L’Ennesimo Live Album…Ma Avercene! John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks

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John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks – BMG CD

Da quando nel 1972 Johh Fogerty sciolse i Creedence Clearwater Revival, la sua carriera solista è sempre stata all’insegna della discontinuità temporale. Solo due dischi negli anni settanta (anzi tre, ma Hoodoo venne rifiutato dalla Asylum, l’etichetta dell’epoca di John, e non venne mai pubblicato ufficialmente), altri due negli anni ottanta dopo dieci anni di silenzio (con in mezzo la battaglia legale con la Fantasy ed il suo ex boss Saul Zaentz), uno solo nei novanta, lo splendido Blue Moon Swamp, e “ben” quattro nel nuovo millennio, anche se l’ultimo composto da canzoni nuove risale ormai a 12 anni fa (Revival). Da quando ha ricominciato a pubblicare dischi con continuità (si fa per dire, appunto), Fogerty ci ha anche gratificato di più di un album dal vivo: Premonition nel 1998, The Long Road Home In Concert nel 2006 ed il DVD Comin’ Down The Road nel 2009. Qualcuno in questi anni ha accusato John di cucinare con gli avanzi riciclando sempre le stesse canzoni (ricorderei anche l’antologia Long Road Home e l’album di vecchi successi rifatti in duetto con vari artisti Wrote A Song For Everyone https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/ ), ma quando si parla del songbook del rocker californiano sono comunque avanzi che parecchi suoi colleghi non “assaggeranno” mai, neanche come portata principale in una cena di gala.

Fogerty è infatti uno degli autori più importanti di sempre, i cui brani sono per la maggior parte diventati degli standard della musica mondiale, uno che può stare tranquillamente nello stesso club di Bob Dylan, Van Morrison, Neil Young, Paul Simon ed anche il Robbie Robertson di quando era ancora il leader di The Band. Quest’anno John ha celebrato in giro per l’America non i 50 anni di carriera, ma le cinque decadi da quell’irripetibile 1969 in cui diede alle stampe ben tre dei quattro album più leggendari dei Creedence: Bayou Country, Green River e Willie And The Poor Boys (il quarto, Cosmo’s Factory, uscirà nel 1970), ed ora ha deciso di celebrare l’evento con la pubblicazione di 50 Year Trip: Live At Red Rocks, registrato nella famosa location di Morrison in Colorado lo scorso 20 Giugno, e disponibile per il momento solo in USA (in Europa uscirà il 24 Gennaio, ma spendendo qualche euro in più potete accaparrarvi anche adesso senza grossi problemi la versione americana. * NDB Comunque stranamente poi, in Italia, di tutti i paesi del mondo, Il CD è stato pubblicato, e pure a un prezzo molto più basso). Un altro live di Fogerty quindi? Sì, ma ci si poteva anche aspettare che questo tour fosse festeggiato con un’uscita discografica ad hoc, e poi comunque vorrei riallacciarmi al discorso imbastito prima affermando che, pur essendo le scalette dei suoi concerti sempre simili fra loro, Fogerty dal vivo è sempre una goduria assoluta, sia per il livello insuperabile dei brani sia per le performance infuocate che John a 74 anni suonati è ancora in grado di garantire, sia dal punto di vista strumentale che soprattutto vocale.

