Cofanetti Autunno-Inverno 20. L’Uomo Che Inventò Il Soul. Parte 1: I Primi Passi Da Solista. Sam Cooke – The Complete Keen Years 1957-1960

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Sam Cooke – The Complete Keen Years 1957-1960 – ABKCO 5CD Box Set

Sono contento di approfittare dell’uscita quasi in contemporanea di due cofanetti a lui dedicati (uno nuovo ed uno appena ristampato) per poter parlare di Sam Cooke, che considero semplicemente il più grande cantante soul di tutti i tempi, e chiedo nel contempo scusa alla memoria dei pur immensi Otis Redding e Ray Charles (il quale proprio a proposito di Cooke ebbe a dire che nessuno ci si poteva neanche avvicinare). In possesso di una magnifica voce vellutata e calda, che gli permetteva un fraseggio pulito e perfetto, Cooke era anche uno dei pochi cantanti ad essere dotato di melisma (che non è una malattia rara, bensì la capacità di modulare l’intonazione della voce “caricando” su una singola sillaba di testo una serie di note ad altezze diverse), ed era perciò in grado di interpretare qualsiasi tipo di canzone di qualunque genere. In più, Sam era anche autore, e ci ha lasciato una serie di grandi canzoni che sarebbe potuta aumentare in maniera esponenziale se non fosse stato ucciso nel 1964 a soli 33 anni per mano della proprietaria di un motel (in circostanze mai del tutto chiarite), creando una vera e propria leggenda e diventando fonte di ispirazione per decine di cantanti di qualsiasi colore di pelle (Rod Stewart, per dirne uno, credo che potrebbe benissimo dormire con una foto di Cooke sul comodino) e guadagnandosi i soprannomi di “Mr. Soul” e “The Man Who Invented Soul”.

Nato in Missisippi ma spostatosi con la famiglia a Chicago all’età di tre anni, Samuel Cook (che aggiunse la “e” al cognome come vezzo artistico) iniziò a cantare da ragazzo nel coro della chiesa in quanto figlio di un reverendo, e mosse i primi passi artistici all’inizio dei fifties come voce solista del gruppo gospel The Soul Stirrers, ma fu presto notato dal noto produttore e talent scout Bumps Blackwell che lo prese sotto la sua ala protettiva e gli fece firmare un contratto con la Keen Records, emergente etichetta indipendente di Los Angeles, per la quale Sam pubblicò tre album e due compilation (oltre a vari singoli), cinque dischi che ritroviamo con l’aggiunta di alcune bonus tracks e di un dettagliato libretto in questo elegante cofanetto quintuplo intitolato appunto The Complete Keen Years 1957-1960, che riunisce per la prima volta tutto ciò che Cooke incise per l’ormai defunta label, rimasterizzando il tutto rigorosamente in mono (a parte qualche bonus track in stereo, mentre l’album Tribute To The Lady è proposto in entrambe le versioni). E’ opinione comune che il meglio Cooke lo diede nella seconda fase della carriera, quando si accasò alla RCA, ma questi primi lavori ci mostrano già un artista formato e perfettamente in grado di interpretare qualsiasi cosa: e poi due dei suoi brani più famosi, You Send Me e (What A) Wonderful World (da non confondersi con quella di Louis Armstrong) arrivano proprio dal periodo Keen.

Nei primi due album contenuti nel box, Sam Cooke ed Encore (entrambi targati 1958), troviamo già tanta grande musica, una miscela di soul, pop, jazz, swing e gospel proposta con classe sopraffina che diventerà il marchio di fabbrica del nostro. Sam Cooke, a parte la già citata You Send Me ci presenta un artista più interprete che autore (scriverà molto di più nel periodo RCA), ed ascoltiamo splendide interpretazioni di standard quali The Lonesome Road, una swingata e coinvolgente Ol’ Man River, Summertime in veste più vivace e solare di quelle conosciute, That Lucky Old Sun con una prestazione vocale da brivido; Encore è un disco più movimentato e swingato, con highlights come Oh, Look At Me Now, Along The Navajo Trail, Ac-cent-tchu-ate The Positive e I Cover The Waterfront. Ma nei due lavori ci sono altre gemme come la ballata Tammy, cantata in maniera formidabile, una notevole interpretazione del traditional The Bells Of St. Mary’s, l’elegante swing Someday, la breve ma vertiginosa Running Wild e la raffinatissima Today I Sing The Blues. Un cenno per i musicisti, veri e propri professionisti di altissimo livello che in alcuni casi “seguiranno” il nostro anche nel periodo RCA, come il chitarrista Clifton White, il bassista Ted Brinson, i batteristi Earl Palmer e Charlie Blackwell ed il pianista Jimmy Rowles. Il terzo ed ultimo album registrato da Sam per la Keen, Tribute To The Lady (1959), è un omaggio alla figura ed alle canzoni di Billie Holiday, una delle poche in grado di tener testa al nostro come cantante (l’album tra l’altro fu inciso quando “Lady Day” era ancora viva, anche se ancora per pochi mesi).

Con gli arrangiamenti orchestrali di René Hall, il disco vede Sam proporre dodici classici della Holiday, anche se con molta meno tensione e drammaticità rispetto alla sfortunata cantante di Baltimore (God Bless The Child sembra quasi un brano natalizio). L’album è comunque bellissimo, con interpretazioni superlative di classici resi sotto forma di caldi ed eleganti swing (She’s Funny That Way, I Gotta Right To Sing The Blues, T’aint Nobody Business, Comes Love e Lover Come Back To Me) o fumose ballate jazz afterhours (Good Morning Heartache, Lover Girl e Solitude). Il box contiene anche Hit Kit (1959), che nonostante sia una collezione di brani all’epoca usciti su singolo, in comune con i primi tre album ha solo You Send Me e quindi nel cofanetto ci sta benissimo. Hit Kit (che qui presenta ben nove bonus tracks tra rare versioni stereo e lati B) contiene canzoni eccellenti come la stupenda Only Sixteen, l’irresistibile Everybody Loves To Cha Cha Cha, una notevole ripresa del superclassico Blue Moon (che voce), la nota (I Love You) For Sentimental Reasons, la toccante ballata Little Things You Do e la fluida ed orecchiabile Almost In Your Arms.

Dulcis in fundo, il box si chiude con The Wonderful World Of Sam Cooke, una compilation che la Keen fece uscire nel 1960 con Sam già accasato alla RCA, e che conteneva altri singoli, qualche inedito e quattro pezzi da una compilation gospel di vari artisti intitolata I Thank God (e qui ci sono altre sei tracce bonus). Il CD suona come un disco vero e proprio, ed è aperto dalla strepitosa (What A) Wonderful World, una delle più belle canzoni soul di sempre; da citare anche una magnifica versione alternata di Summertime, cantata in modo fantastico, splendidi gospel come That’s Heaven To Me e I Thank God e deliziosi brani originali del nostro come No One (Can Ever Take Your Place), With You, Steal Away e Deep River. Un boxettino quindi imperdibile che riepiloga i primi passi di una leggenda della nostra musica (in attesa di occuparmi dell’altrettanto indispensabile periodo RCA), anche per il costo tutto sommato contenuto.

