Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Ora Anche In CD. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

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Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony/Warner CD

Lo scorso 10 luglio Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) rendendolo inizialmente disponibile solo come download, ma ora possiamo a tutti gli effetti parlare di “disco” in quanto è stato finalmente pubblicato anche su CD. Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (anche se comunque la Welch è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti). Il dubbio che Gillian soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto.

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A parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti dalla folksinger, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione, e se ne sono accorti anche ai recenti Grammy in quanto All The Good Times è stato premiato come miglior disco folk del 2020. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita https://www.youtube.com/watch?v=knr3G8HLITw , e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura https://www.youtube.com/watch?v=CcHo_BtAO0o .

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Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solita e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale pur con l’uso parco della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=W2j_P_m7_sM , e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos https://www.youtube.com/watch?v=Ay3gdEQlV70 , mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante https://www.youtube.com/watch?v=HYt4rRgx5OU ; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso. Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine) https://www.youtube.com/watch?v=hVKMw0owfEI .

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Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo, che ora possiamo goderci anche su CD.

Marco Verdi

Tornano “Quella” Voce E “Quelle” Canzoni, In Versione Country-Pop. Barry Gibb – Greenfields Vol. 1

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Barry Gibb – Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol. 1 – Capitol/Universal CD

I Bee Gees sono stati senza dubbio uno dei gruppi più popolari di sempre e tra i pochi, insieme a Beatles, Rolling Stones e ABBA, ad essere conosciuti anche da chi compra sì e no un disco all’anno. Personalmente sono un estimatore del loro primo periodo, diciamo dal 1966 al 1971/72, quando i tre (i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb) erano fautori di un pop decisamente piacevole, elegante e melodicamente delizioso, prima di edulcorare in maniera eccessiva la loro proposta negli anni successivi fino a diventare nella seconda parte della decade i profeti assoluti della discomusic vendendo dischi a palate, per poi gestire la parte finale di carriera con una serie di album di pop commerciale abbastanza prescindibili. Barry è oggi rimasto l’ultimo dei fratelli ancora in vita dopo la scomparsa di Maurice nel 2003 e di Robin nel 2012 (mentre Andy, il quarto fratello che però non aveva mai fatto parte del gruppo, è morto appena trentenne nel 1988), ed invece di godersi una dorata pensione ha deciso di rifarsi vivo un po’ a sorpresa con un nuovo album.

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Anche se non si direbbe, Barry è sempre stato un appassionato di country e bluegrass, ed è proprio con un disco di country che ha deciso di tornare: tutto è avvenuto quando suo figlio Stephen, anch’egli musicista, gli ha fatto ascoltare una canzone di Chris Stapleton, brano che a Gibb Sr. è piaciuto così tanto da voler contattare subito il produttore Dave Cobb. I due hanno avuto l’idea di recarsi presso i mitici RCA Studios di Nashville ad incidere vecchie canzoni del songbook dei Bee Gees con nuovi arrangiamenti di stampo country-Americana e soprattutto con l’aiuto di numerosi musicisti di gran nome che hanno accettato di buon grado di duettare con Barry. Il risultato è Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol 1, dodici rivisitazioni di canzoni decisamente famose, alcune meno note ed anche un brano inedito, ad opera di un Barry in buona forma ed ancora titolare di una bella voce e di una serie di partner di indubbio livello (ma Stapleton non c’è, anche se quel Vol. 1 nel titolo lascia presagire un seguito), il tutto con l’ormai affidabilissima regia di Cobb, che ha cercato di togliere ai classici del nostro quella patina di pop radiofonico donando loro un sapore più americano, riuscendoci però solo in parte dal momento che, probabilmente, Gibb non se l’è sentita di abbandonare del tutto certe dinamiche musicali tipiche sue.

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Greenfields è comunque un album molto piacevole e ben fatto in cui il tasso zuccherino si alza notevolmente solo in due o tre brani, dimostrando che spesso il problema coi Bee Gees non erano le canzoni ma la loro veste sonora (va però detto che il periodo “disco” qui si limita ad un paio di ballate, e la maggior parte dei pezzi proviene dai primi anni della band). Il CD inizia bene con la classica I’ve Gotta Get A Message To You in una versione decisamente bella, fluida e suonata alla grande, dove perfino uno come Keith Urban riesce a non fare danni ricordandosi di avere comunque una buona voce https://www.youtube.com/watch?v=1mocrPhJBSM . Words Of A Fool è un inedito degli anni ottanta, uno slow profondo ed intenso dalla melodia splendida e con un organo a dare un sapore quasi southern soul, con l’aggiunta della voce e chitarra di Jason Isbell ad alzare ulteriormente il livello https://www.youtube.com/watch?v=OiBXS7q4qqY ; Run To Me è una delle ballate più belle dei Bee Gees, e qui viene nobilitata dalla bellissima voce di Brandi Carlile (sempre più brava ogni anno che passa), mentre l’arrangiamento è pop ma di gran classe. Too Much Heaven viceversa non mi ha mai fatto impazzire, troppo sofisticata per i miei gusti https://www.youtube.com/watch?v=PMOtZNeXUyU , e questo duetto tra Barry ed Alison Krauss non mi fa cambiare idea nonostante la voce splendida della cantante-violinista, ed inoltre gli archi sono piuttosto pesanti.

