Un Weekend Con Il Boss 1: Comincio A Pensare Che A Leeds Tiri Una Buona Aria! Bruce Springsteen & The E Street Band – Leeds July 24 2013

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Leeds July 24 2013 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Il titolo del post sottintende un ideale rimando a Live At Leeds, album dal vivo del 1970 degli Who che per molti è uno dei migliori live della storia (ancora di più nelle successive edizioni espanse), nonché uno dei più devastanti dal punto di vista della foga rocknrollistica. Dopo aver ascoltato questo Leeds July 24 2013, ultimo episodio dei “bootleg ufficiali” tratti dagli archivi live di Bruce Springsteen, ho subito pensato che nella cittadina inglese tirasse una particolare aria che faceva bene alla musica rock. Inizialmente quando avevo visto che il nuovo volume era dedicato ad una serata presa dalla tournée di Wrecking Ball (la seconda dopo quella all’Ippodromo delle Capannelle di Roma), e quindi non ad uno dei concerti “storici”, avevo alzato leggermente un sopracciglio, pronto comunque a godermi una bella serata all’insegna del rock’n’roll: quando poi ho letto dai commenti che questo concerto (tenutosi alla First Direct Arena) è uno dei preferiti dai fans tra quelli degli ultimi anni, la mia curiosità è aumentata, e dopo averlo ascoltato non posso che confermare la sua bontà, aggiungendo anzi che ci troviamo davanti ad uno dei migliori episodi della serie.

Il concerto, inciso tra l’altro in maniera spettacolare, ci consente di ascoltare un Bruce in forma strepitosa, seguito passo passo da una E Street Band in stato di grazia, una serata senza il minimo cedimento e che per di più è contraddistinta da una scaletta con diverse sorprese. Perfino uno come il Boss solitamente ha bisogno di due-tre canzoni per scaldarsi, ma in quella serata è già bello carico sin dall’inizio: lo show infatti si apre con la rara Roulette, suonata con una forza ed un vigore sorprendenti anche per chi è abituato al nostro, e capiamo fin da subito che la serata sarà di quelle da ricordare. E Roulette non è certo l’unico brano raro della setlist: troviamo infatti subito dopo una scintillante My Love Will Not Let You Down, coinvolgente come non mai e con uno strepitoso Roy Bittan (ma anche Max Weinberg picchia come un fabbro sui tamburi), oltre alla bella e sottovalutata Local Hero (era su Lucky Town), trasformata in un southern country-rock, due outtakes degli anni settanta poi pubblicate rispettivamente su The Promise e Tracks (Gotta Get That Feeling ed una sorprendente Thundercrack di undici minuti), la soffusa Secret Garden, che non mi ha mai fatto impazzire, ed una inattesa ma imperdibile rilettura di Bad Moon Rising dei Creedence Clearwater Revival, puro rock’n’roll.

E non dimenticherei la struggente rock ballad Something In The Night, che non è una rarità ma comunque rimane uno dei pezzi meno suonati di Darkness On The Edge Of Town, soprattutto in anni recenti. Chiaramente le hits ed i classici non mancano: oltre alle immancabili The Promised Land, Hungry Heart, Badlands e Born To Run, troviamo una eccellente No Surrender, la solita monumentale Because The Night (con Nils Lofgren spaziale alla solista), la ruspante Darlington County, l’epica The Rising ed una Atlantic City elettrica e più rock che mai. Da Wrecking Ball non ne vengono suonate poi molte, solo quattro: oltre alla title track, le trascinanti Death To My Hometown e Shackled And Drawn e la ballata dai toni “rumoristici” This Depression. Tra i bis, dopo due toniche Dancing In The Dark e Tenth Avenue Freeze-Out (insolitamente contenuta nella durata), il Boss stende tutti con una esplosiva Shout degli Isley Brothers, e mi domando se il nostro possieda un paio di polmoni di riserva. Non è finita, in quanto Bruce torna sul palco da solo con la sua chitarra per due toccanti If I Should Fall Behind e Thunder Road, emozione pura. Una performance impeccabile, senza la minima sbavatura, direi strepitosa: da non perdere.

