanti interessati da questa tendenza c’è anche David Gray, (artista inglese, diventato però quasi irlandese per adozione) che rilascia ora il nuovo Skellig per il dowload e streaming, mentre la versione in CD uscirà solo il 14 maggio: come vedete anche noi ci adattiamo a parlarne nel momento in cui vengono resi disponibili.

Gray ha ormai una discografia consistente, dieci album in studio: per il sottoscritto i migliori rimangono ancora i primi tre, A Century Ends, Flesh e Sell, Sell, Sell, anche se pure White Ladder, quello che ne ha decretato il successo globale, era un ottimo album. Poi nei successivi ha alternato lavori nei quali la componente folk, veniva arricchita, o depauperata, a seconda dei punti di vista, dall’utilizzo dell’elettronica, mai invadente, ma comunque presente. Il precedente Gold In A Brass Age era uno di questi, con Gray e il produttore Ben De Vries alle prese con tastiere e devices vari, che non hanno mai impedito di apprezzare la voce roca, vissuta, appassionata di David, cantautore inserito in quel filone della musica anglo-irlandese che discende da Van The Man, Nick Drake e altri musicisti di area folk e da alcuni cantautori americani, non derivativa (insomma, giusto un pochino) ma ispirata e correlata a queste coordinate sonore. Nel nuovo disco, l’undicesimo, il cui titolo Skellig viene da un piccolo scoglio vicino alle coste irlandesi, Gray è accompagnato da una pattuglia di musicisti irlandesi, Mossy Nolan, il collega David Kitt, Niamh Farrell and Robbie Malone, a piano, chitarre, basso, batteria, tastiere e voci sovrapposte, più la cellista classica britannica Caroline Dale.

Un disco tranquillo e sereno, dove certa rabbia e impeto di precedenti prove di Gray viene accantonato a favore di un approccio a tratti corale, come nell’iniziale title-track dove viene usato un coro di sei voci all’unisono che intonano melodie avvolgenti, sottolineate da una chitarra acustica arpeggiata à la Nick Drake, piano, organo e tastiere minimali, con risultati affascinanti. Dun Laoghaire, con la bella voce di David in primo piano, è un acquarello folk delizioso, solo per voce e chitarra, con gli altri vocalist che entrano nel finale; anche Accumulates privilegia questo ritorno al suono più raccolto dei primi album, con il cello della Dale a sottolineare la parte introduttiva, poi entra una batteria discreta ma incalzante che dà un certo vigore rock alla canzone https://www.youtube.com/watch?v=-Pj5pS-ud1U , e alla voce accorata del nostro. Heart And Soul potrebbe essere il manifesto dei capisaldi della propria musica, tra delicati palpiti e deliziose melodie amorose, mentre Laughing Gas è una bella ballata pianistica, appena “lavorata” a livello di suono, con lo struggente cello della Dale in evidenza.

La tenera False Gods è quasi consolatoria, Deep Water Swim, altra ballata solenne con Morrison, e il primo Springsteen, nel DNA, lascia poi spazio al lento ma inesorabile crescendo della lunga Spiral Arms e della bucolica Dares My Heart Be Free, con squarci quasi mistici delle campagne del Nord, con una voce femminile a contrappuntare quella di Gray. Molto bella anche House With No Walls, con il fingerpicking ad accompagnare la voce di David, che poi si lascia andare alle dolcezze non svenevoli di un’altra ballata pianistica come It Can’t Hurt More Than This, dove la voce di Gray ricorda molto quella del Bono più intimista https://www.youtube.com/watch?v=yt1QHkBExl8  e anche la conclusiva All That We Asked For ha questo empito di serenità conquistata a fatica attraverso una interpretazione struggente https://www.youtube.com/watch?v=nslKfgnv_PY . Un buon disco che dovrebbe piacere agli amanti della musica di un David Gray particolarmente ispirato.

Bruno Conti

Una Bella Sorpresa, Non Più Solo Per Pochi Intimi! Drift Mouth – Loveridge Is Burning

drift mouth loveridge is burning

Drift Mouth – Loveridge Is Burning – Wild Frontier CD

A volte le belle cose hanno origine quasi per caso. I Drift Mouth sono una creatura nata nel 2006 per iniziativa di Lou Poster, songwriter, cantante e chitarrista di Columbus, Ohio, che formò un gruppo con altri musicisti per registrare un album “privato” da regalare al padre che era andato in pensione dopo 37 anni passati a lavorare nelle miniere della West Virginia. Negli anni Poster ha tenuto vivo il gruppo con diversi cambiamenti al suo interno, ma solo nel 2016 a iniziato ad incidere in maniera professionale: prima un singolo, poi nel 2018 il primo album (Little Patch Of Sky) ed ora il secondo lavoro Loveridge Is Burning, che però è il primo ad avere una distribuzione più estesa. Dopo averlo ascoltato, posso affermare che Poster ha fatto bene a riprendere in mano il gruppo con continuità, in quanto ci troviamo di fronte a un ottimo lavoro di puro rock americano, una musica elettrica e chitarristica con elementi country e folk, suonata con grande energia dalla band e cantata da Lou con una bella voce profonda (ricorda vagamente quella di Chris LeDoux, che però era più country).

