Catalogare Sotto Jam Band, Ma Di Quelle Anomale. ALO – Tangle Of Time

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ALO – Tangle Of Time – Brushfire/Universal Records 

Gli ALO (Animal Liberation Orchestra) sono una jam band anomala, fin dalla discografia: secondo alcuni questo è il nono album di studio della band (più una quantità incredibile di EP e alcune antologie e Live), contando anche i primi titoli pubblicati nel periodo “indipendente” del gruppo californiano e forse conteggiando per due volte Fly Between Falls, uscito prima per la loro etichetta Lagmusic Records e poi ristampato, con aggiunte, dalla Brushfire di Jack Johnson. Proprio con il compagno di etichetta e corregionale californiano, gli ALO condividono la passione per un rock piacevole, solare, con melodie scorrevoli, a tratti influenzate dalla musica caraibica, ma anche dal country e quella patina da jam band, che li avvicina ai Phish più leggeri, agli String Cheese Incident, i primi Rusted Root, ma anche la musica dei cantautori westcoastiani più disincantati e dallo spirito blue-eyed soul. L’attitudine jam viene estrinsecata soprattutto dal vivo, ma anche nei dischi in studio, a turno, i vari musicisti: Zach Gill, leader indiscusso, tastierista, ma pure a banjo, ukulele, fisarmonica (e una pletora di altri strumenti), Dan Lebowitz, alle prese con tutti i tipi di chitarra, e la sezione ritmica di Steve Adams e Dave Brogan, che oltre ai loro strumenti, basso e batteria, sono impegnati parimenti con tastiere e percussioni inusuali, tutti costoro si prendono i loro spazi di improvvisazione, all’interno di canzoni che però raramente superano i cinque minuti di durata, in questo Tangle Of Time, solo tre pezzi, Simple Times, Coast To Coast e The Fire I Kept, superano di poco quel limite.

Però l’idea è quella: per esempio The Ticket, la più lunga, con le sue chitarrine choppate e i suoi ritmi ha un qualcosa del Paul Simon “sudafricano”, ma anche del pop più commerciale dei Vampire Weeekend, raffinato e da classifica, con ampi strati di tastiere, piacevoli melodie e tratti di light funky, per esempio nell’uso di piano elettrico, synth e chitarre “trattate”, nella lunga coda strumentale che potrebbe ricordare anche i Talking Heads più leggeri. Altrove, per esempio in Coast To Coast, firmata dal batterista Dave Brogan, sembra di ascoltare gli Steely Dan anni ’70 o lo Stevie Winwood più scanzonato, mentre nell’iniziale There Was A Time fa capolino quel sound caraibico evocato prima, miscelato con sprazzi di musica della Louisiana, grazie alla fisa di Zach Gill che poi lascia spazio pure alla chitarra di Lebowitz che ci regala ficcanti e limpidi licks di stampo californiano, per poi salire al proscenio in Push, il brano che porta la sua firma e che è un brillante pop-rock dal suono avvolgente, grazie anche alle raffinate armonie vocali del gruppo.

Not Old Yet del bassista Steve Adams, che se la canta, è un’altra confezione sonora ben arrangiata, vagamente bluesy e sudista e Sugar On Your Tongue, sempre con l’accordion di Gill in evidenza, mescola leggeri sapori e tempi zydeco con solari armonie da cantautore alla Jimmy Buffett e spruzzate di chitarra che possono ricordare i Grateful Dead o i Phish di studio, quelli più rifiniti e meno improvvisati, per quanto…Non manca la ballata romantica, molto sunny California, come nel caso di Simple Times, dove si apprezza la bella voce di Zach Gill, che non fa rimpiangere certe cose degli Eagles o del James Taylor di metà carriera, con un pianino insinuante che guida le danze e una pedal steel che si “lamenta” sullo sfondo. Keep On, di nuovo di Adams, è molto leggerina e vagamente danzereccia e trascurabile, con Undertow che viaggia su un blue-eyed soul scuola Boz Scaggs, Marc Jordan, Bill LaBounty, Robbie Dupree, lo stesso Donald Fagen, “pigro” e raffinato, mentre A Fire I Kept è una ulteriore variazione su questi temi musicali, giocati in punta di strumenti, forse poca sostanza ma notevole classe ed eleganza formale. Chiude la breve, acustica e sognante Strange Days, altra confezione sonora apprezzabile per la sua complessità, tra dobro e tastiere che ben si amalgamano con il resto della strumentazione e che piacerà agli amanti del pop e del rock più raffinato, come peraltro tutto il resto del disco.

Bruno Conti    

Tra I Capostipiti Delle Jam Band, Ancora In Gran Forma! Widespread Panic – Street Dogs

widespread panic street dogs

Widespread Panic – Street Dogs – Vanguard/Concord

Come ricordavo in una recensione per un vecchio Live della band http://discoclub.myblog.it/2013/07/20/dagli-archivi-della-memoria-widespread-panic-oak-mountain-20/ , i Widespread Panic sono uno dei gruppi storici del filone jam band, tra i capostipiti del genere, in azione da oltre 25 anni, con “solo” dodici album di studio all’attivo, compreso questo Street Dogs, ma con decine, forse centinaia, di pubblicazioni, in vari formati, di materiale dal vivo, le ultime, sia in CD che DVD, vertevano sul tour per Wood. E, non casualmente, per questo nuovo album, che esce a cinque anni di distanza dall’ottimo Dirty Side Down, il gruppo ha voluto applicare per la prima volta la formula del “live in studio”, ovvero tutti i musicisti insieme in sala di registrazione agli Echo Mountain Studios di Asheville, NC, sotto la guida del produttore storico John Keane, per cercare di catturare la magia di una esibizione in concerto, mantenendo il loro approccio libero e ricco di improvvisazione anche nel caso di materiale nuovo (poi, se andiamo ad esaminare attentamente, possiamo vedere che alcuni di questi brani facevano già parte del repertorio concertistico da qualche tempo): e direi che ci sono riusciti pienamente. La formazione è quella classica, con Jimmy Herring che ormai da alcuni anni affianca John Bell come chitarra solista, John Hermann, tastierista e secondo vocalist in alcuni brani, Domingo S. Ortiz con le sue scatenate percussioni che conferiscono quel elemento latineggiante, molto alla Santana, al suono, Dave Schools, il bassista, impegnato anche con gli Hard Working Americans, si porta da quel gruppo Duane Trucks, il batterista che sostituisce momentaneamente Todd Nance, assente per problemi familiari.

