Forse Non Un Capolavoro, Ma Neppure Un Brutto Disco. Brian Fallon – Local Honey

brian fallon local honey

Brian Fallon – Local Honey – Lesser Known Records/Thirty Tigers

Un titolo che ricorda vagamente quello di una delle più belle canzoni del primo Graham Parker, il terzo album solista di Brian Fallon (in pausa indefinita dalla sua creatura primaria, i Gaslight Anthem, e anche dagli Horrible Crowes, che dopo un ottimo album nel 2011 e un CD/DVD Live non hanno dato più segni di vita) Local Honey, come dico nel titolo del Post forse non è un capolavoro, ma, almeno per il sottoscritto, è un discreto disco : le recensioni sono state addirittura eccellenti per lo più, in qualche caso addirittura in modo esagerato, con pochi distinguo nel verso contrario, anche in questo caso forse sproporzionati alla effettiva valenza dei contenuti del CD. Fallon per l’occasione si è affidato al produttore Peter Katis (noto soprattutto per il suo lavoro con Interpol, Death Cab For Cutie e soprattutto National, con i quali ha vinto un Grammy), e nel disco ha utilizzato una serie di eccellenti musicisti, a partire da Ian Perkins a chitarra e basso, ex roadie dei Gaslight Antherm e pard di Brian negli Horrible Crowes, Kurt Leon alla batteria e Thomas Bartlett alle tastiere, collaboratore dei National.

Se devo fare un appunto al disco, che consta di otto canzoni, tutte scritte da Fallon, è che ogni tanto il suono è un po’ troppo “lavorato” dall’elettronica, benché nulla di irreparabile e soverchiamente fastidioso: avendo compiuto da poco i 40 anni, Brian non sembra più al momento il rocker intemerato dei tempi dei Gaslight Anthem, amante del corregionale Springsteen ma anche del punk rock, in questo album tenta la strada di un approccio più intimo e raccolto, che qualcuno ha avvicinato a quello di dischi come Time Out Of Mind di Dylan e Wrecking Ball di Emmylou Harris, o addirittura lo Springsteen di Nebraska e Ghost Of Tom Joad. Magari anche per il sottoscritto qualche richiamo c’è, ma poi in fondo il risultato è quello tipico dei dischi di Fallon, dove romanticismo e vulnerabilità sono stati sempre presenti, mediati dal suo tipico heartland rock: e così ecco scorrere la delicata, tenera e deliziosa When You’re Ready, dedicata ai figli, una ballata tenue e romantica, percorsa da una chitarra discreta ma efficace e descrittiva, che fa molto Boss in modalità padre di famiglia, 21 Days sul tema della dipendenza, con Kori Gardner alla seconda voce, con chitarre acustiche e piano in evidenza, pur se con qualche electronics di troppo che rimanda al suono massificato che impera al momento https://www.youtube.com/watch?v=wVBJqt6elVM .

Vincent è una sorta di inconsueta murder ballad, vista dal punto di vista del killer, anzi della “assassina”, che racconta la sua storia di soprusi, abusi e prone accettazioni, fino al finale tragico, il tutto vestito con un suono sobrio ed avvolgente, aderente al dramma narrato con partecipazione e il giusto pathos. I Don’t Mind (If I’m With You), brano che tratta delle pene d’amore, non mi convince molto dal lato tema sonoro, fin  troppo turgido e generico, dopo una buona partenza si perde in sonorità abbastanza banali https://www.youtube.com/watch?v=svaydGivlnY , meglio Lonely For You Only, che torna a quel blue collar rock tipico di Fallon, meno impetuoso e più meditabondo che in passato, però efficace https://www.youtube.com/watch?v=U18V7XTXIWY . Nella serie di alti e bassi, Horses avrebbe anche una bella melodia, ma nella scelta della veste sonora fa ancora capolino quel “modernismo” che ne diluisce l’efficacia e aumenta una certa banalità, Hard Feelings è quella più springsteeniana, un mid-tempo piacevole vicino al Bruce più maturo e introspettivo, comunque godibile e ben costruita https://www.youtube.com/watch?v=iy5SVyvQc9w . Nella conclusiva You Have Stolen My Heart, di nuovo sugli affanni amorosi, Fallon accenna persino degli arditi falsetti che si adattano comunque allo spirito romantico del brano, ancora una volta piacevole ma non memorabile https://www.youtube.com/watch?v=Zw2wNUZFI9o , che in fondo potrebbe anche essere una descrizione dell’intero album.