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Poster si rivela essere un autore di notevole spessore, e le canzoni vengono fuori benissimo grazie anche all’essenzialità del suono: infatti dopo tutti i cambiamenti i Drift Mouth sono ora un classico trio chitarra-basso-batteria, con la sezione ritmica nelle mani di Jess Kauffman (la cui seconda voce è una costante in tutto il disco) e David Murphy, mentre gli interventi esterni si limitano all’organo in un brano ed al violino in un altro. Un album di puro rock’n’roll quindi, prodotto dallo stesso Poster in maniera asciutta e diretta, che inizia ottimamente con Dare D’Evel & The Snake River Canyon, splendida canzone folk-rock elettrica dal ritmo cadenzato e melodia di prim’ordine, impreziosita dalle armonie vocali della Kauffman e da un refrain da applausi https://www.youtube.com/watch?v=Ib23oPqjDQM . The Ghost Of Paul Weaver è il rifacimento del singolo del 2016, un vibrante country & western con la chitarra in primo piano ed un approccio decisamente rock e ricco di pathos https://www.youtube.com/watch?v=GnLETTPf5EU ; ottima anche Iris, solida rock ballad sferzata dal vento che rimanda a LeDoux oltre che per la voce anche per il mood sonoro https://www.youtube.com/watch?v=0vxYb6qHZd8 .

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La title track è la prima delle canzoni scritte da Lou nel 2006 per il padre, una rock song di stampo classico con l’aggiunta di un organo sullo sfondo, un motivo rilassato ed il solito gran lavoro chitarristico, mentre Lifeguard e Tennessee Highway sono due deliziose ballate elettroacustiche alle quali serve poco per emozionare, bastano una bella melodia https://www.youtube.com/watch?v=RoDx9rsNavA , strumenti dosati al punto giusto ed una bella dose di feeling. The Book Of Allison è puro rock’n’roll, sanguigno e trascinante https://www.youtube.com/watch?v=7bCn8cVwH2s , ed ancora più aggressiva è Chase After Me Sheriff, un pezzo tra punk-rock e Link Wray, ritmo alto e chitarra più in tiro che mai; Myra ha un motivo classico di stampo quasi tradizionale (ricorda vagamente The Long Black Veil) che si contrappone ad una base strumentale elettrica e moderna, e prelude alla conclusiva Bad Song, acustica, intensa ed arricchita da un malinconico violino. I Drift Mouth, anche se nati per gioco (anzi, per un regalo) sono una bella realtà.

Marco Verdi

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Ora Anche In CD. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone

Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony/Warner CD

Lo scorso 10 luglio Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) rendendolo inizialmente disponibile solo come download, ma ora possiamo a tutti gli effetti parlare di “disco” in quanto è stato finalmente pubblicato anche su CD. Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (anche se comunque la Welch è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti). Il dubbio che Gillian soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto.

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A parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti dalla folksinger, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione, e se ne sono accorti anche ai recenti Grammy in quanto All The Good Times è stato premiato come miglior disco folk del 2020. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita https://www.youtube.com/watch?v=knr3G8HLITw , e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura https://www.youtube.com/watch?v=CcHo_BtAO0o .

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Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solita e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale pur con l’uso parco della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=W2j_P_m7_sM , e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos https://www.youtube.com/watch?v=Ay3gdEQlV70 , mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante https://www.youtube.com/watch?v=HYt4rRgx5OU ; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso. Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine) https://www.youtube.com/watch?v=hVKMw0owfEI .

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Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo, che ora possiamo goderci anche su CD.