Il CD è singolo (non c’è stranamente il DVD), in quanto il nostro ha scelto di privilegiare solo i pezzi del suo repertorio e ha purtroppo escluso le cover non riconducibili né ai Creedence né al suo periodo solista eseguite quella sera, e sto parlando di brani di John Lennon (Give Peace A Chance), Beatles (With A Little Help From My Friends), The Who (My Generation) e Sly & The Family Stone (Everyday People e Dance To The Music). Ma quello che c’è basta ed avanza, ed è suonato in maniera strepitosa dal nostro e dalla sua eccellente band, che comprende i figli Shane (chitarra e voce) e Tyler Fogerty (voce), il formidabile batterista Kenny Aronoff (una macchina da guerra), il tastierista Bob Malone, il bassista James Lomenzo, due backing vocalist femminili ed una sezione fiati di tre elementi. E’ inutile recensire il concerto in maniera classica con l’esegesi brano per brano, dato che i titoli si commentano da soli: Born On The Bayou, Green River, Lookin’ Out My Back Door, Who’ll Stop The Rain, Hey Tonight, Up Around The Bend, Long As I Can See The Light (e se qui non vi scende una lacrimuccia siete senza cuore), Run Through The Jungle, Suzie Q, Have You Ever Seen The Rain (altro momento altamente emozionale), Down On The Corner, Fortunate Son, due esplosioni di puro rock chitarristico (ed anche Shane non è affatto male alla sei corde) del calibro di I Heard It Through The Grapevine (otto minuti straordinari, con uno splendido intermezzo pianistico di Malone) ed una Keep On Chooglin’ da stendere un toro, fino ai classici bis di Bad Moon Rising e Proud Mary, qui nettamente accelerata nel ritmo e con i fiati, quasi a voler omaggiare la versione di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=xI3ZtOEBXVk .

Come vedete una setlist nettamente sbilanciata verso i brani dei Creedence, anche se gli unici pezzi del repertorio solista di John, le trascinanti Rock And Roll Girls, Centerfield e The Old Man Down The Road, non sfigurano affatto nemmeno vicino a canzoni così leggendarie. E mancano brani altrettanto mitici come Travelin’ Band, Wrote A Song For Everyone, Lodi, Rockin’ All Over The World, Almost Saturday Night e chi più ne ha più ne metta. Il disco dal vivo migliore di John Fogerty (insieme a The Long Road Home In Concert): ora però vorrei davvero un nuovo album di studio, che infatti sembrerebbe in dirittura d’arrivo per il 2020.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Di Nuovo Insieme Alla Grande, Anteprima Nuovo Album. Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee

beth hart & joe bonamassa black coffee

Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee – Mascot/Provogue

Beth Hart e Joe Bonamassa presi singolarmente sono, rispettivamente, la prima, una delle più belle voci prodotte dalla musica rock negli ultimi venti anni, potente, grintosa, espressiva, eclettica, con una voce naturale e non costruita,, il secondo, forse il miglior chitarrista in ambito blues-rock (ma non solamente) attualmente in circolazione, entrambi degni eredi di quella grande tradizione che negli anni gloriosi della musica rock, quindi i ’60 e i ’70, sfornava di continuo nuovi talenti che ancora oggi sono i punti di riferimento per chi vuole ascoltare della buona musica. Messi insieme i due, grazie ad una indubbia chimica personale ed artistica, hanno dato vita ad un sodalizio che fino ad ora ci ha regalato tre album, due in studio ed uno dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/ , incentrati su una formula che fonde soul, blues, rock, R&B, qualche pizzico di jazz, uno stile ed un modo di concepire lo spettacolo che una volta si chiamava “soul revue”, quella di Ike & Tina Turner, del Joe Cocker di Mad Dog, o del Leon Russell della stessa epoca, di Eric Clapton con Delaney & Bonnie, forse anche della Band.. Nel caso di Beth e Joe in coppia, a differenza dei loro dischi solisti, il repertorio è formato rigorosamente da cover, non ci sono brani originali, quindi l’arte dell’interpretazione è fondamentale in questo approccio: i primi due dischi di studio, Don’t Explain del 2011 e Seesaw del 2013, ne erano fulgidi esempi, mentre lo splendido Live In Amsterdam del 2014, ne era la sublimazione in concerto.

