Vecchio E Nuovo Rock, “Psichedelico”? Hans Chew – Open Sea

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Hans Chew – Open Sea – At The Helm Records

Hans Chew, anche se la pronuncia del suo nome e cognome ricorda molto quella di uno starnuto, è in effetti un artista piuttosto interessante: prima membro di una band “country psichedelica” come D. Charles Speer & the Helix, poi si è creato una reputazione per i suoi interventi al piano nei dischi di Jack Rose, e in seguito anche Hiss Golden Messenger, Chris Forsyth e più di recente ancora con Steve Gunn. Nel frattempo ha registrato tre album solisti, di cui il primo Tennessee & Other Stories era entrato quasi nella Top 20 dei migliori dischi dell’anno di Uncut nel 2010; da poco è uscito il suo quarto album, questo Open Sea di cui stiamo per occuparci, un prodotto piuttosto interessante che lo vede alla guida di un quartetto con Dave Cavallo, il suo chitarrista abituale, e una sezione ritmica formata dal batterista Jimmy Seitang (spesso con Michael Chapman e il citato Steve Gunn) e da Rob Smith alla batteria. Lo stile che ne risulta incorpora elementi di rock, blues, country con spiccate venature southern e anche tocchi R&B e folk, quindi un suono piuttosto eclettico, dove spicca il piano di Chew, ma ancor di più le chitarre, suonate di sovente pure da Hans, che sono spesso e volentieri le protagoniste, in sei brani, tutti piuttosto lunghi, a parte uno, e che ricordano abbastanza anche una sorta di psichedelia gentile, come evidenzia subito l’iniziale Give Up The Ghost, che potrebbe rimandare ad un album come Shady Grove dei Quicksilver Messenger Service.

Il nostro ha anche una bella voce, particolare, rauca, profonda e risonante, ben inserita nel tessuto sonoro che si apre in continue jam strumentali, e scrive pure pezzi di eccellente qualità, come conferma la guizzante Cruikshanks, oltre otto minuti di una sorta di country-southern-rock anni ’70 che ricorda anche (sia pure in modo più vibrante e meno compassato) le sonorità di Hiss Golden Messenger (aka MC Taylor), con le chitarre che si rincorrono in un continuo intreccio di rimandi psych di ottima fattura, con la band che tira alla grande e in piena libertà. Molto bella anche la title track Open Sea che ha addirittura dei tratti che potrebbero riferirsi ai Grateful Dead più bucolici, almeno nella parte iniziale, perché poi nel dipanarsi del brano non siamo lontani dalle evoluzioni di una band come i Magpie Salute oppure di altre jam band attuali, tipo i Widespread Panic, con le chitarre che vengono rinforzate da improvvise entrate fluenti del piano di Chew, veramente bella musica; si diceva che l’unico brano breve del disco è riferito ai circa quattro minuti di Who Am Your Love?, introdotta da una chitarra acustica, da piccole percussioni e poco altro, ma che poi nella seconda parte si anima e si apre in un classico rock and roll con tanto di uso della solista in modalità wah-wah.

Freely, con il suo titolo, e gli oltre nove minuti di durata, è nuovamente musica psichedelica, acid rock, chiamatela come volete, libera e molta improvvisata, con gli strumenti sempre in modalità jam, anche con tocchi jazz e leggermente sperimentali che non sono lontani da quelli di Chris Forsyth http://discoclub.myblog.it/2016/04/02/chitarre-go-go-psych-rock-television-richard-thompson-improvvisazione-chris-forsyth-the-solar-motel-band-the-rarity-of-experience/ , altro musicista con cui Chew ha condiviso una parte di percorso, cambi di tempo continuo, chitarre e piano che si alternano alla guida per creare paesaggi sonori di grande bellezza e nuovamente in piena libertà, ma anche con improvvisi ritorni alla melodia e alla forma canzone. La conclusiva Extra Mile è un brano quasi di cosmic country e Americana, con una sorta di pianino honky-tonk, la voce alla Leon Russell del titolare e le solite chitarre acustiche ed elettriche che non mancano di farsi sentire nell’economia musicale della canzone. Quindi un menu veramente ricco e vario che non mancherà di colpire chi è alla ricerca di qualità e idee brillanti, ben realizzate, anche se con continui rimandi alla tradizione della migliore musica americana classica. Segnatevi il nome, questo signore è veramente bravo.

Bruno Conti

Dopo Le Celebrazioni Poteva Mancare Un Bel Tributo Ai Grateful Dead? Various Artists. – Day Of The Dead. Giorno 2

day of the dead

VV. AA. – Day Of The Dead – 4AD/Beggars 5CD Box Set 

Seconda parte, segue da ieri http://discoclub.myblog.it/2016/05/24/le-celebrazioni-poteva-mancare-bel-tributo-ai-grateful-dead-various-artists-day-of-the-dead-giorno-1/