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Meglio la poco nota Lonely Days, in cui Gibb è doppiato dalle voci dei Little Big Town, uno slow pianistico che nel ritornello aumenta di ritmo ed è potenziato da una vigorosa sezione fiati; la famosa Words vede il nostro accompagnato da Dolly Parton per una rilettura di buona intensità ed un arrangiamento elegante tra country e pop https://www.youtube.com/watch?v=GnJqrLALsOc , mentre nella funkeggiante Jive Talkin’ Barry è raggiunto dalla strana coppia formata da Miranda Lambert e Jay Buchanan (cantante del gruppo hard rock Rival Sons, amici e protetti di Cobb), ma il trio funziona abbastanza bene. How Deep Is Your Love la conoscono anche i sassi: versione riuscita e piacevole, con il ritorno dei Little Big Town alle armonie vocali ed il cameo alla chitarra acustica del grande Tommy Emmanuel; Sheryl Crow non manca mai in dischi di questo tipo, ma è brava e fa di tutto per migliorare How Can You Mend A Broken Heart che non è un grande brano ed il suono è fin troppo raffinato. Per contro To Love Somebody è un capolavoro, forse la miglior canzone dei Bee Gees (ricordo una splendida rilettura dei Flying Burrito Brothers), e rimane bellissima comunque la si faccia (per la cronaca qui Barry è ancora con Buchanan) https://www.youtube.com/watch?v=b_kEQ9r-zuw . Finale con due rarità: Rest Your Love On Me (era un lato B dei fratelli Gibb), una discreta ballata nella quale ritroviamo la rediviva Olivia Newton-John, e Butterfly che è la prima canzone in assoluto scritta da Barry, Robin e Maurice ed è riproposta in una bellissima versione elettroacustica cantata a tre voci con Gillian Welch e David Rawlings: se tutto Greenfields fosse stato a questo livello avrebbe meritato le fatidiche quattro stellette https://www.youtube.com/watch?v=I12Ng0fz2ak . Invece dobbiamo “accontentarci” di un comunque piacevole compromesso tra il suono roots di Cobb e l’anima easy listening di Gibb, che in ogni caso è la cosa migliore messa su disco dall’ex Bee Gees dai primi anni settanta in poi.

Marco Verdi

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Anche Se Per Il CD Bisognerà Aspettare. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

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Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony Records Download

Lo scorso 10 luglio, pochi giorni fa, la bravissima folksinger Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) e per ora disponibile solo come download, anche se i pre-ordini per la versione in CD e vinile sono già aperti (mentre la data di pubblicazione è ancora incerta, si parla di fine settembre-inizio ottobre). Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (benché comunque Gillian è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti https://discoclub.myblog.it/2017/08/22/altre-buone-notizie-da-nashville-david-rawlings-poor-davids-almanack/ ).

Il dubbio che la Welch soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto: a parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti da Gillian, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita, e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura.

Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solista e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale, pur con l’uso parco della strumentazione, e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos, mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso.

Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD (anzi, download…almeno per ora) in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine).

Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo quanto inatteso, anche se per gustarmelo meglio attendo l’uscita del supporto fisico.

Marco Verdi

Una Voce E Un Talento Genuini Per Una Esordiente Di “Lusso”! Kelly Hunt – Even The Sparrow

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Kelly Hunt – Even The Sparrow – Rare Bird Records

