Una Intrigante Ed Inconsueta Antologia Di Canzoni Da Funerale. Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night

paul kelly & charlie owen death's dateless night

Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night – Cooking Vinyl

E’ indubbio che nell’attuale panorama musicale certi dischi nascono per delle coincidenze strane e questo di cui mi accingo a parlarvi, Death’s Dateless Night, rientra sicuramente in questa casistica. Paul Kelly (di cui abbiamo parlato ampiamente su queste pagine virtuali, l’ultima volta per il disco su Shakespeare http://discoclub.myblog.it/2016/04/30/memoria-william-shakespeare-succedeva-400-anni-fa-paul-kelly-seven-sonnets-song/ ), mentre si dirigeva ad un funerale in auto con un suo amico, appunto il polistrumentista e produttore australiano Charlie Owen, si sia chiesto (come molti di noi) quale canzone vorremmo che suonassero al nostro funerale (il sottoscritto per esempio si è già prenotato per Hallelujah di Leonard Cohen): come conseguenza, a questi due mancati rappresentanti delle pompe funebri, è venuta l’idea di registrare un album di tali canzoni, in parte rispolverate dal repertorio di Kelly, altre da brani tradizionali e piccoli “classici” australiani, e alcune cover d’autore (Cohen, Townes Van Zandt, Beatles, Hank Williams).

Detto fatto i due “compari” si sono messi al lavoro nella casa di Owen (un tipo che nella sua carriera ha fatto parte di gruppi dai nomi poco conosciuti, ma amati da chi segue il rock australiano, quali New Christs, Tex, Beasts Of Bourbon) e con Paul alle chitarre acustiche e Charlie che suona di tutto, dal dobro alla lap-steel, dal pianoforte al sintetizzatore, con l’aggiunta occasionale dei membri della famiglia Kelly, con alle parti vocali le figlie Maddy e Memphis, e la sorella Mary,  hanno registrato 12  canzoni affidatie alla  produzione di “padre” Greg Walker (Herbie Hancock, Kenny G. e altri). I “Salmi”, se così vogliamo chiamarli, iniziano in gloria con la pianistica e delicata Hard Times scritta da Stephen Foster, accompagnata da una seducente armonica, a cui fanno seguito una solare cover di To Live Is To Fly, pescata dal repertorio di Townes Van Zandt; ci fanno poi conoscere uno sconosciuto autore australiano come LJ Hill, con la tenue e dolcissima Pretty Bird Tree, rispolverano un vecchio pezzo tradizionale “ blues Make Me A Pallet On Your Floor, rivisitato in chiave “bluegrass” dove si nota la bravura di Owen, per poi recuperare da Wanted Man (94) di Paul Kelly, una nuova versione di Nukkunya con l’armonica in evidenza.

Dopo un attimo di “raccoglimento” si riparte con una vecchia canzone irlandese The Parting Glass (dei fratelli Clancy e Tommy Makem), cantata in modo meraviglioso da Paul “a cappella”, seguita da un’altra sua composizione Meet Me In The Middle Of The Air (questa era sul suo album “bluegrass” Foggy Highway (05), dove vengono riportate le parole del Salmo 23 (spesso recitate ai funerali), mentre la versione dello “standard” Don’t Fence Me In con l’apporto di Maddy Kelly e il coro di Memphis (con la lap-steel di Charlie), è dolce e gentile. Pochi accordi di chitarra e un pianoforte accompagnano e rendono omaggio a Leonard Cohen, con la sempre dolce melodia di Bird On A Wire, senza dubbio la versione migliore del lavoro, e ancora Good Things a ricordare un loro amico scomparso Maurice Frawley (suonava con Paul in uno dei suoi primi gruppi, i Dots), mentre il coro di Memphis e la figlia Maddy si uniscono a papà Paul e Charlie per una educata cover di Let It Be del duo di autori minori britannici tali Lennon-McCartney, e in chiusura di cerimonia viene rivisitata in forma acustica, solo chitarra (Charlie) e voce (Paul) la nota e triste Angel Of Death di un Hank Williams d’annata.

Con questo Death’s Dateless Night prosegue l’interesse di Kelly nel fare dischi a tema (all’inizio di quest’anno ha pubblicato, come ricordato, un EP dedicato ai sonetti di  William Shakespeare Seven Sonnets & A Song), e anche se il rischio che da questa unione con Owen potesse uscire un lavoro “deprimente” era alta, la scelta delle canzoni, scritte da artisti con cui Paul ha condiviso un percorso personale e musicale, si è dimostrata invece un punto di forza (nonostante la particolare tematica del disco), e il risultato finale è quello di un lavoro ben fatto, suonato e cantato bene, con una forte risonanza emotiva, per quanto minore e “carbonaro”.

