Nuovamente “Blues Delle Colline”: Questa Volta Acustico! Reed Turchi – Tallahatchie

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Reed Turchi – Tallahatchie – Appaloosa/Ird

Prosegue la saga di Reed Turchi, dopo gli album in studio e dal vivo con la sua band Turchi, il disco in duo Scrapyard (con Adriano Viterbini) e il disco solista elettrico, l’ottimo Speaking Tongues http://discoclub.myblog.it/2016/04/04/dal-boogie-blues-del-mississippi-agli-ardent-studios-memphis-reed-turchi-speaking-shadows/ , il musicista americano approda all’album acustico di blues, quindi un ritorno alle origini, al motivo per cui ha iniziato a fare musica, un disco di hill country blues, nudo e puro, solo voce, chitarra (spesso in modalità slide) e un repertorio pescato nella tradizione di alcuni grandi bluesmen classici. Per certi versi spinto a fare questo anche dalla dissoluzione della band che lo aveva accompagnato nell’ultimo tour e disco, i Caterwauls, e dalla morte della nonna, da sempre grande estimatrice della sua musica. Il CD prende il nome da quella zona dello stato del Mississippi dove si trovano le colline e scorre il fiume Tallahatchie, un luogo dove è nata la musica di R.L. Burnside, Otha Turner, Fred McDowell, ma anche la cittadina sul ponte della quale si svolgeva la storia immortalata nella famosa Ode To Billie Joe di Bobbie Gentry. La prima impressione all’ascolto ( e anche la seconda e la terza) è quella di sentire un disco di Robert Johnson, registrato in qualche stanza d’albergo negli anni ’30 dello scorso secolo, senza il fruscio delle registrazioni originali, ma con la presenza negli undici brani (quasi tutte cover rivisitate) dello stesso spirito minimale che pervadeva quella musica, crudo ed intenso. Pochi fronzoli e molta sostanza, un disco che non emoziona con la potenza di suono (che peraltro non eccitava il sottoscritto, chiamatemi un fan della seconda ora o di “riporto”) degli album elettrici, dalle sonorità volutamente distorte e cattive dei Turchi, ma con il fingerpicking o il lavoro al bottleeck di Reed Turchi qui impegnato a “minimalizzare” il suo blues.

Il disco è stato registrato a Murfreesboro nel Tennessee e contiene, come detto sopra, una serie di cover di celebri brani blues, anche se nel libretto interno sono attribuite a Reed Turchi. La traccia di apertura Let It Roll, è un pezzo, credo, di Reed, un brano che ruota attorno ad un semplice giro di chitarra, anche in modalità slide naturalmente, la voce sofferente e trattenuta,  quasi narcotica, pescata dalle radici del blues più “antico”, un leggero battito di piede a segnare il tempo e poco altro, musica che richiede attenzione e che potrebbe risultare ostica all’ascoltatore occasionale. Poor Black Mattie ha un drive più incalzante, un ritmo ondeggiante che ci riporta allo stile del suo inventore, quel Robert Lee Burnside che giustamente i musicisti di quella zona (dai North Mississippi AllStars allo stesso Reed), considerano uno dei loro maestri, uno stile ipnotico e ripetitivo, quasi ossessivo, che poco concede alla melodia; anche la successiva Like A Bird Without A Feather (che giustamente nel titolo, come usa nel blues, perde il Just iniziale dell’originale) è un altro brano di Burnside, contenuto nella colonna sonora di  Black Snake Moan, il film con Samuel L. Jackson,  e sempre per la proprietà transitiva ed incerta delle canzoni pescate dal repertorio del blues del Delta risultava essere scritta dall’attore, un secondo pezzo senza uso della slide, con poco cantato e il lavoro sottile ma efficace dell’acustica di Turchi. Per completare il primo trittico delle hill country songs di Burnside arriva anche Long Haired Doney, quasi atonale nel cantato del biondo (rosso?) Reed, che aggiunge qualche tratto percussivo all’intreccio ossessivo e ripetuto del riff della chitarra acustica, sempre per la teoria del less is more.

Una slide che parte subito per la tangente annuncia l’arrivo di Write A Few Lines, un brano dal repertorio di Mississippi Fred McDowell, una canzone dove sembra quasi di ascoltare i Led Zeppelin acustici del terzo album, per l’atmosfera sonora che rimanda ai Page/Plant più “rigorosi”, e anche loro spesso diventavano “autori” di brani altrui, la versione bianca di una musica che nasce dai neri, ma può essere suonata benissimo anche da dei signori più pallidi, come la storia ha ampiamente dimostrato. Ne sanno qualcosa quegli Stones che hanno fatto del pezzo successivo uno dei loro cavalli di battaglia, stiamo parlando di You Got To Move, altro capolavoro di McDowell, una delle canzoni che rappresenta la vera essenza di questa musica, e che Turchi nella sua versione rende ancor più spoglia dell’originale. Jumper On The Line, di nuovo di Burnside,  un ritmo più movimentato (si fa per dire), ritorna a quel hill country blues basilare e quasi sussurrato in modo religioso dal musicista di Asheville, mi sembra di sentire, con le dovute proporzioni, anche echi del lavoro fatto da John Hammond nei suoi dischi acustici, caratterizzati da un fervore quasi filologico. Ulteriori composizione di R.L. Burnside, l’ipnotica Skinny Woman , che reitera questo approccio rigoroso e minimale, quasi spoglio, della rilettura del lavoro del bluesman nero, un ascoltatore, col tempo trasformatosi in performer e pure John Henry, un brano tradizionale di dubbia attribuzione, una canzone contro la guerra che molti associano al repertorio di Lead Belly, mantiene questo approccio, di nuovo con un riff ipnotico e circolare, suonato alla slide, che poi si stempera nella conclusiva Mississippi Bollweevil, un brano degli “amici” North Mississippi Allstars, che pur spogliato dalla foga della versione elettrica, mantiene il suo approccio grintoso, grazie ancora all’uso del bottleneck insinuante di Turchi. Un disco sicuramente non “facile”, per quanto di ottima qualità e fattura.

