Ripassi Estivi 2. Cosa Fa Un Metallaro Inglese Quando Diventa Solista? Facile: Del Country-Rock, E Lo Fa Bene! Danny Worsnop – The Long Road Home

danny worsnop the long road home

*NDB Proseguono i recuperi delle recensioni di album usciti da qualche tempo, in questo caso più che di ripassi estivi parliamo di recuperi annuali, visto che l’album è stato pubblicato addirittura a febbraio del 2017, ma noi “non lo bocciamo”!

Danny Worsnop – The Long Road Home – Earache CD

Quando ho visto la copertina di questo disco, ho pensato a Danny Worsnop come l’ultimo di una lunga serie di nuovi artisti country, magari originario degli stati del sud visto l’aspetto fisico. Poi ho preso qualche informazione, e ho scoperto che Worsnop proviene in realtà dall’Inghilterra, non esattamente la patria del country, ma soprattutto che il suo curriculum comprende la leadership di un gruppo hard rock, i We Are Harlot, e addirittura di una band metalcore, gli Asking Alexandria, nella quale milita tuttora. Non è la prima volta che un cantante passa da un genere all’altro con estrema disinvoltura, basti pensare a Hank Williams III, ma è chiaro che un po’ di diffidenza ce l’avevo. Ebbene, devo ammettere che The Long Road Home (esordio solista di Danny) è un buon disco di moderno rockin’ country, che non sembra assolutamente il prodotto di un metallaro in vacanza: le uniche tracce dei suoi trascorsi si possono riscontrare nel suono robusto e per nulla incline a sdolcinature e nella sua voce arrochita, tipica da rocker vissuto (e vissuto lo è davvero, in quanto ha un recente passato all’insegna di problemi con alcool e droghe).

The Long Road Home mostra quindi la versatilità del nostro, ed il fatto che la sua passione per il country sia autentica e non di convenienza: le canzoni sono dirette, elettriche, ben suonate da un manipolo di sessionmen abbastanza sconosciuti (nessuno dei quali, va detto, appartiene agli altri gruppi di Danny), ed il disco è decisamente riuscito e gradevole, con diversi momenti addirittura sorprendenti. Prozac, che apre il CD, è una ballata elettrica dal passo lento, cantata con buon piglio da Danny e con un coro in sottofondo di derivazione quasi gospel: tutto sembra tranne che un metallaro inglese. Mexico è un robusto country-rock dal sapore sudista, chitarre in palla ed un buon refrain, non solo grinta ma anche feeling, I Feel Like Shit (titolo bello diretto) è un vivace pezzo a metà tra rockin’ country e honky-tonk, contraddistinta dalla vocalità aggressiva del nostro ed un accompagnamento degno di una bar band texana; Anyone But Me è un’ottima ballata ariosa e distesa, un pezzo di qualità superiore sia dal punto di vista della scrittura che dell’esecuzione, che dimostra che Danny ha le carte in regola per fare questo tipo di musica.

La lenta e malinconica High è una gradita oasi elettroacustica, con la steel che ricama sullo sfondo ed un mood evocativo, la vigorosa I Got Bones è puro rock con tracce di southern, al punto da farmi quasi dimenticare la provenienza britannica di Worsnop (ottime qui le parti di chitarra). La tersa Quite A While è dotata di un buon ritornello corale, Don’t Overdrink It è un godibilissimo honky-tonk elettrico dal ritmo contagioso, che conferma, per dirla con Mourinho, che Danny non è un pirla, mentre I’ll Hold On è una bella ballad elettrica, ben costruita e con sonorità classiche basate su chitarra ed organo. L’album si chiude con la grintosa e diretta Midnight Woman, l’ottima Same Old Ending, quasi una ballata texana (tra le migliori del CD), e con la quasi punkeggiante The Man, che lascia fuoriuscire prepotentemente l’anima rock del nostro.

Un disco che sarebbe già notevole se fosse il frutto di un’artista texano o dell’Alabama, ma il fatto che sia farina del sacco di un musicista originario dello Yorkshire, e per di più con dei trascorsi in ambito metal, lo rende ancora più interessante.