Gira voce che i due “becchini”, entusiasti del risultato, stiano pensando di fare un sequel. Amen!

Tino Montanari

Una (Parziale) Rivincita Per L’Hank “Sbagliato”! Hank Williams Jr. – It’s About Time

hank williams jr. it's about time

Hank Williams Jr. – It’s About Time – Nash Icon/Universal CD

Nascere figli di Hank Williams e voler fare i musicisti non è facile, ma Hank Williams Jr., nel corso delle ormai quasi sei decadi di carriera, ci ha messo spesso e volentieri del suo per offrire il fianco alle critiche, complice una qualità media discografica altalenante (però comprensibile quando hai quasi sessanta album all’attivo, live ed antologie esclusi) e soprattutto testi che palesavano uno spirito patriottico un tantino qualunquista (per usare un eufemismo), una religiosità un po’ stucchevole ed una simpatia politica abbastanza evidente per il partito repubblicano (quasi un peccato mortale in ambito artistico per l’intellighenzia americana, mentre io penso che ognuno abbia il diritto di professare la propria ideologia in santa pace, tanto quello che conta è la musica). Ma Hank Jr. non è mai stato un beniamino della critica, anche perché musicalmente molto spesso si è lasciato andare a soluzioni non proprio raffinatissime, altre volte rivestendo le proprie canzoni con arrangiamenti discutibili, ma sovente, bisogna dirlo, i suoi dischi non sfiguravano affatto nell’ambito di un certo country-rock imparentato con la musica del Sud (sua area d’origine peraltro), e diverse volte il suo suono robusto non ha mancato di intrattenere a dovere gli ascoltatori, come è successo anche con il suo penultimo lavoro, il discreto Old School New Rules del 2012.

Ora Hank fa anche meglio, in quanto It’s About Time è, testi a parte, un signor disco di rockin’ country vigoroso ma non banale, con una dose più che sufficiente di feeling ed una serie di buone canzoni, suonate e cantate con il piglio giusto ed arrangiamenti asciutti e diretti (la produzione è di Julian Raymond, già collaboratore per molti anni di Glen Campbell): un bel disco dunque, direi anche un po’ a sorpresa dato che Williams Jr. non ha mai sfornato capolavori, né ha mai goduto di un gran credito (a differenza dei figli Holly, davvero brava, e Hank III, che però a fianco di ottimi dischi country ha pubblicato anche immani porcate quasi metal) ed è sempre stato guardato dall’alto in basso. L’album inizia subito col piede giusto, intanto perché Are You Ready For The Country di Neil Young è una grande canzone, e poi perché Hank ne fa una versione accelerata e decisamente più roccata (tra l’altro in duetto con Eric Church), un trattamento che dà nuova linfa ad un classico: chitarre e sezione ritmica dominano, ma c’è anche un tagliente violino a dire la sua (il grande Glen Duncan, e nel disco suona anche il leggendario steel guitarist Paul Franklin). La sciovinista Club U.S.A. è un rock’n’roll tiratissimo che non sfigurerebbe nel repertorio dei migliori Lynyrd Skynyrd, che in quanto a sciovinismo pure loro non scherzano, un pezzo davvero trascinante (e Hank, è giusto ricordarlo, ha anche una bella voce), God Fearin’ Man è ancora un southern country roccioso e potente, Hank non molla la presa e ci circonda di ritmo e chitarre a manetta (ed anche il refrain non è niente male), mentre Those Days Are Gone è più rilassata, un honky-tonk cadenzato dal suono comunque pieno e con la giusta dose di elettricità e “sudismo”.

