La Fantastica Epopea Di Un Gruppo Fondamentale. Robbie Robertson And The Band – Once Were Brothers

once were brothers dvd

Robbie Robertson And The Band – Once Were Brothers – Magnolia BluRay – DVD

E’ con colpevole ritardo (su sollecitazione del titolare del Blog) che mi occupo di Once Were Brothers, splendido docu-film dedicato a The Band e narrato in prima persona da Robbie Robertson: dopo essere stato per breve tempo nei cinema, lo scorso anno è uscito in DVD e BluRay, ed il sottoscritto aveva aspettato ad accaparrarselo confidando in una edizione che comprendesse anche i sottotitoli in italiano, cosa che però non si è mai verificata. La recente ristampa deluxe di Stage Fright ha però riacceso in me l’interesse nel progetto, e devo dire che, vista la qualità del film, non so che cosa stessi attendendo! Once Were Brothers (prodotto dai registi premi Oscar Martin Scorsese e Ron Howard e diretto da Daniel Roher) è infatti una magnifica testimonianza sull’epopea di uno dei gruppi più fondamentali ed influenti della nostra musica, attraverso le voci dei protagonisti e di musicisti che in un modo o nell’altro devono molto al suono del quintetto canadese, una miscela vincente di rock, soul, errebi, blues, folk e country che oggi chiamiamo Americana ma che nella seconda metà degli anni sessanta in pratica non esisteva https://www.youtube.com/watch?v=bu1ksBNTTdw .

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Credetemi, l’assenza dei sottotitoli dopo pochi minuti dall’inizio della visione non sarà più un problema, in quanto Robertson parla un inglese comprensibilissimo ed in più porge le frasi con molta lentezza, ed anche gli ospiti, a parte un paio di casi, evitano accuratamente di mangiarsi le parole (le due eccezioni sono Levon Helm e Ronnie Hawkins). Dicevo degli ospiti, una parte importantissima in quanto a parte Robbie che funge da leader (d’altronde è l’ideatore del progetto) troviamo le testimonianze dei suoi ex compagni, ovviamente d’archivio dato che tre quinti del gruppo non è più tra noi (Garth Hudson, l’unico ancora in vita a parte Robertson, non appare in video ma presta la voce per un breve commento), e per lo stesso motivo risalgono agli anni novanta gli interventi di George Harrison.

238 The Band, Robbie and Dominique Robertson, Woodstock, NY, 1968.

238 The Band, Robbie and Dominique Robertson, Woodstock, NY, 1968.

Ma non è finita, in quanto il fiore all’occhiello sono coloro che hanno scelto di apparire nel film con interviste ex novo, gente del calibro di Bruce Springsteen, Eric Clapton, Van Morrison (una rarità), Taj Mahal, Peter Gabriel, David Geffen, i già citati Hawkins e Scorsese, la bellissima moglie di Robbie Dominique Robertson ed il loro primo produttore John Simon, mentre la partecipazione di Bob Dylan strombazzata sulla locandina del film si riduce ad un breve intervento estrapolato dal “suo” docu-film No Direction Home (manca invece stranamente Elton John, un altro i cui primi album risentivano parecchio della lezione dei nostri) https://www.youtube.com/watch?v=gHWha9M1Llo . Il film inizia con Robertson in studio di registrazione a dare gli ultimi ritocchi alla canzone che intitola il film (uscita nel 2019 all’interno del non eccelso Sinematic), e subito parte il racconto della sua infanzia e di come giovanissimo fosse stato fulminato sulla via del rock’n’roll in particolare da Chuck Berry. Poi c’è il ricordo della sua prima chitarra e quello, ben più traumatico, di quando sua madre (nativa americana di origine Mohawk) lo prese da parte per rivelargli che suo marito, James Robertson, non era il suo padre biologico, che in realtà era un ex giocatore d’azzardo ebreo in odor di mafia chiamato Alexander Klegerman, oltretutto ex galeotto ed in seguito rimasto ucciso in uno strano e poco chiaro incidente.

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Poi si passa al racconto delle sue prime band giovanili, fino a quando non fu notato da Hawkins che lo prese come chitarrista nei suoi Hawks, dove legò subito con Levon Helm (a cui per tutta la sua carriera, e nonostante i problemi che sorgeranno dopo tra i due, Robbie guarderà con profonda venerazione) e si rivelò anche un precoce songwriter, scrivendo due brani per Ronnie all’età di 15 anni. Poi si arriva agli anni sessanta ed al rapporto che gli cambierà la vita: quello con Dylan, conosciuto tramite la comune amicizia con John Hammond Jr. (quindi il bluesman, non il padre talent-scout che tra l’altro di Bob fu lo scopritore). Dylan in quel periodo aveva deciso per la famosa svolta elettrica e stava cercando una band che partisse in tour con lui, e gli Hawks erano la scelta perfetta; ma non fu tutto rose e fiori, in quanto come è ben noto la nuova veste sonora di Bob non fu molto apprezzata dai fans della prima ora, e molti concerti finivano con il pubblico che contestava pesantemente la band sul palco. Questo fatto esasperò Helm al punto da costringerlo a lasciare i compagni nel bel mezzo del tour (fu rimpiazzato in fretta e furia da Mickey Jones), ma durante la parte europea della tournée, per la precisione a Parigi, Robbie conobbe anche la sua futura (e in seguito divorziata, ma sono rimasti vicini) moglie, che nel film ricorda come all’epoca non parlasse una sola parola d’inglese.