Da non confondere con la quasi omonima Kelley Hunt, la nostra amica Kelly viene da Memphis, ma rispetto ad altre artiste ha fatto il percorso inverso, andando a stabilirsi per incidere la propria musica in quel di Kansas City. Il suo stile è stato giustamente inquadrato tra la cosiddetta Americana music e il folk tradizionale: sono stati tracciati paragoni con Gillian Welch e Rhiannon Giddens, e ci stanno assolutamente, ma forse la Hunt è ancora più “rigorosa” nel proprio approccio alla musica, veramente scarno e minimale, per quanto sapido. Si tratta di una cantante in possesso di una voce decisamente calda e partecipe, con un bel timbro che potrebbe avvicinarla anche a certe icone femminili del folk britannico come (oso) June Tabor, Cara Dillon, tra le contemporanee e, qui esagero, la Sandy Denny più vicina al folk tradizionale. Mi rendo conto che si tratta di paragoni impegnativi, ma mi pare che il talento ci sia: armata solo di un vecchio banjo tenore, quasi un secolo fa di proprietà di un certo Ira Tamm, uno strumento anche questo dal suono caldo e morbido, quindi pari alla sua voce, e con l’aiuto di pochi musicisti dell’area del Missouri, Stas Heaney, che oltre a co-produrre il disco con lei, ha suonato violino, contrabbasso, organo e delle piccole percussioni,  cui si aggiunge Tyler Giles alla chitarra ed alla pedal steel, e poco altro.

La brava Kelly ha lavorato con questi musicisti per circa un paio di anni, componendo le dodici canzoni che si trovano in questo Even The Sparrow, realizzando un album che giustamente, in un ambito di musica molto di nicchia, sta comunque ottenendo degli ottimi riscontri di critica. Subito dall’iniziale Across The Great Divide, cantata con impeto e la sua bella voce profonda e risonante, si percepisce che questa musicista ha una appassionata e sincera conoscenza della materia che tratta, accompagnata solo dal banjo quasi fosse una chitarra acustica, Il suono ha un che di arcano e senza tempo, molto vicino alla grande musica dell’area scoto-irlandese, rivista però con quello spirito Appalachiano che condivide con la Welch e la Giddens, delicata ma molto coinvolgente, se amate il genere ovviamente. La title track aggiunge il violino quasi dolente di Heaney, la voce si fa più squillante, con quel retrogusto sonoro che ricorda la giovane Sandy Denny, grazie a note che si fanno più lunghe e con accenni di un qualche virtuosismo non fine a sé stesso; Back To Dixie ci trasporta nel Sud degli States, con un brano dal piglio brioso, energico e molto coinvolgente, con banjo, violino, chitarra acustica e contrabbasso che danno una profondità e una complessità sorprendente al risultato finale, veramente una bella canzone, cantata sempre con questa voce che affascina per la propria autorevolezza, nata da un talento naturale posto al servizio dell’ascoltatore non distratto.

Ancora Stati del Sud per una storia ambientata appena dopo l’epoca della Guerra Civile americana, Men Of Blue And Grey, ispirata dal lavoro di un fotografo e documentarista, ci trasporta in quegli anni lontani grazie al solito banjo e al violino che sostengono la voce splendida ed avvolgente della Hunt mentre ci racconta questa storia antica e senza tempo. Sunshine Long Overdue, un brano che se sostituite al banjo di Kelly una chitarra potrebbe ricordare nella sua dolce melancolia qualche pezzo di Nick Drake, e in cui spicca ancora l’ottimo lavoro del violino di Heaney, oppure Fingernail Moon, dall’atmosfera sospesa e una melodia che potrebbe rimandare al lavoro di qualche cantautrice tipo Natalie Merchant oppure la stessa Gillian Welch, grazie nuovamente all’impeccabile lavoro dell’onnipresente violino e al ritmo più vivace impresso dal contrabbasso dell’ottimo Chris De Victor. Delta Blues solo voce e percussioni ci trasporta in qualche campo di lavoro lungo le rive del Mississippi, mentre Bird Song, con i suoi quasi 5 minuti e il picking del banjo con il contrappunto del violino è più gioiosa e solare, grazie anche a delle belle armonie vocali che rendono  ancora più fascinosa questa specie di ninnananna incantevole.

Nothin’ On My Mind sembra un brano di quelli in cui Norah Jones eccelle, tra country, folk e canzone d’autore, cantata con voce svolazzante e dalle timbriche squisite. Oh Brother, Where Art Thou? non c’entra nulla con la colonna sonora del film dei fratelli Coen, ma i profumi che si respirano in questo pezzo sono proprio quelli, tra old time music, country, bluegrass e folk, con banjo, violino e chitarra acustica a rincorrersi gioiosamente sulle asperità delle Ozark Mountains, a cavallo tra Missouri, Arkansas e Oklahoma, nel cuore dell’America. How Long è un altro breve gioiellino folk, solo voce e banjo, con la conclusiva Gloryland, un’altra piccola perla dove il gospel più spirituale vive attraverso le armonie vocali di Havilah e Chris Bruders, l’organo vintage di Heaney e una ennesima interpretazione vocale da manuale di Kelly Hunt che si conferma una esordiente dal talento veramente dirompente e di cui mi permetto di consigliarvi caldamente questo eccellente disco.

