Blues + Gospel = Bryan Lee – Sanctuary

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Bryan Lee – Sanctuary – Ear Relevant Records

Bryan Lee è una istituzione del Blues a New Orleans, come ricordano il suo sito e parecchi amanti di questa musica, ma è anche il “Braille Blues Daddy”, perché come molti sanno il chitarrista e cantante, nativo di Two Rivers nel Wisconsin, è cieco dall’età di otto anni, anche se questo non gli ha impedito di diventare uno dei  musicisti più considerati e rispettati nell’ambito delle 12 battute. Lee vive da più di 35 anni a New Orleans, ma prima era stato a lungo anche a Chicago, dove aveva imparato tutti i trucchi del mestiere dai grandi, tra cui Muddy Waters che gli aveva pronosticato un luminoso futuro (scusate l’involontario gioco di parole) tra le leggende di questa musica. Forse non è diventato una leggenda, ma sicuramente è uno degli outsiders di lusso del Blues, con una discografia non ricchissima, ma sempre di qualità più che buona ed alcune punte di eccellenza, tipo i due Live all’Old Absinthe di New Orleans, usciti sul finire degli anni ’90 (con ospiti James Cotton, Frank Marino e Kenny Wayne Shepherd), ristampati in un doppio vinile lo scorso anno, e che sia pure a fatica si trovano ancora, come parte della sua discografia.

Del suo ultimo album, Play One For Me, uscito sul finire del 2013, vi avevo parlato positivamente su queste pagine virtuali https://discoclub.myblog.it/2013/10/11/suonera-ancora-il-blues-e-non-solo-per-voi-bryan-lee-play-on/ , e visto il prolungato silenzio e l’età di 75 anni raggiunta nel frattempo, si poteva pensare sarebbe stato l’ultimo. Invece il buon Bryan che gira ancora per concerti regolarmente nel Nord America e ogni tanto anche in Europa, ha pensato bene di pubblicare un disco Sanctuary, dove il suo amore abituale per blues e R&B viene arricchito da forti elementi  gospel, sia nei testi, che nella musica. Il tutto nasce sette anni fa da una giornata e nottata in quel di Svalbard, Norvegia, in cui Lee “si sogna” un arrangiamento della celebre The Lord’s Prayer, che poi viene debitamente registrata con musicisti locali e messa da parte, insieme ad un altro brano, per usi futuri. Che arrivano a fruizione nel nuovo album, registrato in quel di Milwaukee, WI, con la produzione di Steve Hamilton, ed una nuova band con il bassista Jack Berry, il batterista Matt Liban  e Jimmy Voegeli  alle tastiere, oltre alla seconda chitarra di Marc Spagone e il bravissimo Greg Koch ospite in un paio di brani alla dobro slide guitar, nonché la voce femminile di Deirdre Fellner nei brani dall’accento più gospel. Per il resto Bryan Lee si conferma grande stilista della chitarra e ancora in possesso di una voce efficace, come dimostra sin dalla iniziale Fight For The Light dove il classico groove della musica di New Orleans si fonde alle lodi al Signore e ai pungenti interventi della chitarra solista nel finale da classico blues, poi reiterati nell’eccellente shuffle The Gift, che ricorda nel testo alcuni grandi del blues e del R&R con grande verve.

Poi si torna al voodoo gumbo della Louisiana per la sinuosa Jesus Gave Me The Blues e ai ritmi deliziosi da Mardi Gras della splendida U-Haul, in cui Voegeli sfodera il suo miglior piano alla Dr. John e Lee alcuni tocchi di classe alla chitarra, mentre l’evocativo dobro di Greg Koch punteggia l’avvolgente gospel della delicata Sanctuary, prima di lanciarsi tutti insieme appassionatamente nel pungente slow della classica Mr. Big, dove la chitarra viaggia alla grande. Only If You Praise The Lord, dalla andatura ondeggiante alla Ray Charles, è un altro gospel dove si apprezza anche la voce della Fellner, oltre a Voegeli a piano e organo, Don’t Take My Blindness For A Weakness viceversa è un raffinatissimo blues lento con la solista sempre fluida e puntuale nel suo lavoro, e I Ain’t Gonna Stop miscela ancora blues e gospel con classe. The Lord’s Prayer, uno dei due brani registrati a Oslo nel 2011, riporta orgogliosamente come autore “John The Baptist” (!?!) ed è un intenso brano tra gospel e soul, con una grande e sentita prestazione vocale di Lee, mentre Jesus Is My Lord And Saviour è un pezzo tra jazz e blues, un classico botta e risposta tra chitarra e organo che ricorda il sound del miglior Ronnie Earl e chiude “in gloria” un bel dischetto.