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A distanza di quasi quattro anni i due hanno deciso di dare finalmente un seguito a quelle ottime prove: hanno chiamato ancora il produttore Kevin Shirley, che si conferma sempre più ottimo alchimista di suoni e persone, in grado di fondere il rock classico con un approccio moderno, l’irruenza vocale di Beth Hart ed il virtuosismo chitarristico di Joe Bonamassa in un tutt’uno di grande valore artistico, ma perfettamente ed immediatamente fruibile. L’eccellente band  di Bonamassa (che è superiore a quella che abitualmente accompagna la Hart) fa il resto: con qualche new entry rispetto ai dischi passati troviamo, in ordine sparso, Anton Fig (batteria, percussioni), Ron Dziubla (Sax), Lee Thornburg (Tromba/Trombone), Reese Wynans (Tastiere), Michael Rhodes (Basso), Rob McNelley (chitarra ritmica), Paulie Cerra (Sax), e le tre ragazze alle armonie vocali Mahalia Barnes, Jade Macrae e Juanita Tippins. Il resto lo fanno le dieci ottime canzoni scelte per questo Black Coffee (undici nella versione deluxe): non ci sono brani celeberrimi (forse a parte uno), ma l’equilibrio tra rock’n’soul e blues è perfetto, tra brani più mossi e tirati e qualche ballata o “lentone” blues. Il brano d’apertura è subito esuberante, una Give It Everything You Got di Edgar Winter, che si trovava su White Trash. disco del 1971 che fondeva classico soul alla Stax e hard rock, anche l’approccio di questa nuova versione è quello, chitarra con wah-wah a manetta, fiati sincopati, la voce poderosa e scatenata di Beth sostenuta dalle tre coriste e un groove estremamente godibile, che poi lascia spazio alla solista di Bonamassa che inchioda un assolo dei suoi, breve ma intenso.

https://www.youtube.com/watch?v=pELav-8aLeY

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Damn Your Eyes è l’ennesimo tributo di Beth Hart a Etta James, uno dei suoi idoli assoluti, una ballata blues intensa che si trovava su Seven Year Itch il disco del 1988 che segnava il ritorno sulle scene di una delle regine del soul, versione eccellente con la solista fluida ed intrigante di Bonamassa che sottolinea la voce dei Beth con una serie di soli ficcanti e pungenti, mentre le tastiere di Wynans e i fiati regalano un arrangiamento ricco e complesso. Black Coffee era proprio un brano di Ike & Tina Turner, che molti forse, spero, ricordano nella versione di Steve Marriott con i suoi Humble Pie, su cui è costruita questa rivisitazione in cui Beth cerca di emulare, riuscendoci, una delle più grandi voci “nere” di un bianco; Lullaby Of The Leaves era un vecchio brano, poco conosciuto, di Ella Fitzgerald, che qui diventa una splendida ballata pianistica intima e jazzy, sulla falsariga dei tributi a Billie Holiday dei dischi passati, cantata con misura e pathos dalla Hart, che qui mi ha ricordato la bravissima Mary Coughlan, molto bello anche l’assolo di Bonamassa, improvviso, torrenziale e lancinante. Why Don’t You Do It Right? è un oscuro pezzo degli anni ’40, swingato e divertente, modellato sulla versione di Peggy Lee, con i due e il gruppo in grande souplesse; Saved è uno dei brani ripresi dal repertorio di Lavern Baker,  una delle prime grandi cantanti del R&B.

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https://www.youtube.com/watch?v=NooMzmbE0xc

L’altro è Soul On Fire, entrambi permettono di gustare la maturità vocale raggiunta dalla Hart, prima scatenata in un pezzo che ricorda le evoluzioni dei primi Isley Brothers, quelli di Shout, poi felpata ed incantevole nel secondo brano, un vera delizia per i padiglioni auricolari degli ascoltatori, con Bonamassa che incornicia entrambi i brani con degli interventi dove si apprezza l’eccellente tocco della sua solista. In grande spolvero pure in una versione splendida di Sittin’ On Top Of The World, uno dei classici del blues che ricordiamo in una memorabile versione dei Cream. Un’altra “cliente” abituale dei due è Lucinda Williams, di cui viene ripresa, con piglio energico, cadenzato e grintoso, molto bluesato, Joy, un brano che si trovava su Car Wheels On A Gravel Road, che quanto a spinta chitarristica non ha nulla da invidiare ai brani più rock della chanteuse americana. Manca l’ultimo brano Addicted, con la coppia, credo su suggestione di Shirley e della casa discografica, che va a pescare questa canzone dal repertorio della band trip-hop elettronica austriaca Waldeck: niente paura è molto meglio dell’originale, però confrontato con il resto solo un onesto pezzo pop-rock, nobilitato dagli assoli della solista di Bonamassa. Comunque non inficia il giudizio molto positivo di Black Coffee, che conferma la validità di questa coppia veramente bene assortita. P.S. La bonus della deluxe edition Baby I Love You non l’ho sentita per cui non vi so dire, presumo sia quella delle Ronettes (o dei Ramones). *NDB E invece era il brano di Aretha Franklin. Esce il 26 gennaio.