Garth Hudson (left), Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel and Rick Danko of The Band pose for a group portrait in London in June 1971.

Garth Hudson (left), Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel and Rick Danko of The Band pose for a group portrait in London in June 1971.

Il fulcro del film è però naturalmente la trasformazione del gruppo da The Hawks a The Band, con i nostri che andarono a vivere a Woodstock nella famosa casa rosa che comparirà sulla copertina del loro primo album. Da qui ebbe inizio una serie di sessions tenute insieme a Dylan, loro vicino di casa (i famosi Basement Tapes), con Robertson che prese sempre di più confidenza con il songwriting al punto da arrivare a pubblicare un album fantastico e che introdurrà un sound totalmente nuovo (Music From Big Pink appunto), tra l’altro con Helm che era tornato con grande felicità di tutti a far parte del gruppo. Bella in particolare la rievocazione di Robertson su come gli fossero venuti in mente i primi versi di The Weight, che diventerà il loro brano più famoso, mentre Clapton ribadisce un concetto da lui espresso già altre volte, e cioè che Big Pink gli ha cambiato la vita, convincendolo che al mondo non c’era solo il blues. Il racconto prosegue poi con il successo di critica e pubblico del secondo fantastico album The Band, la nascita della primogenita di Robbie, e le prime crepe che arriveranno durante la lavorazione di Stage Fright, con Helm, Rick Danko e Richard Manuel dediti all’uso di droghe che spesso inibivano la loro efficacia in studio e la loro concentrazione (oltre a far loro rischiare la vita in molteplici incidenti d’auto).

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Da qui in poi il film subisce una decisa accelerazione, come se si fosse scelto di finire a cento minuti totali mentre si poteva benissimo arrivare alle due ore (ed è il difetto principale della pellicola, che gli costa almeno mezza stelletta in meno): da qui in poi gli album rimanenti del gruppo non vengono neppure nominati, ma ci si limita a raccontare come, su sollecitazione di Geffen, Roberston e famiglia lasciarono Woodstock (che il noto discografico ed allora presidente della Asylum definisce uno “shithole”, e direi che non serve la traduzione) per trasferirsi a Malibu dove presero una casa sulla spiaggia, cercando di coinvolgere anche gli altri quattro membri della band che però reagirono con meno entusiasmo (ed infatti Hudson vive a Woodstock ancora oggi). Poi c’è un brevissimo accenno al fortunato tour americano del 1974 ancora con Dylan e subito si passa allo show d’addio del novembre 1976 al Winterland di San Francisco immortalato nel mitico film The Last Waltz.

robbie robertson levon helm

Nella parte finale Robertson si limita a rievocare i problemi che avrà dopo lo scioglimento del gruppo con Helm, il quale gli imputerà il mancato riconoscimento della co-scrittura di alcune canzoni ed il pagamento delle relative royalties: i due non si rivolgeranno più la parola fino alla morte di Levon, e Robertson esprime il suo rammarico per non aver potuto far pace con l’amico dal momento che quando lo andò a trovare sul letto di morte non era già più capace di intendere. E qui troviamo un altro piccolo difettuccio del film (inferiore però come importanza a quello della durata), e cioè il fatto che durante la narrazione sentiamo solo la campana di Robbie, cosa in fondo comprensibile dato che il progetto è il suo e chi avrebbe potuto smentirlo non è più comunque tra noi, ma che lascia comunque un sapore latente di agiografia. Ma sono comunque quisquilie: Once Were Brothers è un signor “rockumentario”, che racconta in maniera coinvolgente ed anche toccante la storia di uno dei gruppi più importanti si sempre. Da non perdere.

