Trent’anni (Anzi 31) E Non Sentirli! Black Crowes – Shake Your Money Maker Deluxe Edition

black crowes shake your money maker 3 cd soft pack

Black Crowes – Shake Your Moneymaker 30Th Anniversary Edition – Ume/Universal 3 CD

La ristampa di Shake Your Money Maker dei Black Crowes esce in una quantità spropositata di versioni (CD singolo, doppio e triplo, soft pack e Super Deluxe Edition, LP e 4 LP): avrebbe dovuto essere pubblicata lo scorso anno (ma è arrivata la pandemia a rovinare il tour commemorativo dopo poche date) per festeggiare un album che nel febbraio del 1990 riportava in auge il caro vecchio rock, prima dell’avvento del grunge, e presentava una formazione che era innamorata del classic rock di Stones, Faces, Humble Pie, ma anche Beatles e Rich Robinson aveva citato tra le influenze pure i primi Aerosmith, senza dimenticare Otis Redding, di cui incisero, proprio su Shake Your Money Maker, Hard To Handle, e i Led Zeppelin, celebrati anni dopo in Live At the Greek, insieme a Jimmy Page. Nel nuovo tour della reunion, sospeso ed ora previsto per il 2021 (ma sarà possibile?), in effetti si riuniscono solo i fratelli Chris e Rich Robinson, gli altri, per quanto bravi (?) sono tutti nuovi: Isiah Mitchell chitarra (Earthless e Void), il bassista Tim Lefebvre (ex Tedeschi Trucks Band), il tastierista Joel Robinow e il batterista Raj Ojha, non mi sembrano proprio di prima fascia, specie dovendo riproporre il vecchio repertorio e non nuove canzoni (o forse sì?).

black crowes shake your money maker 1 cd

Tornando alla nuova ristampa vediamo i contenuti del triplo: il disco originale, prodotto da George Drakoulias, che li aveva scoperti in Georgia un paio di anni prima, quando si chiamavano ancora Mr. Crowe’s Garden e messi sotto contratto per la Def American di Rick Rubin (indicato in copertina come produttore esecutivo, ma solo dopo il successo del disco), che agli inizi era soprattutto una etichetta di Metal e Rap, lo conosciamo tutti. Dieci brani, più una breve traccia nascosta, dove accanto ai fratelli Robinson, che scrivono anche tutte le canzoni, ci sono l’ottimo secondo chitarrista Jeff Cease, scomparso abbastanza presto (ora è il chitarrista di Eric Church) , Steve Gorman alla batteria, sempre presente, Johnny Colt al basso nei primi quattro album, i migliori, e alle tastiere “l’ospite” Chuck Leavell, che fa un grande lavoro di raccordo. Ci sono almeno tre super classici, ma tutto il disco è un solido album da 4 stellette (in questa edizione espansa anche mezza di più), che venderà complessivamente oltre cinque milioni di copie, trasformando i Black Crowes in un gruppo di enorme successo, tanto che il Melody Maker li definì con una iperbole “il gruppo rock’n’roll più rock’n’roll del mondo”, magari esagerando un tantinello https://www.youtube.com/watch?v=YemrzS7X4e8 . Per i “ricchi” c’è anche una versione Super Deluxe, che però ha lo stesso contenuto di quella soft pack, salvo per i memorabilia.

black crowes shake your money maker 3 cd super deluxe

Si inizia a godere con Twice As Hard, subito riff come piovesse, poi arriva la voce potente di Chris, le chitarre iniziano a ruggire, modalità normale e slide, mentre macinano sano R&R, Jealous Again è anche meglio, pianino di Leavell pronto alla bisogna, voce di Robinson pimpante, come se Rod Stewart non avesse smesso di essere il frontman dei Faces da una vita, e fratello Rich si spara un “assolino” gustoso. Ma non scherzano anche i pezzi “minori” come Sister Luck, una ballatona mid-tempo stonesiana dalla melodia deliziosa, Could I’ve Been So Blind, un altro potente R&R senza tempo, come pure le volute rock’n’soul della delicata Seeing Things, che profumano di Sud, anche grazie alle armonie vocali di Laura Creamer e all’organo sontuoso di Leavell, come ribadisce la splendida cover di Hard To Handle di Mr. Pitiful in persona Otis Redding, dove rock e soul convergono ancora alla perfezione, come se lo avessero inventato loro, e quelle chitarre tirano veramente di brutto. Sarà anche tutto derivativo, ma un bel “e chi se ne frega” lo vogliamo dire: Thickn’ Thin va di boogie-rock scatenato come non ci fosse un futuro (ma un passato di qualche vecchio vinile dei Faces o degli Humble Pie sì), la band è solida è affiatata, la produzione di Drakoulias chiara e nitida, con tutti gli stumenti e le voci ben evidenziate.

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Poi arriva She Talks To Angels, un’altra piccola meraviglia, una ballata introdotta da una chitarra acustica, che poi diventerà a sua volta un classico del rock degli ultimi 30 anni, l’organo di Leavell che pennella, la ritmica perfetta e pressante nel creare un crescendo come insegnano sui Bignami della migliore musica, discreto ma coinvolgente. Struttin’ Blues non avrebbero potuto farla meglio neppure gli Humble Pie dei tempi d’oro, Steve Marriott all’epoca avrà approvato di sicuro, e anche oggi da lassù guarderà con benevolenza questi suoi “discendenti” che maltrattano le chitarre come riportano i comandamenti del R&R, che poi si ripetono anche nella conclusiva Stare It Cold, un’altra torbida e perversa dimostrazione, con uso slide, dell’assioma “it’s only rock’n’roll but we like it”, in coda la breve Mercy, Sweet Moan è solo un intramuscolo blues che chiude uno dei classici esordi della storia del rock, in seguito faranno anche meglio.

UNITED STATES - JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

UNITED STATES – JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

CD 2 Unreleased Songs & B-Sides Charming Mess è un altro omaggio ai Faces più infoiati, secondo qualcuno potrebbe essere Hot Legs di Rod Stewart con solo le parole cambiate, ma pianino malizioso e chitarre super riffate non mancano https://www.youtube.com/watch?v=OCnr8X3F6vE , poi si passa ad una bella cover di 30 Days In The Hole degli Humble Pie, ma più “impasticcata”, come si fossero gemellati con i Mott The Hoople e gli Stones, comunque sempre una goduria, sentire che chitarre e anche Don’t Wake Me “tira” di brutto, twin guitars come neanche i Lynyrd Skynyrd superati a destra a tutta velocità e Jealous Guy di John Lennon diventa molto bluesy, grazie a piano e organo, con quel cantante che sembra sempre il miglior Rod Stewart, quando non scherzava un c..zzo, ma che è capace di regalarci ballate avvolgenti come pochi altri hanno saputo fare, sentire per credere la deliziosa Waitin’ Guilty, che si anima subito tra slide malandrine e organi hammond comprati in qualche negozio vintage https://www.youtube.com/watch?v=SvL9IeKlOg8 . Niente male, per usare un eufemismo, anche la versione con fiati aggiunti di Hard To Handle, quasi più Stax degli originali di Steve Cropper e soci, quando si “divertivano” con Otis, mentre le due canzoni unplugged, Jealous Again, per sola voce, chitarre acustiche e battito di mani e She Talks To Angels,con piano alla Elton John “americano” e tamburello aggiunti all’acustica, sono solo incantevoli. Meno interessanti, ma comunque gradevoli i due brani dell’era Mr. Crowe’s Garden, con florilegi country-folk, quando non avevano forse ancora deciso se diventare i nuovi Stones/Faces, ma Rod Stewart, quello dei dischi solisti, era già un modello, versioni ruspanti, anche a livello tecnico di registrazione, di She Talks To Angels, e dalla aia di casa Robinson, una Front-Porch Sermon molto country campagnola (uhm, un ossimoro) con tanto di banjo aggiunto.