Marco Verdi

Ancora Dell’Ottimo Gospel Soul Da Memphis. Sensational Barnes Brothers – Nobody’s Fault But My Own

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Sensational Barnes Brothers – Nobody’s Fault But My Own – Bible And Tire Recording Co./Big Legal Mess/Fat Possum

Ammetto che fino a pochi tempo fa ignoravo l’esistenza dei Sensational Barnes Brothers, ma visto che uno dei piaceri dello scrivere di musica è anche quello di scoprire nuovi nomi, e poi condividerli con chi legge, eccoci a parlare di Nobody’s Fault But My Own, eccellente esordio di questa coppia di fratelli, peraltro comunque sconosciuta ai più. Alcuni indizi: vengono da Memphis, dove ai Delta-Sonic Studios è stato registrato questo album, provengono da una famiglia che ha sempre gravitato nell’area della musica gospel, il babbo Calvin “Duke” Barnes, scomparso improvvisamente di recente,  aveva un duo con la moglie Deborah (che in passato era stata una delle Raelettes di Ray Charles), i due figli Chris (appassionato del rock di Disturbed e Dream Theater) & Courtney,  suonano anche nei Black Cream, un gruppo nello stile classico del power trio, rivisto in ottica nera, aiutati da parenti assortiti, Calvin Barnes II suona nel disco all’organo, Sister Carla, l’unica ad avere lasciato Memphis, canta pure lei, quindi la musica è un affare di famiglia.

Il disco non riporta il nome degli autori dei brani, ma tutto il materiale proviene dal catalogo della Designer Records, una sconosciuta etichetta degli anni ’70 specializzata in soul e gospel,benché nelle parole dei due fratelli avrebbe potuto essere stato scritto dalla loro famiglia, visto che coincide con quella visione musicale e religiosa. Possiamo aggiungere che il disco è prodotto da Bruce Watson (anche chitarrista e polistrumentista, nonché fondatore della Fat Possum)), uno che ha lavorato con Don Bryant (marito di Ann Peebles), nello splendido Don’t Give Up On Love, con Jd Wilkes, con Jimbo Mathus, che appare nel disco come organista aggiunto, anche con R.L. Burnside e Jumior Kimbrough, e moltissimi altri. Nel CD suonano Will Sexton alla chitarra, George Sluppick alla batteria, Mark Stuart al basso, Kell Kellum alla pedal steel, oltre agli ottimi Jim Spake e Art Edmaiston ai fiati, a dimostrazione dell’assunto che elencare i nomi dei musicisti magari può essere didattico e didascalico, ma aiuta a capire cosa stiamo per ascoltare, e come detto all’inizio si parla di deep soul gospel o Stax sound della prima ora, insomma “old school” come si suole dire: pescando a caso dal disco abbiamo la fiatistica e corale I’m Trying To Go Home, anche con coretti deliziosi femminili e un suono che sembra uscire dai Fame Studios, mentre i due fratelli “testimoniano” alla grande https://www.youtube.com/watch?v=7WlVzsCtB8M , la splendida ballata Let It Be Good. cantata divinamente dal babbo Calvin “Duke” Barnes, anche con arditi falsetti, e chitarre e organo, oltre agli immancabili coretti e il supporto del figlio Chris, tutti che agiscono in pura modalità sudista.

Why Am I Treated So Bad, con riff di fiati all’unisono, e una melodia che potrebbe rimandare a Sam & Dave, se avessero deciso di darsi al gospel anziché al soul, sempre con quel falsetto ricorrente, I Made It Over, dal ritmo incalzante ed estatico del miglior gospel quando si “ispira” anche ad una soul music più carnale, oppure Nobody’s Fault My Own (che qualche parentela, quantomeno a livello di testo) con Nobody’s Fault But Mine ce l’ha, è un R&B sincopato che istiga a muovere mani e piedi in un florilegio di chitarrine e ritmi scatenati, che accelerano e accelerano fino al classico call and response del finale. E prima ancora un’altra bellissima ballata in puro spirito sudista come I Feel Good, sempre sognante e serena, attraverso l’uso di complessi arrangiamenti vocali, I Won’t Have To Cry No More potrebbe essere un esempio di come avrebbero potuto suonare i primi Staples Singers se Pops Staples invece di una pattuglia di figlie, si fosse trovato con altrettanti figli, oppure con i Soul Stirrers di Sam Cooke. E anche It’s Your Life è un altro mid-tempo tra soul e gospel cantato con grande passione dai due fratelli, come pure la incantevole Try The Lord, con Kell Kellum ad accarezzare la sua pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=21TJawoVGZk , ma in tutto il disco vi sfido a trovare un brano scarso, solo del sano buon vecchio soul, a tinte gospel.

Bruno Conti

E Il Lavoro E’ Stato Fatto Molto Bene, Nonostante La “Strana” Ma Riuscitissima Accoppiata. Marc Cohn & Blind Boys Of Alabama – Work To Do

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Marc Cohn & Blind Boys Of Alabama – Work To Do – BMG Rights Management

Come dice il titolo, sulla carta questa accoppiata potrebbe sembrare “strana”, ma in effetti è stata rodata in lunghi anni di frequentazione: già nel 2017 Marc Cohn aveva collaborato con loro nel disco Almost Home con il brano Stay On The Gospel Side, scritto con John Leventhal (che è anche il produttore di questo Work To Do), basandosi su dei versi inediti di Clarence Fountain, il vecchio leader del gruppo che nel frattempo è scomparso nel 2018. Negli ultimi anni Cohn e i BBOA hanno effettuato diversi tour insieme e da una serata speciale al Katharine Hepburn Cultural Arts Center di Old Saybrook, Connecticut, registrata per l’emittente PBS per la serie The Kate, sono stati estratti sette brani registrati dal vivo, che sono stati aggiunti a tre canzoni di studio che inizialmente dovevano costituire un EP di materiale inedito. Il materiale di Work To Do, a parte due pezzi tradizionali notissimi come Walk In Jerusalem Amazing Grace, è costituito per gran parte da canzoni scritte da Marc Cohn stesso. In effetti ascoltando il repertorio di Marc Cohn, a partire dal suo cavallo di battaglia e maggiore, nonché unico grande successo, Walking In Memphis, la musica del 60enne cantautore di Cleveland ha comunque sempre avuto degli afflati gospel, inseriti comunque in un contesto di pop raffinato e di grande sostanza, ed è quindi un grande piacere riascoltare la voce di Cohn che non pubblica un album da Listening Booth 1970 del 2010, che però era composto tutto da cover di brani usciti in quell’anno, quindi l’ultimo CD di materiale originale, Join The Parade, risale al 2007.