Il risultato è eccellente, i brani sono quasi tutti lunghi, ma non lunghissimi, c’è ampio spazio per le loro jam immancabili, ma tutte le canzoni hanno una struttura ben definita, con la consueta miscela di rock classico, anche southern, in fondo vengono da Athens, Georgia, non mancano spunti blues e derive santaniane, evidentissime per esempio in un brano come Cease Fire, e qui entriamo nel vivo, un pezzo che sembra una loro versione, riveduta e corretta, di Song Of The Wind, il bellissimo strumentale di Caravanserai, con le sue chitarre soliste sinuose e libere di improvvisare, soprattutto Herring, l’organo di Hermann e le percussioni di Ortiz a rendere ancora più avvolgente il suono e tanti piccoli particolari che rendono particolarmente affascinante la canzone. Ma il disco parte subito bene, con una scoppiettante cover di Sell Sell, brano già nel loro repertorio live, si trovava nella bellissima colonna sonora di O Lucky Man di Alan Price (tratta dall’altrettanto bello e omonimo film dei primi anni ’70 di Lindsay Anderson, con Malcolm McDowell, da vedere e sentire, nei rispettivi formati, fine della digressione): un brano ricco di groove funky, con la chitarra wah-wah di Jimmy Herring, ben sostenuta ancora una volta dall’organo di Hermann e con la sezione ritmica di Schools, Trucks e Ortiz presente in modo massiccio, soprattutto Schools, fantastico al basso https://www.youtube.com/watch?v=fZCJTiAGV5s . Notevole anche Steven’s Cat che gioca sul titolo per citare fuggevolmente frammenti di brani di Cat Stevens, mentre le due chitarre, spesso al proscenio con soli ficcanti e variegati, sostenute dalle  tastiere, girano su un mood sudista ben evidenziato anche dalla voce di Bell, che è cantante più che adeguato.

Il pezzo, come gli altri originali del disco, è scritto collettivamente dalla band, spesso creato all’impronta in studio, come nella lunga, pigra e sognante Jamais Vu (The World Has Changed), quasi jazzata nelle variazioni del piano, mentre Angels Don’t Sing The Blues, è un’altra tipica jam song della band, con continui cambi di tempo, soli a profusione delle chitarre e Bell che tenta anche un leggero falsetto https://www.youtube.com/watch?v=OqHuu9n2Www . Honky Red è una cover del canadese Murray McLachlan (che per oscuri motivi sul libretto è riportato come McLaughlin), una bella ballata che diventa un potente blues- rock chitarristico quasi alla Gov’t Mule, anche nei loro concerti, come pure Tail Dragger, il vecchio brano di Willie Dixon, con Herring anche alla slide e che sembra quasi un pezzo dei vecchi Cream, duro e cattivo quanta basta. The Poorhouse Of Positive Thinking, più laid-back, ricorda i passaggi più country del vecchio southern à la Marshall Tucker ed è cantata da Hermann, che ci regala tocchi geniali di piano https://www.youtube.com/watch?v=_Xod0sOeJR4 , con Welcome To My World, dove il produttore Keane aggiunge chitarra e voce, per un boogie sudista innervato dalla slide di Herring e dal piano che ci portano verso territori cari ai Lynyrd Skynyrd, grande brano. E anche la conclusiva Streetdogs For Breakfast https://www.youtube.com/watch?v=6uqm851dBNY , rimane in modalità boogie sudista, meno southern-rock e più bluesata, con Herring ancora una volta sugli scudi.

Bruno Conti

Una “Jam Band” Di Larghe Vedute, Fin Troppo! Blues Traveler – Blow Up The Moon

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Blues Traveler – Blow Up The Moon – Loud & Proud Records/Ear Music

Alzi la mano chi tra gli abituali lettori di questo blog conosce: 30H!3, JC Chazes, Dirty Heads, Rome Ramirez, Hanson, Plain White T’s, Secondhand Serenade, New Hollow, Thomas Nicholas, Bowling For Soup, Thompson Square, e lascio volutamente per ultima la cantautrice Jewel, che sul finire degli anni ’90 aveva riscosso un certo successo con album quali Pieces Of You (95), Spirit (98) e This Way (01), tutti premiati con dischi di platino. L’idea geniale di servirsi della collaborazione di queste “personcine” è venuta a John Popper e ai suoi Blues Traveler dopo che l’ultimo lavoro in studio Suzie Cracks The Whip (12) non aveva avuto dalla critica musicale particolare attenzione http://discoclub.myblog.it/2012/08/29/preparatevi-ad-essere-dominati-il-ritorno-dei-blues-travele/  (ma l’avventura collaterale con Jono Manson, nei Bothers Keeper, si è rivelata di buona qualità).