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Quando a dicembre tornano trionfanti ad Atlanta dopo un tour micidiale (magari anche con qualche scazzottata tra i fratelli), come direbbe Abantuono sono diventati una “putenza”, ed ecco nel CD 3 un fantasmagorico concerto, 14 brani + introduzione, dove i Robinson e soci a questo punto hanno fatto una scelta, o forse no, tra Stones, Faces, Humble Pie, Led Zeppelin e Lynyrd Skynyrd, tutti rollati in uno. Ripeto, non saranno originali, ma cazzarola, averne di “imitatori” così. I Corvi Neri non prendono prigionieri: Cease, che sarà sostituito a breve da Marc Ford, è un fior di chitarrista ed insieme a Rich dà vita a delle sismiche sarabande rock, mentre le immancabili tastiere aggiungono quel tocco di raffinatezza che se non sei un power trio, fanno anche la differenza. Visto che nella versione tripla soft pack quasi te lo regalano, il concerto comunque sarebbe da avere anche come manufatto a sé stante: si parte con Thick’N’Thin con Jeff Cease, chiamato a gran voce da Chris, che comincia a darci dentro alla grande nel Black Crowes Rock And Roll Show, mentre Rich gli risponde da par suo nella “outtake” degli Stones che è You’re Wrong, energia misurata nel potenziometro rock pari a 10, quando arrivano Twice As Hard il pubblico è già sudato ed eccitato come una colonia di maiali, e loro reiterano con l’epitome di quel che si usa definire hard ballad, ma con chitarre a destra e manca, anche con bottleneck alla bisogna. Eccellenti anche Could’ve Been So Blind e Seeing Things (ma ce n’è qualcuna scarsa?) https://www.youtube.com/watch?v=JCHVptbP0OI , altre fabbriche di riff all’ingrosso, la seconda che dà un attimo di tregua al pubblico, grazie al lavoro “sudista” di organo e piano e ad una interpretazione quasi dolente di Chris Robinson, che rispolvera i suoi vecchi vinili di soul music per un veloce ripasso della materia, prima di gettare il pezzo da novanta di una superba She Talks To Angels con il pubblico in delirio https://www.youtube.com/watch?v=ziURlpcUIfA .

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Prosegue la sezione meno assatanata del concerto con Sister Luck, uno dei loro brani stonesiani fino al midollo, in questa versione dal vivo molto ispirata e vicina alla perfezione, poi si innesta la quinta marcia per una poderosa Hard To Handle, che viene seguita dalla cover di Shake ‘em On Down di Fred McDowell che da blues del Delta diventa rock and roll da stadio con wah-wah e bottleneck a manetta, mentre Get Back dei Beatles viene proposta in una versione “brutta e cattiva” tiratissima, con accelerata nel finale e nella successiva e dura Struttin’ Blues si rende omaggio al sound dei Led Zeppelin di Page e Plant, con i fratelli nei rispettivi ruoli, in un anticipo del futuro Live At The Greek. Words You Throw Away, che era uscita come B-Side del singolo Hotel Illness diventa un tour de force di oltre tredici minuti dove la band esprime tutta la sua potenza devastante, ma anche all’interno del brano momenti di calma https://www.youtube.com/watch?v=lRCR27o5O7s , per il finale si torna in modalità Humble Pie per Stare It Cold con le due chitarre ad inseguirsi https://www.youtube.com/watch?v=LyScXLWdDUA  e poi tra Faces e derive sudiste per una sanguigna Jealous Again dove anche il piano fa sentire la sua presenza. Per una volta una ristampa dove i contenuti extra sono all’altezza del resto: ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Una Dichiarazione Di Intenti Sin Dal Titolo: A “Sorpresa” Un Eccellente Disco! Peter Frampton Band – All Blues

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Peter Frampton Band – All Blues – Universal Music Enterprises

Sono passati quasi 50 anni (anzi sono cinquanta proprio quest’anno) dall’uscita del primo album degli Humble Pie (celebrata recentemente anche su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2019/03/25/humble-pie-la-quintessenza-del-rock-agli-inizi-e-poi-un-lungo-lento-declino-parte-i/ ), e per l’occasione Peter Frampton torna al blues, sempre condito da una forte componente rock, ma nell’occasione, visto che si tratta di un album incentrato quasi completamente su una selezione di famosi standard delle 12 battute, ancora più rigoroso, almeno nella scelta del materiale. L’album è attribuito alla Peter Frampton Band, ovvero Adam Lester (seconda chitarra/voce), Rob Arthur (tastiere/chitarra/voce) e Dan Wojciechowski (batteria), nomi direi non celeberrimi, ma…ci sono alcuni ospiti, per certi versi anche sorprendenti, come Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth, e il risultato mi sembra quello del miglior disco di Peter Frampton, da molto tempo a questa parte, magari con l’eccezione di qualche CD dal vivo celebrativo. Il nostro amico non ha più quei bei boccoli vaporosi che erano un suo tratto distintivo, ma non ha perso il tocco eccellente alla solista, tocco che ne aveva fatto uno dei chitarristi più gagliardi in ambito rock-blues, e pure con le migliori cifre di vendita, grazie all’ottimo Peter Frampton Comes Alive, multidisco di platino con oltre undici milioni di copie vendute, ma poi anche con una serie di altri buoni dischi, soprattutto negli anni ’70.

Ma bando alle nostalgie, anzi forza con la nostalgia, visto che questa volta è per una buona causa, il blues, che sembra essere uno dei generi che stranamente (e per fortuna) non passa mai di moda: I Just Want To Make Love To You era uno dei cavalli di battaglia di Muddy Waters e Etta James, ma l’hanno incisa decine di altri artisti, in ambito rock-blues per esempio i Foghat, e Frampton, nel presentare il disco, ha ricordato che la sua passione per i brani blues è stata rivitalizzata anche dal fatto di averne suonati una manciata a serata, nel recente tour insieme alla Steve Miller Band. La versione del brano appena ricordato si situa giusto al crocevia tra quella classica di Waters, grazie anche alla presenza di Kim Wilson all’armonica, e un suono più grintoso e vicino al rock, in ogni caso una versione sapida e potente, con la ritmica sul pezzo, le tastiere ben inserite, la voce di Peter che si è irrobustita con il passare degli anni e la chitarra che lavora di fino ma anche di forza su uno dei riff più celebrati del genere. She Caught The Katy è è uno standard scritto da Taj Mahal e Yank Rachell, che ricordiamo anche nella versione dei Blues Brothers, la parafrasi (mi è scappato) di Frampton, con la chitarra molto impegnata in continui soli e rilanci, mi ha ricordato, per strane associazioni di idee, un sound alla Jeff Healey, ma anche con rimandi a certo southern rock di qualità, mentre Georgia On My Mind non si può certo definire uno standard blues, o meglio uno standard lo è di certo, e giustamente non potendo misurarsi con la versione di Ray Charles, Frampton decide saggiamente di trasformarlo in una ballata strumentale suadente e struggente, con la sua chitarra che confeziona un assolo dove tecnica e feeling vanno a braccetto con gusto sopraffino, grande assolo.

Can’t Judge A Book By The Cover in origine era stata scritta da Willie Dixon per Bo Diddley, poi negli anni, dai Cactus in giù, è diventato un must anche per i rockers, il nostro amico decide quindi di unire il riff e il drive alla Diddley con un sound più muscolare e tirato, con grande lavoro di slide che ricorda un poco i suoi trascorsi negli Humble Pie; Me And My Guitar, se la memoria non mi inganna era un pezzo di Freddie King, un altro brano ricco d vigore, con la chitarra di Frampton sempre in grande spolvero, a conferma che il tocco magico non si perde con il trascorrere degli anni, ragazzi se suona. E che dire di una ricercata e soave traccia strumentale come All Blues, tutta tecnica e tocco, un duetto jazzato dove Frampton rivaleggia con Larry Carlton a chi è più raffinato nel trattare questo classico di Miles Davis, entrambi ben spalleggiati dal piano di Arthur; eccellente anche la rilettura di The Thrill Is Gone, una fantastica versione di questa meraviglia di B.B. King, rispettosa il giusto, ma con Frampton (ottimo anche a livello vocale) e Sonny Landreth a scambiarsi licks e soli di chitarra con una fluidità quasi disarmante.

E in Going Down Slow, il duetto con Steve Morse, l’atmosfera si fa più rovente, sempre senza esagerare e trasformare il tutto in caciara, le chitarre ci danno dentro alla grande, ma il suono rimane chiaramente e decisamente ancorato al miglior blues elettrico, quasi rigoroso nel suo dipanarsi, con Peter e Chuck Ainlay, che hanno prodotto il disco negli studi Phoenix di Frampton a Nashville, optando per un tipo di suono molto caldo e ben delineato. Altro omaggio a Mastro Muddy in una vibrante I’m A King Bee, la quintessenza del Chicago Blues, anche se forse per l’occasione manca un poco di nerbo, ma è un parere personale e comunque il breve ritorno della chitarra in modalità talk box (giusto un assaggino in ricordo di Show Me The Way) giunge quasi a sorpresa, potremmo dire “Show Me The Waters  https://www.youtube.com/watch?v=NaeNQifZp5I . Gran finale con un altro super classico di Freddie King, la magnifica  ballatona Same Old Blues, suonata quasi alla Clapton https://www.youtube.com/watch?v=EuU1hwJkBRU , con la chitarra che viaggia fluida che è un piacere, ottimo finale per un album veramente bello ed inaspettato, e che mi sento di consigliarvi caldamente.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni Della Consacrazione 1971-1973

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Proprio il 28 e 29 maggio del 1971 vengono tenuti al Fillmore East di New York, quattro concerti leggendari  (due al pomeriggio e due alla sera, allora usava così), più o meno con delle scalette simili, come testimoniato dal cofanetto quadruplo in CD Performance Rockin’ The Fillmore, The Complete Recordings, uscito nel 2017, ma che all’epoca, nel classico formato del doppio album, fu pubblicato a novembre, e che arrivò al 21° posto delle classifiche di Billboard, vendendo più di mezzo milione di copie.