Bruno Conti  

Altre Buone Notizie Da Nashville! David Rawlings – Poor David’s Almanack

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David Rawlings – Poor David’s Almanack – Acony Records CD

Un altro dei dischi migliori uscito in questo scorcio di estate, ricco di uscite discografiche di qualità, è sicuramente il nuovo album di David Rawlings Poor David’s Almanack. Anche questo viene dal “lato buono” di Nashville, che di per sé non è una città tra la più grandi degli States, ma se aggiungiamo l’area metropolitana intorno alla capitale del Tennessee, lo diventa. E ovviamente, nella Music City, c’è spazio sia per l’attuale e orribile country pop commerciale che ci propina l’industria discografica, quanto per una innumerevole serie di solisti e gruppi che sono in grado di regalarci ottima musica. Tra i portabandiera del filone country-bluegrass-folk- Appalachian- roots, per cercare di sintetizzare in un termine la musica che fanno, c’è sicuramente la coppia “artistica” formata da Gillian Welch David Rawlings, del tutto interscambiabili come titolari dei loro dischi, anche se negli ultimi anni escono più di frequente quelli a nome Rawlings: dopo i due come David Rawlings Machine, Friend Of A Friend del 2009 e Nashville Obsolete del 2015, inframmezzati dallo splendido The Harrow & The Harvest del 2011, a nome Gillian Welch (con l’appendice del disco di archivio Boots No.1: The Official Revival Bootleg, uscito nel 2016, ma con materiale inedito anni ’90), esce ora il terzo disco solista di David, Poor David’s Almanack, che a livello qualitativo si avvicina, e forse pareggia, quelli pubblicati a nome Welch, Ovviamente, niente paura, perché Gillian è più che presente nel disco, oltre ad averne designato la copertina, ha firmato cinque dei dieci brani contenuti nel CD assieme al suo pard, e e la sua voce si occupa, con altri amici presenti nelle registrazioni, delle armonie vocali dell’album.

Come evidenziato sin dall’inizio, il disco è molto bello, Rawlings migliora leggermente anche come cantante, disco dopo disco, pur non raggiungendo lo stile inarrivabile della compagna di avventure, la voce si è fatta più sicura ed espressiva a tratti, sempre laconica e piana, ma in grado di convogliare con classe i contenuti delle proprie canzoni: che in questo CD sono rese con un approccio che ricorda sicuramente quello dei dischi dell Welch, quindi con spunti folk e roots come di consueto, ma nello stesso tempo utilizza un approccio più “rock” (forse una parola un po’ grossa), diciamo da band, grazie all’utilizzo di diversi musicisti, che ampliano il consueto spettro sonoro voce e chitarre e poco altro dei loro dischi in coppia, aggiungendo il violino di Brittany Haas, il basso di Paul Kowert dei Punch Brothers, l’organo e la batteria dei fratelli Taylor Griffin Goldsmith dei Dawes, il violino e il banjo e la chitarra di Ketch Secor Willie Watson, degli Old Crow Medicine Show, impegnati anche alle armonie vocali, mentre la stessa Gillian è impegnata anche a basso, batteria e percussioni, oltre al vitale utilizzo della voce di supporto; alla batteria c’è anche Billy Thomas, uno dei migliori sessionmen della zona “country”, mentre David Rawlings, oltre a cantare, suona le chitarre, acustiche ed elettriche, l’harmonium, cura gli arrangiamenti (parchi) di archi e produce, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Ken Scott (quello leggendario dei dischi di Bowie, Supertramp, Elton John, Lou Reed, America, George Harrison e una miriade di altri).

L’apertura è affidata a Midnght Train, un pezzo che oscilla tra country-folk e country-gospel con un delicato picking acustico di Rawlings, mentre la voce di David è sostenuta da quella di Watson e poi anche dalla Welch, mentre il violino di Britanny Haas disegna le sue traiettorie “campagnole” e il brano si sviluppa in un crescendo lento ma sicuro https://www.youtube.com/watch?v=AFwrF57ZW9A . Money Is The Meat In The Coconut è più allegra e scanzonata, un bluegrass divertente dove il banjo di Watson e il violino della Haas conferiscono quell’aria appunto tra bluegrass e mountain music, quasi come nei vecchi dischi anni ’70 di revivalisti come Peter Rowan, Norman Blake e compagnia cantante (e suonante), semplice ma godibile. Cumberland Gap, il pezzo dedicato al fiume che circonda Nashville, è il primo momento Neil Young del disco, un country-rock che si rifà al sound del canadese, di dischi come After The Gold Rush Harvest, con le voci di Rawlings e della Welch che si alternano alla guida e si intrecciano con organo, violino, la chitarra elettrica, la sezione ritmica con un bel basso pulsante, per un brano di stampo quasi rock, molto coinvolgente. Airplane, come la canzone precedente, è firmata a quattro mani dal duo, ed è una sorta di ballata, tersa e delicata, incorniciata da una misurata sezione d’archi, che sottolinea la splendida melodia di questa bellissima canzone da vero cantautore classico, porta da Rawlings con garbo, mentre la Haas folleggia sullo sfondo con il suo violino e tutti i musicisti sono ispiratissimi in questo pezzo che è uno dei piccoli gioielli di questo album. Lindsey Button parte come una specie di delicata ninna-nanna, poi diventa una folk tune corale, con il ritornello reiterato alla fine di ogni verso, mentre gli strumenti acustici (ancora con il violino in evidenza) e gli impasti vocali rimandano alla musica popolare americana tradizionale come è d’uso nei dischi a nome Gillian Welch, che non a caso è ancora co-autrice anche di questo brano.