Marco Verdi

Una Splendida Celebrazione Di Un Grande Cantautore. Eric Andersen – Woodstock Under The Stars

eric andersen woodstock under the stars

Eric Andersen – Woodstock Under The Stars – Y&T 3CD

La storia della letteratura è piena di opere che narrano storie di personaggi il cui obiettivo ultimo è il ritorno a casa, dall’Odissea di Omero al Fu Mattia Pascal di Pirandello; anche un filosofo del calibro di Georg Friedrich von Hardenberg, più conosciuto come Novalis, scrisse una volta che “la filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque”, citando non a caso la parola “nostalgia” che deriva dalle parole greche “nostos”, ritorno a casa, e “algos”, dolore. L’album di cui mi occupo oggi nasce in parte anche da questa nostalgia di casa e dall’obiettivo, più o meno inconscio, del farvi ritorno. Durante la sua lunga carriera iniziata negli anni sessanta Eric Andersen ha girovagato parecchio, arrivando per un certo periodo a vivere anche in Olanda, e solo in tempi recenti è tornato ad abitare a Woodstock, un posto da lui giudicato magico e fonte di continua ispirazione, con un’atmosfera capace di favorire la palingenesi artistica di chiunque, nonostante la scena musicale odierna della cittadina che sorge nello stato di New York non sia ceramente paragonabile a quella della seconda metà dei sixties.

Andersen ha dunque pensato di omaggiare il suo luogo di residenza pubblicando questo splendido triplo CD intitolato Woodstock Under The Stars, contenente una lunga serie di brani registrati perlopiù dal vivo nel periodo dal 2001 al 2011 in vari locali appunto di Woodstock, con l’aggiunta di due tracce risalenti al 1991 che sono anche le uniche che provengono da un’altra location. Un triplo album bellissimo, che oltre ad omaggiare la famosa cittadina del titolo è anche un regalo ai fans del grande cantautore di Pittsburgh (regalo si fa per dire, dato che il costo si aggira sui 40 euro), in quanto il 98% del materiale incluso è assolutamente inedito pur riguardando canzoni già note del songbook di Eric. Se aggiungiamo il fatto che l’incisione è praticamente perfetta, che le performance sono contraddistinte da un feeling molto alto e che tra i musicisti coinvolti abbiamo Garth Hudson e Rick Danko della Band, John Sebastian (ex leader dei Lovin’ Spoonful), i fratelli Happy ed Artie Traum e l’ex Hooters Eric Bazilian (oltre al fatto che le canzoni tendono dal bello allo splendido), l’acquisto di Woodstock Under The Stars è praticamente obbligatorio. Il primo CD comprende brani incisi live tra il 2001, 2003, 2004 e 2006, quindici canzoni tra le quali non mancano classici del grande folksinger (Wind And Sand, Violets Of Dawn, Blue River) uniti a pezzi magari meno noti ma di uguale bellezza, come la strepitosa Rain Falls Down In Amsterdam, la toccante Sudden Love, il puro folk della fulgida Lie With Me, la splendida Belgian Bar e la dylaniana Salt On Your Skin, ballata di notevole intensità. Ma potrei tranquillamente citarle tutte.

Ci sono anche due brani incisi in studio: una raffinata e limpida versione aggiornata di Liza Light The Candle, originariamente del 1975, ed una cover del classico di Fred Neil The Dolphins, uno dei soli tre pezzi già pubblicati ufficialmente essendo uscito nel 2018 all’interno di un album tributo allo stesso Neil; come bonus abbiamo le altre due canzoni già uscite in passato (nell’album One More Shot), e cioè due straordinarie riletture di Blue River e Come Runnin’ Like A Friend con Andersen insieme a Danko e Jonas Fjeld, registrate live in Norvegia nel 1991. Il secondo e terzo dischetto presentano 21 canzoni provenienti da un concerto (ovviamente ancora a Woodstock) del 2011 mandato in webcast, con Eric accompagnato da una band che comprende i già citati Happy Traum (chitarra e banjo) e John Sebastian (armonica), Joe Flood (violino e mandolino) e la moglie Inge Andersen alle armonie vocali. Ci sono tre pezzi in cui non è Eric a cantare, ma rispettivamente Traum (Buckets Of Rain, di Bob Dylan), Flood (Niagara) ed Inge (Betrayal, canzone decisamente bella scritta da lei), il resto è tutta farina del suo sacco: non mancano ovviamente brani che erano presenti anche nel primo CD (ma chiaramente in versione diversa dato che provengono da un altro concerto), specie nel finale, ma molte altre canzoni di grande bellezza come Dance Of Love And Death, Singin’ Man, Mary I’m Comin’ Back Home (uno splendore), Woman She Was Gentle e le trascinanti Before Everything Changed e Close The Door Lightly, per concludere con una struggente rilettura del superclassico Thirsty Boots.