Il nostro amico avrà anche perso tutti i capelli, ma la voce è rimasta uno strumento affascinante, dalle tonalità “scure” e di grande impatto emotivo, se poi viene rafforzata dalle armonie vocali fantastiche dei Blind Boys (di cui aveva già goduto anche Ben Harper, nel suo There Will A Light del 2014) il risultato è assicurato. Oltre a Cohn al piano e alla chitarra, troviamo Leventhal che suona di tutto, tastiere, chitarre, basso e batteria, e nella parte live, Randall Bramblett, anche lui a tastiere e organo, Joe Bonadio alle percussioni, Tony Garnier di dylaniana memoria al contrabbasso e i cinque BBOA alle voci. Proprio loro aprono le operazioni con una rilettura scintillante di Walk In Jerusalem, uno dei tre brani di studio, dove le loro voci vissute si incrociano, si sovrappongono, si sostengono, alternandosi come soliste, con l’accompagnamento affidato solo al battito delle mani e poco altro, mentre nella mossa Talk Back Mic, il pezzo nuovo scritto da Cohn e Leventhal, ci sono elementi sonori rock, swamp e soul, con l’eccellente lavoro full band di tutti gli strumentisti e la voce di Cohn, sicura e assertiva, circondata da quelle splendide di Beasley, Carter, McKinnie, Moore Williams. Il terzo e e ultimo pezzo nuovo di studio è la title track Work To Do, una ballata pianistica di impianto sudista splendida, dove sembra di ascoltare la Band migliore, con le doppie tastiere in grande spolvero e le armonie vocali da arresto per flagranza di bellezza dei cinque Blind Bloys, tra gospel e soul dai celestiali risultati, a dimostrazione che Cohn non ha perso il tocco di autore, e potrebbe ancora stupirci in futuro.

I brani in concerto, con Marc impegnato al piano; Bramblett alle tastiere, Garnier al Basso e Bonadio alle percussioni, si aprono con Ghost Train, una canzone che era sull’omonimo esordio del 1991, una ariosa ed avvolgente ballata pianistica, tipica del suo repertorio che, con l’aggiunta delle voci e del semplice schioccare delle dita dei BBOA, diventa irresistibile; Baby King viene da Rainy Season e il call and response tra un ispirato Cohn e le voci senza tempo del quintetto vocale in puro stile gospel, lascia senza fiato. Listening To Levon, da Join The Parade del 2007, fa il paio come bellezza con Levon, il celebre brano che Elton John dedicò al grande vocalist e batterista della Band Levon Helm, altra esecuzione da urlo per una ballata splendida che Marc interpreta con grande trasporto, anche senza la presenza delle splendide voci dei co-protagonisti della serata, che tornano però a farsi sentire nella lunghissima versione di Silver Thunderbird, soprattutto nella seconda parte, quando cominciano ad improvvisare ad libitum titillando e spingendo Cohn e soci verso le praterie celestiali del migliori gospel, con Jimmy Carter e Paul Beasley che fanno venire giù il piccolo teatro dove si svolge il teatro. Non contenti i cinque decidono di affrontare in modo inconsueto e geniale Amazing Grace, riarrangiata sulla melodia di House Of The Rising Sun e cantata divinamente dal quintetto. Ci si avvicina alla conclusione ma non può mancare naturalmente una stupenda rivisitazione di Walking In Memphis, il “piccolo” capolavoro di Marc Cohn che forse riceve il suo trattamento definitivo nell’occasione, grazie ai cori gospel dei BBOA. Molto bella anche One Safe Place, altra sontuosa ballata posta in chiusura. Peccato che manchi dalla serata  televisiva una versione travolgente di If I Had A Hammer, al limite la trovate qui https://thekate.tv/artist/marc-cohn-and-the-blind-boys-of-alabama/, dove si può vedere tutto il concerto completo.

In ogni caso non inficia il giudizio complessivo dell’album che rimane una delle più piacevoli sorprese di questo scorcio di stagione discografica.

Bruno Conti

Tra Blues, Gospel E Rock, Un Chitarrista Eccezionale Con La Produzione Di Dave Cobb. Robert Randolph & Family Band – Brighter Days

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Robert Randolph & The Family Band  – Brighter Days – Mascot/Provogue Records – 23-08-2019

La primissima impressione che ho avuto nell’ascoltare Baptise Me, la traccia di apertura di questo Brighter Days, (ottavo album per il musicista del New Jersey, e primo per la nuova etichetta Provogue), è stata quella di un tuffo nel passato, ad inizio anni ’70, all’epoca dei primi dischi di Eric Clapton, quelli con Delaney & Bonnie o anche Derek & The Dominos, quel tipo di suono: caldo, avvolgente, con la pedal steel di Robert Randolph in grande evidenza nel ruolo che fu della solista di Manolenta, ma anche la voce ben delineata, con tutte le sfumature e le coloriture dei migliori gospel e soul, fusi con il rock, e qui c’è sicuramente lo zampino del produttore Dave Cobb, maestro nel cogliere questi aspetti “naturali” della musica con estrema facilità e nitidezza (anche se in passato Randolph era stato prodotto da T-Bone Burnett e aveva avuto come ingegneri del suono Jim Scott e Eddie Kramer). Ovviamente il gospel e la “Sacred steel music” sono sempre stati tra gli ingredienti principali della musica di Randolph, ma questi anni di frequentazione proprio con Clapton (uno dei suoi primi estimatori), ma anche con i North Mississippi Allstars (anche in The Word), Buddy Guy, Santana, Robbie Robertson, hanno aumentato la quota rock nella sua musica, dove il quoziente virtuosistico ha sempre avuto una parte decisamente importante, non a caso per il sottoscritto Randolph è una sorta di Jimi Hendrix della pedal steel, in grado di estrarre dal suo attrezzo, anche in modo istrionico, soprattutto dal vivo, sonorità incredibili che in molti casi poco hanno a che spartire con il sound della pedal steel classica, per esempio nel country.

Brighter Days viene presentato come una sorta di ritorno alle radici della sua musica, anche se a ben vedere gli interpreti sono sempre stati quelli: la Family Band, ovvero i cugini Danyel Morgan al basso e Marcus Randolph alla batteria, oltre alla sorella Lenesha alle armonie vocali, ma anche cantante in alcuni brani. Tra le fonti di ispirazione ci sono sempre gli amati Staple Singers e Sly & Family Stone, il gospel screziato di rock, ma per l’occasione (da quello che so, perché ho scritto la recensione parecchio tempo prima dell’uscita, prevista per il 31 maggio e poi rinviata ulteriormente al 23 agosto) non ci sono ospiti importanti. Cobb, come detto, opta per un suono più organico e meno esplosivo:  anche se nella citata Baptise Me si capta il suono di una seconda chitarra e delle tastiere, oltre a Lenesha che al solito stimola il fratello a dare il meglio anche a livello vocale; Simple Man, l’unica cover, è proprio un pezzo di Pops Staples, una blues ballad che si trovava su Father Father, un disco solista del 1994, un brano molto misurato anche per l’approccio quasi minimale della pedal steel, meno esplosiva del solito https://www.youtube.com/watch?v=EwBiqdPtOaY . In Cry Over Me, altra intensa ballata, questa volta di impronta “deep south” soul, canta con impeto Lenesha Randolph, organo e piano evidenziano  le radici sudiste del suono e la pedal steel è sempre in grado di sorprendere con le sue sonorità uniche e una serie di assoli micidiali.