Si tratta di uno dei doppi Live forse meno conosciuti e celebrati di altri anche inferiori come qualità e contenuti, ma gli Humble Pie, ancora con Frampton in formazione, sono agli apici della loro potenza sonora, con un set incendiario che oltre alle riletture già citate di I’m Ready, Stone Cold Fever e Rollin’ Stone, comprende anche svariate altre cover: la breve Four Day Creep di Ida Cox,  che apre le procedure, con ugole spiegate e le chitarre a fronteggiarsi a tempo di boogie, con Ridley e Shirley che rispondono colpo sul colpo alla coppia Marriott/Frampton, dopo I’m Ready e Stone Cold Fever che rivaleggiavano come potenza di fuoco con i migliori Led Zeppelin, arriva una chilometrica, più di 23 minuti, versione di I Walk On Gilded Splinters di Dr. John, che dalle volute voodoo dell’originale si trasforma appunto in una devastante performance rock-blues, che tra lunghe pause, ripartenze improvvise, assoli di armonica e di chitarre strapazzate senza pietà, celebra il rito del rock-blues più focoso ed impulsivo che si poteva vedere all’epoca sui palcoscenici americani.

Dopo i 16 minuti di Rollin’ Stone, più soul che blues, arriva anche HallelujahI Love Her So, il brano classico di Ray Charles che la band piega con impeto ai propri voleri, pur mantenendo lo spirito dell’originale, per poi chiudere con un altro brano dal repertorio del “Genius”, una incandescente I Don’t Need No Doctor, piena della furia rock’n’rollistica di Steve Marriott, allora 24enne e non ancora provato dagli stravizi con alcol e droghe che da lì a poco gli faranno perdere il filo della storia.

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Ma nel 1972 tutto funziona ancora alla grande: Dave “Clem” Clempson, arrivato in precedenza dai Colosseum per sostituire Frampton nel tour europeo (approdato anche a luglio del 1971 al Vigorelli di Milano, pochi giorni dopo la mattanza dei Led Zeppelin, come spalla dei Grand Funk Railroad), si limita ad essere la seconda chitarra, mentre quasi tutte le composizioni di Smokin’ (****) sono di Steve Marriott, ed il disco, registrato a febbraio, esce a marzo ‘72, entrando per la prima volta al n° 6 negli States e al 20° posto in Inghilterra.

Diventando il loro disco di maggior successo ed enfatizzando quel tipo di sound su cui i Black Crowes hanno costruito, meritatamente, metà della loro carriera (l’altra metà con i Led Zeppelin, e qualche tocco di Faces): il disco è prodotto dallo stesso Steve che però comincia ad avere problemi di salute al termine delle registrazioni, dove spiccano il rock’n’soul con wah-wah di Hot’n’Nasty , il blues carico e selvaggio di The Fixer, la splendida ballata tra soul e gospel You’re So Good For Me con Doris Troy e Madeline Bell alle armonie vocali, con finale estatico https://www.youtube.com/watch?v=0L_AcS6zBSs .

C’mon Everybody di Eddie Cochran viene rallentata ad arte, ma è sempre di una potenza inaudita con Marriott che canta come un uomo posseduto dal R&R, Old Time Feelin’ è un blues acustico cantato da Ridley, con Alexis Korner al mandolino, mentre nella cover di Road Runner/Road Runner’s ‘G’ Jam, c’è Stills ospite alla chitarra, e non possiamo dimenticare 30 Days In The Hole, uno dei loro brani più famosi, a  tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=sdXjm8pZMws , di cui ricordo una versione gagliarda dei Gov’t Mule, per non parlare di un lungo slow blues formidabile come I Wonder, con assolo di wah-wah da sballo https://www.youtube.com/watch?v=KE1y1AUoQrs .

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Eat It (***1/2), un altro doppio album, esce nella primavera del 1973, registrato nello studio casalingo di Marriott, è ancora un successo nelle charts americane, dove arriva fino al 13° posto, un disco che impiega in pianta stabile le Blackberries,  un trio composto da Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews, e che accentua l’anima R&B e soul della band, senza tralasciare il rock: il disco alternava una facciata di pezzi di Marriott, una di cover, di nuovo pezzi originali e poi cover, tra i pezzi di Steve molto buone l’iniziale Get Down To It, la dichiarazione di intenti Good Booze & Bad Women, la melliflua Is It For Love, l’ondeggiante Drugstore Cowboy, la vibrante Black Coffee di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=oqWNGNRX_4s , e le sofferte I Believe To My Soul di Ray Charles e That’s How Strong My Love is, famosa nella versione di Otis Redding, ma l’hanno incisa anche gli Stones, che Marriott omaggia poi con una Honky Tonky Women scintillante, tratta dalla quarta facciata del disco, registrata dal vivo a Glasgow, concerto che si conclude con una versione monstre di oltre 13 minuti di Road Runner dove le chitarre di Clempson e Marriott ruggiscono con forza.

L’inizio della fine 1974-1975

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Nel  febbraio del 1974 esce Thunderbox (***), ancora un buon album che ha un discreto successo negli USA, ma in Inghilterra non viene neppure pubblicato: sette cover e cinque originali, ancora con la presenza delle Blackberries (dove è rimasta solo la Fields) e Mel Collins ospite al sax, la title track potrebbe passare con il suo riff e per il cantato di Marriott, per un brano degli AC/DC se decidessero di darsi al R&B, buone le cover di I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles e della delicata Anna Go To Him di Arthur Alexander, che avevano fatto anche i Beatles, la voce di Steve è sempre eccellente ma il suono non è più quello potente dei dischi precedenti, fin troppo annerito e funky, comunque Ninety-Nine Pounds, Every Single Day e la cover bluesy con uso slide e armonica di No Money Down di Chuck Berry non dispiacciono.

Con la stonesiana Oh La-De-Da che ha lampi del vecchio splendore. In quel periodo Steve Marriott si candida ad entrare appunto negli Stones in sostituzione di Mick Taylor, ma ovviamente, per i problemi di compatibilità con un altro cantante non male, tale Mick Jagger, non se ne fa nulla. Anche il disco solista di Marriott registrato nei ritagli di tempo, tra un disco degli Humble Pie e l’altro, viene “confiscato” dalla A&M e i nastri appaiono ai giorni nostri nell’orrido album della Cleopatra intitolato Joint Effort, di cui leggete in altra parte del blog https://discoclub.myblog.it/2019/03/11/dischi-cosi-brutti-negli-anni-70-non-li-avrebbero-mai-pubblicati-ma-oggi-purtroppo-si-humble-pie-joint-effort/ . Nel frattempo Steve, che comincia a da avere grossi problemi con alcol e droga, di ritorno da un ennesimo tour negli Stati Uniti, scopre che non ci sono più soldi sul conto in banca, e quindi su sollecitazione del manager Dee Anthony decide di registrare un altro disco per la A&M, con la produzione e soprattutto il mixaggio del rientrante Andrew Loog Oldham.

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Il risultato finale del disco pubblicato non piace a nessuno all’interno della band e in effetti Street Rats (*1/2) che esce nel febbraio del 1975 è piuttosto bruttarello: forse, e dico forse, si salvano le tre cover “soulizzate” di brani dei Beatles, We Can Work It Out, Rain e Drive My Car, anche se quest’ultima drammatizzata e cantata da Ridley è alquanto penosa, Greg canta anche con risultati disastrosi Rock And Roll Music di Chuck Berry e altri tre brani. Dopo il tour di addio la band si scioglie, anche se si parla brevemente di proseguire con Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group Mark II, ma non se ne fa nulla.

La Reunion Di Inizio Anni ’80.

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Però alla fine del 1979, proprio con Tench come secondo vocalist e chitarrista, e il nuovo bassista Anthony “Sooty” Jones, decidono di provarci ancora e registrano non uno ma ben due album, che in America escono per la Atco, mentre in Inghilterra, per la serie le sfighe non finiscono mai, vengono pubblicati dalla Jet Records di proprietà del primo manager degli Small Faces,  quel Don Arden (babbo di Sharon, la moglie di Ozzy Osbourne): On To Victory (**) esce nel 1980 e non è neppure orribile come Street Rats,  ma solo un filo migliore; la voce di Marriott è ancora il suo principale atout,però il sound per lunghi tratti è confuso e pasticciato, salverei forse Baby Don’t You Do It, un vecchio brano Motown, che faceva anche la Band e la struggente cover di My Lover’s Prayer dell’amato Otis Redding, ma gli anni ’80 sono iniziati e dal sound si sente, anche se il disco almeno vende.