Woodstock Under The Stars è quindi un’opera praticamente irrinunciabile per gli estimatori di Eric Andersen e nondimeno allettante per chiunque abbia a cuore qualunque espressione di songwriting di classe.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 12. Quando Robbie Robertson Scriveva Grandi Canzoni…E Le Faceva Cantare Agli Altri! The Band – The Band 50th Anniversary

The Band The Band 50th anniversary edition

The Band – The Band 50th Anniversary – Capitol/Universal Deluxe 2CD – Super Deluxe 2CD/2LP/BluRay/45rpm Box Set

Il titolo del post odierno è volutamente riferito alla carriera solista di Robbie Robertson ed in particolare al suo recente album Sinematic, nel quale il songwriter canadese ha dimostrato di avere praticamente esaurito la sua vena artistica ed anche la poca voce che aveva https://discoclub.myblog.it/2019/10/01/non-e-un-brutto-disco-ma-nemmeno-bello-robbie-robertson-sinematic/ . Ma c’è stato un tempo, tra il 1968 ed il 1970, in cui Robbie era probabilmente il miglior autore di canzoni al mondo e non aveva bisogno di usare la sua non imperdibile voce per farle ascoltare in quanto era a capo di quel meraviglioso gruppo denominato The Band. Già noti nell’ambiente per aver suonato prima con Ronnie Hawkins e soprattutto con Bob Dylan nel famoso tour del 1966 quando ancora si chiamavano The Hawks, i nostri avevano esordito nel 1968 con il celeberrimo Music From Big Pink, un capolavoro in tutto e per tutto ed uno degli album più influenti negli anni a venire https://discoclub.myblog.it/2018/07/04/grandissimo-disco-ma-questa-edizione-super-deluxe-piu-che-essere-inutile-sfiora-la-truffa-the-band-music-from-big-pink-in-uscita-il-31-agosto/ , capace di colpire a tal punto un giovane Eric Clapton da convincerlo a mettere da parte il tanto amato rock-blues, lasciare i Cream ed iniziare la carriera solista. Dare seguito ad un capolavoro non è mai semplice, ma la Band con l’omonimo The Band del 1969 (detto anche The Brown Album per il colore della copertina) riuscì a fare addirittura meglio, mettendo a punto un lavoro che oggi è giustamente considerato come una pietra miliare del rock mondiale ed uno dei classici dischi da isola deserta.

Ai giorni nostri è quasi un’abitudine avere a che fare con album del genere cosiddetto Americana con all’interno brani che mescolano stili diversi, ma dobbiamo pensare che a fine anni sessanta un certo tipo di sonorità in pratica non esisteva, e la Band fu tra le prime e più importanti realtà a fondere con la massima naturalezza rock, country, folk, blues, errebi, soul, ragtime, bluegrass, gospel e chi più ne ha più ne metta, creando un suono “ibrido” che ancora oggi viene citato come ispirazione fondamentale da intere generazioni di musicisti. Anche i testi delle canzoni erano in aperto contrasto con quanto andava di moda allora (non dimentichiamo che eravamo nel pieno della Summer Of Love), trattando di argomenti poco “cool” come storie di frontiera, la guerra di secessione, i grandi luoghi geografici degli Stati Uniti, o anche della vita rurale di tutti i giorni nelle piccole realtà di provincia da parte di comunità con forti valori religiosi: lo stesso look del gruppo ricordava una piccola congrega di Amish dei primi del novecento. E poi ovviamente c’erano i membri del quintetto, tutti quanti musicisti di primissimo piano: Robertson oltre ad un grande autore era (è) anche un chitarrista coi fiocchi, i tre cantanti Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko, oltre ad essere capaci di splendide armonie erano anche validissimi polistrumentisti, mentre Garth Hudson è sempre stato una sorta di direttore musicale e leader silenzioso, abile com’era nel suonare qualsiasi cosa gli passasse davanti.

The Band (registrato a Los Angeles e co-prodotto da John Simon, quasi un sesto membro del gruppo) è quindi un album in cui si sfiora la perfezione come raramente è successo altrove, ed è anche il primo lavoro dei nostri con solo materiale originale: se Music From Big Pink aveva come brano portante un capolavoro come The Weight, qui troviamo altri due classici che non sono certo da meno, ovvero le straordinarie The Night They Drove Old Dixie Down e Up On Cripple Creek (entrambe cantate da Helm), due canzoni che la maggior parte degli artisti non scrive in un’intera carriera. Ma il disco è anche (molto) altro, come la saltellante apertura con il notevole errebi Across The Great Divide, il trascinante cajun-rock Rag Mama Rag, la ballata rurale in odore di ragtime When You Awake, la toccante soul ballad Whispering Pines, caratterizzata dalla voce vellutata di Manuel, il rock’n’roll da festa campestre Jemima Surrender. E ancora la folk song modello Grande Depressione Rockin’ Chair, il boogie alla Professor Longhair Look Out Cleveland, il rock-got-country-got soul Jawbone, la lenta e pianistica The Unfaithful Servant, un piccolo capolavoro di equilibrio tra roots e dixieland, e l’elettrica e funkeggiante King Harvest (Has Surely Come). Per il cinquantesimo anniversario di questo album fondamentale la Capitol lo ha ripubblicato con un nuovo mix di Bob Clearmountain ed il remastering a cura di Bob Ludwig, arricchendo il tutto con diverse bonus tracks interessanti.