https://www.youtube.com/watch?v=aoA-KwmUaAk

La divertente (nel testo) Dress Like An Icon ha anch’essa un bel tiro e non fa calare la tensione di un disco fino a questo momento sorprendente; God And Guns la conoscevamo già nella versione proprio degli Skynyrd (era anche il titolo di un loro album del 2009), e se il testo è una dichiarazione di intenti a favore di Donald Trump (o di chiunque vincerà le primarie repubblicane), musicalmente il brano è un southern rock teso ed affilato, con un trascinante finale a tutta potenza. Just Call Me Hank è invece una ballata scorrevole e molto più country, ma con un suono sempre deciso, la saltellante Mental Revenge (un classico di Mel Tillis, ne ricordo una bella versione anche dei Long Ryders) è scintillante e godibilissima; la title track è invece un country-rock dalla melodia contagiosa che conferma lo stato di ottima forma di un musicista spesso bistrattato.     L’album si chiude con il rutilante swing roccato di The Party’s On, la lunga Wrapped Up, Tangled Up In Jesus, puro gospel del Sud ( e ci sono le McCrary Sisters ai cori), dal ritmo sempre sostenuto e con un tocco swamp, e con la travolgente Born To Boogie (titolo che è tutto un programma), nella quale Hank divide il microfono con Brantley Gilbert, Justin Moore e Brad Paisley, il quale rilascia anche un assolo chitarristico dei suoi.

Bando agli snobismi: Hank Williams Jr. non sarà certo diventato all’improvviso un genio della musica, ma It’s About Time è un bel disco, e questo bisogna riconoscerglielo.

Marco Verdi

Una Riscoperta Quantomeno Opportuna! Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 & One Of The Lonely Ones

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Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 – Universal 13CD (14LP) Box Set 

Roy Orbison – One Of The Lonely Ones – Universal CD

Quando si parla di Roy Orbison, una delle più grandi voci rock di sempre, si tende a considerare principalmente la fase iniziale della sua carriera, quando cioè incidendo per la Monument pubblicò tutti i suoi maggiori successi, da Oh, Pretty Woman a Only The Lonely passando per Running Scared, Crying e In Dreams (solo per citare alcune tra le più note), oppure gli ultimi anni prima dell’improvviso decesso, quando era finalmente riuscito a riassaporare il piacere della popolarità, o perché no i suoi esordi presso la Sun Records, ma spesso ci si dimentica che, tra la seconda metà degli anni sessanta ed i primi anni settanta Roy si era accasato presso la MGM ed aveva continuato ad incidere con grande regolarità. Anni difficili per The Big O, sia professionalmente (i tempi e le mode stavano cambiando con rapidità, e c’era poco spazio nelle classifiche per le canzoni romantiche del nostro) sia dal punto di vista della vita privata, in quanto nel giro di poco tempo Roy perse in tragiche circostanze sia la prima moglie Claudette che due dei suoi tre figli (rispettivamente in un incidente stradale ed in un incendio casalingo). Ma Orbison non si diede per vinto, e si rifugiò nella musica più che mai, anche se con esiti commerciali incerti: la qualità delle sue incisioni si manteneva comunque su livelli medio-alti, come testimonia questo prezioso box che riunisce tutti i dischi incisi in quel periodo, aggiungendo una compilation di b-sides e brani apparsi solo su singolo, a cura dei tre figli superstiti di Roy (Wesley, Roy Jr. ed Alex), che si occupano degli archivi del padre dopo la scomparsa nel 2011 di Barbara, seconda moglie ed anche manager del cantante texano. Oltre al box The MGM Years (molto ben fatto e con un esauriente libretto di 65 pagine, anche se non a buon mercato – ma i vari CD sono stati ristampati anche singolarmente) i Roy’s Boys, così si fanno chiamare i tre figli, hanno pubblicato separatamente una vera chicca, cioè un intero disco inciso da Roy nel 1969 e mai messo in commercio, intitolato One Of The Lonely Ones, un album inciso di getto in risposta ai tragici eventi della sua vita. Ma andiamo con ordine.

roy orbison mgm years

 

The MGM Years: come già detto sono presenti gli undici album pubblicati da Roy in quel periodo (There Is Only One Roy Orbison, The Orbison Way, The Classic Roy Orbison, Sings Don Gibson, Cry Softly Lonely One, Roy Orbison’s Many Moods, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Roy Orbison Sings (titoli molto fantasiosi), Memphis e Milestones), rimasterizzati ad arte e presentati in pratiche confezioni simil-LP, una colonna sonora mai realizzata su CD (The Fastest Guitar Alive) ed il già citato B-Sides And Singles. Come già accennato, i dischetti presenti nel box (tutti molto corti e senza bonus tracks, si va da un minimo di 24 minuti ad un massimo di poco più di mezz’ora, a parte la compilation di singoli) sono decisamente godibili, senza particolari differenze di suono e stile tra uno e l’altro: la classe di Roy non la scopriamo certo oggi, ed in più in quegli anni aveva raggiunto una tale potenza e maturità vocale da consentirgli di affrontare con disinvoltura qualsiasi tipo di canzone, un po’ come Elvis negli anni settanta. Roy alterna le sue tipiche canzoni ricche di melodia (molte scritte con i partner abituali Bill Dees e Joe Melson) con altri pezzi più rock’n’roll, un uso degli archi misurato e non pesante e soprattutto la sua formidabile voce a rendere degne di nota anche le canzoni più normali. Qualche titolo sparso (ma potrei citarne il quadruplo): la nota Claudette, dedicata alla moglie quando era ancora in vita https://www.youtube.com/watch?v=tUZBijp0En0 , l’emozionante Crawling Back, Ride Away, la fluida Ain’t No Big Thing, la scintillante Go Away, la trascinante City Life, la drammatica Amy, l’insolita Southbound Jericho Parkway, una mini-suite di sette minuti con elementi psichedelici, non proprio il pane quotidiano per Roy.