Go For The Throat (**) , il loro decimo e ultimo album, che viene pubblicato a giugno 1981, non è molto meglio: c’è giusto un po’ di energia superiore nell’iniziale All Shook Up, dove quantomeno le chitarre si fanno sentire, e si salva anche la ripresa della vecchia Tin Soldier degli Small Faces che entra in classifica, e negli altri brani, anche se non c’è di nulla di memorabile almeno sembra che ci sia una maggiore convinzione e grinta, con le chitarre che a tratti ringhiano come ai vecchi tempi. Ma durante la tournée promozionale Marriott si ammala, scopre di avere l’ulcera e quindi le date rinviate, vengono poi cancellate e la casa discografica li scarica.

Una fine ingloriosa. Dopo alcuni anni difficili in cui si ritira nel circuito dei clubs e dei pubs, Marriott agli inizi degli anni ’90 contatta Frampton per scrivere alcune canzoni nuove ed un tentativo di reunion degli Humble Pie, ma il 20 aprile del 1991, Steve Marriott muore orribilmente nell’incendio che distrugge il suo cottage, causato forse da una sigaretta dimenticata accesa prima di andare a dormire. Stendiamo un velo pietoso sul tentativo di reunion del 2002 con l’album Back On Track, dove Ridley e Shirley, ancora una volta con Bobby Tench, tentano di far rivivere il vecchio marchio.

Meglio andarsi a cercare alcuni degli album dal vivo postumi pubblicati nel corso degli anni: Natural Born Boogie del 2000 con le vecchie BBC Sessions, il Live At The Whisky A Go-Go ’69 con un concerto strepitoso, solo 5 brani ma epici, uscito su CD nel 2000 per la Sanctuary, magari anche In Concert con il King Biscuit Flower registrato al Winterland di San Francisco nel 1973. E per i completisti più scatenati i due box della serie Official Bootleg, il primo da 3 CD e il secondo da 5 CD, la qualità sonora non è sempre eccellente, ma ci sono alcune performances memorabili.

That’s All.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte I

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Quando nel gennaio del 1969 Steve Marriott, avendo appena terminato la sua avventura con gli Small Faces, decide di dare l’avvio ad una nuova band, ovvero gli Humble Pie, il musicista londinese ha da poco compiuto 22 anni, ma è tutti gli effetti un veterano sia del pop che del nascente rock britannico. Con gli Small Faces ha avuto un successo clamoroso, sia a livello di singoli che di album, ma in quattro anni di carriera intensa, a causa di uno sciagurato contratto firmato ad inizio carriera con Don Arden, e nonostante fosse anche un icona dello stile Mod e, si mi passate il bisticcio, della moda di Carnaby Street, Marriott si rende conto che il suo conto in banca non è particolarmente florido. E nonostante il passaggio con la Immediate di Andrew Loog Oldham le cose non erano migliorate di molto, quindi dopo l’uscita dello storico album Ogdens’ Nut Gone Flake, che rimane al primo posto della classifica inglese per sei settimane nell’estate del 1968 https://discoclub.myblog.it/2018/12/31/correva-lanno-1968-6-la-ristampa-speriamo-definitiva-di-un-piccolo-capolavoro-small-faces-ogdens-nut-gone-flake-50th-anniversary/ , e riceve anche giustamente critiche entusiaste per il suo stile psichedelico a cavallo tra rock e pop, il nostro amico decide che è tempo di voltare pagina, insoddisfatto della sua immagine troppo legata al pop imperante (per quanto di sopraffina fattura, aggiungo io, ma questa è un’altra storia), proprio durante il concerto di Fine Anno abbandona il palco per iniziare una nuova avventura.

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Gli Immediate Years.
Solo che commette un errore madornale: rimane con l’etichetta di Loog Oldham, ex manager degli Stones, e firma quindi un nuovo contratto con la Immediate Records, che però all’insaputa di Steve versa in cattive acque, visto che già in precedenza non aveva pagato molte delle royalties dovute agli Small Faces per le loro vendite, ma evidentemente questo lo si saprà solo sul finire del 1970, quando l’etichetta andrà in bancarotta. All’inizio dell’anno 1969 nasce però questa sorta di supergruppo (uno dei primi) formato oltre che da Marriott, da Peter Frampton, che non ha ancora compiuto 19 anni, ma è reduce dal successo di una band come gli Herd, con tre Top 20 nelle classifiche, benché molto legata, almeno nella visione di Peter, al pop adolescenziale (per quanto non fossero poi così male, ma anche i Beatles e gli Stones agli inizi non erano completamente soddisfatti della loro immagine).

Insieme a loro il bassista Greg Ridley, che arriva dagli Spooky Tooth, e il giovanissimo batterista Jerry Shirley, che di anni non ne aveva ancora compiuti 17. I quattro entrano negli Olympic Studios di Londra sotto la guida del produttore Andy Johns, fratello del leggendario Glyn, e a sua volta uno dei talenti emergenti in quel campo: per l’occasione iniziano a registrare vario materiale che poi verrà pubblicato nei due album e nel singolo di esordio Natural Born Bugie, che però arriva nei negozi solo ad agosto, preceduto dalle uscite di altre band affiliate a quel nuovo heavy-blues-rock che sta prendendo piede in Inghilterra (ma anche e soprattutto negli Stati Uniti), come quello di Free e Led Zeppelin, questi ultimi guidati dalla voce di Robert Plant, da sempre grande fan di Steve Marriott, fin dai tempi degli Small Faces, di cui gli Zeppelin avevano “utilizzato” il brano You Need Loving (a sua volta una “riscrittura” di un pezzo di Willie Dixon per Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=tp0jZ4BGuDw ) in cui Plant, che lo ammise all’epoca, utilizzava un fraseggio vocale molto simile a quello di Marriott, che però non se la prese più di tanto.

Il singolo arrivò al 4° posto delle classifiche inglesi, ma il successo americano, come era stato per gli Small Faces, rimase una chimera. Comunque il singolo era già un ottimo esempio del rock sanguigno a doppia chitarra solista della band, cantato a turno dai due chitarristi e dal bassista, anche se firmato dal solo Marriott, ha qualche parentela sia con Get Back dei Beatles, per l’uso del piano elettrico, che con il nascente rock-blues, grazie alla voce negroide e potente di Steve. Il primo album As Safe As Yesterday Is (****) esce sempre ad agosto, ma arriva solo al 32° posto delle classifiche UK e ha zero successo negli States: dove però in una ottima recensione su Rolling Stone del 1970, firmata dal futuro punk negli Angry Samoans Mike Saunders, viene usato per una delle prime volte il termine heavy metal. Anche se l’album non è tra i più “duri” degli Humble Pie, che però in molti brani iniziano a “riffare” a destra e a manca, con grande forza e classe, mentre in altri indulgono in un folk-rock pastorale, post mod sound modificato e spunti dei sempre amati da Marriott, blues e soul: il disco, a mio modesto parere, è uno dei loro migliori in assoluto, la title track è un pezzo epico, di grande intensità, e anche Bang ha una forza devastante con le chitarre che mulinano, mentre Ridley pompa il basso alla grande e Shirley picchia come un disperato sui tamburi.

I’ll Go Alone ha un riff devastante simile a quello di Communication Breakdown degli Zeppelin, chi ci sarà arrivato prima https://www.youtube.com/watch?v=9_fBvAbf5d8 ? Mentre Alabama ’69 ha una prima parte folk-blues in linea con il titolo, poi con sitar e flauto aggiunti siamo in pieno trip tra orientale e pastorale; e all’inizio del disco c’è una cover fantastica di Desperation degli Steppenwolf (non a caso i primissimi a usare il termine heavy metal in Born To Be Wild https://www.youtube.com/watch?v=egMWlD3fLJ8 ) , cantata a piena ugola da Marriott, senza dimenticare lo psych-rock di Stick Shift con Marriott alla slide, la trascinante Butter Milk Boy, sempre con le twin guitars assatanate, insomma si fatica a trovare un brano debole, con Peter Frampton che anche a livello vocale risponde colpo su colpo. A differenza del precedente disco, Town And Country (***1/2), esce a sorpresa a  novembre sempre del ’69, sulle more dei grossi problemi della casa discografica, che lo pubblica sperando di bloccare la procedura di bancarotta.