Blow Up The Moon è il quindicesimo album di questa formazione (dodicesimo in studio), con l’attuale line-up composta al momento dal leader storico e fondatore John Popper voce e armonica, i fratelli Chan Kinchla alle chitarre e Tad Kinchla al basso, Brendan Hill alla batteria e Ben Wilson alle tastiere,  per un progetto che grazie a queste “intriganti” collaborazioni li porta a cimentarsi in ambiti diversi, come il country, il pop, il reggae, l’elettronica e l’hip hop (onestamente non me lo sarei mai aspettato e ne avrei pure fatto a meno)!

Premesso che ogni canzone di Blow Up The Moon ha un suono specifico e come filo conduttore la voce e l’armonica di Popper, è inevitabile che in un simile contesto nelle quattordici canzoni del lavoro ci sia una certa discontinuità di valore, a partire dall’iniziale Hurricane una perfetta pop-song https://www.youtube.com/watch?v=HguuoacXS70 , mentre con la title track si viaggia verso ritmi caraibici, Castaway è un bel reggae con la chitarrina di Rome Ramirez in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=JTkwBPvGLAw , per poi passare allo sconcertante hip-hop di Vagabond Blues con i Dirty Heads https://www.youtube.com/watch?v=3X_m00ixGkE , le tonalità bluesy di Top Of The World (con gli Hanson, quegli Hanson!), la pimpante Nikkia’s Prom, e, ad alzare il livello del disco, le ballate con il duo country Thompson Square (*NDB Piacevoli https://www.youtube.com/watch?v=ivjgmaiCSQY), Matador e I Can Still Feel You https://www.youtube.com/watch?v=Ain0_VpYeqM , e la sognante melodia di una The Darkness We All Need con gli sconosciuti (almeno per me), sorprendenti Secondhand Serenade https://www.youtube.com/watch?v=SyWmahnsL3I . Con l’orecchiabile Jackie’s Baby ci si diverte a muovere il piedino, mentre Hearts Are Still Awake, in duetto con Jewel riporta il lavoro sulla retta via https://www.youtube.com/watch?v=9IjDkg0sQlc , passando poi al rock di marca “pettyana” di I Know Right  https://www.youtube.com/watch?v=l0T7WWiCyBA e Right Here Waiting For You, con i Bowling For Soup, andando a chiudere con lo sconosciuto attore-cantante Thomas Ian Nicholas, con una innocua All The Way.

I Blues Traveler sono stati, con i Phish, i Widespread Panic e gli Spin Doctors fra i grandi protagonisti del fenomeno delle jam-band nei primi anni ’90, con l’H.O.R.D.E. Festival,  e chi conosce questa formazione farà fatica ad assimilare questo nuovo corso, ma nello stesso tempo voglio pensare (e sperare) che questo Blow Up The Moon sia un album di transizione, in attesa che John Popper e i suoi “viaggiatori del Blues)” tornino a fare quello che sanno fare meglio, blues-rock e dintorni, perché quelli che girano al momento nel mio lettore, con tutta la buona volontà, faccio fatica a credere che siano i Blues Traveler.

Tino Montanari

Ripassi Per Le Vacanze: Jam, Ma Con Moderazione?!? Moe. – No Guts, No Glory

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Moe. – No Guts, No Glory – Sugar Hill Records

Come promesso proseguiamo con i “ripassi” estivi. Questa volta parliamo dell’ultimo album della nota jam band americana, Moe., uscito alla fine del mese di maggio ma sempre attuale, se non lo conoscete. Si tratta dell’undicesimo disco di studio (e quasi altrettanti dal vivo), per il gruppo di Buffalo, NY, che quest’anno festeggia i 25 anni di attività, anche se in effetti il primo album, Fatboy, uscì solo nel 1992. Con un nome che è l’abbreviazione di una famosa canzone di Louis Jordan, Five Guys Named Moe, perché all’inizio, come ora, erano effettivamente in cinque: dal 1999 la formazione si è stabilizzata intorno ai tre leader, Al Schnier, chitarra, voce e tastiere, Chuck Garvey, chitarra e voce, Rob Derhak, basso e voce, con la coppia Vinnie Amico e Rob Loughlin che si occupa del reparto ritmico.

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Per l’occasione di questo No Guts, No Glory – già titolo di un famoso album dei Molly Hatchet, che si potrebbe tradurre “chi non tenta non sbaglia”, ma forse rende di più l’idea con il più trucido “Niente Palle Niente Gloria” – i moe. si sono affidati al produttore Dave Aron, noto per le sue produzioni in ambito hip-hop, ma anche con Prince e U2 (e che nel disco suona pure il clarinetto in un brano), che ha preso quello che era nato per essere un disco acustico, o così dicono loro, e lo ha trasformato, senza combinare disastri, in un bel disco elettrico, meno esasperato nella sua dimensione jam (?) e con più spazio per le canzoni, lasciando ai loro concerti questa maggiore propensione all’improvvisazione, anche se un paio di brani sui dieci minuti sono comunque presenti nel CD. Lukky Martin, al trombone e Willie Waldman, alla tromba, costituiscono con Aron, una piccola sezione fiati, che aggiunta alle evoluzioni sonore di Loughlin al vibrafono, conferisce pure, in un brano, una piccola patina jazzata alle procedure. In ogni caso il rock è sempre la fonte primaria del sound, con i tre leader (ed autori) che si alternano alla guida: Chuck Garvey limita il suo contributo di autore solo ad un brano, con il poderoso rock-blues di Annihilation Blues che ricorda certe cose anni ’70 tipo il primo Robin Trower, anche se le chitarre acustiche di supporto fanno risaltare l’idea alla base del progetto, poi innervate da poderosi interventi delle soliste https://www.youtube.com/watch?v=b2P5AccwY3s .