Oppure interi album di alto livello, come Cry Softly Lonely One (che ha punte di eccellenza nella romantica She, la fulgida Communication Breakdown https://www.youtube.com/watch?v=5CHygiovJD8 , la classica title track, puro Orbison al massimo della sua espressività vocale, o il gioiellino pop Only Alive), o i tre album di cover (gli omaggi a due leggende della musica country come Don Gibson e Hank Williams, due dischi coi fiocchi, o Memphis, composto interamente di brani rock e country contemporanei). Per non parlare di The Big O, forse il migliore in assoluto tra tutti, un disco roccato e diretto, con un suono elettrico che ricorda le prime incisioni con la Sun, dove spiccano Break My Mind, con un ritornello corale irresistibile, il rifacimento di Down The Line (periodo Sun), dove Roy assomiglia più a Jerry Lee Lewis che a sé stesso https://www.youtube.com/watch?v=_TxtofIPdFg , la magnifica Loving Touch e la gioiosa Penny Arcade.

E poi ci sono le cover sparse, e Roy con la voce che si ritrovava riusciva a far sua qualsiasi canzone: Unchained Melody (da pelle d’oca), Help Me, Rhonda (Beach Boys), I Fought The Law (sempre bellissima), Sweet Caroline (Neil Diamond), Only You (Platters), Land Of 1000 Dances, Words (Bee Gees) solo per citarne alcune https://www.youtube.com/watch?v=RFIKES6yC1Y . Buon ultimo, The Fastest Guitar Alive, colonna sonora di uno strano western interpretato da Roy stesso, in cui il protagonista girava con una chitarra che all’occorrenza si tramutava in fucile: un dischetto curioso, non il migliore di quelli presenti, ma che contiene almeno due perle come la spedita Rollin’ On e la discreta Best Friend, ma anche cose un po’ ingenue come la stereotipata Pistolero, che sentita oggi fa un po’ sorridere.

roy orbison one of the lonely ones

One Of The Lonely Ones: un disco abbastanza in linea con gli standard del periodo, che vede il nostro in ottima forma nonostante i dolorosi fatti privati, anche se con un comprensibile aumento degli elementi malinconici. Dopo un’emozionante rilettura del classico di Rodgers & Hammerstein You’ll Never Walk Alone (un successo per Gerry & The Pacemakers e da sempre inno dei tifosi del Liverpool), con il tipico crescendo di Roy https://www.youtube.com/watch?v=DN9Na5KzRhw , abbiamo una bella serie di ballate ricche di pathos, canzoni mai sentite che finalmente ci vengono svelate, come la tesa Say No More, la deliziosa Laurie (uno come Chris Isaak godrà come un riccio ad ascoltare questi pezzi), la fluida title track, la soul-oriented Little Girl (che voce) o il valzerone countreggiante After Tonight, mentre The Defector è “solo” un buon riempitivo. Ma Roy non tralascia il rock, come la vibrante Child Woman, Woman Child, dal ritmo sostenuto e con diversi punti in comune con Oh, Pretty Woman (poteva diventare un classico) o la mossa Give Up, un rock’n’roll con interessanti cambi di tempo e similitudini con il suono di Buddy Holly. Infine, tre cover, due delle quali di Mickey Newbury (una rilettura pop, ma di gran classe, di Leaving Makes The Rain Come Down e Sweet Memories, che Roy fa sua al 100%) ed una toccante I Will Always ancora di Don Gibson. Peccato per la copertina, una delle più brutte mai viste.