Ci ritroviamo domani ancora con Bruce Springsteen per una serata questa volta “teatrale”, mentre per quanto riguarda gli archivi l’appuntamento è a Gennaio, con una mitica serata del 1975 al Roxy.

Marco Verdi

Per Festeggiare Il Loro 50° Anniversario, Torna Alla Grande Uno Dei Gruppi Funky-Soul Più “Gagliardi” Di Sempre. Tower Of Power – Soul Side Of Town

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Tower Of Power – Soul Side Of Town – Mack Avenue Records

Tra I tanti gruppi che festeggiano il fatidico 50° Anniversario nel 2018 ora sbucano anche i Tower Of Power, come annunciano nello sticker del CD Soul Side Of Town. Poi al solito uno fa quattro conti e vede che il primo album della band californiana, East Bay Grease, è uscito nel 1970 per la Fillmore Records, l’etichetta fondata da Bill Graham. Ok, però loro ci diranno che già nel 1968, quando comunque si chiamavano ancora Motowns, iniziavano a muovere i primi passi tra Oakland e Berkeley, ma a questa stregua quest’anno è il 60° anniversario dei Quarrymen di Lennon e McCartney, e così via. Comunque, l’album di cui andiamo ad occuparci è il primo ad uscire dal 2009 dell’ottimo Great American Soulbook, e come raccontano loro stessi nel libretto che accompagna il CD, il progetto ha avuto una gestazione lunga e travagliata, con i primi passi mossi già nel 2012, poi tra problemi di salute, ricoveri ospedalieri, incidenti vari, due di loro sono stati travolti da un treno e sono sopravvissuti, scelte del cantante, del produttore, la decisione di registrare 28 brani (applicando il metodo Michael Jackson, suggerito dal produttore Joe Vannelli, fratello di Gino, ovvero registri tutto e poi scegli i brani migliori).

E “casualmente” si arriva al 2018 ed esce quello che dovrebbe essere il loro 18° album in studio. Quando nacquero, a cavallo degli anni ’70, vennero considerati uno  dei primi gruppi funky (rock) della storia, a grandi linee stesso filone di band come Cold Blood e Sons Of Champlin, ma anche apparentati con la soul music più morbida, qualche vicinanza con i Santana, oppure con gruppi come gli Earth, Wind & Fire, gli Isley Brothers dei 70’s, il James Brown più funky, anche i Rufus, che nascono più o meno in quegli anni. In ogni caso diciamo che rimangono, per gli amanti del rock,, una sorta di “piacere proibito”: gli americani, lo chiamano anche smooth soul, più levigato ed accomodante di quello genuino. Il discorso ovviamente vale anche per Soul Side Of Town, che è un buon album tutto sommato, suonato molto bene, non lontanissimo dal classico funky soul dei loro anni migliori: il leader Emilio Castillo è sempre una buona penna, e suona il sax in modo vibrante, David Garibaldi, uno di quelli investiti dal treno, è ancora un batterista dinamico e variegato, Francis Rocco Prestia (un altro dei nostri “compatrioti”), completa la sezione ritmica con il suo basso super funky, Roger Smith è un ottimo organista, Jerry Cortez suona tutti i tipi di chitarra e Tom Politzer guida una sezione fiati dirompente, con altri quattro elementi, mentre Marcus Scott e Ray Greene si dividono le ottime parti vocali soliste.