Marco Verdi

Uno Straordinario Viaggio Musicale Nel Tempo. Tony Trischka – Shall We Hope

tony trischka shall we hope

Tony Trischka – Shall We Hope – Shefa

Annunciato da tempo, ecco finalmente il CD di Shall We Hope un progetto al quale Tony Trischka stava lavorando da più di 12 anni: quello che comunemente si definisce un concept album, incentrato sulle vicende della Civil War americana di due secoli fa, per il quale lo stesso Trischka ha composto, musica e parole, un ciclo di brani che, partendo dalla battaglia di Gettysburg del luglio 1863, e andando avanti e indietro nel tempo, per esempio la foto di un ritrovo di veterani in occasione del 75° Anniversario dell’avvenimento nello studio del presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1938, in una sorta di fiction storica di fantasia ricostruisce le traversie di alcuni personaggi che avrebbero potuto partecipare a quelle vicende. Il nostro amico ha poi coinvolto diversi musicisti e attori per interpretare i personaggi di questo acquarello, utilizzando gli stilemi sonori del bluegrass, del country, della old time music, del gospel, in definitiva della musica popolare americana, anche del blues e qualche elemento orchestrale, per questo progetto che ha subito un drammatica accelerazione dopo gli eventi a Capitol Hill, in quel di Washington, dell’inizio di gennaio del 2021, che si sono intrecciati proprio con le tematiche della Guerra Civile.

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Trischka, molto succintamente, è una sorta di leggenda del bluegrass americano, una carriera che discograficamente inizia 50 anni fa quando Tony pubblica il primo disco con i Country Cooking, ma già in precedenza era considerato uno dei banjoisti più influenti delle nuove generazioni con i Down City Ramblers, tra gli eredi dei nomi storici del bluegrass, influenzato dai grandi dello strumento, da Earl Scruggs in giù, ma soprattutto dal Kingston Trio e a sua volta una influenza su Bela Fleck, con compagni di avventura come Richard Greene, David Grisman, Kenny Kosek, Andy Statman e via dicendo. Il nostro amico è stato molto prolifico negli anni ‘70, ‘80 e ‘90, e nella prima decade degli anni 2000, poi ha rallentato l’attività, ma ha comunque realizzato, sempre per la Rounder, sua etichetta storica, un album come Great Big World nel 2014, ricco di ospiti e tra i migliori della decade scorsa, mentre già lavorava a questo nuovo progetto, dove, come detto, ha coinvolto molti “amici”. Il risultato è un disco dove il bluegrass non è forse preminente come uno potrebbe pensare, benché il banjo di Trischka sia abbastanza presente nei brani che attraverso diversi intrecci, raccontano le storie di amore, morte, guerra, dissidi, schiavismo, che portano alla battaglia di Gettysburg, raffigurata nella copertina dell’album.

michael daves

michael daves

Con i protagonisti che si alternano al proscenio nei 18 brani, attraverso le figure dei vari artisti che li impersonano, con una scelta di stili musicali impiegati quantomai eclettica: nel breve preludio Clouds Of War, tra rumori di battaglia, l’attore John Lithgow recita alcuni versi con una orchestra sullo sfondo, il primo brano, This Favored Land, ambientato nel cimitero di Gettysburg nel 1938, con il banjo protagonista, assieme a mandolino e violino, con Phoebe Hunt che è la voce solista nella canzone, saltando altri interludi ricorrenti nella narrazione https://www.youtube.com/watch?v=Jvm70KIqYds , On The Mississippi (Gambler’s Song), una mossa ed intricata bluegrass tune che ci introduce al personaggio di Cyrus, un soldato, la cui storia d’amore con Maura è il trait d’union della vicenda, interpretato dall’ottimo Michael Daves, voce squillante e chitarra, uno dei musicisti più interessanti della nuova scena acustica americana https://www.youtube.com/watch?v=k5DHQlqUdUg , Maura, manco a farlo apposta è interpretata dalla bravissima Maura O’Connell, irlandese, ma da anni trasferita a Nashville, che purtroppo nel 2013 ha annunciato il suo ritiro dalla carriera solista, ma che ogni tanto ci regala la sua splendida voce, come nella superba ed evocativa ballata Carry Me Over The Sea dove il bluegrass si intreccia con la musica celtica https://www.youtube.com/watch?v=lZcC0w5Za4E .

maura o'connell

maura o’connell

La successiva The General, cantata ancora da Daves, racconta la storia della famosa locomotiva impiegata durante la guerra, altro limpido esempio del bluegrass complesso impiegato nell’album https://www.youtube.com/watch?v=SgsHrY80lS0 , I Know Moon-Rise, cantata dalla brava Catherine Russell, è un gospel a cappella con coro, che narra la sepoltura di una schiava morta durante il conflitto e il cui corpo torna in Africa https://www.youtube.com/watch?v=GOYSSisH27I . Leaving This Lonesome Land è cantata con pathos dal grande bluesman Guy Davis, anche all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=QcFfW52gddQ , che poi legge la lettera all’amata inviata da John Boston, uno schiavo scampato alla guerra, ma non si è mai saputo se riuscì a ricongiungersi con la moglie, mentre Gotta Get Myself Right Back To You conclude il segmento di brani cantati da Davis. A seguire troviamo Big Round Top March/Drummer Boys un brano fiatistico ed eccentrico scritto da Van Dyke Parks, e dedicato ai tamburini impiegati nel conflitto, con la seconda parte, quella che annuncia l’arrivo della battaglia cantata da Brian O’Donovan, il papà di Aoife, e sembra quasi un pezzo dei Pogues https://www.youtube.com/watch?v=c_20ALj5N2I .