Dopo la fine del contratto con la MGM Roy piomberà nel dimenticatoio per tutto il resto degli anni settanta e la prima metà degli ottanta (solo tre dischi: I’m Still In Love With You, discreto, Regeneration e Laminar Flow, trascurabili), per poi tornare clamorosamente in auge dal 1987 in poi, prima con la compilation di successi reincisi ex novo In Dreams, ma soprattutto con il fantastico A Black And White Night, uno dei migliori live degli anni ottanta (e non solo) https://www.youtube.com/watch?v=_PLq0_7k1jk  e con l’album Volume One ad opera dei Traveling Wilburys. Poi la morte per infarto, improvvisa, nel Novembre del 1988, che non gli ha permesso di vivere il grande successo del suo vero e proprio comeback record Mystery Girl e del singolo You Got It. Ma questa è un’altra storia: intanto godiamoci questi 14 dischetti, ricordandoci che, per parafrasare il titolo del primo CD del box, “di Roy Orbison ce n’è soltanto uno”.

Marco Verdi

P.S: se proprio non volete accaparrarvi il box al completo (in CD, quello in LP ha un costo ridicolmente alto), mi permetto di consigliare i seguenti titoli: The Orbison Way, Crw Softly Lonely One, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Memphis e Milestones. Oltre, ovviamente, a One Of The Lonely Ones.

Da Qui In Poi Il Mondo Del Rock Non E’ Stato Più Lo Stesso! Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Parte II

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Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Columbia/Sony 2CD – 3LP – Deluxe 6CD – Super Deluxe 18CD + 9 45rpm

Parte II

CD 3-8 – Highway 61 Revisited: il miglior disco di Dylan (ma Blonde On Blonde lo segue di un’attaccatura) è anche quello che regala più sorprese tra le outtakes: è incredibile notare come a distanza di pochi mesi anche lo stile di scrittura del nostro sia cambiato, molto più rock e blues che nel disco precedente, dove era ancora legato a stilemi folk. Intanto abbiamo quattro takes complete di If You Gotta Go, Go Now (la migliore è la prima), e non capisco come all’epoca sia stata pubblicata solo come lato B di un singolo uscito soltanto in Benelux (e nel 1967), ma poi ci sono diverse versioni di It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, tutte più veloci di quella quasi honky-tonk apparsa sull’album, anche se con arrangiamenti diversi tra loro (splendida la take 6, rock’n’roll allo stato puro, anche se purtroppo si interrompe, e niente male anche la 8, più bluesata https://www.youtube.com/watch?v=sp0AESxrPyk ). Anche la poco nota Sitting On A Barbed-Wire Fence fa la sua bella figura, specie la seconda take, con uno strepitoso Mike Bloomfield alla solista; uno dei momenti più piacevoli è la parte dedicata al singolo Positively 4th Street, dove la primissima take era già secondo me perfetta, più rilassata della versione pubblicata, mentre l’altra canzone uscita nel periodo su 45 giri, cioè Can You Please Crawl Out Your Window?, ha avuto come preferenza una delle versioni incise in seguito durante Blonde On Blonde con The Band, ma non ho problemi ad affermare che preferisco quella uscita da queste sessioni (ed una di queste takes all’epoca era stata messa per sbaglio sul lato B di alcune copie di 4th Street), più cantata e melodica, quasi un’altra canzone. Anche From A Buick 6 ha avuto una versione più veloce e roccata messa per errore sulla prima edizione di Highway 61 (ed io ne possiedo orgogliosamente una copia), e qui la troviamo; la sirena sulla title track originale non mi aveva mai convinto, molto meglio a mio parere la take 3, a tempo di boogie e con un Bloomfield spettacolare. Ma l’highlight lo troviamo sull’ottavo CD: a parte due takes incomplete di Medicine Sunday, un brano rimasto negli archivi, spicca la take 4 della grandissima Desolation Row in versione full band, una strepitosa versione mai sentita prima, una canzone indimenticabile in una veste completamente diversa (ce ne sarebbe un’altra altrettanto bella solo voce e piano, ma dura lo spazio di due minuti). Ho volutamente lasciato per ultimo il quarto CD, cioè quello interamente dedicato a Like A Rolling Stone (inserito anche nella versione sestupla), perché paradossalmente è la parte meno interessante del cofanetto, in quanto, dopo alcune prove iniziali (anche a tempo di valzer https://www.youtube.com/watch?v=fWn5fpr_IwA ) dove Dylan e la band “cercano” la melodia giusta e gli accordi adatti, abbiamo quasi subito la take 4 che è poi quella che tutti conosciamo; ebbene, secondo me si erano accorti anche loro di avere appena fatto la storia, in quanto dopo abbiamo altri nove tentativi suonati senza troppa convinzione e quasi per dovere istituzionale, ma avevano capito che la magia se n’era andata con quell’unica, magnifica take. (NDM: impagabile sentire Tom Wilson, poco prima della versione “giusta”, rivolgersi ad Al Kooper con un divertito “What are you doing out there?”, in quanto il musicista newyorkese, scritturato come chitarrista ritmico, si era seduto all’organo per provare il leggendario riff che contrassegnerà per sempre la canzone in questione e darà di fatto il via anche alla sua carriera di organista).