Le canzoni si ascoltano con piacere (proibito): siano esse le brevi intro e outro scatenate di East Bay! All Day o East Bay! Oakland Style, a tutto fiati, oppure la dinamica Hangin’ With My Baby che sembra un incrocio tra il James Brown più funky anni ’70 o lo Stevie Wonder migliore, con percussioni, fiati impazziti, organo, voci e chitarre in overdrive, ma anche Do You Like That che rimanda ai primi Earth, Wind & Fire, con incroci vocali e strumentali di gran classe, quasi acrobatici, fino al gagliardo assolo di sax, il tutto con un suono naturale che è l’esatto opposto del “nu Soul” pompato, sintetico e ripetitivo che domina le attuali classifiche https://www.youtube.com/watch?v=aUdm5GXsVUc . Sarà anche commerciale ma è suonato un gran bene, come conferma il sound spaziale e chitarristico di On The Soul Side Of Town che ci riporta al suono degli Isley Brothers, con un assolo di organo da sballo, mentre la parte vocale è addirittura rigogliosa. Anche Do With Soul è funky corale, carico e coinvolgente, falsetti spericolati e ritmi pompatissimi, mentre Love Must Be Patient And Kind, una ballata languida ed avvolgente fa parte del lato più “leccato” della loro musica, con Butter Fried che ritorna all’Earth, Wind & Fire sound, o visto che è un brano strumentale, rimanda quasi addirittura ai Blood, Sweat And Tears https://www.youtube.com/watch?v=3NAQU8NAO4c . Niente male anche Selah, dal ritmo incalzante, sempre suonata alla grande, con sax, chitarra slide e tutti i fiati in spolvero. Let It Go con sitar guitar, archi e una voce melliflua, è più “ruffiana”  e con gli angoli levigati. Stop appartiene nuovamente alla categoria “mi piace James Brown e adesso ve lo faccio sentire”, When LoveTakes Control dopo l’ascolto richiede l’esame della glicemia per controllare il livello degli zuccheri nel sangue e anche la conclusiva Can’t Stop Thinking About You  fa calare drasticamente la quota funky del disco, che però nell’insieme rimane gagliarda e convincente.

Bruno Conti

Pensavo (Al) Peggio… Anche Se. The Isley Brothers & Santana – Power Of Peace

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The Isley Brothers & Santana – Power Of Peace – Sony/Bmg

Dopo l’uscita di Santana IV dello scorso anno (recensito sul Blog casualmente sempre di domenica http://discoclub.myblog.it/2016/04/10/supplemento-della-domenica-anticipazione-unoperazione-marketing-anche-finalmente-gran-bel-disco-santana-santana-iv/ ), e poi anche del successivo ottimo CD/DVD dal vivo, c’era curiosità per questa collaborazione tra Carlos Santana e gli Isley Brothers, una delle istituzioni della black music americana, prima R&B e soul, poi ancora ottimo funky, anche hendrixiano, nei primi anni ’70, ma sinceramente, per il mio gusto personale, non ricordo un disco veramente valido dei fratelli Isley da lunga pezza, anche se qui e là sprazzi della vecchia classe non sono mai mancati, sia nei dischi come gruppo che in quelli di Ronald ed Ernie Isley (ne ricordo solo uno per la verità). Comunque Ronald Isley era presente appunto, come cantante aggiunto, in due brani di Santana IV, e il suo tipico vocione ben si era amalgamato con il sound classico della Santana Band migliore della storia. Quindi forse, ma forse, i presupposti per questa sorta di supergruppo c’erano, anche se poi leggendo le anticipazioni si era visto che il gruppo utilizzato per questo album era la road band di Carlos Santana, con il solo bassista Benny Reitveld tra quelli utilizzati nel disco, e la moglie di Carlos Cindy Blackman, alla batteria, nonché “produttrice” dell’album insieme al marito. Gli altri musicisti non mi fanno impazzire, a partire dal tastierista Greg Phillinganes, nonostante il suo passato nella band di Stevie Wonder, e, sulla carta, anche l’idea di fare un disco di sole cover (ma non degli Isley Brothers o dei Santana, anche se forse poi le suoneranno nel tour di promozione dell’album), visto il “tragico” precedente del pessimo Guitar Heaven, non era il massimo.

E invece, pur non potendo parlare certo di capolavoro, anzi, questo Power Of Peace, è un disco piacevole, per quanto non memorabile, insomma si lascia ascoltare (a fatica), con una buona scelta dei brani da rivisitare, e un sound che solo a tratti raggiunge i limiti di guardia del cattivo gusto, ma lo fa: la partenza avviene con il classico groove santaneggiante dell’iniziale Are You Ready, un vecchio brano dei Chambers Brothers, una delle prime formazioni a fondere rock, psichedelia e musica nera, con ottimi risultati, tra fine anni ’60 e inizio anni ’70, le chitarre di Carlos e Ernie, in modalità wah-wah (di cui è sempre stato uno dei maestri, e discepolo hendrixiano di Jimi che aveva suonato a lungo ad inizio carriera con gli Isley) interagiscono con grinta, la voce di Ronald è ancora potente, e il lavoro di Karl Perazzo (l’altro musicista di vaglia presente) alle congas è pregevole. Partenza buona quindi, confermata dal classico rock’n’soul della vibrante Total Destruction Of Your Mind, un brano del misconosciuto Swamp Dogg, con le chitarre ancora assolutamente in piena libertà, soprattutto quella di Santana. E non male, anche se forse troppo carica di sonorità un filo turgide, la cover di Higher Ground di Stevie Wonder, diciamo che l’assolo di wah-wah di Ernie Isley non riesce forse a salvarla del tutto, ma la rappata di tale Andy Vargas non aiuta.