Il cofanetto comprende due CD, due LP, un 45 giri con Rag Mama Rag e The Unfaithful Servant, un BluRay audio con le configurazioni in surround 5.1 ed in alta risoluzione del disco originale oltre al solito bel libro con un saggio del noto giornalista rock Anthony DeCurtis (niente parentela con il nostro Totò) e varie foto rare. Un’edizione molto migliore di quella dello scorso anno riferita a Music From Big Pink, che offriva ancora meno a livello di bonus della ristampa del 2000: mi sento però di affermare che è sufficiente la versione in doppio CD, dato che per un costo decisamente inferiore (è anche a prezzo speciale) avete esattamente gli stessi contenuti musicali del box. Nel primo dischetto oltre ovviamente alle dodici canzoni originali abbiamo sei bonus tracks inedite: si inizia con una prima versione di Up On Cripple Creek non molto diversa da quella pubblicata, due takes alternate di Rag Mama Rag, più lenta e countreggiante e col piano grande protagonista, e di The Unfaithful Servant, meno rifinita ma già bellissima. Seguono due interessanti mix strumentali di Look Out Cleveland ed ancora Up On Cripple Creek ed una eccellente Rockin’ Chair acustica con le voci all’unisono. Il secondo CD ripropone le sette tracce aggiunte nell’edizione del 2000, cioè l’ottima rock song Get Up Jake, una outtake che aveva tutti i requisiti per finire sull’album, due mix alternativi di Rag Mama Rag e The Night They Drove Old Dixie Down (il primo dei quali con una traccia vocale diversa), e quattro versioni differenti di Up On Cripple Creek, Whispering Pines, Jemima Surrender (questa anche più coinvolgente di quella pubblicata nel 1969) e King Harvest (Has Surely Come).

Ma la chicca del secondo CD è l’esibizione completa del quintetto durante il terzo giorno del Festival di Woodstock nell’Agosto dello stesso anno, uno show che non presentava alcun riferimento al loro secondo album che sarebbe uscito poco più di un mese dopo. Un vero must, anche perché in tutti questi anni non era mai trapelato nulla di ufficiale da questa performance, a meno che come il sottoscritto non possediate una delle 1969 copie del cofanetto di 38 CD Back To The Garden. A tal proposito, invece di ri-recensire il concerto della Band, ripropongo qui di seguito quanto scritto lo scorso Settembre nel mio post a puntate sul megabox: The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

Una ristampa quindi imperdibile di un album già leggendario di suo (e, come ho già scritto, potete accontentarvi del doppio CD): se dovessi stilare una Top 10 dei migliori dischi di tutti i tempi, i prescelti per tale classifica potrebbero variare nel tempo a seconda del mio stato d’animo o di altri fattori, ma credo che uno spazio per The Band lo troverei sempre.

Marco Verdi

Pronti…Via, Eccolo Di Nuovo, Sempre Ottima Musica! Peter Karp – Alabama Town

peter karp alabama town

Peter Karp  – Alabama Town – Rose Cottage Records

Avevamo parlato di lui proprio recentemente, in occasione della pubblicazione del disco dal vivo The Arson’s Match, che vedeva la partecipazione di Mick Taylor, un disco uscito circa un anno prima e contenente registrazioni effettuate al Bottom Line di New York nel lontano 2004, ma pubblicate solo di recente a scopo benefico per raccogliere fondi per la ricerca sul cancro alle ovaie, malattia di cui è morta la moglie di Karp nel 2009 http://discoclub.myblog.it/2016/12/22/lui-e-bravo-ma-la-differenza-la-fa-lospite-peter-karp-with-mick-taylor-the-arsons-match-live-in-nyc/ . Quindi non è una sorpresa se Peter Karp arriva con un nuovo album, questo Alabama Town, il suo ottavo disco di studio, in una carriera musicale ripresa alla fine degli anni ’90 dopo una lunga parentesi lavorativa nell’industria cinematografica. Karp è un ottimo musicista e cantante, come testimoniano, tra i tanti, anche i due CD registrati con Sue Foley, e ama circondarsi nei suoi album di musicisti di qualità: anche in questo occasione c’è l’immancabile Mick Taylor, ma pure Garth Hudson della Band a tastiere e fisa, Paul Carbonara, chitarrista con i Blondie nell’ultima parte di carriera, Todd Wolfe sempre alla chitarra, John Zarra al mandolino, e un altro frequente collaboratore come Dennis Gruenling all’armonica, oltre al figlio di Peter, James Otis Karp, sempre alla chitarra. Lo stesso Peter è un eccellente chitarrista slide con l’inseparabile chitarra con il corpo d’acciaio e se la cava anche al piano.