CD 9-17 – Blonde On Blonde: in realtà il nono dischetto prende in esame una session “spuria” di Dylan con The Band (allora ancora The Hawks e senza Levon Helm), dove vengono suonate diverse takes di I Wanna Be Your Lover, che si pensava di pubblicare come singolo ma poi è rimasta inedita fino a Biograph (non era comunque un grande brano, anche se il riff spaccava), oltre ad una interessante jam strumentale senza titolo e, soprattutto, una prima versione della splendida Visions Of Johanna (ma quella finita sul disco appartiene ad una sessione successiva incisa a Nashville con musicisti locali più Robbie Robertson), con un ritmo decisamente più sostenuto ed indubbiamente intrigante, certamente una delle perle del box (la take 5 è da urlo). Per quanto riguarda Blonde On Blonde, l’album in cui Dylan trovò quello che definì il “sottile e selvaggio sound al mercurio”, voglio limitarmi ai brani imperdibili (cosa che peraltro ho fatto finora, ma il materiale è talmente vasto), tra i quali vi è certamente una She’s Your Lover Now per voce e piano, magari formalmente imperfetta ma con un feeling da brividi: meritava assolutamente di finire sul disco, magari al posto di Pledgin’ My Time o Most Likely You Go Your Way. Poi abbiamo la costruzione passo dopo passo, frammento dopo frammento, della cristallina One Of Us Must Know, un brano letteralmente creato in studio, un’unica take dell’inedita Lunatic Princess, uno spigliato rock-blues dominato dal piano elettrico che meritava di essere approfondito, ed una deliziosa versione strumentale di I’ll Keep It With Mine senza Dylan ma con i Nashville Cats (nello specifico Charlie McCoy, Wayne Moss, Joe South e Kenny Buttrey).  Interessante poi vedere come Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again sia diventata quella che conosciamo, e per la quale personalmente non ho mai sbavato, solo alla fine, in quanto per tutte le takes è stata suonata con un ritmo più lento ed un arrangiamento blue-eyed soul secondo me più stimolante (e addirittura nella primissima prova come country ballad nashvilliana). Il tour de force (ma un tour de force di puro godimento), si chiude con la splendida I Want You, cioè quello che più assomigliava al tentativo di Bob di scrivere un singolo pop, la cui take 1 è abbastanza diversa da quella pubblicata ma quasi altrettanto bella https://www.youtube.com/watch?v=m_5q-uqNeE4 .

CD 18: ecco la chicca assoluta del box (presente solo in questa edizione), cioè una serie di brani acustici registrati dal nostro in camere d’albergo da solo o in compagnia in tre differenti momenti: otto brani al Savoy Hotel di Londra nel 1965 con Bob Neuwirth e Joan Baez (alcuni frammenti di questa particolare session sono immortalati nel famoso documentario Don’t Look Back https://www.youtube.com/watch?v=5VvHyCy5kDs ), sei al North British Station Hotel di Glasgow nel 1966 con Robbie Robertson e, nello stesso anno, altre sette canzoni in un non meglio specificato hotel di Denver, Colorado, alla presenza del noto giornalista Robert Shelton: tutto è informale al massimo, non si pensava certo ad una pubblicazione, ed anche la qualità del suono varia. I brani del Savoy sono solo cover, e sia sound che performance sono eccellenti: Dylan qui anticipa inconsciamente i Basement Tapes, con punte come la bellissima More And More (Webb Pierce), o il medley di tre classici di Hank Williams (Weary Blues From Waitin’, un’ispirata Lost Highway ed una I’m So Lonesome I Could Cry appena accennata), ma soprattutto il traditional Wild Mountain Thyme, in cui Bob e Joan armonizzano alla grande, facendo pensare che l’avessero provata prima a nastro spento. I brani di Glasgow e Denver sono ancora più interessanti, in quanto troviamo tutte canzoni inedite che Bob non riprenderà mai più: Glasgow è più una songwriting session che altro, con Dylan e Robertson che tentano di trovare la melodia e gli accordi giusti, a volte procedendo per tentativi, e sinceramente dispiace che questi pezzi verranno poi dimenticati, in quanto in almeno due casi (la romantica I Can’t Leave Her Behind e la folkeggiante If I Was A King) c’erano i germogli della grande canzone. A Denver, oltre a due performance in solitario di Just Like A Woman e Sad-Eyed Lady Of The Lowlands e altri due inediti minori (Don’t Tell Him, Tell Me e If You Want My Love) troviamo tre takes della misteriosa Positively Van Gogh, per decenni oggetto del desiderio dei collezionisti più incalliti. Peccato però che qui la qualità di registrazione non sia proprio il massimo, per usare un eufemismo.