Una lunga rilettura di God Bless The Child di Billie Holiday è tra le sorprese del CD, parte come una ballata pianistica, poi entra la voce ancora intensa, per quanto segnata dal tempo, di Ronald, e il pezzo diventa una soul ballad alla Isley Brothers, con i due chitarristi impegnati in un fine lavoro di cesello, soprattutto il classico solo melodico di Carlos, suo marchio di fabbrica. L’unico brano originale dell’album, I Remember, firmata da Santana e da Cindy Blackman, che poi la canta, in una lotta di falsetti con Ronald, è un’altra onesta ballata, molto “nu soul”, ma non deleteria. Mentre Body Talk, un  vecchio pezzo di Eddie Kendricks dei Temptations, pur se ricorda il sound Motown, rimanda anche al brano omonimo degli Imagination, e francamente, come la precedente, se ne poteva fare anche a meno, si salva giusto l’assolo di Santana.Gypsy Woman di Curtis Mayfield è il veicolo ideale per il classico falsetto di Ron, e anche l’idea di dargli una atmosfera gitana, ispirata dal titolo, non è del tutto peregrina ,, quindi il brano risulta uno dei migliori dell’album, con le due chitarre sempre in brillante spolvero, mentre I Just Want To Make Love To You  di Willie Dixon l’ho riconosciuta giusto perché ho letto il titolo, per il resto tra un riff di Foxy Lady e rullate a tutto campo della batteria della Blackman sembra un pezzo, di quelli brutti, di Eric Gales, e in questo le chitarre wah-wah ovunque non aiutano (e qui i limiti del cattivo gusto si superano).

Love, Peace And Happiness, l’altro pezzo dei Chambers Brothers, pur con qualche eccesso, riporta i binari del sound su un rock’n’soul energicomeglio la melliflua cover del classico di Burt Bacharach What The World Needs Now Is Love, portata al successo da Dionne Warwick Jackie De Shannon, che qui riceve il trattamento Santana + Isley Brothers, con Ronald Isley che la canta veramente bene, e poi il pezzo è bello, comunque lo giri. E non dispiace neppure la rilettura molto fedele del classico di Marvin Gaye Mercy Mercy Me (The Ecology), soul anni anni ’70 di gran classe, come pure la jazzata Let The Rain Fall On Me, una ballata suadente del poco conosciuto Leon Thomas, dove si apprezza nuovamente il phrasing impeccabile di Ronald Isley, e un assolo di piano mirabile, presumo del bistrattato dal sottoscritto Phillinganes, e zero chitarre.. Let There Be Peace On Earth di Sy Miller Jill Jackson, francamente non me la ricordavo, e forse è meglio, un pezzo simil gospel-natalizio portato al successo da Vince Gill, cantato coralmente da Blackman e Isley, anche in questo caso, l’unica cosa che si salva è l’assolo di chitarra di Carlos. In definitiva il disco, pur non dando ragione in toto al titolo del Post, non è, diciamo, indispensabile, quindi, come direbbero a Roma, “Aridatece Santana IV”!