Marco Verdi

Scrive, Canta E Suona…E Fa Tutto Bene! Rudy Parris – Makin’ My Way

rudy parris makin' my way

Rudy Parris – Makin’ My Way – Warrior CD

Rudy Parris, countryman californiano di origine pellerossa (e lo avevo capito ancora prima di documentarmi, basta guardarlo in faccia) è in giro da diversi anni, anche se Makin’ My Way è il suo esordio come musicista in proprio. Diventato famoso con la terza edizione del talent americano The Voice (ma niente paura, in America sono un filo meglio dei nostri)), Rudy ha subito dimostrato di non essere un burattino, ma anzi si è messo in mostra, inizialmente come chitarrista, diventando in breve tempo il solista della band di Hank III, uno che non scherza (quando non pubblica ciofeche pseudo-metal). E Makin’ My Way rivela un talento vero, non solo alla sei corde, ma anche come songwriter e cantante: Rudy è infatti in possesso di una bella voce, con sfumature soulful, che gli consente di essere incisivo anche nei brani più a sfondo sudista; in più, il suo è un country ad alto tasso elettrico e ritmico, che, un po’ come nel caso di Dwight Yoakam (ma non siamo ancora a quei livelli) parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens e Merle Haggard, principali fonti d’ispirazione per Rudy, per costruire una serie di canzoni energiche, vigorose, piene di ritmo e feeling, mantenendo la guardia alta anche nelle ballate.

Il disco, prodotto da Parris stesso con Jim Ervin, e suonato da un gruppo non molto noto ma sicuramente tosto di turnisti, non è stato inciso neppure a Nashville, bensì nei leggendari studi Capitol di Los Angeles, ed anche questo è un indizio sul fatto che il nostro non è un fantoccio ma un musicista vero, fisicamente è la classica “personcina”. Rudy usa tutti gli strumenti canonici, come violino, steel e banjo, ma le chitarre prendono quasi sempre il sopravvento, assistite in ogni momento da una sezione ritmica rocciosa, come si evince dal brano d’apertura, la grintosa Party Out Back, dove violino e steel sono al loro posto ma l’assolo principale è di slide, ed il ritmo è parecchio sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=-2SWVghPES0 . Cowboy Cry è più fluida e rilassata, comunque un solido esempio di country che sta dalla parte giusta, mentre la title track, introdotta da un suggestivo talkin’ di Michael Madsen (uno degli attori-feticcio di Quentin Tarantino) è uno dei pezzi centrali del disco, una gustosissima square dance song con interventi vocali proprio di Hank III, oltre che di Little Joe (musicista texano-messicano leader di Little Joe Y La Familia) e la chitarra del grande Pete Anderson: un brano che mette di buon umore con il suo ritmo coinvolgente e la melodia trascinante.

Angels Can Fly è una toccante ballata con elementi californiani (infatti ha qualcosa degli Eagles più romantici); per contro Miles Away è una pura rock song, introdotta da un riff di chitarra duro come la roccia, un brano robusto e decisamente southern, seguito a ruota dall’intrigante Mini Van, country rock elettrico puro e semplice, ancora con ritmo acceso e ritornello godibile. La vibrante Zombies Dressed In Abercrombie (bel titolo), ancora tesa e roccata, precede lo slow If I Could Only Have You, forse un po’ meno ispirata delle precedenti, anche se la sua melodia ruffiana potrà essere la chiave giusta per aprirsi diversi passaggi radiofonici. My Halo, preceduta ancora da un breve parlato di Madsen, è puro country, saltellante e solare, una delle più dirette del CD; disco che termina con la ruspante Sho Is Fine, la tosta ed altamente chitarristica Swamp Cooler (che dimostra la forza del nostro), e la tenue e bucolica Down The Road, anch’essa caratterizzata da uno squisito refrain.

Era tempo che Rudy Parris ci facesse sentire la sua voce, e Makin’ My Way è l’affermazione di un talento di cui, speriamo, sentiremo ancora parlare.

Marco Verdi

Husky Burnette – Ain’t Nothin’ But A Revival. Catalogare Sotto Southern-Blues-Rock, “Bizzarro” Ma Efficace!