In definitiva un box che definire strepitoso è il minimo: facendo le debite proporzioni, è come tornare indietro di centinaia di anni ed assistere dal vivo a Leonardo Da Vinci che dipinge la Gioconda; ho però troppo rispetto per i portafogli altrui per consigliare l’acquisto di questa versione, ma almeno quella sestupla è obbligatoria.

Questa non è solo musica: è storia.

Marco Verdi

Tre Album Belli Di Fila Non Sono Un Caso, Ormai E’ Uno Dei “Nostri”! Tom Jones – Long Lost Suitcase

tom jones long lost

Tom Jones – Long Lost Suitcase – Virgin/EMI CD

Thomas Jones Woodward, meglio conosciuto come Tom Jones, a settant’anni suonati (75, per la precisione) si è finalmente deciso a fare musica come si deve. Per più di cinque decenni infatti il cantante gallese ha messo la sua formidabile voce al servizio di canzonette pop di poco conto ( non sempre), che hanno sicuramente contribuito a portare il suo conto in banca a livelli notevoli, ma lo hanno sempre reso indigesto ai veri music lovers, perdendo poi anche una buona parte di dignità a inizio secolo con il suo comeback nelle classifiche grazie allo strepitoso successo della pessima Sex Bomb, dopo che ormai buona parte del pubblico lo riteneva artisticamente sepolto in quel cimitero degli elefanti che può essere per certi artisti Las Vegas. Poi, nel 2010, il clamoroso colpo di coda con l’ottimo Praise & Blame, un bellissimo disco nel quale Tom esplorava le sue radici folk, blues e gospel con un suono spoglio ed in gran parte acustico, con Ethan Johns (figlio del grande Glyn) in cabina di regia: un disco in cui il nostro dava nuova linfa a brani della tradizione più profonda, ai quali affiancava covers (Tom è sempre stato un interprete più che un autore) di gente come Bob Dylan, Billy Joe Shaver e Pops Staples.

Una metamorfosi che aveva dell’incredibile, con Johns nei panni di quello che Rick Rubin è stato per Johnny Cash nell’ultimo periodo della carriera dell’Uomo in Nero (che però non aveva mai smesso di fare buona musica, ma veniva soltanto da uno sfortunatissimo periodo alla Mercury, dopo essere stato lasciato a casa negli anni ottanta dalla Columbia) e, in parte, per Neil Diamond (gli album 12 Songs e Home Before Dark), che invece non aveva mai avuto un problema di vendite o di bontà nel songwriting, ma semmai di arrangiamenti gonfi e ridondanti e attitudine da superstar (del tipo “Io sono Neil Diamond e voi non siete un c****!”). La reazione a Praise & Blame fu tale che Tom nel 2012 bissò con l’altrettanto valido Spirit In The Room, che con lo stesso tipo di arrangiamenti essenziali prendeva in considerazione più che altro autori contemporanei (ancora Dylan, Tom Waits, Leonard Cohen, Paul McCartney, Paul Simon, Richard Thompson) ed anche talenti più recenti del calibro di Joe Henry e dei bravi Low Anthem. Ora Tom completa quella che può sembrare una trilogia con l’eccellente Long Lost Suitcase (che viene proposto come il CD di accompagnamento alla nuovissima autobiografia del gallese), un nuovo, bellissimo lavoro che dopo appena un paio di ascolti si rivela perfino superiore ai due precedenti.