Come On Over My House è un’altra piacevole country-bluegrass song acustica e corale, molto trascinante e sempre di stampo tradizionale. nel suo dipanarsi tra voci e strumenti che si intrecciano con il brio e l’estro dei vari protagonisti, mentre Guitar Man è il secondo momento Neil Young del disco, un altro pezzo elettrico ispirato dal songbook del canadese, con il bel intervento della solista di Rawlings a sottolineare lo spirito rock di questo pezzo, bucolico ma pervaso dalla giusta grinta, pigra e ciondolante, ma pure nella migliore tradizione del country-southern-rock classico, peccato che venga sfumata quando una bella jam finale non ci sarebbe stata male. Yup è un altro di quei brani umoristici e spiritosi che abbondano nella tradizione folk popolare, con il diavolo che si becca una sgridata all’inferno, il tutto a tempo di folk-blues, con gli strumenti e le voci per quanto sempre ben utilizzati, con minor brio e qualità di altri episodi; in questa parte conclusiva del CD dove Rawlings è l’unico autore il disco mi sembra meno brillante. Meglio il country-gospel di Good God A Woman, dove aldilà del sound corale sempre ben centrato ed eseguito, forse una voce solista più incisiva avrebbe avuto un miglior effetto nell’insieme del brano. Put’em Up Solid è decisamente meglio disegnata a livello sonoro  e rientra in quel filone di country-folk-rock blues gotico dei dischi della Welch, in cui la parte musicale è comunque sempre a cura di David Rawlings, un brano decisamente più riuscito che alza nuovamente il livello qualitativo di un disco  e che se non porta ancora al pareggio tra Welch e Rawlings ne evidenzia ancora una volta lo spirito affine e la visione musicale comune. Consigliato!

Bruno Conti

Se Lo Dicono Tutti Sarà Veramente Così Bello? Questa Volta Direi Proprio Di Sì! Conor Oberst – Salutations

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Conor Oberst – Salutations – Nonensuch/Warner

Come sapete al sottoscritto non piace uniformarsi per forza ai giudizi critici (che comunque leggo per documentarmi) relativi ai nuovi dischi in uscita: preferisco sempre adottare l’infallibile metodo “San Tommaso”, o se preferite Guido Angeli, ovvero provare per credere, anzi meglio, ascoltare per credere. E quindi, se posso, compatibilmente con le qualità industriali di dischi che “devo” sentire ogni mese, cerco di ascoltare gli album che per vari motivi hanno stuzzicato la mia curiosità, anche se poi non sempre riesco a scrivere il resoconto delle mie impressioni: ma questa volta, come dico nel titolo, sì! Perché l’album in questione, nello specifico parliamo del nuovo Salutations, a firma Conor Oberst, mi pare proprio un ottimo album. Disco che nasce sulla scia della prova acustica Ruminations, pubblicata solo alcuni mesi or sono e che che conteneva dieci delle canzoni ora riproposte in versione elettrica nel CD, con l’aiuto del grande batterista Jim Keltner, che ha curato anche la co-produzione dell’album insieme a Oberst, e alla band roots-rock dei Felice Brothers, veri spiriti affini di Conor e di cui l’estate scorsa vi avevo segnalato l’eccellente Life In The Dark, un piccolo gioiellino http://discoclub.myblog.it/2016/07/06/antico-dylaniano-sempre-gradevole-felice-brothers-life-the-dark/, che si muoveva, come questo, su territori cari alla Band Bob Dylan, ma non solo. Quindi il solito retro-rock? Direi di sì, ma quando è fatto così bene è difficile resistere, e le 17 canzoni contenute in questo disco (le dieci di Ruminations più altre sette aggiunte per l’occasione) sono tutte veramente belle e non si riscontrano momenti di noia dovuti alla eccessiva lunghezza dell’album.