Bruno Conti

Finalmente Il Giusto Riconoscimento! Darlene Love – Introducing Darlene Love

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Darlene Love – Introducing Darlene Love – Sony CD

Un paio di anni fa è uscito un bel film-documentario intitolato 20 Feet From Stardom https://www.youtube.com/watch?v=F9PXdv3mLhc , che si occupava di dare il giusto tributo ad una lunga serie di cantanti femminili che avevano sempre, o quasi, lavorato come backing vocalist di artisti famosi, vivendo quindi all’ombra di qualcun altro e dunque a pochi passi dalla celebrità: tra i volti noti e meno noti (tra i primi, Merry Clayton e Lisa Fisher) una delle protagoniste del film era indubbiamente Darlene Love. Nata Darlene Wright 74 anni fa, la cantante di colore ha avuto una carriera abbastanza particolare: all’inizio degli anni sessanta figurava nel roster di artisti patrocinati da Phil Spector, con il quale incise diversi singoli a suo nome, o come componente dei Blossoms e di Bob B. Soxx & The Blue Jeans, anche se il suo più grande successo, He’s A Rebel, fu commercializzato a nome delle Crystals, che con la canzone non c’entravano un tubo ma, avendo un nome molto più famoso, promettevano vendite maggiori (in quei tempi succedevano anche queste cose).

Il suo momento migliore la Love lo ebbe comunque nel 1963, quando uscì il mitico A Christmas Gift For You, album stagionale che presentava il meglio della “scuderia Spector” alle prese con materiale tradizionale a tema natalizio https://www.youtube.com/watch?v=9k7RBkOMNOY , e nel quale Darlene interpretava ben quattro brani come solista e due con Bob B. Soxx (tra cui la celebre Christmas (Baby Please Come Home), unico pezzo originale della raccolta). Dagli anni settanta, la stella di Darlene iniziò ad eclissarsi, e lei cominciò una lunga carriera come backup singer (per, tra gli altri, Elvis Presley, Aretha Franklin e Frank Sinatra) e più avanti anche come attrice (nella serie di Arma Letale era la moglie di Danny Glover, poliziotto collega di Mel Gibson), senza però pubblicare alcunché a suo nome: pensate che il suo primo album, Paint Another Picture, risale al 1988 (non male per una che ha iniziato nel 1961), e non è che dopo abbia continuato ad incidere con continuità. Darlene non ha comunque mai smesso di avere molti estimatori anche tra i suoi colleghi: tra questi c’è Steven Van Zandt, più noto come Little Steven, che già la volle nel 1985 nel supercast coinvolto per il singolo Sun City (ottima iniziativa, pessima canzone), e che ora l’ha riportata in studio per farle incidere finalmente l’album della vita, il giusto tributo ad una carriera vissuta nelle retrovie, dal titolo significativo di Introducing Darlene Love, quasi come se questo fosse il suo primo vero disco (devo dire la verità: quando ho letto il titolo per la prima volta ho pensato all’ennesima antologia. *NDB. Anch’io!)