Sempre prodotto da Johns Jr., Long Lost Suitcase vede il solito schema, cioè Jones che riprende classici del presente e del passato che hanno avuto una qualche influenza su di lui, ma stavolta con una maggiore propensione elettrica e diversi omaggi al blues (ma folk e anche qualcosa di country non mancano). Tom ha sempre una voce straordinaria nonostante i 75 anni (e l’età gli ha conferito anche un feeling che, repertorio commerciale a parte, in passato non aveva mai palesato), ha ormai trovato la sua dimensione ideale in queste interpretazioni, e Johns è il suo perfetto alter ego: in questo CD c’è molto blues come ho già accennato, ma anche più chitarre ed una sezione ritmica che si fa sentire in misura maggiore rispetto ai due album precedenti, decisamente più folk oriented. I musicisti presenti nel disco non sono molti: a parte Johns, che suona un po’ di tutto, abbiamo l’ottimo Fiachra Cunningham al violino, il noto chitarrista Andy Fairweather-Low (Eric Clapton, Roger Waters, ecc.) alla ritmica, Jeremy Stacey alla batteria, mentre al basso si alternano Ian Jennings e Dave Bronze.

L’album si apre con un pezzo poco noto di Willie Nelson, Opportunity To Cry (era su Pancho & Lefty, il disco del 1983 con Merle Haggard): la melodia è tipica del barbuto countryman texano, e l’arrangiamento spartano non fa che rendere giustizia al brano, con Tom che vocalmente si allinea alle performance da brivido di Willie. Honey Honey è la prima scelta sorprendente, un brano dei Milk Carton Kids, riproposto come se fosse un bluegrass di quando Tom aveva sì e no dieci anni, con banjo e violino a dettare legge e la brava irlandese Imelda May alla seconda voce; Take My Love (I Want To Give It) è il primo blues del CD (di Little Willie John), un giro classico, cantato in maniera potente dal gallese e la band che lo accompagna in maniera tesa ed elettrica, con un bel assolo centrale di Ethan. La nota Bring It On Home (Sonny Boy Williamson, ma anche Led Zeppelin) mantiene il disco in territori blues, con il gruppo che qui è molto più discreto e lascia campo libero alla voce di Tom, il quale si comporta come il più consumato dei bluesman; Everybody Loves A Train è un’altra bella scelta trasversale, un brano poco noto dei Los Lobos (era su Colossal Head, forse il disco più ermetico dei Lupi): Tom con la voce fa ciò che vuole, inizia parlando, quasi gigioneggia, poi nel refrain si lascia andare in tutta la sua potenza, mentre la band commenta in maniera quasi sporca, in pieno stile Lobos.

Nella sua biografia Jones darà sicuramente spazio anche ad Elvis Presley (nel booklet del CD è ritratto insieme a lui e Priscilla), ma invece di scegliere un brano del King opta per Elvis Presley Blues di Gillian Welch, offrendone un’interpretazione sofferta, drammatica, quasi alla Odetta, con Johns che lo circonda con una chitarra vibrata al limite della distorsione: quasi impensabile pensare che stiamo parlando dello stesso personaggio che cantava Delilah. Ed eccoci all’high point del disco (a mio parere): He Was A Friend Of Mine è un pezzo inciso da molti in passato, soprattutto in ambito folk (di Dave Van Ronk la versione più nota, ma anche Dylan la cantava spesso nelle coffeehouses del Village), e qui troviamo solo Tom ed Ehtan con la slide acustica, con il nostro che tira fuori una performance da pelle d’oca, al limite della commozione, sentire per credere. Factory Girl è proprio quella dei Rolling Stones, e qui Jones rispetta la melodia originale (ma che voce) e Johns la riveste di sonorità decisamente bucoliche, mentre con I Wish You Would (Billy Boy Arnold) si torna al blues ruspante, con una versione spedita e roccata, molto anni sessanta, ed una serie di assoli quasi ipnotici.

‘Til My Back Ain’t Got No Bone (di Eddie Floyd, l’ha fatta anche Albert King) rimane in zona blues, ma in maniera più tranquilla, con la solita voce che si staglia imperiosa; Why Don’ You Love Me Like You Used To Do? è un noto brano di Hank Williams, che vede Tom divertirsi con una interpretazione gioiosa e solare, in linea con l’originale, dandoci una delle prove più godibili del disco, quasi non avesse fatto altro che country nella sua carriera. L’album si chiude con la famosa Tomorrow Night (Lonnie Johnson, ma anche Elvis e Dylan), qui in veste jazz afterhours, molto raffinata, e con la deliziosa e countreggiante Raise A Ruckus, un traditional che hanno rifatto in mille, da Jesse Fuller a Uncle Earl, passando per Bill Kirchen e gli Old Crow Medicine Show.

Tom Jones è definitivamente rinsavito (meglio tardi che mai), e Long Lost Suitcase è indubbiamente uno dei dischi più belli del 2015.

Marco Verdi