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White Lightning Turpentine, del bassista Rob Derhak, con i suoi delicati intrecci delle chitarre acustiche con il vibrafono (o è una marimba?) potrebbe ricordare certe cose prog dei Gentle Giant, anche per i suoi continui cambi di tempo, le intricate armonie vocali e il violento assolo di chitarra con slide e wah-wah. Di nuovo intro acustica e fine lavoro ai martelletti di Loughlin, per This I Know il primo contributo di Al Schnier che parte piano e acquista forza rock e chitarristica nel finale gagliardo. Same Old Story con il basso di Derhak e le due chitarre che innestano un bel groove, “infestato” dalle percussioni di Loughlin e con il titolo del brano che fa la rima con “no guts, no glory” per un brano che non è solo jam ma ha anche i parametri di una canzone https://www.youtube.com/watch?v=EEJBuS7kKxw . Viceversa Silver Sun, con i suoi quasi dieci minuti, è un esempio tipico dell’attitudine jam dei moe., https://www.youtube.com/watch?v=3uHNBTaPL3c  una partenza quasi alla Grateful Dead, sulle ali della chitarra di Schnier, che dopo un inizio psichedelico e sognante, tra West Coast e Pink Floyd, quando innesta il wah-wah va quasi verso lidi zappiani e dopo una breve pausa ci regala una bella parte in twin guitars con le due soliste che lasciano spazio ad una sezione cantata che pare uscire di sana pianta da Dark Side dei Floyd e poi di nuovo protagoniste nella grintosa lunga chiusura elettrica dove il rock prende il sopravvento e le due soliste si “sfidano” di nuovo, comunque gran musica, elegante e ricca di idee sonore, a conferma della perizia tecnica dei cinque musicisti.

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Si scrive Calyphornya, ma anche grazie alle sue gustose armonie vocali si legge California, con la musica della costa occidentale rivisitata dal gruppo dell’area newyorkese, che aggiunge tocchi jam e jazzistici grazie al vibrafono, prima di lasciare andare ancora una volta in libertà le due chitarre, sostenute anche da un tappeto di acustiche. Notevole Little Miss Cup Half Empty con il suo drive incalzante e le piacevoli ed intricate derive vocali, vicine ad un pop assai raffinato e con piccoli tocchi reggae https://www.youtube.com/watch?v=MWmHEup8ixc . Blond Hair And Blue Eyes con gli interventi decisi dei fiati potrebbe ricordare alcune cose dei migliori Blood, Sweat & Tears  o dei primi Chicago, quando il pop si fondeva mirabilmente con certo “light jazz”, ma sempre con le chitarre pronte a regalare attimi di godibilità rock https://www.youtube.com/watch?v=xMxjEeNMSuQ . Do Or Die è l’idea dei moe. di come potrebbe essere un brano bluegrass-country, ovvero ricco nel reparto percussioni, con un organo sullo sfondo e con le acustiche quasi sommerse dalla sezione elettriche, però con piacevoli armonie vocali a mitigare il lato rock. The Pines And The Apple Tree, con un bel mandolino affidato alle capaci mani di Al Schnier, ha una struttura quasi country-folk-rock, guidato dalla bella voce di Derhak che ne è l’autore, potrebbe sembrare una canzone degli America dei tempi che furono (e non è inteso come un’offesa!). Chiude l’altro tour de force del disco, la super funky Billy Goat, un brano che li avvicina ai compagni di avventure jam Phish, intricate armonie vocali, ritmi serrati ma pronti a cambiare d’improvviso e i solisti che si alternano alla guida della vettura lanciata verso un finale vorticoso. La versione digitale per il dowload ha tre brani in più (lo so rompono le palle!): Hey Ho, una piacevole canzoncina pianistica che ha tutti i crismi per essere un singolo pop, Mar De Ma, un brano strumentale latin rock a forte componente percussionistica https://www.youtube.com/watch?v=y3j5ycYsTeA , scritto dal batterista Amico e che potrebbe uscire da qualche disco dei Santana (di quelli buoni), Runaway Overlude, un altro pezzo molto intricato (già nel repertorio live della band https://www.youtube.com/watch?v=XF8o8L6afGc ) che, come da titolo, conclude le operazioni in una ulteriore vorticosa ridda di ritmi, chitarre, voci e cambi di tempo. Tutti e tre i brani niente male, ma io vado ancora per il disco fisico (magari scaricando gli extra). In ogni caso, bel disco e a ben guardare la quota jam non è poi così moderata, vogliamo dire “i soliti moe,”!

Bruno Conti

Se Non Ci Fossero Bisognerebbe Inventarli! Phish – Fuego

phish fuego

Phish – Fuego – Jemp Records

Avevo letto in rete, come di consueto, pareri contrastanti sul nuovo album dei Phish Fuego (sempre titoli brevi che si ricordano con facilità, al contrario delle canzoni), per la verità, fino ad ora, negativi solo un paio, un sito italiano, Rootshighway e la webzine Tiny Mix Tapes, per il resto tutti hanno parlato in termini, più o meno, positivi di questa nuova fatica della band del Vermont. Già deponeva a loro favore il fatto di avere scelto un produttore esterno come Bob Ezrin, poi anche la scelta degli studi dove registrare, parte a Nashville, parte ai famosi Fame Studios di Muscle Shoals in Albama e infine nel Barn in Vermont, a casa. Il loro problema, se tale vogliamo definirlo, è sempre stato quello che i dischi di studio, undici fino ad ora, non sempre sono stati stati all’altezza delle loro leggendarie esibizioni dal vivo, problema peraltro comune a quasi tutte, anzi direi tutte, le jam bands. Ma non si può neppure dire che si sia trattato di brutti dischi o solo accozzaglie di idee in attesa di essere trasfigurate dalle esecuzioni in concerto (ogni tanto; magari), questo Fuego, il dodicesimo, a parere di chi scrive, è una delle loro migliori opere, o così mi pare https://www.youtube.com/watch?v=NNaOM5YZB0c !