CD3: ecco ancora i National alle prese con un’emozionante rilettura di Peggy-O, un traditional ripreso di sovente da Garcia e soci: la bravura del gruppo sta nell’approcciare la canzone nel loro tipico stile senza modificarne la struttura, bravi; Bryce Dessner si presenta da solo con il bizzarro strumentale Garcia Counterpoint, seguito dalla suite Terrapin Station, ripresa in maniera perfetta da Daniel Rossen e Christopher Bear dei Grizzly Bear (con i National come backing band), uno dei momenti top del cofanetto. Clementine Jam è uno strumentale da parte dell’Orchestra Baobab, tra jazz e samba, gradevole ma superfluo, mentre la lunga jam China Cat Sunflower/I Know You Rider (Stephen Malkmus & The Jicks) è perfettamente calata nello spirito dell’operazione, chiudete gli occhi e quasi vi sembrerà di sentire i Dead. Splendida anche Jack-A-Roe, ad opera di Kate Stables alias This Is The Kit, con la sua suggestive atmosfera western anche se forse sarebbe più adatta ad una voce maschile. Bill Callahan si impegna molto per rovinare Easy Wind e direi che ci riesce, mentre Wharf Rat, ad opera di Ira Kaplan degli Yo La Tengo, è lunga, fluida, psichedelica ed indubbiamente azzeccata; ecco arrivare anche Lucinda Williams alle prese con il classico Going Down The Road Feelin’ Bad: Lucinda come al solito rallenta il ritmo (proprio non riesce a farne a meno, riuscirebbe a rallentare anche gli Iron Maiden), personalizzandola totalmente e condendo il tutto con la sua tipica voce sgraziata (so che sulla bionda rockeuse della Louisiana sono una voce fuori dal coro, ma proprio non ce la faccio…). Chiusura ottima con And We Bid You Goodnight, rifatta dal folksinger Sam Amidon con voce e poco altro.

CD 4: il dischetto più “difficile”, che però parte bene con una fluida Ripple eseguita da The Walkmen, indie band di New York che affronta la splendida canzone con lo spirito giusto, mentre purtroppo Truckin’ è letteralmente distrutta dai Marijuana Deathsquad, una versione rumoristica senza capo né coda, inascoltabile; anche la Dark Star dei Flaming Lips non mi piace per niente, rilettura modernista e finto-psichedelica, cantata in maniera imbarazzante. Stella Blue non mi faceva impazzire neppure nella versione dei Dead, figuriamoci sentirla così stravolta e destrutturata da parte dei Local Natives, ed il CD non si risolleva neppure con la caotica Shakedown Street degli Unknown Mortal Orchestra (ma chi sono?), ma stavolta anche per la pochezza della canzone. Finalmente un po’ di buona musica, ancora con l’Orchestra Baobab che dona un bel sapore caraibico a Franklin’s Tower, rendendola irriconoscibile ma intrigante; Tal National, da non confondere con i padroni di casa (sono un gruppo del Niger, ma dove li hanno trovati?), rilegge in maniera solare Eyes Of The World, e funziona, mentre il famoso banjoista Bela Fleck propone Help On The Way in una interessante versione tra roots e tribale. Estimated Prophet nelle mani dei Rileys diventa quasi un canto propiziatorio indiano (nel senso di pellerossa), fin troppo strana per i miei gusti, mentre What’s Become Of The Baby nelle mani degli Stargaze si trasforma in uno strumentale cerebrale e poco immediato (in poche parole, due palle). L’americano di origine indiana (dell’India stavolta) Vijay Iyer sarà anche un grande pianista classico, ma la sua King Solomon’s Marbles per piano solo mi annoia assai, mentre Bonnie “Prince” Billy, sempre solo col pianoforte ma anche con la voce, riesce ad emozionare con If I Had The World To Give.

CD 5: ancora Phosphorescent con il suo consueto stile crepuscolare/etereo alle prese con la bella Standing On The Moon, ed il gruppo di Matthew Houck si dimostra una scelta vincente; i Tallest Man On Earth, band svedese, rilegge invece Ship Of Fools con pieno rispetto dell’originale ma con un tocco personale, e la canzone ne esce alla grande. Di nuovo Bonnie “Prince” Billy con Bird Song, altra bella rilettura, molto classica e con la melodia in primo piano. Brown-Eyed Women è una delle preferite in assoluto dal sottoscritto, e sono lieto che gli Hiss Golden Messenger la rispettino al 100%, versione ottima di un brano grandioso, tra le migliori del lavoro. Here Comes Sunshine è poco conosciuta, ed i Real Estate né danno una lettura molto seria e solida, armonizzando molto bene con le voci, mentre sulla confusa Cumberland Blues di Charles Bradley stenderei un velo, e così anche su Drums/Space (Man Forever, So Percussion e Oneida), intermezzo batteristico/lisergico che era già una palla colossale nei concerti dei Dead. Cream Puff War viene dal primo periodo del gruppo di Garcia, ma l’interpretazione tra rock e noise dei Fucked Up (bel nome…) mi lascia molti dubbi, anche per la voce molto trash metal del leader. Non mi ricordavo di Rosemary, ma Mina Tindle è fin troppo leggerina ed eterea per farmela apprezzare a fondo, mentre High Time trova nuova luce nell’interpretazione ancora del duo Rossen-Bear dei Grizzly Bear, partenza acustica e finale full band. Till The Morning Comes del duo australiano Luluc è soave e molto raffinata, ma mi piace, mentre Winston Marshall dei Mumford & Sons (assieme a Kodiak Blue e Shura) mostra di risentire del momento no della sua band, rilasciando una versione assolutamente piatta ed insipida dell’altrimenti bellissima Althea. Il monumentale box si chiude con Attics Of My Life, rivista da Angel Olsen quasi fosse un coro ecclesiastico, strana ma non da buttare, e con Bob Weir (sì, proprio lui), che prima coi Wilco (St. Stephen) e poi coi National (I Know You Rider), entrambe dal vivo, sigilla alla grande il cofanetto con due riletture potenti e intrise fino al collo dello spirito deaddiano.

In definitiva, a parte qualche incertezza fisiologica per un box quintuplo (e comunque in gran parte concentrate nel quarto CD), c’è una sola parola con la quale definire quest’opera: imperdibile. Anche perché, per una volta, il costo è decisamente contenuto.

Marco Verdi