Second Hand Man è decisamente più funky, con la pedal steel quasi a sostenere il ruolo dei fiati e un clavinet ad aumentare la quota ritmica, mentre Randolph imperversa sempre con il suo strumento; la più riflessiva Have Mercy è una splendida ballata, che definirei country got soul, con i due fratelli a duettare tra loro in modo intenso e pregnante, con intarsi corali degni della migliore musica gospel ed un afflato melodico che non guasta. I Need You è una soffusa ballata pianistica, ancora degna della migliore tradizione del gospel più estatico, con una bella melodia ed interventi misurati della pedal steel di Randoplh, un pezzo che ricorda certe cose del vecchio Stevie Wonder anni ’70, quello “bravo” per intenderci; I’m Living Off The Love You Give vira decisamente verso un suono più rock e grintoso, senza dimenticare la lezione degli amati Sly And The Family Stone, con armonie vocali importanti e le solite folate della chitarra di Randoplh, e Cut Em Loose accentua vieppiù questo suono potente, tirato e carico, sempre attraversato dalla pedal steel minacciosa del nostro amico che non manca di sorprendere con sonorità quasi “impossibili”. La travolgente e impetuosa Don’t Fight It, tra boogie e R&R, ha un ritmo ancor più frenetico e coinvolgente, con finale in ulteriore crescendo, prima di lasciare spazio ad un ennesimo tuffo nel rock-blues chitarristico più ruvido ed intrippato, grazie ad una potentissima Strange Train che nel finale permette al nostro amico di esplorare e superare ancora una volta i limiti improvvisativi e sonori del suo incredibile strumento.

Finora uno dei migliori dischi del 2019.

Bruno Conti

Dopo Una Lunga Assenza Torna La Band Della Florida Con Un Disco Dal Vivo Esplosivo Di Gospel Rock. Lee Boys – Live From The East Coast

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Lee Boys – Live On The East Coast – M.C. Records

Il “giochetto” di Alvin Lee me lo ero già giocato (scusate la ripetizione) in occasione della pubblicazione del disco precedente dei Lee Boys Testify https://discoclub.myblog.it/2012/12/18/un-altro-alvin-lee-con-fratelli-lee-boys-testify/ , uscito nel lontano 2012 (passa il tempo), quindi forse non dovrei, ma mi scappa di nuovo: in effetti il leader di questa band nera dedita alla cosiddetta “Sacred Steel Music”, ovvero gospel-soul-rock con grande uso di pedal steel, si chiama Alvin Lee, come lo scomparso leader dei Ten Years After, ma per dirla con il nostro amico Silvio è decisamente più abbronzato .Questi Lee Boys vengono da Miami, Florida e sono tre fratelli, Alvin Lee (chitarra), Derrick Lee e Keith Lee (i due vocalist), aiutati da tre nipoti, Alvin Cordy Jr. (basso 7 corde), Earl Walker (batteria) e fino a poco tempo fa, Roosevelt Collier( un fenomeno della Pedal Steel, che se la batteva con Robert Randolph tra i maggiori virtuosi dello strumento). Di recente a sostituirlo è arrivato Chris Johnson, altro provetto suonatore di steel guitar: nel disco nuovo, un eccellente Live On The East Coast, registrato durante il tour della costa orientale del 2018, appaiono undici tracce in tutto, alcune peraltro mai apparse in precedenza nei dischi in studio della band.

Il gruppo canta le preci del Signore, con fervore e grande religiosità, ma non a scapito però delle radici soul, errebi, funky, blues e, perché no, pure rock e southern, presenti in abbondanza nella loro musica, che si esaltano ancor di più nei concerti dal vivo. Sin dalla iniziale In The Morning il funky-soul intricato dei Lee Boys potrebbe rimandare a quello dei Neville Brothers più ingrifati, con la steel suonata in modalità slide e spesso anche con l’impiego del wah-wah, protagonista assoluta del sound della band con le sue folate irresistibili, ma eccellente rimane anche l’impianto vocale; Walk Me Lord è un altro esempio del loro gospel “moderno”, molto ritmato e sinuoso, sempre con brani piuttosto lunghi ed improvvisati, con il basso a 7 corde di Cordy Jr. a dettare il tempo e le voci e le chitarre a dividersi gli spazi del brano. Don’t Let The Devil Ride è un bel boogie blues tiratissimo che non ha nulla da invidiare a degli ZZ Top magari più ispirati e meno laici, con la lap steel di Johnson in modalità slide che continua ad imperversare senza freni, Praise You, di nuovo con Johnson in modalità wah-wah ,è ancora orientata verso un funky-soul  più leggero e disincantato, mentre I’ll Take You There è proprio il classico brano degli Staple Singers, un pezzo dove emergono maggiormente le radici soul e gospel della band, anche se i Lee Boys onestamente non possono competere con la classe del gruppo di Pops e Mavis, benché come sempre la chitarra ci mette del suo in modo vibrante.

Come On Help Me Lift Him accelera i tempi verso velocità supersoniche, nuovamente con l’impronta gospel in primo piano, lasciando a Lord Me Help Me To Hold Out una impronta più blues, anche se la frenesia del basso “slappato” di Cordy Jr. comunque evidenzia sempre il loro gumbo di R&B, soul e funk, con Johnson sempre pronto a salire al proscenio con la sua steel arrapata in alternanza alla solista di Alvin. Il riff inconfondibile di Turn On Your Love Light è incontenibile e trascinante come al solito, con la band veramente alle prese con una versione non lunghissima ma devastante del classico di Bobby “Blue” Bland, seguita dalla loro Testify, la title track del disco del 2012 (dove suonavano anche Warren Haynes e Jimmy Herring come ospiti), un funky poderoso che non ha nulla da invidiare a gente come Funkadelic o Isley Brothers di inizio anni ’70, sempre con la chitarra che impazza alla grande, prima di tornare al gospel più canonico benché sempre intriso di modernità di Walk With Me, prima di chiudere con le frenesie di You Gotta Move, brano che fonde il blues della versione classica di Fred McDowell, grazie ad una armonica malandrina, con la grinta dello spiritual originale e le derive southern rock elettriche e tiratissime a tutta slide decisamente più “moderne” della musica dei Lee Boys.

Bruno Conti

Non Finisce Mai Di Stupire, Un Altro Disco Splendido! Mavis Staples – We Get By

mavis staples we get by

Mavis Staples – We Get By – ANTI-

Vediamo alcuni fatti “certi” relativi al nuovo album di  Mavis Staples We Get By: intanto, girando per i vari siti,scopriamo che è il 12° album della cantante di Chicago, ma forse il 13° o anche il 14°, non contando i due Live, il tributo in quanto tale, uscito nel 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/07/04/un-altro-concertotributo-spettacolare-mavis-staples-ill-take-you-there-an-all-star-concert-celebration-live/ , e ovviamente tutti i dischi con gli Staples Singers. Però non si capisce perché la colonna sonora  del 1977 A Piece Of The Action, con brani scritti da Curtis Mayfield, e Spirituals & Gospel: Dedicated To Mahalia Jackson del 1996, con Lucky Peterson, ma entrambi cantati in toto da Mavis, non debbano rientrare nel conteggio? Quindi una certezza di questo We Get By è che per l’ennesima volta dal 2007, quando Ry Cooder le produsse lo splendido We’ll Never Turn Back, e poi in tutti i successivi  album pubblicati dalla ANTI-, è che la Staples non ha sbagliato più un disco da allora, sempre mantenendo livelli di qualità sopraffini, nonostante nel corso degli anni siano cambiati i produttori, Jeff Tweedy per tre volte, M. Ward, e la stessa Mavis per il recentissimo Live In London.