Oltre ai Felice Brothers e Keltner nell’album appaiono parecchi altri musicisti di pregio: dall’ottimo Jim James Blake Mills, Gillian Welch Maria Taylor alle armonie vocali, nonché M. Ward e il quasi immancabile, in un disco di questo tipo, Jonathan Wilson, a chitarre e tastiere in due dei brani più belli del disco, uno dei due, Anytime Soon, dove è anche coautore del pezzo, con lo stesso Oberst, Taylor Goldsmith dei Dawes, Johnathan Rice, frequente collaboratore di Jenny Lewis, in una sorta di meeting di alcuni dei “nuovi” talenti del suono westcoastiano, considerando pure che il tutto è stato registrato ai famosi Shangri-La Studios di Malibu. Quindi Dylan+Band+California, risultato: ottimo disco, che lo riporta ai fasti dei migliori album fatti con i Bright Eyes. Partiamo proprio con la citata Anytime Soon, un bel pezzo rock di impianto californiano, con la slide pungente di Wilson, che ricorda quella di David Lindley, a percorrerla e una melodia solare che si rifà al sound dei Dawes o del loro mentore Jackson Browne, ma anche con spunti beatlesiani.

Comunque fin dall’apertura deliziosa della valzerata Too Late For Fixate, con in evidenza il violino di Greg Farley e la fisarmonica di James Felice, che uniti all’armonica dello stesso Oberst, crea subito immediati rimandi alla musica del Dylan anni ’70 ( e anche la Band, ovviamente, grazie all’uso della doppia tastiera, affidata spesso a Felice); contribuiscono ampiamente alla riuscita anche i testi visionari e surreali, sentite che incipit: “Tried Some Bad Meditation/ Sittin’ Up In The Dark/They Say To Picture An Island/Cuz That’s One Place To Start/I Guess I Could Count My Blessings/I Don’t Sleep In The Park/With All My Earthly Possessions/In One Old Shopping Cart”, e ditemi chi vi ricorda. Anche la seconda canzone Gossamer Thin mantiene questa atmosfera sonora, con il riff circolare a tempo di valzer, sempre impreziosito dall’uso di violino, fisa ed armonica, oltre alle armonie vocali di Jim James, che rimane poi anche per la successiva Overdue, dove si apprezza il lavoro delle chitarre elettriche e quello di un piano Wurlitzer, molto alla Neil Young anni ’70, con il ritornello che ti rimane subito in testa.

Afterthought in veste full band acquisisce ulteriore fascino, anche grazie al lavoro preciso e variegato di Jim Keltner, uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ancora splendide le armonie vocali corali dei Felice Brothers assortiti, il violino guizzante di Farley e l’armonica insinuante di Conor, sembra quasi di essere capitati in qualche outtake di Blonde On Blonde. Molto coinvolgente anche la delicata ballata Next Of Kin, già presente in Ruminations, che rimanda ai pezzi più belli di un altro cantautore che quando viene colto dall’ispirazione può regalare canzoni stupende, penso a Ryan Adams, e pure in questo testo ci sono deliziose citazioni d’epoca:  “Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago”. In Napalm il ritmo si fa più incalzante e bluesy, per continuare il parallelo con Dylan ci tuffiamo in Highway 61 con l’organo di Felice e le chitarre di Oberst a ricreare il sound dell’accoppiata Kooper/Bloomfield, con i dovuti distinguo, e senza dimenticare Farley che si dà sempre da fare con il suo violino.

Blake Mills aggiunge il suo guitaron e la baritone guitar per una intima e raccolta Mamah Borthwick (A Sketch), dove si apprezza anche la voce di Gillian Welch, splendida. Mentre nelle successive Till St. Dymphna Kicks Us Out e Barbary Coast (Later) appare anche un quartetto di archi e il pianoforte assurge a ruolo di protagonista, nel primo brano, a fianco degli immancabili violino, fisarmonica e armonica, senza dimenticare la chitarra elettrica di Ian Felice, sempre presente, con un lavoro sia di raccordo quanto solista; Barbary Coast addirittura mi ha ricordato certe cose del primo Van Morrison, quello californiano, con il prezioso apporto della voce di Maria Taylor. Tachycardia è un’altra ballata di ampio respiro, con doppia tastiera e armonica sempre in evidenza (ma è difficile trovare un brano non dico scarso, ma poco riuscito), mentre Conor Oberst canta sempre con grande trasporto e convinzione, mentre il violino e la chitarra di Mills ricamano sullo sfondo. Serena ed avvolgente anche la dolcissima Empty Hotel By The Sea, con mille particolari sonori gettati nel calderone sonoro di una ennesima riuscita canzone, con gli strumenti sempre usati con una precisione quasi matematica.