Ma il disco, senza promozione, praticamente sparisce subito dai negozi: peccato perché l’album, concepito nel cottage di Arkesden, una dimora del 16° secolo, l’unica proprietà rimasta a Steve Marriott (credo la stessa dove troverà poi la morte nell’incendio appunto della sua casa nell’aprile del 1991), era diverso dal precedente, a tratti più morbido, ma non privo delle sferzate hard-rock tipiche della band, per parte della critica fu addirittura superiore al primo, che comunque il sottoscritto preferisce. Tra i brani da ricordare la raffinata ballata acustica Take Me Back di Peter Frampton, la bluesata The Sad Bag Of Shaky Jake, un brano di Marriott che i Black Crowes avranno sicuramente apprezzato, il blue eyed soul di Cold Lady, il rock-blues della gagliarda Down Home Again, l’intimista Every Mothers’ Son ancora di Steve, la potente cover di Heartbeat di Buddy Holly, la quasi psichedelica Silver Tongue e la quasi west-coastiana Home And Away https://www.youtube.com/watch?v=LG8VhDzP_LE .

Humblepiealbumcover

Gli Anni ” Americani”,  prima parte

Nel 1970 arriva un nuovo manager Dee Anthony, e una nuova etichetta americana, la A&M: il primo disco l’omonimo Humble Pie (***1/2), sempre prodotto da Glyn Johns e sempre registrato agli Olympic Studios di Londra, contiene anche una deliziosa ballata country-folk come la satirica e autoironica Theme from Skint (See You Later Liquidato)r di Steve Marriott, ovvero “Tema di Sono Al Verde (Ci Vediamo più Tardi Liquidatore! https://www.youtube.com/watch?v=cNK2Wc284E0 ), ed è un disco interlocutorio, ma comunque di buona fattura, che contiene un brano notevole come la loro cover di I’m Ready, dell’accoppiata degli amati Dixon/Waters, che sarà un cavallo di battaglia dei loro infuocati concerti negli USA.

Ottime anche l’iniziale Live With Me, una lunga rock ballad dalle atmosfere sospese, la delicata Only A Roach, una ode alla cannabis a tempo di country, con BJ Cole alla pedal steel, la dura e tirata One Eyed Trouser Snake Rumba, tipica del loro sound, mentre il lato più gentile e sognante è rappresentato dalla eterea Earth and Water Song, scritta da Peter Frampton, che lavora anche di fino alla sua elettrica, mentre il boogie-blues potente di  Red Light Mama, Red Hot!, ancora di Marriott, illustra il lato più sanguigno della band e l’ottima Sucking on the Sweet Vine di Greg Ridley, che la canta, sembra quasi un brano dei Genesis o dei King Crimson.

Rock_On_cover

L’anno successivo, a marzo del 1971, sempre registrato a Londra con Glyn Johns, esce Rock On (****), il primo disco a fare capolino nelle classifiche americane, solo al 118° posto, ma è un inizio, poi alimentato da una serie di concerti fantastici sul suolo americano che ne alimentano la leggenda di rockers intemerati: il disco contiene Shine On di Frampton, che poi farà parte del suo repertorio futuro (anche in Frampton Comes Alive), con tre formidabili vocalist aggiunte come P P Arnold, Doris Troy, Claudia Lennear, ma soprattutto i futuri cavalli di battaglia dal vivo, la devastante Stone Cold Fever, con un riff memorabile, e la epica Rollin’ Stone di Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=ys-AXAry3Yk , con l’aggiunta delle robuste Sour Grain e Strange Days, della delicata A Song For Jenny, dedicata alla prima moglie di Marriott (inseguita a lungo), del funky-rock di The Light, ancora di Frampton, che sembra quasi un brano dei Little Feat, completano un album tra i loro migliori in assoluto.

Fine della prima parte, segue…

Bruno Conti

Dischi Così Brutti Negli Anni ’70 Non Li Avrebbero Mai Pubblicati, Ma Oggi Purtroppo Si. Humble Pie – Joint Effort

humble pie joint effort

Humble Pie – Joint Effort – Deadline Music/Cleopatra Records

Un nuovo album degli Humble Pie! Beh adesso non esageriamo: anche perché gli album “nuovi” che sono usciti postumi con il nome della band in copertina, dopo la tragica morte di Steve Marriott avvenuta  nell’aprile del 1991, diciamo che non sono stati propriamente memorabili,  penso a Back On Track, in teoria il loro 13° album di studio. Meglio le varie pubblicazioni di materiale d’archivio dal vivo, anche se non sempre di qualità sonora impeccabile, e soprattutto alcune ristampe, tra cui lo splendido box quadruplo con i concerti da cui fu estratto lo strepitoso Performance: Rockin’ The Fillmore, con le esibizioni complete del 1971. Ora arriva questo Joint Effort, pubblicato dalla Cleopatra (uhm!), che riporta nel retro della copertina “Recorded 1974-1975 At Clear Sound Studios”, quindi materiale d’epoca.

Però, tanto per partire subito bene, nella foto di copertina del CD c’è una immagine della band, dove il primo in basso a sinistra è Peter Frampton, che però non faceva più parte del gruppo del 1971, sostituito da Dave “Clem” Clempson,  che comunque, ammesso che ci sia, si sente pochissimo, rimangono Steve Marriott, chitarra e voce, Greg Ridley al basso (scomparso nel 2003), e Jerry Shirley che è stato scelto dall’autore delle note per integrarle con i suoi ricordi di quegli anni. E Shirley ricorda appunto che in quel periodo Marriott non era più molto coinvolto nel progetto Humble Pie, il suo principale desiderio all’epoca, all’insaputa degli altri, era quello di entrare negli Stones in sostituzione di Mick Taylor (vicenda che poi è andata come sappiamo) e quindi partecipava svogliatamente alle registrazioni di nuovo materiale che avrebbe dovuto andare su un disco poi uscito nel 1975 con il titolo di Street Rats, l’ultimo pubblicato dalla A&M che aveva richiamato il loro vecchio manager Andrew Loog Oldham per sovraintendere alle registrazioni che si tennero agli Olympic Studio di Londra e non nei Clear Sound Studios che erano di proprietà di Marriott.

Nel frattempo Steve aveva raggiunto un accordo con Oldham per registrare più o meno in contemporanea, appunto nei propri studios, un disco solista in compagnia di Greg Ridley, progetto che poi non si concretizzò mai, e alcune, se non tutte,  di quelle registrazioni sono quelle pubblicate oggi come Joint Effort,  appunto lo “sforzo comune” dei due. Dieci brani in totale, uno ripetuto in due diverse versioni, un paio di canzoni uscite anche su Street Rats, sia pure in versione diversa. Complessivamente un album molto raffazzonato, per usare un eufemismo: Think è proprio il brano di James Brown, presente anche con una versione n°2 in coda al CD, un pezzo super funky dove appaiono anche dei fiati non accreditati, la chitarra non parte mai e c’è un lungo assolo di sax, forse Mel Collins, mentre nella seconda parte appare un’armonica. This Old World è uno dei due brani firmati con Ridley, una discreta ballata di stampo soul melodico, con il suono che va e viene, Midnight Of My Life, meglio, rimane sempre in questo ambito gospel-soul, con coretti a oltranza, piano e zero chitarre.

Let Me Be Your Lovemaket, una cover del pezzo di Betty Wright, è cantata da qualcun altro, non so da chi (o meglio, dovrebbe essere Ridley, ma non è accreditato nelle note), ed è un altro modesto funky-rock. Interessante la versione “funkyzzata” di Rain dei Beatles, abbastanza simile però a quella già uscita su Street Rats, sempre con una seconda voce a duettare con Steve e un passabile lavoro della slide, quasi sommersa comunque dalla presenza invadente delle coriste. Snakes And Ladders è uno dei pezzi più rock, ma la qualità sonora non è memorabile e c’è sempre questa “misteriosa” seconda voce ossessiva che sommerge quella di Marriott e pure nella breve Good Thing non mi pare ci siamo proprio https://www.youtube.com/watch?v=rCuFmin7aIU . A Minute Of Your Time scritta e cantata da Ridley non risolleva più di tanto le sorti del disco, in Charlene, altro bozzetto funky, almeno si apprezza la voce unica di Marriott, ma è un po’ poco. Mi sembra la Cleopatra abbia colpito ancora una volta, quindi un CD solo per fans incalliti degli Humble Pie, probabilmente neppure per loro. Sono stato troppo cattivo forse? Ma gli Humble Pie erano un’altra cosa,

Bruno Conti

Arrivano Le Prime Ristampe Del 2019, Alcune Interessanti, Altre Al Solito Inutili. Parte II: Humble Pie, Van Morrison, Pink Fairies, Eagles, Pamela Polland.

humble pie joint effort

Eccoci alla seconda parte dedicata alle ristampe in uscita tra febbraio e marzo. In teoria avevamo completato la lista di quelle di febbraio, ma all’ultimo minuto ho notato questo Humble Pie “inedito” che verrà pubblicato l’8 febbraio dai “miei amici” della Cleopatra e quindi l’ho aggiunto in extremis al Post. Partiamo proprio da questo.