Un’altra certezza (e anche una costante) sembra essere la presenza della splendida band che la accompagna dal 2010 (con l’eccezione di One True Vine del 2013), Rick Holmstron alla chitarra, Jeff Turmes al basso e Stephen Hodges alla batteria, che anche Ben Harper, il nuovo produttore che ha scritto pure tutte le canzoni, non ha voluto cambiare, riservandosi solo il ruolo di voce duettante nella title track. Volendo l’altra certezza potrebbe essere il fatto che al 10 luglio questa splendida signora compirà 80 anni, ma per scaramanzia non lo diciamo (o si?): la voce anche per l’occasione è strepitosa, una vera forza della natura, l’ultima vera grande cantante della black music, adesso che Aretha Franklin se ne è andata (ma non faceva un disco decente da tantissimo tempo), come prima di lei Etta James e ancora prima Nina Simone, e Tina Turner, Gladys Knight, Ann Peebles, Bettye LaVette che erano comunque di livello inferiore. Ma Mavis no, il suo stile vocale che da sempre mescola soul, gospel, blues, R&B, e ha pure certi accenti rock che la fanno amare anche da un pubblico più contemporaneo, come evidenziano alcuni brani di questo We Get By, più che qualcuno che semplicemente se la cava, come sembrerebbe suggerire il titolo, ci presentano una leonessa che non ha nessuna intenzione di abdicare.

Ben Harper ha scritto veramente delle belle canzoni per l’occasione, e anche il tema della resilienza, della speranza, dei diritti civili dei neri, ben rappresentati nella bellissima foto di copertina di Gordon Parks “Outside Looking In”, tratta dall’opera di questo paladino della cultura afroamericana, confermano che Mavis Staples non ha dimenticato neppure la lezione di Pops Staples che per tantissimi anni ha guidato con fermezza una delle famiglie più importanti della storia della musica, non solo nera. L’iniziale Change è subito un grido di sfida ma anche di speranza, con la potenza di un brano che tira di brutto grazie alla chitarra decisamente rock di Holmstrom che mulina riff impetuosi, mentre CC White e Laura Mace rispondono con fierezza gospel  alle esortazioni di una Mavis veramente infervorata come ai tempi d’oro degli Staples Singers e la sezione ritmica risponde colpo su colpo; Anytime, con una chitarrina funky insinuante è sempre e comunque gospel-soul di grande intensità, grazie al call and response tra le due ragazze e la voce profonda e risonante, rauca e vissuta se vogliamo, ma sempre devastante della Staples. We Get By è una splendida ballata cantata a due voci da Ben Harper e Mavis Staples, con i due che si sostengono a vicenda con la forza della migliore musica soul mentre Holmstrom lavora di fino con la sua chitarra.

Non manca il funky-soul gagliardo ed incalzante di una orgogliosa ed intensa Brothers And Sisters, dove si apprezza la classe e la coesione della band (ascoltate il giro di basso devastante di Jeff Turmes) che accompagna la nostra amica. E a proposito di intensità non manca certo in Heavy On My Mind, solo la voce di Mavis, un tamburello e la chitarra elettrica di Rick Holmstrom, mentre Sometime, ancora con accenti tra R&B e gospel, è più mossa e vivace, con la solista riverberata a caratterizzarla, e a seguire un’altra ballata di quelle sontuose, Never Needed Anyone, cantata ancora una volta alla grande da una ispirata Mavis https://www.youtube.com/watch?v=x_f_X2TN1IE . Stronger ha riferimenti biblici nel testo e un piglio musicale dove rock, gospel  e blues convivono con forza, anche grazie al lavoro sempre stimolante e variegato della chitarra di Holmstron https://www.youtube.com/watch?v=vnX7m6fPlpU  ,che sostiene appunto con forza una ennesima impetuosa prestazione vocale della Staples e delle due vocalist di supporto. Chance On Me è un blues-rock di notevole potenza, con ennesimo assolo da sballo di Holmstron e prestazione vocale super della Staples https://www.youtube.com/watch?v=SS9BpWhOZ7M , mentre Hard To Leave, che rende omaggio a Marvin Gaye nel testo, è un’altra ballata di grande intensità emozionale e anche One More Change mantiene, in chiusura di disco, questo formato sonoro, grazie ad un’ altra interpretazione vocale da incorniciare di Mavis. Che classe questa signora, non finisce mai di stupire!

Bruno Conti

Ecco Un Altro Gruppo Che Non Sbaglia Un Disco Neanche Volendo! Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

marley's ghost travelin' shoes

Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes – Sage Arts CD

Quando si parla di gruppi che rielaborano la tradizione country, folk e bluegrass in chiave moderna la mente va subito a Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turles, ma spesso ci si dimentica di citare i Marley’s Ghost, sestetto californiano in giro da più di trent’anni. Una band di veterani quindi, ed infatti i capelli dei membri sono ormai irrimediabilmente grigi (quando non del tutto assenti), ma la loro forza nel suonare ed abilità nel produrre grande musica è pari a quella dei gruppi citati sopra. I Marley’s Ghost (Mike Phelan, chitarre, dobro, basso, violino e voce, Ed Littlefield Jr., chitarre, steel, basso e voce, Jon Wilcox, mandolino, chitarre e voce, Dan Wheetman, basso, steel, chitarra e voce, Jerry Fletcher, piano e voce, Bob Nichols, batteria) sono meno rock sia degli Old Crow che dei Fratelli Avett, pur avendo una sezione ritmica ed usando qua e là anche la chitarra elettrica, ma si rifanno più direttamente a sonorità tradizionali di generi come country, bluegrass, folk, gospel e old time music, rilette comunque con grande forza ed eccellente perizia strumentale.