Bruno Conti

Un Chitarrista Sopraffino, E Anche Gli Altri Non Scherzano. Koch Marshall Trio – Toby Arrives

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Koch Marshall Trio – Toby Arrives – The Players Club/Mascot

Gli americani li chiamano organ trios, ma in effetti lo strumento protagonista è principalmente la chitarra elettrica, anche se l’organo svolge una funzione tutt’altro che secondaria, quasi alla pari con la solista, e pure la batteria non scherza, quindi manca solo il basso, sostituito dai pedali dell’organo: per portare il paragone un po’ agli estremi potremmo dire che pure i Doors erano un organ trio, con cantante, mentre nel Koch Marshall Trio siamo in un ambito totalmente strumentale. Un altro album di cui abbiamo parlato recentemente, quello dal vivo del Jimmie Vaughan Trio, era molto simile come approccio http://discoclub.myblog.it/2017/11/05/pochi-ma-buoni-ora-anche-dal-vivo-jimmie-vaughan-trio-featuring-mike-flanigin-live-at-c-boys/ , anche se qualche brano cantato lì c’era, e in quel caso il repertorio era costituito interamente da cover, per lo più riprese da vecchi brani degli anni ’50 e ’60, mentre in questo disco è tutto materiale originale composto, o, se preferite, “improvvisato” per l’occasione. Altri praticanti, con qualche variazione, di questa materia, possono essere Ronnie Earl con la sua band, ma ultimamente aggiunge spesso vocalist e fiati, andando nel passato Danny Gatton con Joey DeFrancesco, anche Stevie Ray Vaughan e Reese Wynans oppure Roy Buchanan e Dick Heinze nei pezzi strumentali. Per non dire di un brano classico come Still Raining, Still Dreaming da Electric Ladyland, dove Jimi Hendrix veniva affiancato da Mike Finnigan e in Voodoo Chile c’era Steve Winwood, anche se il capostipite si potrebbe considerare Jimmy Smith, sia con Kenny Burrell che con Wes Montogomery: si potrebbe andare avanti per delle ore, ma quelli sono i punti di riferimento per Greg Koch, chitarra solista, il figlio Dylan Koch alla batteria, e il protagonista del titolo dell’album Toby Lee Marshall, vero virtuoso dell’organo Hammond B3 (e forzando un po’ il detto, veramente due braccia rubate all’agricoltura, in quanto si era ritirato dalla musica per lavorare in una fattoria).

Anche Greg Koch è un virtuoso della chitarra, solista dotato di grande tecnica, feeling e profonde conoscenze, tanto che sia la Fender che Guitar Player lo hanno usato a lungo come “esperto” dello strumento. Nel suo ultimo disco di quasi 5 anni fa fa Playing Well With Others era circondato da moltissimi amici (da Bonamassa a Robben Ford, passando per Paul Barrère e Jon Cleary) con ottimi risultati http://discoclub.myblog.it/2013/11/03/c-e-sempre-qualcuno-bravo-che-sfugge-greg-koch-band-plays-we/ , gli ospiti per questo Toby Arrives spariscono ma non i risultati, un sound spettacolare, caratterizzato proprio dalle gioie della improvvisazione pura, per gli amanti di chitarra e organo. Koch babbo per l’occasione utilizza una Gibson Les Paul del ’58 nei primi due brani, il sinuoso e potente shuffle Toby Arrives che è proprio un parente stretto del brano di Hendrix appena citato, con l’aggiunta di quel chicken pickin’ che era caratteristica di Buchanan e Gatton,  di cui non fa rimpiangere i virtuosismi estremi attraverso scale musicali quasi impossibili, mentre Marshall “scivola” di brutto con il suo organo e Koch junior swinga di gusto  e in Funk Meat, come da titolo, il sound si fa più rotondo come ritmi, ma la solista ha sempre un suono limpido, nitido e pungente come pochi chitarristi possono vantare, con un controllo dello strumento veramente magnifico e una fluidità di tocco impressionante con le note che escono dalla Gibson di Koch in un fiume inarrestabile.

Anche quando passa, per i restanti sette pezzi dell’album, alla amata Fender Telecaster con dei pickups modello Greg Koch (!), potenziata da un fuzz box: scusate i tecnicismi, ma qui per gli amanti della chitarra c’è veramente da godere, pur se il suono rimane caldo e coinvolgente, con un susseguirsi di assoli veramente splendidi, come nella divertente Heed The Boogaloo che corre su un ritmo che richiama i vecchi groove dei brani Stax di Wilson Pickett o ancor di più i brani strumentali di Booker T & Mg’s, ma con la solista che ha gli stessi virtuosismi del miglior Roy Buchanan, al limite del preternaturale https://www.youtube.com/watch?v=Svj-VZXjiOo  e pure l’organo non scherza. Let’s Go Sinister, sempre uno shuffle, è più sinuosa e swingante, ma la chitarra continua a creare mirabilie sonore, tipiche dei brani strumentali dei grandi virtuosi del blues. Mysterioso il brano più lungo, con i suoi quasi 10 minuti, entra nei territori cari ad un Robben Ford o ad un Allan Holdsworth, con sonorità decisamente più orientate verso il jazz-rock virtuosistico e qualcosa di Zappa; Enter The Rats introduce qualche elemento di country picking, ma giusto un tocco, il tutto comunque preso a velocità sbalorditive, mentre Boogie Yourself Drade, come il titolo lascia intuire, è un boogie southern alla ZZ Top o alla Thorogood, con il trio a tutto riff, e che non si risparmia ancora una volta. Ancora southern per la conclusiva Sin, Repent, Repeat, dove Greg Koch passato alla slide, ricostruisce le atmosfere dei fratelli Allman, Duane e Gregg, altro brano notevole per un album veramente da consigliare a chi ama la chitarra in tutte le sue coniugazioni. Esce il 23 febbraio.