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Torna Daves per Christmas Cheer (This Weary Year), una deliziosa ballata folk, sempre con violino, mandolino e il banjo guizzante di Trischka https://www.youtube.com/watch?v=XYn0zQddryo , e poi si unisce a Maura O’Connell nella bellissima e struggente Dearest Friend And Only Lover che racconta l’incontro dei due amanti, brano orchestrale accompagnato da una sezione archi https://www.youtube.com/watch?v=1zQT_p6PAQc , e ancora la breve Soldier’s Song cantata a cappella dai Violent Femmes, un altro breve interludio narrato da Lithgow relativo a John Boston, e infine i due brani che concludono la vicenda, entrambi cantanti da Michael Davis, la sospesa e sognante Clouds Still Drift Across The Sky, ricca di archi e la mossa Captain, Oh My Captain, ancora dai chiari contorni sonori bluegrass ,con il banjo di Tony in evidenza e anche gli ottimi Dominick Leslie al mandolino e Brittany Haas al violino, eccellenti in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=bCh0hxQygqk , che termina con il postludio F.D.R, In Gettysburg, 1938, che è il discorso di Roosevelt letto da John Litghow. Veramente un disco mirabile realizzato in modo perfetto.

Bruno Conti

Tra Irlanda E Appalachi…Ma Dal Canada! The Dead South – Served Live

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The Dead South – Served Live – Six Shooter/Universal Canada 2CD

Dopo un EP e tre acclamati dischi in studio (l’ultimo dei quali, Sugar & Joy, risalente al 2019) anche i Dead South sono giunti all’appuntamento con quello che negli anni settanta era un must: il doppio album dal vivo. Canadesi della regione del Saskatchewan (la stessa di Colter Wall), i DS non sono un gruppo che suona musica cantautorale tipica della nazione del Nord America alla quale appartiene, ma in realtà sono una bluegrass band moderna con elementi folk ed anche rock, una notevole perizia strumentale ed un senso del ritmo non comune nonostante l’assenza di una sezione ritmica. I quattro (Nathaniel Hilts, voce solista, chitarra e mandolino, Scott Pringle, mandolino, chitarra e voce, Danny Kenyon, cello e voce, Colton Crawford, banjo e voce – con Kenyon che dallo scorso agosto ha lasciato il gruppo in quanto oggetto di una serie di accuse di molestie sessuali) sono stati paragonati come stile agli Old Crow Medicine Show, ma io vedo nel loro sound anche qualcosa dei Pogues, sia per le discendenze irlandesi di un paio di membri, sia per la foga con cui suonano ed anche per il timbro di voce parecchio arrochito di Hilts.

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Served Live è un doppio CD registrato a cavallo tra il 2019 ed il 2020 (appena prima che la pandemia decretasse lo stop ai concerti) in varie località di USA, Canada, Inghilterra ed Irlanda, 17 canzoni durante le quali i nostri mettono sul piatto tutta la loro bravura e la capacità di improvvisare jam strumentali con un’attitudine da rock band. Il palco è chiaramente la loro dimensione ideale, e ciò viene fuori alla grande nei due brani centrali del doppio, i sette minuti di Broken Cowboy, bellissima ballad cadenzata dal motivo di base decisamente coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=mHiOjCuQzzA , ed i nove minuti e mezzo della superba Honey You, country-folk dal crescendo costante con una velocità di esecuzione impressionante, assoli a profusione ed una serie di stop & go che mandano in visibilio il pubblico https://www.youtube.com/watch?v=fa8BwgLBMUc .