 

Non hanno inciso moltissimo in 32 anni, appena una dozzina di album, ma proprio per questo quando esce una loro pubblicazione si può stare certi che non sarà una delusione. I loro ultimi due lavori, i bellissimi Jubilee e The Woodstock Sessions, erano prodotti da Larry Campbell, uno che con questo tipo di musica va a nozze, ed infatti i nostri lo hanno voluto a bordo anche per questo nuovissimo Travelin’ Shoes, un album davvero splendido, forse ancora più bello dei precedenti, in cui il sestetto rivisita a modo suo una serie di brani della tradizione gospel, con l’aggiunta di appena due brani originali. Il risultato è di altissimo livello, una strepitosa collezione di brani che rivedono il gospel aggiungendo cospicue dosi di ritmo, passando dal country al rock al bluegrass con estrema disinvoltura, e senza un attimo di tregua. Che non ci troviamo di fronte ad un disco qualsiasi lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, che inizia per voce e banjo, poi entra il resto del gruppo ed anche la sezione ritmica comincia a farsi sentire: il binomio tra l’accompagnamento grintoso e la melodia tipicamente folk è vincente, in gran parte grazie alla fusione delle varie voci. Hear Jerusalem Moan è un traditional molto noto, ed è eseguito con uno splendido arrangiamento tra gospel e bluegrass, con alternanza tra parti vocali ed assoli strumentali (particolarmente belli quelli di violino e pianoforte);You Can Stand Up Alone, dopo un lungo intro a cappella, è eseguita in maniera cadenzata e con una deliziosa veste doo-wop anni sessanta (e la chitarra è elettrica), rilettura irresistibile, tra le più belle del CD.

Someday è scritta da Campbell, ed è un saltellante country-gospel contraddistinto da una performance in punta di dita ed all’insegna della classe sopraffina di cui i nostri sono provvisti in grande quantità. So Happy I’ll Be è un vecchio pezzo di Flatt & Scruggs, un coinvolgente gospel sullo stile di brani come Will The Circle Be Unbroken e Amazing Grace, superbamente eseguito e cantato alla perfezione; nell’insinuante Shadrack i nostri sembrano degli epigoni di Tennessee Ernie Ford, con quel tipico approccio old style ed un bel botta e risposta tra voce solista e coro, il tutto con un vago sapore jazzato. Run Come See Jerusalem è un capolavoro, sembra uscita di botto da un disco anni settanta di Ry Cooder, dall’intro di chitarra elettrica, all’atmosfera a metà tra Hawaii e Messico (c’è anche una fisarmonica), ed il coro fa la parte che fu di Bobby King e Terry Evans: magnifica. Judgement Day, unico pezzo originale dei nostri (ad opera di Wheetman), è un altro highlight assoluto, una splendida western ballad elettrica che sarebbe piaciuta a Johnny Cash, vibrante e dalla melodia epica, When Trouble’s In My Home richiama ancora Cooder (quello di Boomer’s Story), canzone tra folk, gospel e blues, con slide acustica ed intesa vocale perfetta, mentre Standing By The Bedside Of A Neighbor è uno scintillante e ritmato western swing con il grande Bob Wills come riferimento principale. Chiudono l’album la cristallina A Beautiful Life, puro country con un tocco di gospel, e con Sweet Hour Of Prayer, un toccante slow pianistico e corale che ha quasi il sapore di un brano natalizio.

Con Travelin’ Shoes i Marley’s Ghost hanno aggiunto un altro gioiello ad una collezione già preziosissima: tra i dischi più belli di questa prima parte di 2019, almeno nel genere country e derivati.

Marco Verdi

Sempre Raffinatissimo Gospel Soul Rock Tra Sacro E Profano. Mike Farris – Silver & Stone

mike farris silver & stone

Mike Farris – Silver And Stone – Compass Records/Ird

Mike Farris ha vissuto due vite, almeno a livello musicale: la prima come voce solista degli Screamin’ Cheetah Wheelies, rockers intemerati, selvaggi e potenti, che praticavano il rock sudista più carnale negli anni ’90, la seconda, dopo la sua conversione da ex peccatore pentito, ad eccelso praticante della musica gospel e soul, con una voce naturale e dalla modulazione perfetta, in grado di toccare i cuori degli ascoltatori, grazie ad un timbro vocale temprato dall’ascolto e dalla frequentazione con cantanti come Sam Cooke, Otis Redding, Al Green e altri mostri sacri della musica nera. Il nostro amico lo ha fatto con una eccellente serie di album solisti, inaugurata nel 2002 con Goodnight Sun, e perfezionata con altri quattro dischi, Salvation In Lights, lo splendido Shout! Live, Shine For All The People https://discoclub.myblog.it/2014/09/29/ex-peccatore-convertito-al-grande-gospel-soul-mike-farris-shine-for-all-the-people/ , per arrivare a questo nuovo Silver And Stone.

Registrato in quel di Nashville, Tennessee, con la produzione scrupolosa di Garry West,  che suona anche il basso nel CD, e guida una pattuglia di musicisti notevoli tra cui spiccano Gene Chrisman, leggendario batterista di Aretha Franklin, Elvis Presley e Solomon Burke, presente solo per Are You Lonely For Me Baby?, negli altri brani c’è Derrek Phillips,  Doug Lancio, l’ex chitarrista di Hiatt, ora nella band di Joe Bonamassa (che fa anche lui un cameo in un brano, in ricordo dei tempi in cui giovanissimo apriva i concerti degli Screamin’ Cheetah Wheelies), Paul Brown e Reese Wynans, che si alternano alle tastiere, Rob McNelly, il chitarrista di Delbert McClinton, e il suo bassista Steve Mackey, George Marinelli, solista con Bonnie Raitt, oltre ad una nutrita pattuglia di musicisti ai fiati e alle armonie vocali, in particolare le bravissime Wendy Moten e Shonka Dukureh. Con tutto questo ben di Dio è ovvio che l’album sia più che godibile, anzi gustoso: Tennessee Girl parte subito alla grande, gospel, soul e blues cantati divinamente da Farris, con Jason Eskridge alla seconda voce, e un florilegio di fiati guidati da Jim Hoke, suo l’assolo di sax. A seguire arriva una splendida Are You Lonely For Me Baby?, il celeberrimo brano di Bert Berns, cantato in passato da Freddie Scott, Otis Redding, Al Green e una miriade di altri, con le donzelle che cominciano a titillare Mike, che la canta come fosse anche lui uno dei mostri sacri appena citati; Can I Get A Witness? non è quella di Marvin Gaye, ma un brano originale di Farris, sempre in controllo del suo timbro più suadente, pezzoche profuma comunque di Motown anziché no, mentre in Golden Wings, brano dedicato al figlio, una delicata ballata cantata con voce vellutata, si fa pensoso e malinconico, quasi saggio, dopo tutti questi anni.

Let Me Love You Baby è invece proprio il brano di Willie Dixon, scritto per Buddy Guy negli anni ’60, ma suonato anche da Stevie Ray Vaughan, Jeff Beck e Bonamassa, qui ripreso in una versione tra Motown psichedelica alla Tempation e rock, con un eccellente lavoro anche al wah-wah di Lancio e Farris che sembra lo Steve Winwood dei tempi d’oro, Hope She’ll Be Happier è una canzone sontuosa, non tra le più note di Bill Withers, ma sempre cantata e suonata “divinamente” (anche visto l’argomento) da Mike e i suoi musicisti. Snap Your Finger, con doppia chitarra, Lancio e Bart Walker, è decisamente più mossa e coinvolgente, un rock’n’soul elegante dove Farris se la gode con le ragazze (in senso figurato); Breathless, del canadese William Prince, è una piacevole pop song molto godibile, seguita da Miss Somebody, altra melliflua soul ballad dalla penna del nostro amico e da una strepitosa When Mavis Sings dedicata a Mavis Staples, un funky soul in puro stile Stax con il call and response tra Mike e le due ragazze https://www.youtube.com/watch?v=Vx3kMc69asg . Movin’ Me è uno slow blues’n’soul impreziosito da un falsetto delizioso e da un paio di gagliardi assolo al wah-wah di Joe Bonamassa. In chiusura una bellissima versione di I’ll Come Running Back To You, un vecchio brano di Sam Cooke, il suo primo pezzo non gospel, interpretato con misura, rispetto e classe da Farris e soci https://www.youtube.com/watch?v=Q5opv_mGht4 , che conoscono come maneggiare la materia quasi alla perfezione.