Humble Pie – Joint Effort: The Lost Album 1974/75 – Cleopatra Records – 08-02-2019

Di cosa si tratta? Secondo le informazioni annunciate dalla etichetta  e dal sottotitolo del CD, si tratta di materiale inedito registrato tra il 1974 e il 1975 ai Clear Sounds Studios per un album che sarebbe dovuto uscire dopo Eat It Thunderbox, ma prima di Street Rats. Brani che però vennero rifiutati dalla A&M, anche perché Steve Marriott essendo uno dei papabili per entrare negli Stones a sostituire Mick Taylor, era distratto dalla gestione della propria band. O così sembrerebbe, perché la cover di Rain dei Beatles e quella di Let Me Be Your Lovemaker di Betty Wright poi apparvero su Street Rats (dove c’erano altri due brani firmati Lennon-McCartney e uno da Chuck Berry), un album manipolato dalla etichetta che aggiunse e modificò del materiale che era destinato per un probabile album solo di Marriott. Quindi ora arriva una etichetta precisa come la Cleopatra (ah ah) che fa apparire questi nastri che sicuramente faranno comunque la gioia dei fans degli Humble Pie, ma già la copertina è tutta un programma, visto che nella foto c’è ancora Peter Frampton, che se ne era già andato dalla band nel 1971! Comunque oltre a Marriott suonano nel CD Greg Ridley basso, Dave “Clem” Clempson chitarra, e Jerry Shirley batteria. Appurato che due dei brani non sono inediti ne rimangono comunque otto mai sentiti, tra cui due versioni di Think di James Brown. Vedremo come sarà, manca poco all’uscita, ecco la lista completa delle canzoni.

1. Think
2. This Ol’ World
3. Midnight Of My Life
4. Let Me Be Your Lovemaker
5. Rain
6. Snakes & Ladders
7. Good Thing
8. A Minute Of Your Time
9. Charlene
10. Think 2

van morrison the healing game

Van Morrison – The Healing Game (20th Anniversary Edition) – 3CD set Legacy Sony – 01-03-2019

Questo, come suggerisce il titolo, doveva uscire due anni fa, nel 2017, per il 20° Anniversario dall’uscita dell’album The Healing Game, avvenuta nel 1997: ma poi Van Morrison ha iniziato a pubblicare dischi nuovi a raffica e quindi il triplo CD è stato rinviato più volte, non grande gioia dell’irlandese, come ha esternato anche nella intervista concessa al Buscadero. La lista dei brani prevista è la stessa che doveva uscire all’epoca, e oltre al disco originale rimasterizzato e ai singoli estratti dall’album nel primo CD, contiene molto materiale raro o completamente inedito, oltre ad un concerto a Montreux, sempre del 1997, che non c’entra nulla con i due contenuti nel DVD Live At Montreux, che erano del 1974 e 1980. Una rarità questa messe di aggiunte per una ristampa di un disco che è comunque tra i migliori di Van The Man dell’ultimo periodo e speriamo che segnali la ripresa della ripubblicazione del suo catalogo. Ecco la lista completa dei contenuti. Come evidenziato uscirà il 1° marzo (si spera, perché parrebbe sia stata posticipata la data al 22 marzo).

CD1: The Original Album + CD Singles]
1. Rough God Goes Riding
2. Fire In the Belly
3. This Weight
4. Waiting Game
5. Piper At The Gates Of Dawn
6. Burning Ground
7. It Was Once My Life
8. Sometimes We Cry
9. If You Love Me
10. The Healing Game
Bonus Tracks:
11. Look What The Good People Done (First issued on the CD Single #VANCD 13, 1997)
12. At The End Of The Day (First issued on the CD Single #HEAL 3, 1997)
13. The Healing Game (Single Version) (First issued on the CD Single #HEAL 3, 1997)
14. Full Force Gale ’96 (First issued on the CD Single #VANCD 13, 1997)
15. St. Dominic’s Preview (First issued on Sult – Spirit Of The Music, 1996)

[CD2: Sessions & Collaborations]
1. The Healing Game (Alternate Version) (Previously Unissued)
2. Fire In The Belly (Alternate Version) (Previously Unissued)
3. Didn’t He Ramble (Previously Unissued)
4. The Healing Game (Jazz Version) (Previously Unissued)
5. Sometimes We Cry (Full Length Version) (Previously Unissued)
6. Mule Skinner Blues (First issued on The Songs Of Jimmie Rodgers: A Tribute, 1997)
7. A Kiss To Build A Dream On (Previously Unissued)
8. Don’t Look Back – John Lee Hooker (First Issued on Don’t Look Back, 1997)
9. The Healing Game – John Lee Hooker (First Issued on Don’t Look Back, 1997)
10. Boppin’ The Blues – Carl Perkins & Van Morrison (Previously Unissued)
11. Matchbox – Carl Perkins & Van Morrison (Previously Unissued)
12. Sittin’ On Top Of The World – Carl Perkins & Van Morrison (First Issued on Good Rockin’ Tonight – The Legacy Of Sun Records, 2001)
13. My Angel – Carl Perkins & Van Morrison (Previously Unissued)
14. All By Myself – Carl Perkins & Van Morrison (Previously Unissued)
15. Mule Skinner Blues – Lonnie Donegan & Van Morrison (First issued on Muleskinner Blues, 1999)

[CD3: Live At Montreux 19 July, 1997]
1. Rough God Goes Riding
2. Foreign Window
3. Tore Down A La Rimbaud
4. Vanlose Stairway/Trans-Euro Train
5. Fool For You
6. Sometimes We Cry
7. It Was Once My Life
8. I’m Not Feeling It Anymore
9. This Weight
10. Who Can I Turn To (When Nobody Needs Me)
11. Fire In The Belly
12. Tupelo Honey/Why Must I Explain
13. The Healing Game
14. See Me Through/Soldier Of Fortune/Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)/Burning Ground

pink fairies the polydor years

Pink Fairies – The Polydor Years – 3 CD Retroworld/Floating World – 01-03-2019

Sempre il 1° marzo è prevista la pubblicazione di questo box da parte della Floating World: si tratta dei 3 CD già pubblicati dalla Universal nel 2002, in teoria fuori catalogo, ma cercando qualcosa si trova ancora. Comunque se ve li siete persi allora, tutti e tre, per una volta, contengono anche le bonus tracks aggiunte, e il tutto dovrebbe avere un prezzo più che abbordabile, consentendo di riascoltare una delle band culto di quel periodo, parliamo degli anni tra il 1971 e il 1973. Uno dei gruppi più “strani” del rock dei primi anni ’70, nati dalle ceneri dei Deviants, la band psych-rock di Mick Farren, che però venne estromesso dal gruppo dagli altri tre componenti il chitarrista Paul Rudolph, il bassista Duncan Sanderson, e il batterista Russell Hunter, cui si aggiunge un altro batterista e cantante, Twink, già nei Pretty Things, che rimase solo per il primo album Never Never Land del 1971.

Mentre nel secondo What A Bunch Of Sweeties, uscito nel 1972, rimasero in tre, con alcuni ospiti aggiunti del giro Move T-Rex, e nel terzo Kings Of Oblivion del 1973, arrivò un nuovo chitarrista, Larry Wallis. In quegli anni succedevano queste cose. Comunque i tre dischi, tra hard-rock fuori di testa, psichedelia e lo space rock alla Hawkind, sono tutti e tre interessanti.

eagles hell freezes over

Eagles – Hell Freezes Over – Geffen/Rhino – 08-03-2019

Tra le ristampe inutili e francamente forse anche incomprensibili, esce di nuovo questo CD della band per il 25° Anniversario dall’uscita del 1994. Ovviamente nessuna bonus, cambia solo la casa discografica di distribuzione, da Geffen/Universal a Geffen/Rhino, per il resto tutto come prima: quattro brani in studio e 11 presi dalla esibizione dell’aprile 1994 per MTV. La nuova data di pubblicazione è quella che vedete sopra: non si poteva fare un bel CD+DVD, mah?!?