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Anticipazione. Non Solo Un’Operazione Di Marketing, Ma Anche (Finalmente) Un Gran Bel Disco! Santana – Santana IV

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Santana – Santana IV – Santana IV Records/Thirty Tigers CD

Quando, sul finire dello scorso anno, ho letto la notizia che Carlos Santana aveva riformato la band dei suoi primi tre, storici album (Santana, Abraxas, Santana III) ho storto un po’ il naso, in quanto la cosa mi puzzava di espediente per rilanciare una carriera che aveva di nuovo preso una china discendente. Diciamo che sul chitarrista di origine messicana ero anche un po’ prevenuto, in quanto non sono mai stato un suo grande fan: dando per assodata la sua abilità con lo strumento (davvero formidabile) ed anche il fatto che con quei primi tre album aveva inventato un suono (mescolando ritmi latini, blues, psichedelia e rock, ricavandone un cocktail unico, rubando lo show, come si dice in gergo, anche a Woodstock, dove si esibì da totale sconosciuto), è anche vero che poi ha vissuto di rendita per tutto il resto della carriera (o almeno da Borboletta in poi), riciclandosi all’infinito senza più trovare l’ispirazione, ma anzi cercando sempre di più il successo commerciale, a discapito della qualità delle registrazioni.

Quasi relegato al ruolo di vecchia gloria per tutti gli anni ottanta e novanta, ha avuto un improvviso colpo di coda nel 1999 con l’album Supernatural, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, e che ha riportato in auge il suo nome, grazie anche a singoli perfetti come Smooth e Corazon Espinado (ma il disco era, a mio parere, discreto, non certo un capolavoro); il successivo Shaman vendette molto meno, e la qualità ricominciò a scemare, e non sono serviti altri quattro album (Guitar Heaven, per usare un’espressione cara a Bruno, era una tavanata galattica *NDB Infatti, inserito tra i peggiori dischi del 2010)) per rilanciarsi.L’interesse per questo nuovo disco (e per la reunion) era dunque molto alto: Carlos ha richiamato a sé il chitarrista Neal Schon ed il tastierista/organista e vocalist Gregg Rolie (entrambi, dopo la prima esperienza con Santana, hanno formato i Journey, nei quali Schon milita ancora oggi, mentre Rolie li ha lasciati nel 1981 tentando una poco fortunata carriera da solista, rientrando nei Santana per un paio di album, e militando in seguito in una delle mille line-up della All-Starr Band di Ringo), oltre al batterista Michael Shrieve ed al percussionista Mike Carabello; le uniche concessioni alla band attuale di Carlos sono il bassista Benny Rietveld (David Brown non è più tra noi da tempo) e l’altro percussionista Karl Perazzo. 

Santana IV, fin dal titolo (che si ricollega dunque idealmente al terzo album) e dalla copertina rimanda a quei giorni gloriosi ma, sorpresa delle sorprese, anche il contenuto musicale è notevole: Carlos, forse grazie anche alla rinnovata collaborazione coi vecchi amici, sembra aver ritrovato l’ispirazione, e tra i sedici brani del CD (non ci sono edizioni deluxe) non c’è una sola nota da buttare (solo un paio di leggeri cali). Il nostro è sempre un grande chitarrista, e questo lo sapevamo, ma l’intesa che ha con il resto del gruppo (specie con Rolie, altro grande protagonista del CD) è tale che sembra quasi che non si fossero mai separati. I brani sono tutti accreditati al gruppo stesso, e rappresentano tutto il mondo di Santana a 360 gradi, tanto rock, lunghi assoli, un suono caldo dominato da organo e percussioni, ma anche struggenti brani d’atmosfera, un cocktail che in certi momenti sembra far rivivere l’antico splendore, e che rende Santana IV di gran lunga il miglior disco di Carlos da quarant’anni a questa parte.

L’album si apre con la strana (ma interessante) Yambu, con la sua ritmica tribale e la chitarra wah-wah che duetta abilmente con l’organo di Rolie, ed il cantato che sembra un inno propiziatorio di qualche tribù ad una divinità: un inizio spiazzante, ma anche accattivante. Shake It porta il disco su territori più rock: ancora gran gioco di percussioni, Rolie canta con grinta e Schon fornisce un aggressivo background ritmico sopra il quale si staglia splendida la chitarra del leader. Anywhere You Want To Go è il primo singolo dell’album: dopo un intro in cui i musicisti sembrano accordare gli strumenti, parte una ritmica tipica del nostro, subito doppiata dall’organo, un suono caldo, chitarra stellare ed un motivo molto orecchiabile, un pezzo dalla struttura simile a Oye Como Va. Un brano riuscito, radiofonico ma di sostanza allo stesso tempo. La lunga Fillmore East già dal titolo evoca l’epoca gloriosa della band (ed è anche un omaggio a Bill Graham che lo ha scoperto): inizio lento ed ipnotico, con la chitarra del nostro che sembra faticare a trovare una linea melodica, poi circa a metà il brano parte deciso anche se non ci sono cambi di ritmo. Non il brano migliore del CD, e forse con quel titolo si doveva fare meglio.