Bruno Conti

Blues + Gospel = Bryan Lee – Sanctuary

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Bryan Lee – Sanctuary – Ear Relevant Records

Bryan Lee è una istituzione del Blues a New Orleans, come ricordano il suo sito e parecchi amanti di questa musica, ma è anche il “Braille Blues Daddy”, perché come molti sanno il chitarrista e cantante, nativo di Two Rivers nel Wisconsin, è cieco dall’età di otto anni, anche se questo non gli ha impedito di diventare uno dei  musicisti più considerati e rispettati nell’ambito delle 12 battute. Lee vive da più di 35 anni a New Orleans, ma prima era stato a lungo anche a Chicago, dove aveva imparato tutti i trucchi del mestiere dai grandi, tra cui Muddy Waters che gli aveva pronosticato un luminoso futuro (scusate l’involontario gioco di parole) tra le leggende di questa musica. Forse non è diventato una leggenda, ma sicuramente è uno degli outsiders di lusso del Blues, con una discografia non ricchissima, ma sempre di qualità più che buona ed alcune punte di eccellenza, tipo i due Live all’Old Absinthe di New Orleans, usciti sul finire degli anni ’90 (con ospiti James Cotton, Frank Marino e Kenny Wayne Shepherd), ristampati in un doppio vinile lo scorso anno, e che sia pure a fatica si trovano ancora, come parte della sua discografia.

Del suo ultimo album, Play One For Me, uscito sul finire del 2013, vi avevo parlato positivamente su queste pagine virtuali https://discoclub.myblog.it/2013/10/11/suonera-ancora-il-blues-e-non-solo-per-voi-bryan-lee-play-on/ , e visto il prolungato silenzio e l’età di 75 anni raggiunta nel frattempo, si poteva pensare sarebbe stato l’ultimo. Invece il buon Bryan che gira ancora per concerti regolarmente nel Nord America e ogni tanto anche in Europa, ha pensato bene di pubblicare un disco Sanctuary, dove il suo amore abituale per blues e R&B viene arricchito da forti elementi  gospel, sia nei testi, che nella musica. Il tutto nasce sette anni fa da una giornata e nottata in quel di Svalbard, Norvegia, in cui Lee “si sogna” un arrangiamento della celebre The Lord’s Prayer, che poi viene debitamente registrata con musicisti locali e messa da parte, insieme ad un altro brano, per usi futuri. Che arrivano a fruizione nel nuovo album, registrato in quel di Milwaukee, WI, con la produzione di Steve Hamilton, ed una nuova band con il bassista Jack Berry, il batterista Matt Liban  e Jimmy Voegeli  alle tastiere, oltre alla seconda chitarra di Marc Spagone e il bravissimo Greg Koch ospite in un paio di brani alla dobro slide guitar, nonché la voce femminile di Deirdre Fellner nei brani dall’accento più gospel. Per il resto Bryan Lee si conferma grande stilista della chitarra e ancora in possesso di una voce efficace, come dimostra sin dalla iniziale Fight For The Light dove il classico groove della musica di New Orleans si fonde alle lodi al Signore e ai pungenti interventi della chitarra solista nel finale da classico blues, poi reiterati nell’eccellente shuffle The Gift, che ricorda nel testo alcuni grandi del blues e del R&R con grande verve.

Poi si torna al voodoo gumbo della Louisiana per la sinuosa Jesus Gave Me The Blues e ai ritmi deliziosi da Mardi Gras della splendida U-Haul, in cui Voegeli sfodera il suo miglior piano alla Dr. John e Lee alcuni tocchi di classe alla chitarra, mentre l’evocativo dobro di Greg Koch punteggia l’avvolgente gospel della delicata Sanctuary, prima di lanciarsi tutti insieme appassionatamente nel pungente slow della classica Mr. Big, dove la chitarra viaggia alla grande. Only If You Praise The Lord, dalla andatura ondeggiante alla Ray Charles, è un altro gospel dove si apprezza anche la voce della Fellner, oltre a Voegeli a piano e organo, Don’t Take My Blindness For A Weakness viceversa è un raffinatissimo blues lento con la solista sempre fluida e puntuale nel suo lavoro, e I Ain’t Gonna Stop miscela ancora blues e gospel con classe. The Lord’s Prayer, uno dei due brani registrati a Oslo nel 2011, riporta orgogliosamente come autore “John The Baptist” (!?!) ed è un intenso brano tra gospel e soul, con una grande e sentita prestazione vocale di Lee, mentre Jesus Is My Lord And Saviour è un pezzo tra jazz e blues, un classico botta e risposta tra chitarra e organo che ricorda il sound del miglior Ronnie Earl e chiude “in gloria” un bel dischetto.

Bruno Conti

Un’Altra “Rampolla” Di Gran Classe, Sempre Più Degna Figlia Di Tanto Padre. Amy Helm – This Too Shall Light

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Amy Helm – This Too Shall Light – Yep Rock

Anche nel recensire il precedente album di Amy Helm https://discoclub.myblog.it/2015/08/02/degna-figlia-tanto-padre-amy-helm-didnt-it-rain/ non avevo potuto fare a meno di citare, sin dal titolo, lo stretto grado di parentela di Amy con quella che giustamente è considerata una delle figure più importanti della scena musicale americana, ovvero il babbo Levon Helm, di cui peraltro la nostra amica è stata negli ultimi anni di vita del musicista dell’Arkansas, una delle più strette collaboratrici a livello musicale, oltre a coltivare nello stesso periodo una carriera in proprio come leader di quella piccola grande band che sono stati (e forse saranno ancora, visto che non hanno mai ufficializzato un eventuale scioglimento), ovvero gli Olabelle  https://discoclub.myblog.it/2011/09/01/forse-non-imprescindibile-ma-sicuramente-molto-bello-ollabel/, oltre ad essere apparsa nel corso degli anni come ospite in dischi dei musicisti più disparati che si possono considerare suoi spiriti affini. Per questa nuova avventura This Too Shall Light, il suo secondo album da solista, la Helm ha scelto di farsi produrre da un artista che di solito è garanzia di qualità, per cui ha preso baracca e burattini e si è trasferita dall’amata base casalinga in quel di Woodstock a Los Angeles, agli United Recording Studios di Hollywood, quelli dove opera abitualmente Joe Henry, perché è lui che ha curato la cabina di regia di questo nuovo disco, coadiuvato dalla solita pattuglia di eccellenti musicisti che abitualmente si alternano nei dischi di Henry: Jay Bellerose alla batteria, Jennifer Condos al basso, Adam Minkoff alla chitarra acustica, l’ottimo tastierista Tyler Chester (alcuni ascoltati anche nel recente album di Joan Baez https://discoclub.myblog.it/2018/03/12/uno-splendido-commiato-per-una-grandissima-artista-joan-baez-whistle-down-the-wind/ , prodotto proprio da Henry), con l’aggiunta alle chitarre di Doyle Bramhall II, altro produttore ed arrangiatore di valore, di cui a giorni è in uscita un nuovo album Shades, che lo conferma ancora una volta ottimo come gregario di lusso per altri musicisti, ma non del tutto convincente in proprio, come leggerete a breve nella mia recensione.