Michael Skocay

Michael Skocay

Ma il disco è anche molto altro: Diamond Ring, che sembra un traditional folk dell’anteguerra, viene suonato ai mille all’ora e cantato con grande grinta, il puro bluegrass Blue Trash, con ottimi cambi di ritmo e melodia, la fulgida ballata Black Lung, tesa ma coinvolgente, la formidabile The Recap, tra western e Messico, la creativa Boots, che in pochi minuti si trasforma da bluegrass a folk a puro country, oppure lo strepitoso western tune Spaghetti, tra i pezzi più trascinanti del doppio https://www.youtube.com/watch?v=Lqk4tTTubtY . Senza dimenticare le forsennate e travolgenti The Bastard Son e Snake Man, suonate con un approccio da punk band, Heaven In A Wheelbarrow, delizioso ed orecchiabile country-grass, la divertente cowboy song In Hell I’ll Be In Good Company, fino al gran finale con le irresistibili Travellin’ Man e Banjo Odyssey, un titolo che è tutto un programma. I Dead South sono una bella realtà, e questo Served Live li consacra come uno degli acts più interessanti in ambito folk-bluegrass contemporaneo.

Marco Verdi

Breve Ma Intenso! Thom Chacon – Marigolds And Ghosts

thom chacon marigolds and ghosts

Thom Chacon – Marigold And Ghosts – Pie Records/Ird

Si avvicina la stagione delle calendule, e i fantasmi, anche quelli del passato, sono sempre di moda, quindi, forse un po’ a sorpresa, ma non troppo, esce il nuovo album di Tom Chacon, (ho scoperto omonimo di un calciatore uruguiano) appunto Marigolds And Ghosts: un disco da classico folksinger e songwiter quale è il nostro amico di Boulder, Colorado, ma nativo del Sud California, zona geografica che spesso e volentieri è protagonista delle sua canzoni, e dove è stato registrato il nuovo album, il quinto, compreso un raro live ad inizio carriera. Si dice nel titolo di un disco breve, ma intenso, nove canzoni per 27 minuti, un po’ come certi vecchi dischi di uno dei suoi eroi musicali, ovvero Bob Dylan, con il quale Thom ambirebbe a collaborare, e dal quale è sicuramente influenzato, oltre ad averne preso a prestito il bassista, Tony Garnier, impegnato al contrabbasso per l’occasione.

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Chacon, voce calda, profonda, ma anche rauca e vissuta, come detto poc’anzi, intensa, predilige la forma della ballata per i suoi brani: nel disco precedente, l’ottimo Blood In The Usa, c’era anche l’impiego della batteria, di un organo, Garnier pure al basso elettrico, il produttore è rimasto lo stesso anche nel CD attuale, ovvero Perry Margouleff, che firma pure un paio di brani con Thom, e ha deciso di optare per un suono più minimale, scarno, ridotto all’osso, una voce e una chitarra acustica, qualche molto occasionale sbuffo di armonica e la scansione ritmica del contrabbasso. Ma la musica arriva comunque, forte e chiara, grazie all’espressività di quella voce, sempre partecipe ed appassionata: la title track, solo con acustica arpeggiata e contrabbasso, racconta la storia del processo di disintossicazione di un amico di Chacon, durante la detenzione in prigione  https://www.youtube.com/watch?v=YLuoUDnNGWk, mentre la placida Monsoon Rain ci racconta la sua visione della vita in Colorado, terra di laghi e foreste, dove la vita scorre seguendo i ritmi della natura, Church Of The Great Outdoors, scritta con Margouleff, è una ennesima ballata dolente, tipica del suo repertorio, e racconta nuovamente dell’amore per la naura, visto attraverso gli occhi della madre.

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Florence John, con il dobro di Tyler Nuffer a fare da contrappunto è più ampia ed avvolgente, sempre con quell’immancabile aura tra folk e country quasi arcano che vive nella musica del nostro amico, che ovviamente non dimentica il suo impegno politico e sociale nella splendida Borderland, dedicata alle storie dei migranti sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, rispondendo per certi versi alla chiamata di Neil Young di non dimenticare questo problema, che si spera migliorerà, con l’avvento della amministrazione Biden, dopo gli anni sciagurati di Trump. Sorrow racconta nuovamente, in modo più personale, della vita dei suoi genitori, una canzone affettuosa che racconta storie di fede religiosa e dell’impatto che hanno avuto anche nella vicenda di Thom; A Better Life riprende il tema degli immigranti, con qualche piccolo accenno di speranza in una vicenda comunque sempre buia e tempestosa, con la musica che scorre fluida a sottolineare le parole, nel classico mood del perfetto songwriter, tratto che avvicina la sua musica a quella di Mary Gauthier, altra collega che Chacon ammira molto.

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Kenneth Avenue, di nuovo firmata con Margouleff, è una riflessione anche amara, ma appassionata sui suoi anni giovanili, della separazione dei suoi genitori, che a dispetto della loro fede cristiana, comunque divorziarono quando il nostro amico aveva 18 anni , segnandone forse la visione della vita. Per l’ultimo brano, la malinconica ed elegiaca Angel Eyes, fa la sua apparizione anche l’armonica che con poche note decise e vibranti arricchisce il tessuto sonoro di una canzone che penso probabilmente piacerebbe allo Springsteen più folk ed intimista e chiude in modo degno questo album profondo e personale.