Love Makes The World Go Round (titolo non originalissimo) vede la presenza di Ronald Isley, leggendario leader degli Isley Brothers, alla voce solista: la base strumentale è tipica, il connubio chitarra/organo da manuale, ed il vocione di Ronald dona un sapore errebi solitamente estraneo al suono di Santana; Isley resta anche per il pezzo successivo, la potente Freedom In Your Mind, un rock venato di funky dal suono “grasso” e solita chitarra magistrale, che fa muovere volentieri il piedino. Da questi primi brani è lampante come Carlos sia maggiormente dentro al suono ed alle canzoni che nei suoi ultimi dischi, nei quali i suoi assoli risultavano posticci quando non appiccicati alla bell’e meglio, senza un minimo di feeling. La ritmatissima Choo Choo, con i suoi insistenti riff di organo ed il suo mood coinvolgente, è un tripudio di suoni e colori, ed è il Santana che tutti volevamo (e qui il chitarrista è meno all over the place del solito, infatti il vero protagonista è Rolie); il brano sfocia in una scatenata jam session intitolata All Aboard, che purtroppo finisce quasi subito.

Suenos è un lento d’atmosfera decisamente evocativo, nel quale il nostro sostituisce il furore elettrico con una splendida chitarra spagnoleggiante, una canzone sullo stile di classici come Europa e Samba Pa Ti: sarà anche auto-riciclaggio, ma avercene! Caminando è un festival di suoni e percussioni, anche se ogni tanto spunta un synth non proprio graditissimo ed il cantato è stranino, mentre Blues Magic è splendida, uno showcase per le due chitarre di Carlos e Neal, che si alternano con assoli liquidi ben supportati dalla voce di Rolie: grande pathos, uno dei momenti migliori del disco. Echizo è uno strumentale dai toni epici, solito magistrale gioco di percussioni e Santana e Schon che duellano alla grande (vince Carlos, ma Neal vende cara la pelle), chi ama i brani per chitarra qui troverà trippa per gatti; ottima anche Leave Me Alone, di nuovo il Santana più tipico, una canzone decisamente godibile e fluida, un potenziale singolo (anche meglio di Anywhere You Want To Go), mentre in You And I si riaffaccia il lato romantico del nostro, anche se c’è un sottofondo di tensione che dà un tono pinkfloydiano al pezzo (e Carlos nel finale fa i numeri). Il CD si conclude con la solare Come As You Are, ancora ritmo a mille ed un motivo godibilissimo (quasi un calypso caraibico, uno dei pezzi più immediati del disco), e con la lunga Forgiveness, solito inizio lento e fluido nel quale gli strumenti scaldano i muscoli, poi sia Carlos che Neal iniziano a far cantare le chitarre, ed il brano assume quasi le caratteristiche di uno space rock.

Sono il primo ad essere felice del fatto che Carlos Santana sia ancora tra noi, qualitativamente parlando: spero solo che Santana IV non sia un fuoco di paglia, e che non dobbiamo attendere altri quarant’anni per il quinto capitolo, perché non ce la possiamo fare, né noi, né soprattutto loro! Il disco esce il 15 aprile.

Marco Verdi

Preservato Per I Posteri. Stevie Ray Vaughan featuring Bonnie Raitt – Bumbershoot Arts Festival 1985

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Stevie Ray Vaughan featuring Bonnie Raitt – Bumbershoot Arts Festival 1985 – Go Faster Records 