Tornando al disco della Helm, un altro degli ingredienti fondamentali è la presenza di molte voci di supporto, oltre a Bramhall e Minkoff, anche JT Nero Allison Russell, che sono essenziali nel creare quella ambientazione gospel-soul che tipicizza il folk-country-rock, vogliamo chiamarla Americana music, che da sempre caratterizza la musica di Amy. Importante è anche stata la scelta dei brani: Joe Henry, per chiarire quale tipo di musica avrebbe voluto creare ha fatto sentire alla Helm Motel Shot di Delaney & Bonnie, che non è una brutta base di partenza da cui sviluppare le sonorità di un disco. Che poi l’album sia venuto meno “esuberante” e più intimo e raccolto è dovuto anche alla personalità ed alla voce forse meno esplosiva della Helm stessa. Comunque un ottimo disco, che si apre sulle note della title track This Too Shall Light, un brano scritto da M.C. Taylor Josh Kaufman degli Hiss Golden Messenger, che benché “nordisti” come Amy, hanno, come lei, un profondo amore per la musica del Sud degli States, per il gospel e e il soul, meticciati con il rock e il blues, e il cui testo cita Voices Inside (Everything Is Everything) di Donny Hathaway, uno degli autori considerati minori della musica nera, ma grande talento: la canzone è una delle più mosse del disco, una ballata mid-tempo guidata dalla chitarrina insinuante di Bramhall, dalle tastiere risonanti di Chester e dalle voci di supporto che avvolgono la calda e partecipe tonalità di Amy che intona la melodia con spirito delicato ma forte al contempo di questa splendida canzone che conferma la classe innata della figlia di Levon, lei che si ispira da sempre a personaggi come gli Staples Singers per la propria musica intrisa di vibrante spiritualità.Odetta che è il brano che lo stesso Joe Henry ha portato alle sessions, è stato ovviamente riadattato per la voce e lo stile più emozionale della Helm, cantante dalla voce sempre carica di pathos, un brano elettroacustico, molto variegato, ma anche vicino alle traiettorie sonore più raffinate degli arrangiamenti della Band, con piano, soprattutto, e chitarra acustica, in bella evidenza, che sposano il country-gospel-rock con l’appeal di una cantautrice classica, sempre con le voci di supporto immancabili in questo dipinto sonoro.

Milk Carton Kids, altri recenti “clienti” di Joe Henry, offrono alla causa la loro Michigan, dal secondo disco Prologue, un brano che grazie all’organo fluente di Chester, che rimanda a quello del grande Garth Hudson, è un altro acquerello delizioso e delicato che unisce le distese dei Grandi Laghi del nord con la musica del più profondo Sud, un altro gospel soul di grande intensità vocale e strumentale, con l’organo che mi ha ricordato anche il suono quasi “classico” del non dimenticato Matthew Fisher dei Procol Harum, una meraviglia cantata in modo quasi trasfigurato dalla nostra amica. Anche Allen Toussaint, un’altra delle leggende del deep soul intriso di gospel della musica di New Orleans, viene omaggiato con una intensa rilettura di una delle sue canzoni più vicine allo spirito sociale della dichiarazione per i diritti sociali come Freedom For The Stallion, altra piccola meraviglia di equilibri sonori dove la voce trae ispirazione da quella di grandi cantanti nere come Gladys Knight Ann Peebles, ma anche di Mavis Staples, ed il breve break chitarristico di Bramhall è un’altra piccola perla, all’interno dello scrigno. Mandolin Wind era una delle più belle canzoni nel disco più bello di Rod Stewart Every Picture Tells A Story, e uno, vista la presenza di una mandolinista provetta come Amy Helm, degna erede del babbo anche nell’uso di quest strumento, si sarebbe aspettato un uso massiccio dello stesso, invece astutamente nell’arrangiamento viene sostituito dalla slide insinuante di Bramhall, eccellente nel suo contributo alla grana sonora malinconica e romantica del pezzo, dove anche tutto il resto della band, piano in primis, fornisce un apporto corale ad una interpretazione vocale da incorniciare. Ancora un organo sontuoso apre la parafrasi sonora di un brano come Long Daddy Green, una canzone di impianto jazzy di una cantante minore come Blossom Dearie, che Amy ascoltava con grande piacere nella sua formazione musicale giovanile e che rinasce a nuova vita come un blues solenne frequentato dai fantasmi delle grandi voci del passato.

Papà Levon viene ricordato con un brano scritto da Robbie Robertson The Stones I Throw, una composizione che viene dal periodo pre-Band, 1965, quando si chiamavano ancora Levon And The Hawks, un brano gioioso ed esuberante, nuovamente tra gospel, rock e soul, in quello stile che poi avrebbero perfezionato negli anni a venire, ma che era già perfettamente formato all’epoca e viene felicemente catturato in questa elegante riproposizione. Per Heaven’s Holding Me, l’unico brano originale scritto a quattro mani dalla Helm con Joe Henry, Paul Owen e Ted Pecchio, Amy estrae per una unica volta dalla custodia il suo mandolino, per una canzone d’amore gentile e dai sentimenti delicati dove spicca ancora la grande sensibilità ed il talento di interprete sopraffina di una voce per l’occasione anche fragile e quasi vicina al punto di rottura, ma che però non si spezza, sempre sorretta comunque dalla estrema raffinatezza degli arrangiamenti che circondano il suo percorso sonoro. T-Bone Burnett è sicuramente uno dei grandi rivali di Joe Henry tra i produttori più bravi e ricercati in circolazione, ma per l’occasione appare come autore di River Of Love, un brano poco noto tratto dal suo album omonimo del 1986, altra canzone di ottima fattura, con il piano nuovamente in bella evidenza, ancora una volta a sottolineare quello spirito gospel e soul malinconico, veicolato quasi in modo vulnerabile dalla voce raccolta e intima, sempre comunque ben sostenuta dalle sottolineature precise dei cantanti di supporto. E proprio un gospel tradizionale come Gloryland, cantato a cappella dalla Helm con il supporto corale di tutti gli altri vocalists, chiude un album che la conferma come una delle interpreti più interessanti e solide della musica d’autore. In definitiva direi veramente un bel disco, per chi ama la buona musica.

Bruno Conti