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Un disco compatto, dieci brani, meno di cinquantacinque minuti di musica, con l’unico pezzo lungo, quello da jam band tipica, la title-track Fuego, quasi dieci minuti di classic Phish, posto in apertura, con i suoi continui e vorticosi cambi di tempo, un inizio vagamente beatlesiano, poi sprazzi zappiani, intrecci vocali e strumentali subito complessi e dall’aura quasi progressiva che confluiscono nei soli lirici ed aerei di Trey Anastasio. The Line, sempre con ottimi intrecci vocali (caratteristica più marcata rispetto al passato in questo album), sia le voci soliste che quelle di supporto intrecciate, con risultati complessi ma anche assai piacevoli all’ascolto, un pop ricercato e ben realizzato https://www.youtube.com/watch?v=mX6kUM4Guro . Pure Devotion To A Dream ha questi intrecci tra il pop più raffinato e la voglia della improvvisazione, tipo i Grateful Dead più leggeri, canzoni che spesso sono canovacci per le future esibizioni live, ma anche costruzioni sonore compiute, dove chitarre, tastiere ed una ritmica geniale ed inventiva come poche in circolazione si esaltano in un lavoro di gruppo che poi lascia spazio ad un assolo di Anastasio che molto ricorda il miglior Garcia, di cui viene ritenuto uno degli eredi più credibili, quella musica “cosmica” ma terrestre al tempo stesso.

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Altro brano notevole è Halfway To The Moon, l’unica firmata in solitaria da Page McConnell, il tastierista, che rilascia un ottimo assolo di piano acustico, su ritmi e progressioni di stampo più jazzistico, divagazioni armoniche tastiere-chitarra e le immancabili armonie vocali. I tre brani successivi costituiscono il contributo di Trey Anastasio dal lato compositivo: Winterqueen, scritta con Tom Marshall, è sempre questa miscela di pop raffinato e fruibile al tempo stesso, con strumenti e voci ben delineate dalla produzione di Ezrin, che prefersice la cura dei particolari rispetto al suono d’insieme, forse brano che a tratti diviene indulgente, ma si riprende nella parte strumentale dove fanno capolino anche dei fiati e il suono della solista di Anastasio è quantomai efficace. Sing Monica ha una andatura più rock con un call and response tra le voci moltiplicate di Trey e quelle degli altri, si tratta del brano più breve ma non per questo meno compiuto, con il “solito” assolo di chitarra a nobilitarlo. 555, ancora di Anastasio, con Scott Murawski, un brano che esplora il lato più funky e nero della band, non per nulla registrato ai Fame Studios, tra chitarre wah-wah (che si lasciano andare nel finale), coretti femminili, di nuovo i fiati, l’organo di McConnell, esplora il lato più ludico del sound della band https://www.youtube.com/watch?v=kl1Od2fkeYQ .

phish waiting all night

Waiting All Night, di nuovo firmato dal gruppo al completo, come i primi tre, se non lo avevo ricordato, potrebbe ricordare i Beatles o CSNY, ma anche gli Xtc, in trasferta ai Caraibi, musica rock ma con vaghe cadenze latine, i soliti curatissimi intrecci vocali e strumentali, il tutto reso nello stile unico dei Phish https://www.youtube.com/watch?v=mmxHvGCo2wQ . Wombat illustra il lato più goliardico della formazione, “stupido”, gli americani dicono “goofy”, che in Italia potrebbe suonare come “Pippesco”, nell’accezione Disneyana, non il Pippo nazionale, tra liriche nonsense, vocine e vocione improbabili come pure parte della strumentazione, con ritmi funky e spezzati che ci conducono sempre dalle parti del Zappa più sardonico e il funk più sofisticato, musica che ha già avuto il suo collaudo con il concerto di Halloween dello scorso anno. Posta in conclusione Wingsuit è probabilmente quella che preferisco, una meravigliosa e morbida ballata in bilico tra i Pink Floyd “spaziali” e la West Coast di Crosby & Co, con arrangiamenti complessi, deliziose armonie vocali, le tastiere liquide di McConnell e un fantastico assolo di Trey Anastasio, il tutto a conferma che questi giovanotti di belle speranze si sono trasformati in una delle migliori rock band dell’orbe terracqueo https://www.youtube.com/watch?v=oAKWyptfQB8 , dal vivo eccezionali, in studio più che adeguati alla loro fama, con un disco che arrivando al settimo posto delle classifiche di Billboard ha fatto bene anche a livello commerciale!

Bruno Conti

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

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The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

Jam Band Per Eccellenza! Ekoostik Hookah – Brij

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Ekoostik Hookah – Brij – Hookahville Records 2013

Negli ultimi vent’anni sono apparse nel panorama musicale molte “jam bands”, ma gli Ekoostik Hookah, originari di Columbus, Ohio (patria di un’altra band di “culto” i Two Cow Garage, di cui abbiamo scritto su queste pagine una-piccola-grande-rock-n-roll-band-two-cow-garage-5666082.html), sono sempre stati tra i miei preferiti. Sin da quando hanno iniziato nel ‘91 con l’album Under Full Sail , si sono proposti come una delle più nuove ed eccitanti band indipendenti americane. Il gruppo negli anni ha subito una serie di cambiamenti, ma ha sempre mantenuto la propria visione musicale e anche se sono sempre rimasti indipendenti, hanno saputo ritagliarsi “un posto al sole”, sfornando dischi eccellenti come Dubbabuddah (94), Where The Fields Grow Green (97), Seahorse (2001), Ohio Grown (2002) e un progetto molto particolare Under Full Sail: All Comes Together (2007), rilavorazione del loro esordio, rifatto sia in studio che dal vivo. Da menzionare inoltre il Double Live (96), Sharp In The Flats (’99) un DVD di difficile reperibilità Live At The Newport (2007), di cui il sottoscritto è (fortunatamente) in possesso.

