Suonato Molto Bene, Ma Il Comandante Kirk E’ Meglio Che Non “Canti”! William Shatner – The Blues

william shatner the blues

William Shatner – The Blues – Cleopatra Records

E’ lui o non è lui? Certo che è lui, come si evince dalla copertina è proprio il Capitano/Comandante Kirk, all’anagrafe William Shatner, anzi aggiungerei purtroppo è lui: ritiratosi da qualche anno dalla saga di Star Trek, Shatner ha del tempo libero e quindi ogni tanto pubblica un CD (ma lo faceva già nel 1968, quando uscì il suo primo album The Transformed Man, dove massacrava in guisa psichedelica anche brani di Dylan e dei Beatles), perché ovviamente, come dicono gli americani, trattasi di dischi della categoria “spoken word”, vale a dire il buon William parla, qualcuno azzarda declama, canzoni anche celebri, perché poi il Capitano ha perseverato, firmando per la Cleopatra e interpretando anche Bowie, Elton John, Queen, persino Lyle Lovett e via discorrendo, e persino un CD di canzoni natalizie.

Alla fine è approdato al blues, sempre con lo stesso approccio, ma circondandosi anche in questa occasione di una serie di musicisti eccellenti: in effetti la prima volta che ho ascoltato il CD non mi era neanche dispiaciuto, perché la parte musicale è molto buona, tre musicisti che hanno inciso le basi, Chris Lietz piano e organo, e i due produttori Adam Hamilton e il tedesco Jurgen Engler, che suonano chitarre, basso, batteria e armonica, con un approccio rock-blues energico, poi hanno fatto cantare, pardon parlare, Shatner, e infine gli ospiti hanno aggiunto le loro parti soliste. Nei due primi brani, Sweet Home Chicago e I Can’t Quit You Baby, il vecchio Bill (quasi 90 anni) mi aveva anche ingannato, perché c’era quasi un tentativo di cantar/parlando su timbri diversi dal suo tipico vocione da Comandante Kirk, ma nel resto del disco…

Perché la house band ci dà comuque dentro di gusto e Brad Paisley primo brano e ancor di più Kirk Fletcher nel secondo realizzano degli assoli veramente pregevoli, per non dire di Sonny Landreth superbo in una gagliarda Sunshine Of Your Love dei Cream, dove si sopporta anche il talking di Shatner. Niente male anche le parti soliste di Ritchie Blackmore in The Thrill Is Gone https://www.youtube.com/watch?v=SYMsP1-NgSg , Ronnie Earl in Mannish Boy, Tyler Bryant in Born Under A Bad Sign, Pat Travers in I Put A Spell On You, James Burton in una elettroacustica Crossroads, Jeff “Skunk” Baxter in Smokestack Lighting, dove la parte vocale, che in alcuni brani precedenti, esagero, non mi era neppure dispiaciuta, sfiora e forse supera il ridicolo.

In As The Years Go Passing By, il vecchio Arthur Adams imbastisce un assolo di grande finezza, mentre i Canned Heat al completo, con Harvey Mandel alla solista, vanno di boogie alla grande in Let’s Work Together https://www.youtube.com/watch?v=5DR8V2I9SZg  e Steve Cropper è magistrale in Route 66, mentre Albert Lee aggiunge una nota country in In Hell I’ll Be In Your Company, e la conclusiva Secret Or Sins non si capisce cosa c’entri con il resto. Se siete Trekkers e collezionate tutto, già saprete, per gli altri se trovate un sistema per ascoltare solo la parte musicale provate, se no evitare con cura.