Bruno Conti

Un Gruppo Di Texani Anomali. The Vandoliers – Forever

vandoliers forever

Vandoliers – Forever – Bloodshot Records

Sono in sei, vengono dal Texas,  ma incidono per una etichetta di Chicago, la Bloodshot, e il disco è stato registrato in quel di Memphis. Forever è il terzo disco dei Vandoliers, band proveniente dall’area di Dallas/Forth Worth, e come molti gruppi sotto contratto con la Bloodshot il loro genere ha comunque strette parentele con lo stile alternative e punk frequentato da gruppi come gli Old 97’s, i Mekons, ma anche pescando nel passato, Jason And The Scorchers, oppure su lato più vicino al folk arrabbiato, i Dropkick Murphys. Il leader dei Vandoliers Joshua Fleming, ha anche raccontato di una recente passione per la musica country, e per Marty Stuart nello specifico, sviluppata durante un periodo di riabilitazione da un infezione alla vista, passata guardando lo show televisivo di quest’ultimo. Tutto questo quindi ci porta al fatidico cow-punk, termine abbastanza” inflazionato” che comprende influenze country, alternative rock, ovviamente punk, ma anche elementi di roots music e Americana, insomma un calderone dove confluisce un po’ di tutto.

In America hanno ricevute molte definizioni lusinghiere: dai Pogues americani, a un incrocio trai Calexico e Dropkick Murphys, ma anche Tex-Mex punk e via discorrendo. Ascoltando il loro disco tutto torna, queste influenze e rimandi naturalmente ci sono, aiutati da una formazione che affianca una sezione ritmica particolarmente grintosa ed un chitarrista diciamo energico come Dustin Fleming, che non è parente di Joshua, alla presenza di un violinista, Travis Curry e di un multistrumentista come Cory Graves, tastiere ma anche tromba, per cui tutte le suggestioni sonore poc’anzi ricordate ci sono,  per carità niente di straordinario, comunque si apprezzano almeno freschezza e vivacità confortanti per chi ama il genere. Joshua Fleming ha la classica voce vissuta e roca, temprata dal passato punk, mitigata da questa “nuova” commistione con stili meno roboanti: ecco allora il Red Dirt country energico dell’iniziale Miles And Miles, dove il violino guizzante di Curry si affianca alle chitarre ruvide e alla voce scartavetrata di Fleming, per un brano che potrebbe rimandare anche ai Gaslight Anthem https://www.youtube.com/watch?v=3eiTD0BkBbs. La galoppante Troublemaker, con il suo ritmo incalzante e la voce sgangherata ricorda appunto quasi dei Pogues  in trasferta sui confini messicani, con violino e tromba ad animare le influenze folk e tex-mex immerse in un punk barricadero. Trombe che imperversano anche in All In Black, altro brano energico, con una chitarra twangy a ricordarci i vecchi Jason And The Scorchers: insomma tutta roba già sentita, piacevole ma nulla più.

Fallen Again è nuovamente border music, non particolarmente innovativa ma con qualche spunto sonoro più interessante, a voler essere benevoli. Sixteen Years con trombe mariachi che si innestano su una base di rock americano blue collar, e con la voce urgente di Fleming e la chitarra dell’altro Fleming a menare le danze, è sempre gradevole, ma non travolgente; Shoshone Rose potrebbe ricordare un Popa Chubby (anche per il tipo di voce) convertito ad un roots-rock di stampo ’70’s e Bottom Dollar Baby vira verso un “countrabilly” più frenetico, di nuovo in bilico tra Messico e chitarre twangy. E non manca neppure una ballata “ruffiana” come Cigarettes And Rain, che comunque non dispiace, un pezzo di chiaro stampo southern, che però mi sembra sincero e partecipe, bella melodia corale e anche l’interpretazione dei due Fleming è efficace, con il violino che torna a farsi sentire; Nowhere Fast ci scaraventa di nuovo verso la frontiera con il Messico, anche se poi il sound vira verso un rock mainstream quasi radiofonico, se le emittenti FM contassero ancora. A chiudere arriva Tumbleweed, altra ballatona country-folk eletroacustica di impianto vagamente celtico, grazie al solito violino che interagisce con una chitarra elettrica più lirica del solito https://www.youtube.com/watch?v=LhLhC9TTgSc . Abbiamo già sentito tutto, ma essendoci in giro decisamente molto di peggio, diciamo sufficienza risicata con riserva.