1. Get Over It
2. Love Will Keep Us Alive
3. The Girl From Yesterday
4. Learn To Be Still
5. Tequila Sunrise
6. Hotel California
7. Wasted Time
8. Pretty Maids All In A Row
9. I Can’t Tell You Why
10. New York Minute
11. The Last Resort
12. Take It Easy
13. In The City
14. Life In The Fast Lane
15. Desperado

pamela polland pamela polland have you heard

Pamela Polland – Pamela Polland/ Have You Heard The One About The Gas Station Attendant? – 2 CD BGO – 08-03-2019

Sempre venerdì 8 marzo esce per la BGO questo doppio CD, dedicato ai (pochi temo) appassionati di questa bravissima cantautrice degli anni ’70. Essendo stato felice possessore ai tempi del vinile omonimo uscito nel lontano 1972 per la Columbia, mi ero sempre chiesto perché non fosse mai stato ristampato in CD (se non in Giappone), pur essendo un bellissimo disco, prodotto da George Daly, con la partecipazione di Norbert Putnam, Kenny Buttrey, Marc McClure, Taj Mahal, David Briggs, Nicky Hopkins, Eddie Hinton Tommy Cogbill, tra gli altri. Classico esempio di cantautorato made in California, per una cantante che era una protetta di Clive Davis, il potente presidente della CBS all’epoca, e anche una delle voci femminili usate da Joe Cocker nel 1970 nel famoso tour di Mad Dogs And Englishmen https://www.youtube.com/watch?v=qxWXEjri2nUed in precedenza autrice di un album a nome The Gentle Soul, uscito per la Epic nel 1968, disco che vedeva la presenza di Ry Cooder, Van Dyke Parks Larry Knechtel, oltre alla produzione di Terry Melcher, stampato in CD dalla Sundazed nel 2003, ma ahimè non più disponibile.

Non solo, nella nuova edizione dell’album della BGO, viene edito per la prima volta in assoluto Have You Heard The One About The Gas Station Attendant?, disco registrato subito dopo il primo omonimo, mai pubblicato prima, anche se era stato completato nel 1973, con la produzione di Gus Dudgeon, non il primo che passava per strada, l’uomo che aveva prodotto il primo Ten Years After, il primo David Bowie, gli album migliori di Elton John, Michael Chapman, Audience, Joan Armatrading, Fairport Convention, e potremmo andare avanti per ore. Il disco della Polland, venne registrato a Londra con L’ingegnere del suono Ken Scott, l’arrangiatore degli archi Del Newman, e musicisti come Ray Fenwick, Herbie Flowers, e il percussionista di Elton Johh,  Ray Cooper, nonché, per la parte americana delle sessioni, anche Russ Kunkel, Leland Sklar, e di nuovo Taj Mahal e Marc McClure, e come ospite Bruce Johnston dei Beach Boys. Il disco fu completato ed era pronto per uscire, ma non fu mai pubblicato perché Clive Davis se ne era andato dalla Columbia e quindi è rimasto negli archivi fino ad oggi, grazie a questa riscoperta della BGO, Pamela Polland, che da allora se ne è andata a vivere alle Hawaii, diventando una insegnante di canto, e pubblicando ancora un album nel 1995, penso sarà contenta di vedere finalmente la sua opera (ri)pubblicata su CD.

[CD1: Pamela Polland]
1. In My Imagination
2. Out Of My Hands (Still In My Heart)
3. Sing-A-Song Man
4. When I Got Home
5. Please Mr. D.J.
6. Abalone Dream
7. The Rescuer
8. Sugar Dad
9. The Teddy Bears’ Picnic
10. The Dream (For Karuna)
11. Texas
12. Lighthouse

[CD2: Have You Heard The One About The Gas Station Attendant?]
1. The Refuge
2. Wild Roses
3. You Stand By Me
4. To Earl
5. Music Music
6. Thank You, Operator
7. Willsdon Manor
8. (Untitled) Dusty Rose
9. The Ship
10. Prelude
11. The Clearing
12. Didn’t Get Enough Of Your Love
13. Take In The Light

Domani la terza e ultima parte con le altre ristampe di marzo.

Bruno Conti

Ne Escono Più Oggi Che Quando Era Ancora Vivo Steve Marriott! Humble Pie – 30 Days In The Hole Live…E Altro

humble pie 30 days in the hole

Humble Pie – 30 Days In The Hole Live – ZYX Music

Alcuni punti certi: Steve Marriott è stato uno dei più grandi cantanti (e chitarristi) del pop e rock britannico degli anni ’60 e ’70, prima negli Small Faces dal 1965 al 1969, poi con gli Humple Pie in due fasi, 1969/1975 e 1980/81. Fin qui ci siamo e la sua statura musicale non si discute: alti e bassi, certo, ma anche molti dischi strepitosi. Però Marriott è morto nell’aprile del 1991. E da allora, se mi passate il termine, è partito il “casino”: molti ristampe ufficiali, penso al cofanetto quadruplo espanso dello splendido live Performance: Rockin’ The Fillmore, e per gli amanti del vinile il box The A&M Vinyl Boxset 1970-1975, con tutti gli album incisi in quegli anni, da unire ai due dischi incisi per la Immediate nel 1969. Ma sono stati anche pubblicati, da tutte le etichette del mondo, decine di album postumi, in decine di versioni diverse, molti delle formazioni con Marriott, ma anche alcuni dove il povero Steve non c’entra per nulla.

humble pie back on track

L’ultima della serie, sempre targata 2018, è proprio una versione doppia del disco del 2002 Back On Track, a cui è stato aggiunto un live a Cleveland del 1990, entrambi senza Marriott, con Jerry Shirley alla batteria, Greg Ridley al basso e Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group in sostituzione di Steve. Comunque ce ne sono anche molti con la formazione originale dell’epoca: questo 30 Days In The Hole Live per esempio parrebbe una pubblicazione ufficiale della tedesca ZYX Music (infatti le note e le info ci sono tutte e sono precise, all’interno del CD però), che comprende nove pezzi dal vivo estratti da 3 concerti diversi, Live At The Academy Of Music, NY 1971, Live At Winterland 1973 e Live At Reseda Country Club Los Angeles 1981, più un pezzo in studio, tratto da On The Victory, il disco in studio del 1980. Qualità differente del sonoro, ma mediamente una ottima occasione per ascoltare versioni spesso entusiasmanti di The Fixer, Tulsa Time, Honky Tonk Women degli Stones, una Rollin’ Stone di 18 minuti, 30 Days In The Hole, I Don’t Need No Doctor, Four Days Creep, e altre non da meno. E infatti il disco sarebbe da 3 stellette e mezzo come giudizio critico: ma, ohibò, di si meriterebbe anche una stelletta solitaria, che non è quella del famoso salame, ma il verdetto inappellabile per tutti quelli che hanno speculato in questi anni sull’eredità musicale di Mr. Marriott e soci.

humble pie official bootleg vol. 1 humble pie official bootleg vol. 2

Per completare questa recensione di pubblica utilità e globale, ricordo che in questo periodo è uscito anche il volume 2 della serie  Official Bootleg Box Set, cinque dischetti, di cui il primo e l’ultimo sono i concerti completi del 1971 e 1981 compresi in parte anche in 30 Days In The Hole, oltre a Boston 1972, Philadelphia 1975 e un altro New York del 1981, box che è il seguito dell’ottimo volume 1 della serie, uscito sempre per la Cherry Red lo scorso anno, in 3 CD, e che riportava materiale del 1972-1973-1974. All’origine tutto materiale pirata, da cui il titolo, ma spesso di eccellente qualità sonora, come pure le 3 canzoni del Winterland 1973 che poi sarebbero una parte del famoso King Biscuit Flower, uscito con vari titoli, mentre il concerto del 1971 a NY era uscito anche per la Cleopatra come Live In New York 1971. Vi sta venendo il mal di testa? Per ricapitolare e fare chiarezza, diciamo che se avete un po’ di soldi da spendere (perché non costano pochissimo) i  due cofanetti della serie Bootleg Box sarebbero l’ideale, ma se vi “accontentate” anche questo 30 Days In Hole è una ottima summa degli Humble Pie dal vivo, una vera macchina da guerra, per il resto, come illustrato, spero chiaramente, occhio ai doppioni e come diceva un loro titolo Rock On. Tanta buona musica, una voce strepitosa e qualche “fregatura”!