Bruno Conti

Ancora “Italiani Per Caso”, Ma “Americani Dentro”, Questa Volta Tocca a Valter Gatti – Southland

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Valter Gatti – Southland – fonoBisanzio/Ird

Valter (con la V, credo per problemi all’anagrafe italiana) Gatti è l’ennesimo musicista italiano indipendente innamorato della musica degli Stati Uniti, anzi, come si deduce dal titolo del disco, Southland, quella del Sud degli States. Il nostro amico nasce, per mantenere l’analogia, nel Sud della Lombardia, nel lodigiano, ma opera, come giornalista e divulgatore nella zona di Padova (quindi una sorta di “collega”): questo disco è il suo esordio discografico, a quasi 60 anni, portati bene, decide di registrare un album per rendere omaggio alla musica che ha sempre ascoltato. E per realizzarlo si affida a una pattuglia di musicisti italiani: Paolo Costola, dobro, slide, chitarre elettriche ed acustiche, Valerio Gaffurini, Hammond, Fender Rhodes e piano, Larry Mancini, basso e Albert Pavesi, batteria, oltre alle armonie vocali di Raffaella Zago e alla viola e violino di Michele Gazich, che cura anche la produzione del disco, sempre citare i nomi, lo meritano. Non contento di tutto ciò contatta anche alcuni musicisti americani di “culto” per suonare nel CD: Greg Martin dei Kentucky Headhunters http://discoclub.myblog.it/tag/kentucky-headhunters/ , Chris Hicks, attuale chitarrista della Marshall Tucker Band e Greg Koch, grande chitarrista, testimonial della Fender per il modello Telecaster http://discoclub.myblog.it/2013/11/03/c-e-sempre-qualcuno-bravo-che-sfugge-greg-koch-band-plays-we/ .

E tutti gli rispondono di sì. Nel progetto viene coinvolto anche Massimo Priviero, per duettare in uno dei due brani cantati in italiano, nell’altro c’è Gazich. Il risultato è un disco di southern-folk-country-blues- rock, con un paio di cover di assoluto pregio, scelte con cura, All Along The Watchtower di Dylan e The Joker della Steve Miller Band. Se proprio devo fare un appunto (da appassionato ad appassionato) Gatti non ha una voce particolarmente memorabile, si affida ad uno stile vocale diciamo leggermente “laconico”, a tratti una sorta di parlar-cantando o viceversa, ma gli arrangiamenti curati di Gazich e la buona qualità delle canzoni e degli interventi solisti degli ospiti rendono il disco molto piacevole, per chi ama questa musica. E così scorrono l’iniziale Southland, un brano dall’atmosfera quasi celtica grazie alla viola di Gazich, ma anche derive “desertiche” americane; All Along The Watchtower viene proposta in una veste tra folk e rock, di nuovo grazie al guizzante violino di Michele sembra quasi una outtake di Desire, e ottimo anche il lavoro della slide di Costola.

Raffiche Di Vento, con il controcanto di Priviero e l’eccellente lavoro della tagliente chitarra solista di Chris Hicks, è un gagliardo pezzo rock, come pure la successiva In Your Town, una bella ballata sudista dalla melodia avvolgente con l’ottimo Greg Martin che colora il brano con la sua lirica chitarra. Lifelong Blues, come da titolo, illustra un’altra delle passioni di Valter, il blues, un altro pezzo percorso dalla chitarra di Martin e dal violino di Gazich, mentre Take Me As I Am è una delicata e struggente ballata pianistica. Nella cover di The Joker si cerca di ricreare l’atmosfera divertita e divertente del brano originale, sempre scanzonato e godibile; Gloomy Witness con l’ottima solista di Koch in evidenza, ha di nuovo quell’andatura ondeggiante del Dylan di Desire, miscelata al Knopfler più americano, ottima. E In My Boots alza ulteriormente l’asticella del southern rock classico, Greg Martin ci dà dentro con la sua solista e il brano galoppa. In chiusura il duetto folk con Gazich nella quasi parlata Dove Sei, intima e raccolta. Un bel dischetto.

Bruno Conti