Cielo Grigio Su, Chitarra Rossa Giù… Indigenous – Gray Skies

indigenous gray skies

Indigenous – Gray Skies – Blues Bureau International/InakustikIrd

Mi scuso per l’ardita citazione poetico/canzonettistica nel titolo, ma mi scappava, comunque…

Questo dovrebbe essere l’undicesimo disco degli Indigenous (o 12°, a seconda dei conteggi delle discografie, se si contano forse anche gli EP e i Live), ma escluso il disco fatto in trio, a nome Mato Nanji, con David Hidalgo e Luther Dickinson. Per lui (loro), come per altri, vale il discorso che il meglio di solito esce ad inizio carriera, ma la band guidata dal nativo americano ha comunque creato spesso parecchi motivi di interesse, soprattutto per gli appassionati di rock-blues e di chitarristi in generale, con dischi dove “l’attrezzo musicale” è elemento importante ed imprescindibile del tutto, ma non sempre le canzoni sono all’altezza del contorno. L’ultimo disco del 2014 Time Is Coming, come dicevo all’epoca dell’uscita http://discoclub.myblog.it/2014/07/16/nativo-americano-sempre-piu-rock-indigenous-featuring-mato-nanji-time-is-coming/ , era comunque un buon album, in grado di soddisfare chi da questi dischi cerca grinta, perizia tecnica e tanta chitarra. Direi che anche in questo Gray Skies, per quanto i cieli siano grigi l’orizzonte pare comunque sgombro e ben visibile: la “parrocchia musicale” è sempre quella di Cream, Hendrix, Stevie Ray Vaughan e soci e discendenti, anche se la produzione di Mike Varney, boss della Blues Bureau (e anche della Shrapnel) evidenzia a tratti aspetti più hard ed esagerati nel genere del nostro amico.

Questa volta però il suono mi sembra più bilanciato e raccolto, e quindi sono abbastanza d’accordo con chi trova il nuovo album uno dei suoi migliori in assoluto e un ritorno alla forma dei tempi migliori: Stay Behind è una buona partenza, il groove è abbastanza alla Cream, ma l’uso dell’organo di Tommy Paris, un feeling sudista e una melodia che entra subito in testa permettono di gustare con piacere le evoluzioni della solista di Nanji, sempre brillante e ricca di inventiva, ma pure grintosa e potente, la parte cantata è onesta, pure i riff non mancano. Le canzoni al solito portano la firma di Mato Nanji, aiutato di tanto in tanto dalla moglie Leah Williamson e dallo stesso Varney: I’m Missing You è un buon rock-blues dalle parti di Stevie Ray Vaughan (e per analogia di Hendrix), al solito nobilitato dal lavoro della chitarra, mentre le parti vocali sono più scontate, croce e delizia di questo tipo di dischi (ma neppure SRV era questo gran cantante); Lonely Days è una piacevole rock ballad dal ritmo ondeggiante e con una buona melodia, al solito punteggiata dal timbro piacevole della solista di Mato, mentre Healers è più potente e tirata, anche se al di là del consueto phrasing sempre brillante dello strumento, comunque al centro del sound degli Indigenous, il resto è meno memorabile.

On My Way, sulle ali di un riff trascinante è un altro bel pezzo di classic rock, con un wah-wah veramente scatenato, e non può mancare un classico slow blues di stampo hendrixiano come l’eccellente Hear My Voice, dove la Stratocaster di Nanji, ben sostenuta dall’organo di Paris, costruisce una bella atmosfera sonora, intrigante e sognante, prima di rilasciare un assolo di rara classe e sensibilità, non lontano parente di brani alla Little Wing. Let It Shine è di nuovo dalle parti del blues-rock texano alla SRV, sentito mille volte, ma sempre gradito, come pure la scarica di pura energia della poderosa Don’t Know Where To Go e le 12 battute classiche di Let’s Carry On, cariche di blues, poi reiterate nel vibrante slow blues della lunga Both To Blame, dove la chitarra è sempre protagonista assoluta, grazie alla tecnica sopraffina e al feeling di uno dei migliori chitarristi del genere attualmente in circolazione. Il southern boogie della frizzante e coinvolgente You Broke It, You Bought It  e la frenetica e tiratissima What You Runnin’ From, concludono in bellezza un disco che non mancherà di entusiasmare chi ama questo tipo di musica: file under rock-blues.

Bruno Conti