Per questo album sono state fatte le cose in grande: Van Zandt stesso, oltre a produrre ed arrangiare il tutto, ha scritto tre canzoni nuove di zecca, e lo stesso ha fatto gente del calibro di Bruce Springsteen (due brani), Elvis Costello (idem), l’ex Four Non Blondes Linda Perry ed il grande Jimmy Webb (un pezzo a testa), e si è riformata persino (come songwriting team, in quanto nella vita privata sono ancora sposati) la leggendaria coppia composta da Barry Mann e Cynthia Weil per Sweet Freedom; il resto sono covers. Infine, Steven ha fatto un gran lavoro di produzione, rivestendo l’ancora grande voce della Love con sonorità decisamente spector-oriented, utilizzando (come faceva Phil) una serie infinita di musicisti, ma mantenendo un equilibrio ed una leggerezza invidiabili, e mettendo al centro l’ugola potente di Darlene, senza mai dare l’impressione di lascarsi scappare il suono dalle mani: il risultato è un disco al quale inizialmente davo poco credito, ma già al primo ascolto mi ha letteralmente conquistato, nonostante la durata superiore all’ora.

L’album è stato preceduto dal singolo Forbidden Nights (scritta da Costello), una splendida e solare pop song dal feeling spectoriano, accompagnata da un divertente video nel quale, oltre al suo autore e a Van Zandt, compaiono Springsteen con la moglie Patti Scialfa, Joan Jett, un David Letterman barbuto ed il suo (ex) direttore musicale Paul Schaffer (che suona nel disco, ma non in questa canzone). Among The Believers, di Little Steven, apre l’album: uno scintillante errebi, pieno di ritmo e con un feeling rock neanche troppo nascosto, e l’orchestrazione usata in maniera intelligente https://www.youtube.com/watch?v=8qbQQf_DrOY . Anche Love Kept Us Fooling Around non è da meno, un delizioso soul dal mood coinvolgente ed accompagnamento di gran classe: sorprende il fatto che sia scritta dalla Perry. Little Liar, cover di un brano del 1988 di Joan Jett, cambia registro, le sonorità sono un po’ da power ballad AOR anni ottanta, ma il ritornello epico e maestoso ci fa perdonare qualche eccesso. Still To Soon To Know è l’altro pezzo di Costello (che suona anche la chitarra), e vede Darlene duettare con Bill Medley (il titolare dei Righteous Brothers con Bobby Hatfield), uno slow da mattonella con una melodia toccante, due grandi voci ed un feeling enorme: un plauso a Little Steven, che ha fatto un lavoro davvero notevole come arrangiatore. Who Under Heaven è un lento pianistico tipico del suo autore (Jimmy Webb), con un refrain di grande impatto emotivo e la solita orchestrazione dal sapore sixties.

Night Closing In è il primo dei due brani di Springsteen, e suona come se Spector avesse deciso di produrre la E Street Band: aggiungeteci una melodia di valore assoluto ed avrete uno dei pezzi più belli del CD. Painkiller è un pezzo di Michael Des Barres, un rock-pop-funky ben eseguito ma di valore inferiore alle precedenti canzoni, anche se un calo ci può stare (e comunque la prestazione vocale di Darlene è super); Just Another Lonely Mile è il secondo brano del Boss, e si sente, un brano rock veloce e godibile che starebbe bene anche in un disco del rocker del New Jersey, uno di quelli che dal vivo fanno saltare tutti. Last Time (Van Zandt) è una rock ballad potente e fluida nello stesso tempo, ed è l’unica in cui l’arrangiamento orchestrale è forse superfluo; ed ecco una travolgente versione del classico di Ike & Tina Turner River Deep, Mountain High, molto più roccata dell’originale, ma che ne mantiene intatto lo spirito: grande cover https://www.youtube.com/watch?v=qyjnnTjiNGY . La già citata Sweet Freedom è un perfetto rhythm’n’blues dal gran ritmo, ottimi cori e suonato con una grinta da rock’n’roll band; Marvelous, un veccho brano del gospel singer Walter Hawkins, mantiene intatta l’anima dell’originale, ma che voce e che classe! Il CD si chiude alla grande con il terzo pezzo scritto da Steven, Jesus Is The Rock (That Keeps Me Rollin’), un trascinante gospel-rock che ci proietta all’istante in una chiesa del sud degli Stati Uniti, quasi impossibile tener fermo il piede, un finale strepitoso.

Era ora che qualcuno si ricordasse di Darlene Love, e questo disco è il modo migliore per celebrarla.

Marco Verdi