Del pezzo con Jonathan Wilson abbiamo detto. Counting Sheep è una ulteriore variazione sul tema sonoro dell’album, e nonostante il titolo è meno “sognante” di altri episodi, con le chitarre elettriche più graffianti e la bella voce della Taylor che ben supporta il nostro. Rain Follows The Plows, di nuovo con la presenza del quartetto di archi, assume un carattere quasi più barocco e complesso, grazie all’uso del piano elettrico e della chitarra elettrica di Blake Mills, presente per l’ultima volta, a fianco di violino,, armonica e tastiere, che, l’avrete ormai capito, sono gli strumenti più caratterizzanti dell’album. Di nuovo Gillian Welch a duettare con Oberst in You All Loved Him Once, altra love ballad di elevata qualità e delicatezza, con armonica e chitarra elettrica che deliziano i nostri padiglioni auricolari ancora una volta, una delle più belle canzoni del disco.

A Little Uncanny, con video prodotto dal bassista del disco (e dei Felice Brothers) Josh Rawson è uno dei pezzi più rock e mossi di questo Salutations, chitarristico ed incalzante, prima del commiato, Salutations appunto, dove ritornano il piano, la chitarra ed il synth di Jonathan Wilson, per un altro tuffo nel sound da singer songwriter californiano degli anni ’70, a conferma della qualità di questo lavoro che si candida fin d’ora tra le migliori prove di questo inizio 2017, e che vi consiglio caldamente!

Bruno Conti 

Tre Album Belli Di Fila Non Sono Un Caso, Ormai E’ Uno Dei “Nostri”! Tom Jones – Long Lost Suitcase

tom jones long lost

Tom Jones – Long Lost Suitcase – Virgin/EMI CD

Thomas Jones Woodward, meglio conosciuto come Tom Jones, a settant’anni suonati (75, per la precisione) si è finalmente deciso a fare musica come si deve. Per più di cinque decenni infatti il cantante gallese ha messo la sua formidabile voce al servizio di canzonette pop di poco conto ( non sempre), che hanno sicuramente contribuito a portare il suo conto in banca a livelli notevoli, ma lo hanno sempre reso indigesto ai veri music lovers, perdendo poi anche una buona parte di dignità a inizio secolo con il suo comeback nelle classifiche grazie allo strepitoso successo della pessima Sex Bomb, dopo che ormai buona parte del pubblico lo riteneva artisticamente sepolto in quel cimitero degli elefanti che può essere per certi artisti Las Vegas. Poi, nel 2010, il clamoroso colpo di coda con l’ottimo Praise & Blame, un bellissimo disco nel quale Tom esplorava le sue radici folk, blues e gospel con un suono spoglio ed in gran parte acustico, con Ethan Johns (figlio del grande Glyn) in cabina di regia: un disco in cui il nostro dava nuova linfa a brani della tradizione più profonda, ai quali affiancava covers (Tom è sempre stato un interprete più che un autore) di gente come Bob Dylan, Billy Joe Shaver e Pops Staples.

Una metamorfosi che aveva dell’incredibile, con Johns nei panni di quello che Rick Rubin è stato per Johnny Cash nell’ultimo periodo della carriera dell’Uomo in Nero (che però non aveva mai smesso di fare buona musica, ma veniva soltanto da uno sfortunatissimo periodo alla Mercury, dopo essere stato lasciato a casa negli anni ottanta dalla Columbia) e, in parte, per Neil Diamond (gli album 12 Songs e Home Before Dark), che invece non aveva mai avuto un problema di vendite o di bontà nel songwriting, ma semmai di arrangiamenti gonfi e ridondanti e attitudine da superstar (del tipo “Io sono Neil Diamond e voi non siete un c****!”). La reazione a Praise & Blame fu tale che Tom nel 2012 bissò con l’altrettanto valido Spirit In The Room, che con lo stesso tipo di arrangiamenti essenziali prendeva in considerazione più che altro autori contemporanei (ancora Dylan, Tom Waits, Leonard Cohen, Paul McCartney, Paul Simon, Richard Thompson) ed anche talenti più recenti del calibro di Joe Henry e dei bravi Low Anthem. Ora Tom completa quella che può sembrare una trilogia con l’eccellente Long Lost Suitcase (che viene proposto come il CD di accompagnamento alla nuovissima autobiografia del gallese), un nuovo, bellissimo lavoro che dopo appena un paio di ascolti si rivela perfino superiore ai due precedenti.