Bruno Conti

Un Affettuoso Tributo Al Figlio Scomparso, Nonché Un Bellissimo Disco. Steve Earle & The Dukes – J.T. Esce In CD Il 19 Marzo

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Steve Earle & The Dukes – J.T. – New West Download – CD/LP 19/03/21

Quando la scorsa estate, nel mese di agosto, il giorno 21 si è diffusa la notizia della morte di Justin Townes Earle, non si può dire che siamo rimasti molto sorpresi, purtroppo: il figlio di Steve Earle aveva avuto una lunghissima storia con la dipendenza da droghe, già iniziata quando aveva dodici anni e continuata per moltissimi anni, come lui stesso aveva dichiarato, “Avevo scoperto presto che il mio modo di approcciarmi alle cose della vita mi avrebbe messo nei guai, ma ho continuato a farlo, perché ho continuato per lungo tempo a credere nel mito che per creare grande arte dovevo distruggere me stesso”. E con perversa pervicacia ha continuato a farlo, nonostante ben nove ricoveri in cliniche di riabilitazione ogni volta ci ricascava, a brevi periodi di sobrietà ne seguivano altri dove i suoi fantasmi riprendevano a perseguitarlo; neppure la nascita della figlia Etta St. James Earle nel 2017 è riuscita a salvarlo. Proprio ad un trust destinato a raccogliere fondi per permettere alla figlia di raggiungere un futuro più sereno saranno destinati i proventi di questo J.T., il disco che Steve Earle ha voluto registrare in memoria del figlio e delle sue canzoni.

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E’ sempre devastante e triste quanto un padre sopravvive al figlio, specie se proprio lui è stato il “modello” con il quale Justin Townes ha dovuto misurare la propria vita: e non deve essere stato facile registrare un terzo album dedicato alle canzoni di un musicista che non c’è più, dopo Townes del 2009, dedicato a Townes Van Zandt e Guy, uscito nel 2017, ed incentrato sulle canzoni di Guy Clark, ecco J.T., altro titolo breve ed affettuoso che rivisita il repertorio del figlio attraverso alcune delle sue canzoni. Con la sola eccezione della canzone Last Words, scritta dalla stesso Earle, una canzone dalla bellezza dolorosa, quasi devastante, non dissimile da tante altre del suo repertorio, ma che in questo contesto assume una forza ancora maggiore, grazie anche alla maestria dei Dukes che lo hanno accompagnato in questo disco, e in questo brano in particolare il dobro di Ricky Ray Jackson che sottolinea lo scarno accompagnamento di una chitarra acustica e del violino della bravissima Eleanor Whitmore, che insieme a Chris Masterson, chitarre e mandolino e Jeff Hill, basso e contrabbaso, e Brad Pemberton, batteria, sono sublimi in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=RR2XPOYqSZI , Steve la canta con voce scarna e ruvida, ancora più dolente del solito e che nel verso finale “I Love you too” è ancora più struggente.

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Justin Townes Earle forse, anzi sicuramente, non ha mai raggiunto i vertici del padre, ma nel corso dei suoi album ha scritto parecchie belle canzoni che Steve rivisita con orgoglio e classe nel suo stile: dall’honky-tonk dai profumi bluegrass della spensierata I Don’t Care, con la seconda voce della Whitmore https://www.youtube.com/watch?v=PzFAztmFYXQ , al country-blues con uso di pedal steel di Ain’t Glad I’m Leaving che rimanda ai suoi migliori dischi, passando per il country-rock ruspante ed elettrico della vibrante Maria.. E ancora la delicata e splendida ballata Far Way In Another Town, con la Whitmore che passa all’organo e Jackson alla pedal steel, oltre a Masterson alla solista, creano una superba atmosfera sudista, mentre They Killed John Henry è uno di quei brani narrativi dal sapore folk in cui Earle (già ma quale?) eccelle https://www.youtube.com/watch?v=1TGssyFJAuk . La quasi profetica Turn Out My Lights è un’altra ballata costruita sulla acustica arpeggiata, la solita steel e il violino straziante della Whitmore; la rabbiosa Lone Pine Hill si dibatte tra echi dylaniani grazie al guizzante violino e ritmi più incalzanti da perfetto outlaw country https://www.youtube.com/watch?v=fRsPjoIC8lI , in parte ribaditi anche nella scandita Champagne Corolla, che però vira verso atmosfere più bluesate, grazie alla elettrica pungente di Masterson e alla ritmica più scandita e cattiva https://www.youtube.com/watch?v=JLYKGOeTSWo .