Il risultato è un album che spazia in tutti gli stili di quella che si è soliti definire “Americana”, a cui Mick Taylor, aggiunge un blues, accomunando l’amico Peter a Bob Dylan e James Taylor, con un “pizzico” di esagerazione. Karp, un nativo del New Jersey, ha vissuto a lungo a NY, ma ora risiede tra Tennessee ed Alabama, e quindi la musica inevitabilmente risente delle influenze sudiste acquisite: basta ascoltare la traccia iniziale, quella che dà il titolo all’album Alabama Town appunto, un eccellente brano Southern-rock dove la voce ispirata di Peter si appoggia su un tappeto di chitarre, soprattutto, ma anche organo e mandolino per trasportarci in un languido viaggio attraverso le pieghe della migliore musica americana, con la solista di Todd Wolfe in bella evidenza. ‘Til You Get Home, è un pezzo rock che accelera i ritmi, a tempo di boogie and roll, con il piano come strumento guida, e un’altra bella interpretazione vocale di Karp; That’s How I Like It è il primo pezzo blues, classico, cadenzato e con Gruenling all’armonica a dettare il tema delle 12 battute, ribadito di nuovo nel successivo shuffle swingante Blues In Mind, forse fin troppo scolastico, l’unico del disco Mentre I’m Not Giving Up è una delle classiche ballate dagli accenti soul uscite dalla penna di Karp, già apparsa nel Live e anche nel vecchio The Turning Point, ma si ascolta sempre con piacere, grazie alla presenza di un ispirato Mick Taylor che lavora di fino alla solista.

Her And My Blues, nonostante il titolo, è un’altra bella canzone che si impadronisce di caldi accenti sudisti e li sviscera in un lungo brano elettroacustico dove la slide, credo ancora di Taylor, si gusta in uno splendido intervento lungo tutto il brano. Nel country-blues The Prophet alla chitarra il figlio James Otis, per una canzone dagli accenti rurali, nuovamente con l’armonica in evidenza, con la successiva Kiss The Bride, cantata in duetto insieme a Leanne Westower, che grazie alla presenza insinuante del mandolino di Zarra inserisce piacevoli accenti country-folk. Nobody Really Knows è un altro brano dall’impianto blues, sotto forma di una bella ballata avvolgente e malinconica, con piano e chitarra sugli scudi e Lost Highway, ancora con il piano a guidare le operazioni, lentamente si trasforma in un bel brano ritmato, influenzato dal sound di New Orleans e assai godibile nella sua calda musicalità. Y’all Be Lookin’ è un altro cadenzato shuffle dove si apprezza la chitarra di Carbonara che non tradisce il suo passato con i Blondie, rivelandosi efficace bluesman; a conferma di un album dallo stile ampio e variegato è poi il turno di I Walk Alone un’altra bellissima canzone, una pura melodia folk dove l’acustica di Karp e la fisarmonica di Garth Hudson sono gli unici strumenti presenti, ma bastano e avanzano. In chiusura Beautiful Girl, un altro pezzo acustico, di nuovo un country-blues dove Peter Karp duetta in solitaria con l’armonica di Dennis Gruenling per un brano intenso e di sostanza che racconta di un amore perduto e che conclude in bellezza un ottimo album che cresce ascolto dopo ascolto, che ha il solo difetto di non essere facile da reperire e piuttosto costoso, come il precedente. Comunque consigliato.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Forse Il Tour Più Importante Di Sempre, E Per Una Volta A Prezzo Contenuto! Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings

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Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings – Sony 36CD Box Set

Direi che c’è abbastanza unanimità sul fatto che la tournée del 1966 di Bob Dylan, durante la quale si concretizzò il passaggio tra il folksinger dei primi anni ed il rocker del resto della carriera, sia stata una delle più importanti di tutti i tempi, se non la più importante. Per celebrare i 50 anni di quella serie di concerti, la Sony ha pubblicato questo sontuoso box di ben 36 CD, con all’interno tutte le registrazioni disponibili da quel tour (con alcune serate incomplete, ed in alcuni casi anche alcune canzoni): l’uscita non fa parte delle Bootleg Series dylaniane, ma resta un episodio a sé stante, con un occhio forse anche alla salvaguardia dei diritti d’autore sulle registrazioni, che scadono appunto dopo 50 anni: questa volta il box è anche offerto ad un prezzo accessibile, intorno ai cento/centoventi euro per 36 dischetti, forse anche per la confezione abbastanza spartana (c’è comunque un bel librettino con note del noto biografo Clinton Heylin – il quale ha appena pubblicato anche un libro a tema proprio su questo tour – ma niente a che vedere con i contenuti della Super Deluxe Edition di The Cutting Edge dello scorso anno, che però costava seicento dollari) o per il fatto che le scalette dei vari concerti sono (quasi) sempre le stesse.