Bruno Conti

E Questi Sono Giovanotti Veri, Molto Promettenti! Chase Walker Band – Not Quite Legal

chase walker band not quite legal

Chase Walker Band – Not Quite Legal – Revved Up Records

Già lo dichiarano fin dal titolo (e guardando la foto di copertina qualche dubbio sorge subito): ma quanti anni avranno? Chase Walker, California del Nord, data di nascita 16 agosto 1998, chitarrista, cantante ed autore, Randon Davitt, basso e voce e Matt Fyke, batteria, faticano davvero ad arrivare alla maggiore età. Ma sono già al secondo album, il primo Unleashed era uscito nel 2014: nel frattempo il nostro amico ha partecipato anche a The Voice, versione americana. Per fortuna sembra che negli ultimi anni molti baldi giovanotti (mai abbastanza comunque, contro una massa di “fenomeni da baraccone” che appaiono nei cosiddetti talent show) abbiano deciso di tornare al rock, e alla buona musica in generale. Certo sarebbe importante se oltre a gente che la suona, ci fossero anche molti altri giovani che la ascoltano, ma su queste pagine, anche nella nostra funzione di “diversamente giovani” cerchiamo di spargere la buona novella. Proprio di recente vi parlavo della Austin Young Band http://discoclub.myblog.it/2016/11/02/altro-talento-azione-giovane-nome-fatto-austin-young-band-not-so-simple/ , in Inghilterra, anzi Irlanda, sono sbucati gli Strypes, gente che campa a pane Yardbirds, Stones. Dr. Feelgood per gli ultimi, o Albert King, Hubert Sumlin, ma anche Bonamassa e Stevie Ray Vaughan per Austin Young.

Chase Walker e soci si rifanno moltissimo a gente come i Black Crowes, o tornando nel passato i grandi Humble Pie di Steve Marriott, senza dimenticare il nume tutelare di tutti i chitarristi, tale Jimi Hendrix da Seattle, di cui la Chase Walker Band propone una inconsueta versione di Red House. Il brano è un blues lento, lancinante, ispirato dalle 12 battute più classiche, rivisto nell’ottica unica del grande Jimi. Il terzetto di Chase Walker rivisita il brano con un arrangiamento diverso: l’incipit si avvale di una resonator acustica dal corpo d’acciaio (quella che appare nella copertina) e il battito di un piede, quindi proprio blues primigenio che ci permette di apprezzare una voce matura ben oltre i propri anni, poi entra la forza elettrica del brano, anche se la voce filtrata e distorta forse non rende la carica dirompente della canzone, ma l’idea di accelerare il tempo e trasformarlo in un power rock-blues duro e tirato, è vincente, il nostro amico è un chitarrista dal tocco ruvido ma ricco di feeling, innervato da anni di ascolti di rock classico. Già l’apertura di Done Loving You, con l’organo di Drake Murkihaid Shining ad irrobustire ulteriormente il sound sudista che esce dagli ampli, ricorda moltissimo i Black Crowes degli inizi (che non so se già a questa età erano così bravi, forse sì), e non è un brutto punto di partenza. Alcuni brani, quattro, sono prodotti da Gino Matteo, il chitarrista della Sugaray Rayford Blues Band, e l’uso massiccio di armonie vocali spesso è vincente. Il rock grintoso e ad alta densità i riff, ci riporta al sound degli Humble Pie citati all’inizio, Chase Walker ha una voce potente e con la giusta dose di negritudine, e un brano come la rocciosa The Walk sta a testimoniarlo, la chitarra urla e strepita in risposta alla voce e l’atmosfera è quella giusta,  magari sentita mille volte! Pazienza ce ne faremo una ragione.

New State Of Mind, di nuovo prodotta da Matteo, ha un bel suono, ricco di tastiere, anche chitarre acustiche, ottime armonie vocali, una bella melodia, il tutto per una ballata mid-tempo di notevole valore. Pure I Warned You mantiene la stessa pattuglia di musicisti e conferma questo suono tra “roots” ed “Americana”, con i fratelli Robinson come punto di riferimento sonoro e una bella attitudine rock che non tralascia però le melodie. Niente male anche Cold Hearted, altro brano che mescola rock classico e un linguaggio crudo e senza peli sulla lingua nei testi, oltre ad un bel solo nella parte centrale, cosa ribadita nella esplicita Don’t F*** It Up, di nuovo con una bella melodia avvolgente e vincente, niente per cui strapparsi le vesti, ma che denota una buona frequentazione con una musicalità vicina ai “Corvi Neri”, e l’assolo non manca mai. 54- 46 è una cover che non mi sarei aspettato, un brano di Toots And The Maytals, tra reggae e rock, che sinceramente non mi fa impazzire; meglio la riffata Changed cantata dal bassista Randon Davitt, fin troppo basica, mentre It’ll Pass è l’ultimo brano prodotto da Matteo, di nuovo con acustiche e organo ad ampliare lo spettro sonoro verso un southern rock di buona fattura. E l’ultima cover Honey Jar è un pezzo di una formazione, i Wood Brothers, che mi piace moltissimo, anche se questa versione è un po’ irrisolta, e denota le idee a tratti non ancora definite del trio di Chase Walker; anche Living On Thin Ice è un buon pezzo rock, ma irrita l’uso ancora una volta della voce distorta e filtrata, visto che il nostro ha una bella voce e l’assolo di chitarra non risolve il tutto. La hidden track finale Yabba Dabba è una strumentale con voiceover della band, e si salva giusto per l’ottimo lavoro della solista. Insomma i ragazzi sono bravi, ma devono lavorare sulle proprie idee e migliorarsi.

Bruno Conti

Lunga Vita Agli Anni ’70! Rival Sons – Hollow Bones

rival sons hollow bones

Rival Sons – Hollow Bones – Earache Records

Siete in crisi di astinenza per i Led Zeppelin da una quarantina di anni? Vivete a pane e hard-rock anni ’70? Non andate a cercare altrove, il quartetto californiano dei Rival Sons è la vostra panacea. Sono già al quinto album, il quarto prodotto da Dave Cobb (in un paio di brani coinvolto anche come autore), che regala come sempre brillantezza di suoni e ricchezza di particolari nei suoi lavori (anche se la produzione del disco degli Europe del 2015 ce la poteva risparmiare): la copertina, molto bella, questa volta è di Martin Wittfooth, artista canadese, ma residente a Brooklyn, specializzato in singoli ritratti di animali colti nella loro essenza, mentre nell’album del 2011 Pressure and Time avevano utilizzato Storm Thorgerson, quello delle copertine dei Pink Floyd. Il sound si ispira non solo ai Led Zeppelin,  comunque fonte primaria, ma anche ai Deep Purple,  con qualche tocco di Black Sabbath, tra i contemporanei ricordiamo i Cult, i Black Keys più duri, i Soundgarden, e sempre dal passato gli Humble Pie di Steve Marriott, di cui riprendono una cover di Black Coffee, un pezzo del 1972 di Ike & Tina Turner che era su Eat It, ma suonata come avrebbero fatto gli Zeppelin di Plant, ma anche viceversa (non dimentichiamo che You Need Loving degli Small Faces era un diretto antenato di Whole Lotta Love quanto You Need Love di Muddy Waters, ma diciamo che Page e Plant si “ispiravano” spesso ad altri, anche se il risultato finale poi era solo loro).

I Rival Sons arrivano qualche generazione dopo, ma la grinta e l’attitudine giusta ci sono, come dimostra il soul-blues “bastardizzato” del brano, che ci permette di gustare l’ottima voce di Jay Buchanan, cantante dai mezzi notevoli, e il solismo variegato di Scott Holiday, chitarrista di quelli “cattivi”. Come dite? Potrebbero ricordare anche i Black Crowes più duri? Certo, le coordinate sonore sono quelle. Se poi aggiungiamo che hanno pure un eccellente batterista di scuola Bonham come Michael Miley, non vi resta che andarvi a sentire la lunga e poderosa Hollow Bones Pt.2  https://www.youtube.com/watch?v=LtaGtmL5F7E (ma anche la parte 1 non scherza https://www.youtube.com/watch?v=93KFbeGzQAc ) o una Thundering Voices il cui riff assomiglia “leggermente” a Moby Dick, ma senza scomodare i “Corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico, c’è sempre qualcuno che prende e poi rilascia, con piccole modifiche, ma proprio piccole! Però il disco si ascolta volentieri, non è per nulla tamarro o esagerato, loro hanno stamina e grinta, non sono originali? Ce ne faremo una ragione, in fondo chi lo è? Per la serie le”citazioni” non finiscono mai (come pure gli esami) anche il blues elettrico di Fade Out ha più di un legame di parentela con la Beatlesiana I Want You, il lungo brano che chiudeva il primo lato di Abbey Road https://www.youtube.com/watch?v=vQ1uqK13WIA , pur se Buchanan canta come un “disperato” e l’assolo è degno del Page più ispirato e indiavolato. Insomma se la serie televisiva “Vinyl” vi ha ingrifato, qui troverete pane per i vostri denti, o se preferite, trippa per gatti. In conclusione c’è anche une delicata All That I Want, ballata acustica dal leggero crescendo finale che stempera il rock duro e puro di brani come Tied Up, Baby Boy e Pretty Face https://www.youtube.com/watch?v=0G0NUgabdMU . Lunga vita agli anni ’70!

Bruno Conti