L’attuale “line-up” della band, oltre ai due membri fondatori rimasti, Dave Katz piano e voce (oltre che principale autore del gruppo) e Steve Sweney chitarra solista, è composta da Eric Lanese alla batteria, Phil Risko al basso e Eric Sargent alla chitarra elettrica ed acustica, per un “sound” forte, potente e variegato. Dieci canzoni, gran parte delle quali tra i sette e i dieci minuti, a partire dalle iniziali classiche “jam songs” You’ll Never Find, Breathe, Black Mamba (una delle migliori) e Anne Marie, proseguendo con la lunga ballata “southern rock” Sail Away ( gli ultimi Lynyrd Skynyrd avrebbero fatto carte false per scriverla), il country Y’ain’t seen nothin’ (blue eyed girl), il brano strumentale Thumper (perfetto per le esibizioni dal vivo), le fluide Way Of The World e Whiskey Woman e una ballata pianistica di spessore One Sad Song, a chiudere (per chi scrive) uno dei dischi rock d’improvvisazione più belli dell’anno.

Gli Ekoostik Hookah in ogni disco hanno dimostrato una crescita ed una maturazione costante (prerogative che non mutano pur cambiando i musicisti), in quanto anche se sono una classica jam band a cui piace improvvisare ed ampliare durante gli spettacoli dal vivo, conoscono molto bene l’arte della composizione, e questo li mette (sempre per chi scrive) un gradino più in alto rispetto ad altre band del settore.

Con questo Brij gli Ejkoostik Hookah, insieme con i Moses Guest, Widespread Panic, gli String Cheese Incident e varie altre band, garantiscono la sopravvivenza musicale degli orfani del mai abbastanza compianto Jerry Garcia, basta trovare i loro album, e non sempre è facile!

Tino Montanari

Dagli Archivi Della Memoria. Widespread Panic – Oak Mountain 2001 Night 1

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Widespread Panic – Oak Mountain 2001 Night 1 – Widespread Records

All’incirca all’inizio degli anni ’90 (secolo scorso), scrivevo una serie di recensioni per il Busca concernenti un gruppo di band che poi negli anni a venire avremmo definito “Jam bands”, i primi dischi di gente come i Gov’t Mule, i Blues Traveler, i Widespread Panic, Col. Bruce Hampton ed altri che ora non ricordo, quando ancora non se li filava nessuno, c’erano anche i Phish e la Dave Matthews Band, che da lì a poco sarebbe stata la prima ad avere un successo commerciale clamoroso (e forse rimane l’unica a non essere di nicchia). Nicchia di dimensioni consistenti, perché già agli inizi questi gruppi muovevano nell’ambito di un movimento che si chiamava H.O.R.D.E e che se a noi italiani richiamava orde di fans, in effetti stava per “Horizons Of Rock Developing Everywhere” e riprendeva lo stile di band leggendarie come i Grateful Dead (ancora vivi e vegeti, fino alla morte di Jerry Garcia nel 1995) e gli Allman Brothers, rivitalizzati dall’ingresso in formazione di Warren Haynes, che avrebbe fondato la sua creatura, i Gov’t Mule, nel 1994.

Gruppi di “scalmanati” impegnati in dischi e concerti dove l’improvvisazione, la jam session, era uno dei requisiti essenziali. E devo dire che ancora oggi il sottoscritto preferisce un gruppo di “pirla” che si agita per dei quarti d’ora sui propri strumenti, e al limite alla fine rilancia ulteriormente, ad altri gruppetti di dementi, con cappellino e cavallo dei pantaloni all’altezza delle ginocchia, che “declamano” versi improbabili su ritmi improponibili o, nei migliori dei casi, scopiazzati, ma è un parere personale, penso condiviso dalla cosiddetta “confraternita” dei rockers che legge queste pagine. Bisogna altresì dire che anche in questo ambito ci sono delle esagerazioni: prendiamo questo triplo Oak Mountain 2001Night 1 (che come dice il titolo avrà un seguito nella Notte 2) dei Widespread Panic, quando, dopo i dieci minuti di una bella e assai dilatata versione di The Harder They Come di Jimmy Cliff, autore stimato dal gruppo, come dimostra la presenza di Many Rivers To Cross nell’ottimo Live Wood dello scorso anno, parte una Drums di oltre 25 minuti che francamente pare un tantinello eccessiva, forse, pure il fans più accanito rischia l’abbiocco!

Ma è un dettaglio, perché dischi come questo sono destinati ovviamente agli appassionati del genere e anche il giudizio critico assai favorevole è indirizzato soprattutto a chi ama questa musica e quindi la segue con passione. Difficile che band come i Widespread Panic pubblichino dei dischi, ancor più se tratti da concerti, brutti, al limite occorre, come nei buoni vini, guardare l’annata, e nel caso di questo Oak Mountain parliamo del 2001, quando il chitarrista originale della band Michael Houser era ancora nella formazione (non che il suo sostituto Jimmy Herring sia da meno) e lo stile della band, un misto del classico southern rock imparato nella natia Athens, Georgia e quello delle jam bands più classiche, era in pieno fulgore. Formazione classica sudista: due chitarre soliste, tastiere, basso, batteria ed un percussionista aggiunto, con John Bell, uno dei due chitarristi, anche voce solista dallo stile pigro e disincantato, caratteristico e unico, capace però anche di improvvise accelerazioni bluesate.