In quel tour, Dylan usava presentarsi da solo con chitarra acustica ed armonica per la prima parte (sette canzoni), per poi essere raggiunto nella seconda metà (altri otto brani) da una band elettrica, che poi altri non erano che The Hawks, cioè la futura Band senza però Levon Helm (sostituito da Mickey Jones), quindi Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson. Ed il tour è passato alla storia anche per le contestazioni che Dylan era costretto a subire spesso quando passava al set elettrico, da parte di un manipolo di fans che non gli perdonavano la transizione da artista folk a rockstar, accusandolo in poche parole di essersi venduto (contestazioni che seguivano di un anno quella ormai leggendaria avvenuta al Festival di Newport, quando Bob salì sul palco con membri della Paul Butterfield Blues Band, tra cui Mike Bloomfiled, ed Al Kooper, scandalizzando i puristi): il culmine della protesta si ebbe nella famosa serata alla Free Trade Hall di Manchester (già pubblicata a parte come Bootleg Series Vol. 4, e presente comunque in questo box, con però come bonus una Just Like Tom Thumb’s Blues eseguita nel soundcheck), con il battibecco tra Dylan e tale Keith Butler, che gli urlò “Giuda!”, e Bob in risposta gli diede del bugiardo per poi ordinare alla band di suonare Like A Rolling Stone “fottutamente forte”. Tra l’altro, Bob aveva già all’attivo due dischi elettrici (la prima facciata di Bringing It All Back Home e tutto Highway 61 Revisited), e si era già esibito con una band in alcuni concerti americani dell’anno prima, quindi non si capisce del tutto l’astio di una parte del pubblico verso questo tipo di cambiamento.

bob dylan 1966live box

I dischi presenti nel box hanno tre diverse fonti di registrazione: la maggior parte proviene direttamente dal soundboard (cioè il mixer), ed è ottima anche se in mono, poi ci sono i concerti registrati dalla CBS in maniera professionale, in stereo (quello già citato di Manchester, i due di Londra alla Royal Albert Hall, e quello di Sheffield, ma di quest’ultimo stranamente solo la parte acustica, quella elettrica è soundboard), ed infine cinque CD di audience tapes, cioè registrati dal pubblico, messi alla fine del cofanetto e con una qualità da bootleg, presenti più che altro per il loro valore storico.

(NDM: per chi non vuole comunque sobbarcarsi la spesa dell’intero cofanetto, il 2 Dicembre uscirà in doppio CD – o doppio LP – The Real Royal Albert Hall Concert, che documenta la prima delle due serate a Londra, quella del 26 Maggio).

Dicevamo delle contestazioni, ma ascoltando attentamente il box si nota come Dylan non fosse criticato ovunque, ma soltanto in alcune date britanniche (anche se va detto che i concerti nel Regno Unito sono la grande maggioranza): i primi quattro CD, registrati a Sydney, Melbourne e Copenhagen, vedono infatti un Dylan accolto ottimamente dal pubblico (a parte un piccolo gruppetto, probabilmente organizzato, che a Sydney continua a chiedere  Hard Rain), e la performance di conseguenza ne esce più rilassata, con anche momenti ironici come l’introduzione parlata a Just Like Tom Thumb’s Blues (tra l’altro a Sydney troviamo una chicca assoluta, una rara versione dal vivo, nella parte elettrica, della splendida Positively 4th Street, un brano che non verrà più ripreso fino al tour con Tom Petty del 1986). Anche nei primi concerti in UK e Irlanda  la gente non è per nulla ostile, anzi applaude convinta anche la parte elettrica, come nel caso di Dublino, che comunque presenta uno dei migliori segmenti acustici di tutto il tour, con una Visions Of Johanna da antologia (suonata in anteprima come tutte le canzoni tratte da Blonde On Blonde, che uscirà nel pieno della tournée, il 16 Maggio, giorno dello show di Sheffield). Ad ogni modo Dylan mantiene sempre due atteggiamenti diversi a seconda del momento all’interno del concerto: rilassato, fluido e rigoroso nel canto durante la metà acustica, maggiormente teso e nervoso durante la parte rock, con le performance quasi sempre urlate nel microfono, e con una tensione crescente a seconda della risposta del pubblico, come se le contestazioni lo spingessero ad osare ancora di più (e sicuramente era così).