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Husky Burnette – Ain’t Nothin’ But A Revival – Rusty Knuckles Music

Husky Burnette appartiene a quella variegata schiatta di artisti, bizzarri e sopra le righe, che popolano il mondo della musica indipendente americana. Spesso autodefinitisi “leggendari”, o per meriti propri, o perché a loro volta hanno frequentato musicisti cosiddetti leggendari: tipo, nel caso di Burnette, che è stato il loro chitarrista, ci viene detto di Roger Alan Wade e Hank Williams III, mica cotica! Al di là del fatto che ero convinto che i musicisti leggendari fossero ben altri, e forse il nostro amico, di leggende ne ha in effetti un paio nel proprio albero genealogico, due tra gli inventori del R&R e del rockabilly, Johnny & Dorsey Burnette (della stessa dinastia anche Rocky, Billy e Tim). Comunque, per inquadrarlo, questo signore è nato in quel di Chattanooga, Tennessee, un imprecisato numero di anni fa, ha al suo attivo già tre album solisti https://www.youtube.com/watch?v=wF9DMjvI_f0 , compreso questo Ain’t Nothin’ But A Revival, e anche se forse probabilmente non sarà mai una leggenda, fa comunque della buona musica, un blend di blues, rock, southern, armato della sua chitarra https://www.youtube.com/watch?v=_UaZWtcciWw e di un bella voce, potente e vissuta, il nostro amico ci regala undici brani di sapida musica di marca sudista.

Best I Can, posta in apertura, non ha nulla da invidiare ai migliori brani degli ZZ Top degli anni ’70, chitarre a manetta, anche con pedale wah-wah innestato, ritmi boogie e voce polverosa. Trucco che viene ripetuto anche in Kick Rocks https://www.youtube.com/watch?v=itRv-BMEBNg , di nuovo vocione in evidenza, una armonica soffiata con potenza, aggiunta per alzare la quota blues e chitarra che spara riff a raffica; 36 Degrees illustra il lato più gentile dell’animo di Burnette, una bella ballata che profuma di sapori del Sud, illuminata da un pregevole assolo di slide nella parte centrale https://www.youtube.com/watch?v=Rcyc0vMacXU . Pay By The Hour, il brano più lungo dell’album, è un altro pezzo di chiara impostazione blues, ancora con l’armonica in evidenza (suonata nell’album da JD Wilkes dei Legendary Shack Shakers), mentre altrove Andy Gibson,  anche lui dalla band di Hank III unisce la sua chitarra a quella di Husky e i ritmi sono più canonici e tradizionali, a momenti anche presi a prestito dai classici (mi è sembrato di cogliere il riff di Spoonful).

Chicken Grease è un breve momento di follia sonora, in comune con certe cose di Scott H. Biram, altro personaggio bizzarro con cui ha diviso i palcoscenici, mentre Southbend/High Head ritorna al granitico southern boogie à la ZZ Top con chitarre fumanti in bottleneck style. Dog Me Down, costruita intorno ad un giro di basso, è un altro tuffo nel blues sporco e cattivo persino con richiami a Tom Waits, con armonica ed una seconda voce femminile aggiunta alle procedure (Bethany Kidd, non conosco, ma comunque brava). O’Neal Dover, batteria e Yattie Westfield, basso, tengono il ritmo con caparbia grinta in tutto l’album, meno che in Busted Flat, un blues acustico per sola chitarra, voce ed armonica. Ma Husky Burnette eccelle soprattutto quando può alzare il volume e tuffarsi in un blues-rock sanguigno e tosto come in See, I Moan The Blues, dove può smanettare la sua chitarra con libidine e pure in When My Train Comes, sempre a tutto riff. Di nuovo slidin’ blues per la conclusione di questo Ain’t Nothin’ But A Revival, affidata a Dirty Gettin’ Down, un proclama fin dal titolo https://www.youtube.com/watch?v=38NkLVZRrBY . Personaggio minore ma non privo di attrattive per gli amanti del genere: file under southern-blues-rock.

Bruno Conti