I brani si incastrano uno nell’altro quasi senza soluzione di continuità: l’iniziale Conrad, con le percussioni impazzite di Domingo Ortiz impegnate a stimolare l’ottima sezione ritmica di Dave Schools, bassista extraordinaire e Todd Nance, batterista solido e variegato, tutti e tre impegnati a costruire uno sfondo perfetto per le evoluzioni delle soliste di Houser e Bell e per le tastiere dell’ottimo “Jojo” Hermann, sorta di omologo del grande Chuck Leavell negli Allman, con continui cambi di ritmo, accelerazioni e rallentamenti tipiche del genere, il brano si tramuta magicamente nella breve One Arm Steve, cantata da Houser e si dilata di nuovo nella lunga Barstool And Dreamers, introdotta dal basso slappato di Schools e dalla slide di Houser per lasciare spazio ad una lunga improvvisazione pianistica di Hermann. Saltando di palo in frasca tra i vari brani del triplo, come non ricordare una This part of town, più quieta e malinconica o le evoluzione à la Traffic della lunga Greta, la divertente Christmas Katie o il frenetico R&R di Let It Rock di Edward Anderson (Charles Edward Anderson Berry, per gli amici Chuck), o la Santaneggiante Radio Child.  

E siamo solo al primo disco. Disco è uno dei loro classici instrumental, Blight, inserita all’interno della lunghissima e bellissima Driving Song, è una delle prime collaborazioni con lo sfortunato Vic Chessnut, Last Dance è un inconsueto ma riuscito “incontro” con il Neil Young di Times Fade Away. Nel terzo CD cover riuscitissime di Fixin’ To Die, Bukka White via Bruce Hampton, i War di Low Rider e JJ Cale di Ride me high, per concludere con una strepitosa Dream Song E’ stato un piacere parlare ancora una volta dei Widespread Panic, ogni tanto ci si incontra di nuovo. Lunga vita ai loro archivi!

Bruno Conti  

P.s Esisteva un DVD, più o meno con lo stesso titolo, pubblicato nel lontano 2001 dalla Sanctuary (etichetta non più in attività) e relativo ad un concerto del 2000, ma il repertorio è completamente diverso.

P.s II. La qualità sonora è ottima, nettamente superiore a quella dei filmati inseriti nel Post! 

Una “Miscellanea” Di Generi Musicali! Donna The Buffalo – Tonight, Tomorrow and Yesterday

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Donna The Buffalo – Tonight, Tomorrow And Yesterday – Sugar Hill Records 2013 

Esordio su queste pagine virtuali dei Donna The Buffalo, un gruppo che con questo lavoro giunge al decimo album della loro produzione, e festeggia i 25 anni di carriera. Esistono dal 1987 e sono di Ithaca (stato di New York), e dopo una lunga gavetta, esordiscono con due cassette autoprodotte  White Tape (89) e Red Tape (91) e due album autogestiti, l’omonimo Donna The Buffalo (93),e  The Ones You Love (96), si conquistano una meritata fama con Rockin’ In The Weary Land (98), edito dalla Sugar Hill Records come pure il successivo Positive Friction (2000). Dopo una pausa e cambio di formazione, ma mantenendo la forza trainante dei componenti storici della band, la cantante e violinista Tara Nevins (autrice di due splendidi album solisti Mule To Ride (99) e Wood And Stone (2011), e il cantante chitarrista Jeb Puryear, i DTB riprendono il cammino con il primo live ufficiale From The American Ballroom (2002) l’intrigante Wait ‘Til Spring (2003) in coppia con uno dei “mostri sacri” del cantautorato country Jim Lauderdale, a cui fanno seguito Life’s A Ride (2005), e l’ultimo disco di studio Silverlined (2008) che vedeva come ospiti David Hidalgo dei Los Lobos, Claire Lynch icona del bluegrass “indie”, Amy Helm (figlia del compianto Levon) e lo straordinario banjoista Bela Fleck.

Durante tutto il loro percorso, il suono e lo stile della band non è mai cambiato di una virgola, un mondo sonoro nascosto, che va dalla Louisiana alla California, passando per i monti Appalachi, mischiando a piacimento rock e folk, country e bluegrass, cajun e zydeco, tex mex e reggae, fino ad arrivare ad assimilare una certa forma di blues, con composizioni dal tessuto estremamente fluido, vicino a quello delle jam band, e dalla ritmica vitale e allegra. Tutto questo si riscontra anche in questo Tonight, Tomorrow and Yesterday, prodotto da Robert Hunter e registrato in una “location” particolare (l’interno di una chiesa nella campagna di Enfield), con l’attuale line-up del gruppo composta dalla seducente Tara Nevins (lead vocal, violino, fisarmonica, acoustic guitar), che divide la leadership con il compare Jeb Puryear (lead vocal, chitarre e pedal steel) e i loro “pards” David McCracken alle tastiere, Kyle Spark al basso e Mark Raudabaugh alla batteria, per quasi un’oretta di musica danzabile, anche da parte di chi, come il sottoscritto, raramente muove il “piedino” durante un concerto.

All Aboard apre le danze, un brano zydeco con il sapore della Louisiana, mentre Don’t Know What We’ve Got vede la voce di Tara in evidenza con un ritornello che prende sin dal primo ascolto. Con Working On That siamo in ambito rock, con la voce di Jeb che accompagna una ritmica quasi a passo di reggae, seguita da I Love My Tribe dalla musica fluida, chitarre arpeggiate e la bella voce di Tara, mentre Tonight, Tomorrow and Yesterday ha il passo tipico dei DTB, con la voce di Jeb che guida la canzone. One Day At Time cambia registro, ci porta subito in un mondo sognante, con una melodia nostalgica che si sviluppa nel ritornello, per poi passare alla sincopata Love Time con un organo anni ’60 a dettare la linea musicale, mentre No Reason Why con la sua atmosfera quasi campestre, mette voglia di ballare sull’aia (se ce ne sono ancora). Si riparte con I See How You Are, un brano fresco e diretto dal suono accattivante, si prosegue con I Can Fly che sembra presa da uno dei dischi dei Black Sorrows di Joe Camilleri , per arrivare a Ms. Parsley dal tocco reggae più accentuato, con l’organo di David a fare da spalla alla voce di Jeb. Ci si avvia alla fine con il cajun di Why You Wanna Leave Me, la ballata Real Love dalla melodia distesa e solare cantata in duetto da Tara e Jeb, per chiudere con una frizzante Spinning World che mischia sonorità cajun e zydeco.