Riguardo alla scaletta, la parte acustica offre highlights assoluti come la già citata Visions Of Johanna e la lunga Desolation Row, ma anche una splendida It’s All Over Now, Baby Blue, oltre a pezzi “minori” ma impeccabili come She Belongs To Me e, in anteprima da Blonde Of Blonde (almeno fino a metà Maggio), la fluida 4th Time Around ed il futuro classico Just Like A Woman (forse l’unica che soffre leggermente l’assenza della band), per terminare con la sempre applauditissima Mr. Tambourine Man. La seconda parte, quella elettrica, rompe il ghiaccio con la roccata Tell Me, Momma, un brano inedito suonato solo in questo tour (non esiste neppure una versione di studio), una vera scossa per chi è abituato ad ascoltare il Dylan-menestrello, seguita da due arrangiamenti completamente stravolti delle originariamente acustiche I Don’t Believe You e Baby, Let Me Follow You Down, quest’ultima in una veste quasi rock’n’roll che suona fresca ancora oggi; dopo una solitamente rilassata Just Like Tom Thumb’s Blues, abbiamo il rock-blues chitarristico e trascinante di Leopard-Skin Pill-Box Hat e, dal periodo folk, la splendida One Too Many Mornings, bellissima anche in questa veste elettrica, con Danko alla seconda voce nel ritornello. Il finale è, in tutti i concerti del box, la parte saliente, con una grandissima Ballad Of A Thin Man, drammatica, intensa, pianistica, con Dylan che canta con grande forza, e la conclusiva Like A Rolling Stone, un pezzo che non ha bisogno di presentazioni, suonato sempre in maniera potente, con il muro del suono degli Hawks capace ogni volta di zittire anche i fischi.

La qualità delle performance è varia, ma non scende mai sotto il livello di guardia, al massimo ci sono serate in cui Bob sembra annoiato, quasi assonnato, anche se solo nella parte acustica (per esempio nei concerti di Belfast e Parigi, unica data nell’Europa “latina”, tra l’altro il giorno del suo 25° compleanno, il 24 Maggio), mentre ogni volta che attacca la spina sembra trasfigurarsi, forse spronato anche dalla presenza della band. Nelle serate di piena forma, invece, il concerto è un godimento dalla prima all’ultima canzone, cosa che già avevamo intuito nel 1998 con il live di Manchester (che rimane comunque uno dei migliori del tour), e giustifica in pieno la scelta di chi vuole accaparrarsi il cofanetto completo: Bob è infatti famoso da sempre per non suonare mai un brano due volte nello stesso modo, ed anche in questa tournée è bello notare le diverse sfumature nelle varie serate, e, ripeto, l’aumentare dell’intensità a seconda della forza della contestazione. Ma quindi, a parte Manchester, quali sono i concerti migliori? Sicuramente i due di Londra, con il secondo non di certo inferiore a quello pubblicato a parte (e dove la tensione tra Dylan ed il pubblico raggiunge livelli altissimi), ma anche Newcastle e Sheffield (che forse presenta la migliore parte acustica in assoluto del tour, eseguita con una precisione millimetrica): performance incendiarie, quasi feroci, con Dylan che riversa sul pubblico tutta la rabbia che ha in corpo e la band si dimostra già quel grande gruppo che da lì a due anni si farà conoscere con Music From Big Pink, con Robertson in particolare stato di grazia.

Ottima anche la serata di Cardiff, di cui è presente solo la parte elettrica, il primo concerto britannico con qualche contestazione, anche se tiepida (solo la sera prima, a Bristol, era filato tutto liscio, con la gente ben disposta e che rideva anche di gusto alle battute di Dylan, e tra l’altro in questo concerto c’è una Ballad Of A Thin Man da urlo); Glasgow è invece il punto più alto per quanto riguarda le proteste dei fans, subito seguita in questo da Liverpool (entrambi i concerti sono su un solo CD ciascuno, mancando tutti e due dei primi tre brani acustici), ma anche in questi due casi Dylan risponde con una prova splendida, di grande intensità emotiva. E poi c’è Parigi, all’Olympia, un concerto a lungo mitizzato, con Bob che ha grossi problemi nella prima parte ad accordare la chitarra (cosa che lo infastidisce parecchio), ma è assolutamente inarrivabile nella seconda, con il pubblico francese che, forse un po’ a sorpresa, applaude convinto dalla prima all’ultima canzone senza tracce di protesta. Infine abbiamo gli ultimi cinque CD, quelli con gli audience recordings, che si riferiscono a tre concerti americani di warm-up tenutisi a Febbraio (White Plains, Pittsburgh e Hampstead), più frammenti della prima serata a Melbourne e di quella a Stoccolma: la qualità è, per usare un eufemismo, non eccelsa, ed è un peccato perché le performance sono di buon livello, e nella parte acustica delle serate americane troviamo due splendide canzoni come Love Minus Zero/No Limit e To Ramona, in seguito eliminate dalla setlist.

Forse il box completo è un po’ troppo per il “non dylaniano”, ma c’è da tener presente che, come già successo un anno fa con The Cutting Edge, siamo catapultati nel bel mezzo della storia della musica contemporanea in una sorta di Ritorno Al Futuro rock: se il box dello scorso anno lo avevo paragonato a Leonardo Da Vinci che dipingeva la Gioconda, qui è come assistere ad una rappresentazione teatrale di William Shakespeare con i suoi Chamberlain’s Men.

Marco Verdi