Come i più attenti fra i lettori avranno notato (ma anche quelli meno attenti, tanto è evidente) ormai escono quasi più dischi “Live” di quelli ufficiali. Chiamati con felice eufemismo Broadcast radiofonici, sono perlopiù i cari vecchi bootleg che circolano in modo legale su alcuni mercati, e noi appassionati, finché dura, non ce ne lamentiamo, perché si tratta spesso di documenti sonori di buona qualità audio di grandi concerti pescati dal passato. Tra i più gettonati l’immancabile Springsteen, Tom Petty, ma anche Stevie Ray Vaughan ha parecchi titoli al suo attivo. L’unica avvertenza, come detto in altre occasioni, è stare attenti, perché spesso gli stessi concerti escono con diversi titoli e copertine ma identici contenuti. Non mi sembra, per il momento, il caso di questo Bumbershoot Arts Festival 1985 dedicato al grande chitarrista texano. Siamo al 1° settembre 1985 in quel di Seattle, Coliseum Arena, nel weekend del Labour Day, all’interno di un Festival che si tiene nella città americana dai primi anni ’70 ai giorni nostri: SRV era negli anni più bui della sua dipendenza da alcol e droghe ed aveva appena finito di registrare il suo terzo album Soul To Soul, che sarebbe stato dato alle stampe il 30 di settembre, ma era già in promozione nel corso di un lungo tour, partito a giugno di quell’anno e proseguito fino all’agosto del 1986.

Stevie Ray alternava serate svogliate ad esibizioni strepitose e scoppiettanti (per esempio il Festival di Montreux che vedete qui sopra) e anche quella contenuta in questo dischetto: accompagnato dai Double Trouble, nella versione ampliata con Reese Wynans alle tastiere in aggiunta a Layton e Shannon. Una delle particolarità del concerto è che viene eseguito proprio l’album Soul To Soul nella sua quasi totalità (manca solo Gone Home) e anche con l’esatta sequenza dei brani, cosa abbastanza rara in generale nei tour promozionali, con l’aggiunta di classici e rarità, che comunque non mancano. La qualità sonora è piuttosto buona ed il concerto si apre con una versione feroce dello strumentale Scuttle Buttin’, con il nostro in gran forma che inizia subito a fare i numeri con la sua solista prima di entrare, senza soluzione di continuità, nella sequenza del terzo album: partendo con una formidabile versione a tutto wah-wah di Say What che ricorda il miglior Hendrix di Electric Ladyland anche grazie all’ottimo lavoro di Wynans all’organo e poi con Lookin’ Out The Window e Look At Little Sister che furono i due singoli estratti dall’album al tempo e che nelle versioni dal vivo acquistano in grinta, soprattutto il secondo brano con un pianino R&R scatenato, ancora Wynans (peccato per la non perfetta qualità, a tratti, della voce di Vaughan). Fantastica la versione dello slow blues Ain’t Gonna Give Up On Love, uno dei brani migliori del nuovo album firmati da Vaughan, per l’occasione in grande controllo del suo strumento trattato con il tocco del fuoriclasse.

Anche Change It, uno dei due brani scritti da Doyle Bramhall (il babbo) per il disco, scorre con il classico drive del Texas blues, tipico delle migliori esibizioni del nostro, come pure You’ll Be Mine, un vecchio brano di Willie Dixon per Howlin’ Wolf, è un perfetto esempio di blues’n’roll di casa Chess, e anche Empty Arms conferma che per SRV suonare il blues era facile come respirare aria pura. Come On, il vecchio brano di Earl King, la faceva pure Jimi, e la versione di Vaughan, registrata nella tana del lupo, in quel di Seattle, non ha nulla da invidiare come grinta a quella di Hendrix, anche se il mancino rimane insuperato dai suoi vari discepoli, di cui sicuramente Stevie è stato il più grande. Fine per il momento della sequenza di Soul To Soul, si prosegue con una buona versione di Cold Shot (ne ha fatte di migliori) mentre Couldn’t Stand The Weather è un altro riuscito omaggio all’arte hendrixiana e la lunghissima versione di Life Without You, sempre dal terzo album, è da manuale. Tiratissimo anche il super classico Pride and Joy e poi, per il finale, Vaughan chiama sul palco Bonnie Raitt per una intensissima Texas Flood, dove la slide della rossa californiana si unisce alla solista del nostro per una versione al calor bianco, poi replicata in una eccellente versione di Testify degli Isley Brothers, presa a tutta velocità. Grande versione che conclude degnamente un eccellente concerto preservato per i posteri.

Bruno Conti