Bruno Conti

Clonate “Il Soldato” Ryan ! Matthew Ryan – Hustle Up Starlings

matthew ryan hustle up starlings

Matthew Ryan – Hustle Up Starlings – Self Released

A distanza di vent’anni dal folgorante esordio con May Day, e a quasi tre dall’ultimo lavoro in studio Boxers http://discoclub.myblog.it/2014/10/16/carriera-ai-margini-certi-pugili-matthew-ryan-boxers/ , torna (un po’ a sorpresa) uno dei miei cantautori americani preferiti (di cui ho ampiamente scritto su queste pagine):  il buon Matthew Ryan, con questo ultimo lavoro Hustle Up Starlings, che, diciamolo subito è di difficile reperibilità e si può acquistare solo sul suo sito a cifre abbastanza alte. Quello che balza subito all’occhio, ma soprattutto all’orecchio, è che ci voleva uno come  Brian Fallon, frontman dei Gaslight Anthem e del side-project Horrible Crowes (recuperate assolutamente Else), musicista e anche produttore di questo disco, per far riscoprire a Matthew le sonorità dei primi album, con la sezione ritmica in primo piano, alcune ballate elettriche urbane di sicura presa, accompagnate da una voce roca, bella e profonda, con l’apporto dello stesso Fallon alle chitarre acustiche ed elettriche, Brian Bequette al basso e piano, Brad Pemberton alla batteria e percussioni, David Henry al violino e cello, e dal chitarrista Doug Lancio (John Hiatt e Jim Lauderdale), che ha curato anche il mixaggio: nuove canzoni distribuite in una quarantina di minuti di musica solida, in cui si avverte l’intesa che si è instaurata tra questi bravi e valenti musicisti.

Alcune tracce di Hustle Up Starlings sono così belle quasi da starci male, come l’iniziale (I Just Died) Like An Aviator, una ballata rock con una sezione ritmica pulsante, a cui fanno seguito un’altra ballata urbana di sicura presa come Battle Born, per poi passare all’avvolgente title track Hustle Up Starlings, lenta e rilassata, guidata dalla voce roca e personale di Matthew, e una “rokkata” Close Your Eyes, con una cascata di feedback. La malinconia e il sentimento tornano con un’altra ballata per pianoforte e voce come la crepuscolare Maybe I’ll Disappear, mentre la seguente It’s A Delicate Waltz è forse il brano più simile all’esordio solista di Fallon con gli Horrible Crowes (canzoni che purtroppo non riesce più ad incidere con i Gaslight Anthem); poi Ryan riesce a fotografare il momento migliore del disco con la meravigliosa Run Rabbit Run, una canzone che vale l’intera carriera di tanti mestieranti che ci sono in giro), altra ballata urbana tesa come una lama, una tra le più intense ascoltate in questo scorcio d’anno. Ci si avvia purtroppo alla fine con il ritornello ossessionante del singolo Bastard, (quel bastardo ha rovinato la mia auto), ma ci si commuove ancora con l’acustica e devastante melodia di All I Wanted, accompagnata dalle note del violino di David Henry, e la triste storia del brano di chiusura Summer Never Ends, raccontata con il piglio sicuro del grande “storyteller”.

Per un artista la cui carriera ha avuto inizio 20 anni fa, il percorso artistico di Matthew Ryan si è svolto in maniera non proprio lineare, vicenda che lo accomuna a tanti colleghi della canzone rock americana, categoria beautiful losers, in un mercato discografico che mal sopporta i cani sciolti (e Ryan è uno di questi),  lui ha talento da vendere, malgrado goda di una stima assai inferiore ai risultati e alle vendite dei suoi dischi, un tipo che si preoccupa solo di scrivere grandi canzoni. E in Hustle Up Starlings ce ne sono talmente tante, che spero sia la volta buona per convincere anche gli scettici, un ritorno a casa atteso e convincente,  grazie a Brian Fallon  in cui il suono riacquista elettricità, e le ballate continuano ad essere, come da copione, tremendamente malinconiche: un lavoro che per Ryan rappresenta forse uno spiraglio di luce, tornando a suonare con una band come “Dio comanda”,  e sperimentando anche arrangiamenti più moderni e attuali, il tutto al servizio della sua inguaribile vena di “loser”. Per il sottoscritto fin d’ora uno dei dischi dell’anno, e quindi per l’ennesima volta per nessun motivo al mondo rinuncerei ad ascoltare Matthew Ryan e la sua musica. Altamente consigliato (anche se, ripeto, soprattutto nella versione fisica, è molto costoso e di difficile reperibilità)!

Tino Montanari