Bruno Conti

Eccone Un Altro Davvero Bravo! Parker Millsap – The Very Last Day

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Parker Millsap – The Very Last Day – Okra Homa/Thirty Tigers CD

Di dischi di alternative country, roots, Americana o come diavolo volete chiamare quella musica strettamente legata alle radici ne escono, tra ottimi, buoni e meno buoni, un’infinità durante l’anno, ed ogni tanto qualcuno realizza dei lavori talmente belli che vengono ricordati anche a distanza di tempo: ad esempio, nell’ultimo biennio le fatiche di Chris Stapleton, Nathaniel Rateliff, Thom Chacon, Jason Isbell ed Anderson East hanno davvero meritato un posto di primo piano nelle classifiche di gradimento di chiunque ami la vera musica. Lo stesso destino potrebbe essere riservato a Parker Millsap, giovane songwriter dell’Oklahoma con già due dischi alle spalle (il secondo dei quali, omonimo, nel 2014 aveva già fatto intravedere delle doti non comuni) https://www.youtube.com/watch?v=SwFbuOUxmNc , che con questo nuovo The Very Last Day ci consegna uno dei migliori album di questi primi quattro mesi del 2016, almeno per quanto riguarda il genere Americana. Millsap, oltre ad essere in possesso di una voce roca, potente e talvolta quasi stridula (ma non fastidiosa), è un talento molto particolare, in quanto, pur partendo da una base folk ed usando una strumentazione tradizionale, affronta le sue canzoni con una forza ed un impeto da vero rocker, inserendo spesso e volentieri all’interno dei brani delle melodie inusuali e mai banali o prevedibili, creando un cocktail sonoro molto stimolante e consegnandoci una manciata di canzoni (undici) che forse necessitano di più di un ascolto per essere apprezzate appieno, ma di sicuro poi farete fatica a togliere il CD dal lettore.

Una miscela di folk, country, rock e blues suonata, ripeto, con una forza non comune e con soluzioni melodiche spesso non abituali: l’esempio perfetto è l’opening track Hades Pleads, un folk-grass potente e pieno di ritmo, con la vocalità aggressiva del nostro a dominare in lungo e in largo, una vera esplosione di suoni anche se gli strumenti sono acustici. A produrre il disco è stato chiamato l’esperto Gary Paczosa (già con Kathy Mattea, Darden Smith e responsabile nel 2014 del bellissimo tributo a Jackson Browne, Looking Into You) e ad accompagnare Parker, che si occupa delle parti di chitarra, troviamo l’ottimo Daniel Foulks al violino, Michael Rose al basso, Patrick Ryan alla batteria e Tim Laver al piano. Già detto dell’iniziale Hades Pleads, che ci catapulta all’interno del disco quasi con uno schiaffo, troviamo a seguire la creativa Pining, un brano che, basato su una struttura folk, ha una melodia ed un andamento quasi errebi, con un ottimo intervento centrale di pianoforte. Già da questi due pezzi capiamo che Millsap non ti dà quasi mai quello che ti aspetti, ma inserisce sempre qualcosa di personale all’interno dei brani. Morning Blues è sempre cantata con voce forte, ed è quasi una country ballad con il violino grande protagonista, ed i continui stop & go fanno sì che l’ascoltatore non si rilassi ma presti attenzione ad ogni singola nota; Heaven Sent si apre con un suggestivo arpeggio di chitarra ed una melodia che, almeno dalle prime note, ricorda The River di Springsteen, poi cambia direzione e diventa una ballata elettroacustica di notevole livello e con un ritornello al solito di grande forza ma nello stesso tempo immediato, direi una delle migliori del CD.

La title track ha uno sviluppo ritmico molto particolare ed abbastanza complesso e, anche se nel refrain il brano si fa più fluido, non è tra le mie preferite (e la vocalità debordante del nostro qui è un po’ fuori luogo); Hands Up è invece molto diretta, quasi rock’n’roll, un pezzo decisamente piacevole ed anche coinvolgente, mentre Jealous Sun è completamente acustica, voce e chitarra, con Parker che dimostra che anche da “tranquillo” sa toccare le corde giuste. Molto bella anche Wherever You Are, una ballata molto classica e con una splendida melodia dal tono epico e maestoso, un pezzo di bravura che ci fa vedere ancora una volta di che pasta è fatto il ragazzo; You Gotta Move è l’unica cover del disco (è un vecchio blues reso noto da Mississippi Fred McDowell ed inciso anche dai Rolling Stones nel mitico Sticky Fingers), ed è proposta in maniera sorprendentemente tradizionale, non molto diversa da come la facevano Jagger e soci: voce nel buio, un chitarra indolente, armonica bluesy e violino straziante, una rilettura di indubbio fascino. A Little Fire è l’ennesima perla, un brano di puro folk ancora eseguito in perfetta solitudine, mentre Tribulation Hymn conclude l’album con un piccolo capolavoro, una bellissima ballata folk-rock dal sapore vagamente irlandese e grande feeling interpretativo.

Avrete notato che non ho fatto neppure un paragone con artisti famosi ai quali Parker Millsap si può essere ispirato, ed infatti The Very Last Day, oltre ad essere un gran bel disco, è anche originale ed innovativo, e di questi tempi non è poco.

Marco Verdi