Sempre prodotto da Johns Jr., Long Lost Suitcase vede il solito schema, cioè Jones che riprende classici del presente e del passato che hanno avuto una qualche influenza su di lui, ma stavolta con una maggiore propensione elettrica e diversi omaggi al blues (ma folk e anche qualcosa di country non mancano). Tom ha sempre una voce straordinaria nonostante i 75 anni (e l’età gli ha conferito anche un feeling che, repertorio commerciale a parte, in passato non aveva mai palesato), ha ormai trovato la sua dimensione ideale in queste interpretazioni, e Johns è il suo perfetto alter ego: in questo CD c’è molto blues come ho già accennato, ma anche più chitarre ed una sezione ritmica che si fa sentire in misura maggiore rispetto ai due album precedenti, decisamente più folk oriented. I musicisti presenti nel disco non sono molti: a parte Johns, che suona un po’ di tutto, abbiamo l’ottimo Fiachra Cunningham al violino, il noto chitarrista Andy Fairweather-Low (Eric Clapton, Roger Waters, ecc.) alla ritmica, Jeremy Stacey alla batteria, mentre al basso si alternano Ian Jennings e Dave Bronze.

L’album si apre con un pezzo poco noto di Willie Nelson, Opportunity To Cry (era su Pancho & Lefty, il disco del 1983 con Merle Haggard): la melodia è tipica del barbuto countryman texano, e l’arrangiamento spartano non fa che rendere giustizia al brano, con Tom che vocalmente si allinea alle performance da brivido di Willie. Honey Honey è la prima scelta sorprendente, un brano dei Milk Carton Kids, riproposto come se fosse un bluegrass di quando Tom aveva sì e no dieci anni, con banjo e violino a dettare legge e la brava irlandese Imelda May alla seconda voce; Take My Love (I Want To Give It) è il primo blues del CD (di Little Willie John), un giro classico, cantato in maniera potente dal gallese e la band che lo accompagna in maniera tesa ed elettrica, con un bel assolo centrale di Ethan. La nota Bring It On Home (Sonny Boy Williamson, ma anche Led Zeppelin) mantiene il disco in territori blues, con il gruppo che qui è molto più discreto e lascia campo libero alla voce di Tom, il quale si comporta come il più consumato dei bluesman; Everybody Loves A Train è un’altra bella scelta trasversale, un brano poco noto dei Los Lobos (era su Colossal Head, forse il disco più ermetico dei Lupi): Tom con la voce fa ciò che vuole, inizia parlando, quasi gigioneggia, poi nel refrain si lascia andare in tutta la sua potenza, mentre la band commenta in maniera quasi sporca, in pieno stile Lobos.

Nella sua biografia Jones darà sicuramente spazio anche ad Elvis Presley (nel booklet del CD è ritratto insieme a lui e Priscilla), ma invece di scegliere un brano del King opta per Elvis Presley Blues di Gillian Welch, offrendone un’interpretazione sofferta, drammatica, quasi alla Odetta, con Johns che lo circonda con una chitarra vibrata al limite della distorsione: quasi impensabile pensare che stiamo parlando dello stesso personaggio che cantava Delilah. Ed eccoci all’high point del disco (a mio parere): He Was A Friend Of Mine è un pezzo inciso da molti in passato, soprattutto in ambito folk (di Dave Van Ronk la versione più nota, ma anche Dylan la cantava spesso nelle coffeehouses del Village), e qui troviamo solo Tom ed Ehtan con la slide acustica, con il nostro che tira fuori una performance da pelle d’oca, al limite della commozione, sentire per credere. Factory Girl è proprio quella dei Rolling Stones, e qui Jones rispetta la melodia originale (ma che voce) e Johns la riveste di sonorità decisamente bucoliche, mentre con I Wish You Would (Billy Boy Arnold) si torna al blues ruspante, con una versione spedita e roccata, molto anni sessanta, ed una serie di assoli quasi ipnotici.

‘Til My Back Ain’t Got No Bone (di Eddie Floyd, l’ha fatta anche Albert King) rimane in zona blues, ma in maniera più tranquilla, con la solita voce che si staglia imperiosa; Why Don’ You Love Me Like You Used To Do? è un noto brano di Hank Williams, che vede Tom divertirsi con una interpretazione gioiosa e solare, in linea con l’originale, dandoci una delle prove più godibili del disco, quasi non avesse fatto altro che country nella sua carriera. L’album si chiude con la famosa Tomorrow Night (Lonnie Johnson, ma anche Elvis e Dylan), qui in veste jazz afterhours, molto raffinata, e con la deliziosa e countreggiante Raise A Ruckus, un traditional che hanno rifatto in mille, da Jesse Fuller a Uncle Earl, passando per Bill Kirchen e gli Old Crow Medicine Show.

Tom Jones è definitivamente rinsavito (meglio tardi che mai), e Long Lost Suitcase è indubbiamente uno dei dischi più belli del 2015.

Marco Verdi