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The Saint Of Lost Causes (bellissimo titolo) è giustamente considerata una delle canzoni più belle di Justin Townes, una versione dall’alto tasso di intensità che mi ha ricordato certe ballate feroci di Lucinda Williams, con atmosfere sospese e minacciose, sferzate dalle chitarre e dal violino e un cantato quasi febbrile e “incazzato” di Steve https://www.youtube.com/watch?v=xeqGCbo6pFo . E infine Harlem River Blues, tra country e folk con echi fortissimi della musica texana di Guy Clark, Jerry Jeff Walker e soci, ma anche l’amore per il folk-rock dello Steve Earle più ispirato https://www.youtube.com/watch?v=YaK9ZLqqHRI . Veramente un disco bellissimo e un tributo affettuoso a questo figlio scomparso.

Bruno Conti

Un Album Molto Bello…E Facciamo Finta Che Sia Anche Nuovo! John Wort Hannam – Love Lives On

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John Wort Hannam – Love Lives On – Rebeltone CD

Se non avevate mai sentito nominare John Wort Hannam state tranquilli, non siete i soli. Quando ho avuto in mano questo Love Lives On da recensire ho provato ad indagare online, e ho scoperto che trattasi di un ex insegnante canadese (originario dell’Alberta, ma nato in UK)) che nel 2001 ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione: la musica. Una scelta rischiosa quella di mollare un lavoro sicuro per una professione oggi purtroppo effimera se non hai l’appoggio di una major, ma Hannam è andato dritto per la sua strada, facendo sacrifici ma riuscendo a pubblicare ben sette CD da allora ad oggi, uno dei quali ha addirittura vinto un Canadian Folk Music Award come album dell’anno. Hannam è quindi uno dei segreti meglio custoditi in Canada, ed i suoi dischi non sono facilissimi da reperire: addirittura il lavoro di cui mi occupo oggi, Love Lives On appunto, è datato 2015, e nel frattempo il nostro ha pubblicato nel 2018 Acres Of Elbow Room (finanziato con il crowdfunding, distribuito in proprio e candidato ai Juno Awards, i Grammy canadesi)), che a tutt’oggi è il suo ultimo album https://www.youtube.com/watch?v=Ff9E5ERa6NU .

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Siccome però fino a ieri John era per me un totale sconosciuto, faccio finta che Love Lives On sia nuovo, e devo dire con mia gradita sorpresa che mi sono trovato di fronte ad un artista vero, un songwriter dalla penna sopraffina e decisamente bravo anche come performer. La scuola è quella classica canadese, un songwriting puro e classico di matrice folk, ma il nostro è anche capace di gradite incursioni nel country e nel rock, grazie anche ad una serie di sessionmen (non li nomino, tanto sono altre carneadi) di ottimo livello che cuciono intorno alla voce di John un ricco accompagnamento a base di chitarre acustiche ed elettriche, mandolino, dobro, steel guitar, violino, organo, pianoforte e fiati (oltre ovviamente alla sezione ritmica), un suono coinvolgente ben prodotto da Leeroy Stagger, che è anch’egli un cantautore canadese però maggiormente conosciuto rispetto a Hannam.

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L’album parte bene con Roll Roll Roll, una deliziosa folk song elettrificata con implicazioni tradizionali nella melodia, pochi strumenti, un tamburello a tenere il ritmo ed il violino a doppiare la voce del leader. La mossa Over The Moon è più elettrica, e possiede una melodia limpida che contrasta piacevolmente con una slide che macina riffs sullo sfondo (ed il refrain è di quelli vincenti), Labrador è una ballata fluida basata su voce, chitarra e poco altro, con una bella armonia vocale femminile ed un feeling non comune, a differenza della title track che è un godurioso country-rock chitarristico dalla melodia tersa e decisamente orecchiabile, un brano che ci fa capire che John è un cantautore completo e versatile https://www.youtube.com/watch?v=QgXkH5cn6Fc . Chasing The Song ha il passo lento ma un motivo di base profondo che si sviluppa su più livelli fino all’ingresso spettacolare ed inatteso di una sezione fiati che fa tanto The Band, mentre l’intensa Man Of God è puro folk cantautorale che, vista la terra d’origine del suo autore, paga il giusto tributo all’influenza di Bruce Cockburn, un songwriter del quale ci si dimentica sistematicamente quando si indicano i grandi del pentagramma.