I Donna The Buffalo sono depositari di un suono personale e sanno scrivere canzoni che toccano nel profondo, alternano ballate suggestive a brani dirompenti, ma suonano con grande vitalità e buon gusto. La loro storia è una favola felice sull’amicizia e sull’amore per la buona musica, una musica intesa come messaggio che va oltre la musica stessa, e chi ha avuto la fortuna di assistere alle loro esibizioni live, può certificare che ogni concerto è un’occasione per celebrare attraverso la loro musica, la vita.

Tino Montanari

“Tra Le Rosse Rocce”. O.A.R. – Live On Red Rocks

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Live On Red Rocks – O.A.R. –  Wind-up records – 2 CD o DVD

Questo concerto al Red Rocks Amphitheatre di Denver, Colorado(registrato il 15 Luglio 2012), è stato un vero evento, come lo fu il precedente DVD dal vivo Live From Madison Square Garden, filmato nel 2007 su un palcoscenico esclusivo e prestigioso, ambìto da ogni musicista (con 18.000 spettatori presenti). Ancora piuttosto sconosciuti al pubblico internazionale ed ignorati da buona parte della critica, gli O.A.R. (acronimo di Of A Revolution), attivi dalla fine degli anni ’90, nascono come “college band” in Ohio,dove riescono in breve tempo a crearsi un nutrito seguito di fans grazie ai numerosi concerti, e come molte giovani formazioni americane, vendono i propri dischi via internet.

Dall’esordio di The Wanderer (97) ad oggi hanno pubblicato undici album e ben cinque sono dal vivo: Any Time Now (2002), 34th & 8th (2004), il citato Live from Madison Square Garden (2007), Hello Tomorrow EP (2009) e l’ottimo quadruplo Rain Or Shine (2010). Negli Stati Uniti la band è famosa, molto famosa, non come la Dave Matthews Band, ma poco ci manca, e infatti hanno un suono abbastanza simile, proponendo un brillante amalgama sonoro, che contamina il classico rock americano  (Counting Crows) con spruzzate di pop, elementi roots e virate reggae, una musica che dal vivo fa faville e si trasforma in ispirate e colorite jam. Gli O.A.R.  sono: Marc Roberge leader indiscusso voce e chitarra, Richard On chitarra solista, Jerry DePizzo sassofono, Benj Gershman al basso e Chris Culos alla batteria e in questa performance live, si avvalgono di una incredibile sezione fiati (Mikel Paris, Jon Lampley e Evan Oberla), presenza costante durante i concerti delle ultime due estati.

Le due ore abbondanti di Live On Red Rocks si aprono con l’iniziale Dangerous Connection, con un serrato crescendo di percussioni e fiati, seguite dalla sempre trascinante Shattered (Turn the Car Around) con grande partecipazione del pubblico, passando al classico american rock di Gotta Be Wrong Sometimes, fino al vulcanico rock, tra brillanti passaggi strumentali di Heard The World, il divertente reggae-rock di The Last Time e The Wanderer, e gli otto minuti di Delicate Few sospesa tra singhiozzi reggae e il tubare del sax, liberando con improvvise accelerazioni la creatività del brano. Si riprende con la seconda parte del concerto, dove gli O.A.R. svelano l’attitudine che li ha spesso associati al mondo delle jam band liberando nuovamente la creatività, modificando gli arrangiamenti delle canzoni e dilatandone i tempi, a partire dalle ipnotiche pulsazioni di Love & Memories, dalle morbide trame elettroacustiche di Mr. Moon, arricchita da pregevoli rifiniture pianistiche, e poi ancora il brano sincopato dall’intro acustica Ladanday, che acquista gradualmente forza e ritmo su un robusto tessuto sonoro di chitarre e fiati, proseguendo con la  ballata Irish Rose, tra languidi assolo del sax e limpidi ricami dell’acustica di Roberge, le percussioni etniche di Black Rock, il possente reggae-ska di That Was A Crazy Game of Poker, la delicata I Feel Home, e gli oltre 11 minuti di una “psichedelica” War Song preceduta da una lunga introduzione strumentale, a chiusura di un concerto splendido e trascinante.

Gli O.A.R. (per chi scrive) sono la conferma che il rock nato in provincia è molto più radicato nella gente, in quanto la band (originaria del Maryland) fa una musica positiva, vitale ed energica, in cui convergono la melodia del pop, la grinta del rock, i caldi contorni dei caraibici ritmi del reggae e la fantasia delle jam band (ultimamente estrinsecata dall’apporto della sezione fiati), un suono che è il ritratto di una formazione che si è fatta strada con le proprie forze, in modo onesto e sincero, che  raduna una platea infinita in piena estate, cosa che solo le grandi band riescono a fare.

Tino Montanari

NDT: Il DVD riporta la stessa scaletta del CD, più un documentario girato nel corso del “Crush Tour” del 2012, durante il quale si può sentire una canzone nuova degli O.A.R. Inside Out. Meriterebbe di essere visto anche solo per la “location” dove si è svolto (fra le montagne del Colorado). Buona visione o ascolto, o entrambi!