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Gonna See My Love, tesa ed affilata, sta a metà tra folk e blues ed è dotata di un background sonoro che la rende una della più accattivanti del CD, ed ancora più bella è Write Me Back In, una country ballad elettroacustica dalla linea melodica splendida ed un sound molto californiano. Il disco si avvia al termine in deciso crescendo: Heart For Sale è vintage honky-tonk, un brano acustico ma dal ritmo coinvolgente e con un delizioso assolo pianistico da saloon, Molly & Me è un’altra bellissima ballata con organo e fiati che le danno un sapore sudista (e qui l’influenza del leggendario ex gruppo di Robbie Robertson è abbastanza evidente), e la conclusiva Good Nite Nova Scotia è un folk tune puro e cristallino. Quindi un dischetto bello ed inatteso questo Love Lives On, anche se non nuovissimo…ma d’altronde non abbiamo sempre detto che la buona musica è senza tempo?

Marco Verdi

Melodie Conturbanti Per Una Cantautrice Di Vaglia. Emily Barker – A Dark Murmuration Of Words

Emily Barker A Dark Murmuration Of Words

Emily Barker – A Dark Murmuration Of Words – Thirty Tigers CD

Emily Barker, singer-songwriter australiana, pur non essendo molto nota ha già un bel curriculum alle spalle, avendo esordito nel 2003 con la indie band The-Low-Country ed avendo in seguito pubblicato tre album da solista, altrettanti a capo dei Red Clay Halo, uno come membro dei Vena Portae, un altro come esponente del trio femminile Applewood Road e, nel 2019, il folk album A Window To Other Ways in duo con Marry Waterson (della mitica famiglia Waterson-Carthy, essendo figlia di Lal e nipote di Norma). Oggi la Barker torna tra noi con il quarto album a suo nome intitolato A Dark Murmuration Of Words, un lavoro che la vede una manciata di ottime canzoni in puro stile modern folk: Emily è infatti una cantautrice di stampo classico, influenzata sicuramente da Joni Mitchell, che ha la bravura di rendere piacevolmente fruibili le sue composizioni utilizzando in maniera intelligente la strumentazione, e rivestendo la sua voce di pochi orpelli ma al posto giusto.

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Parte del merito va certamente al produttore Greg Freeman, che ha saputo dosare in maniera perfetta i pochi accompagnatori (oltre alla stessa Barker, Lukas Drinkwater, chitarre e basso, Pete Roe, tastiere e chitarre, Rob Pemberton, batteria), usando anche qua e là synth e programming ma in modo assolutamente non invasivo e quasi impercettibile. Ovviamente però il centro del progetto sono le canzoni di Emily, veri e propri esempi di cantautorato adulto e di livello, eseguite con feeling e cantate in maniera cristallina. L’iniziale Return Me è un brano lento e gentile, suonato in punta di dita e caratterizzato dalla bella voce della leader: c’è tutto ciò che serve, chitarre elettriche ed acustiche, banjo e sezione ritmica, ma il tutto è dosato con estrema misura https://www.youtube.com/watch?v=KHpubziPrAs . Geography, pur mantenendo sonorità quasi eteree è più diretta e presenta una melodia di pura bellezza, intensa ed orecchiabile al tempo stesso; decisamente riuscita anche The Woman Who Planted Trees, pezzo di stampo elettroacustico con un bell’uso di pianoforte e percussioni ed un motivo di chiaro sapore folk https://www.youtube.com/watch?v=oUC4Mld8-UM , mentre Where Have The Sparrows Gone?, nonostante un arrangiamento leggermente più moderno, è ancora gradevole e ben fatta, con la voce circondata dal minimo indispensabile https://www.youtube.com/watch?v=sZYGsWpSnk8 .

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Strange Weather è un acquarello acustico delizioso e quasi beatlesiano (lato McCartneyhttps://www.youtube.com/watch?v=pakWFBmEcbQ , Machine vede Emily cantare con più decisione sopra un tappeto di percussioni e l’ausilio di un coro gospel ed una chitarra leggermente distorta (cocktail insolito ma riuscito), When Stars Cannot Be Found torna a suoni più tradizionali con voce, banjo, organo ed un ritmo più mosso del solito, quasi un brano di stampo pop ma di fattura squisita https://www.youtube.com/watch?v=xjjPapl-u40 . Finale con la suggestiva Ordinary, con interventi di viola e violino in una sorta di folk cameristico, la limpida ballata folk-rock Any More Goodbyes e la pianistica e toccante Sonogram. Dopo una carriera ormai quasi ventennale sarebbe d’uopo che in molti si accorgessero di Emily Barker, cantautrice di valore e con un’innata capacità di coniugare songwriting di qualità e melodie accessibili.

Marco Verdi