Bruno Conti

Tre Album Da Riscoprire E Rivalutare. The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968

everly brothers down in the Bottom

The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968 – RPM/Cherry Red 3CD

Nel 1966 la popolarità degli Everly Brothers era in deciso calo, specie se rapportata ai fasti di fine anni cinquanta/primi sessanta, in cui i fratelli Don e Phil Everly erano stati giustamente indicati come uno degli acts più influenti della loro epoca (per dirne una, senza di loro forse Paul Simon avrebbe intapreso lo stesso la carriera di cantautore, ma probabilmente senza Art Garfunkel): infatti i due non portavano un singolo nella Top 40 da ben tre anni, e addirittura da cinque se si passava agli LP. Il loro ultimo disco, Two Yanks In England, era praticamente un album degli Hollies (che erano autori di gran parte delle canzoni e comparivano anche come backing band) cantato dagli Everly, e non ebbe successo come i precedenti: i nostri pensarono quindi di operare qualche piccolo cambiamento nel loro suono, ed i tre dischi interessati da tale rinnovamento (The Hit Sound Of The Everly Brothers, The Everly Brothers Sing e Roots) sono riuniti in questo triplo CD in digipak targato Cherry Red ed intitolato Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968, tutti quanti con una buona dose di bonus tracks in parte inedite.

In effetti il sottotitolo di questa ristampa è leggermente inesatto, in quanto solo Roots si può definire propriamente country-rock: diciamo che i due lavori precedenti, che pur presentano qualche sonorità countreggiante anche se mescolata alle consuete pop songs del duo e perfino a qualche accenno di psichdelia, sono da considerare come una graduale transizione verso Roots, che uscendo nel 1968 tenterà di inserirsi nel filone country-rock allora in voga e che aveva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta.

The Sound Of (1967, ma le sessions risalgono al ’66, da qui dunque il titolo dell’antologia) è formato da cover di brani più o meno noti, con la produzione di Dick Glasser e l’ausilio di diversi membri della famosa Wrecking Crew, tra cui Larry Knechtel, Hal Blaine, Terry Slater e Glen Campbell, già noto quest’ultimo come artista in proprio. L’album non vendette molto, ma vide i nostri proporre arrangiamenti raffinati e con le solite splendide armonie vocali di classici del rock’n’roll (Blueberry Hill, riletta in veste countreggiante, Oh, Boy! e Good Golly, Miss Molly), del country (I’m Movin’ On, Sea Of Heartbreak, che sembra scritta su misura per loro, e (I’d Be A) Legend In My Time), due brani associati a Ray Charles (Let’s Go Get Stoned e Sticks And Stones), un po’ di “British Invasion” (Trains And Boats And Plains, di Burt Bacharach ma portata al successo da Billy J. Kramer & The Dakotas, e The House Of The Rising Sun, incisa tenendo presente l’arrangiamento degli Animals ed indicando addirittura Alan Price come autore del pezzo). Poi ci sono brani scritti da autori esterni apposta per Don & Phil, come la beatlesiana Devil’s Child e la melodiosa She Never Smiles Anymore, opera di un giovane ed ancora sconosciuto Jimmy Webb. Tra le cinque bonus tracks del primo CD spiccano Even If I Hold It In My Hand, unico pezzo a firma Don Everly, un’altra canzone scritta da Webb (When Eddie Comes Home) ed il demo di Bowling Green, che sarà il brano di punta del disco successivo.

Proprio Bowling Green, uno splendido e scintillante folk-rock, apre il secondo dischetto nonché l’album Sing (1967), prodotto ancora da Glasser e con più o meno gli stessi musicisti del precedente (ma con in più il grande James Burton, all’epoca chitarrista di Elvis), ed un approccio più spostato verso il pop psichedelico, termine da prendere comunque con le molle in quanto stiamo pur sempre parlando degli Everly. Quasi metà dei pezzi sono scritti dal bassista Slater, i migliori dei quali sono la già citata Bowling Green, A Voice Within, il cui sound è influenzato dalle band britanniche, e le psichedeliche all’acqua di rose Talking To The Flowers e Mary Jane; ci sono poi un paio di originali di Don (l’orecchiabile I Don’t Want To Love You, scritta insieme a Phil, e l’eterea ballata It’s All Over, già incisa in passato dai due), un pezzo roccato e coinvolgente (Deliver Me, di Danny Moore) ed il rifacimento di Somebody Help Me, grande successo dello Spencer David Group di Steve Winwood,  pubblicata l’anno prima su Two Yanks In England. C’è anche la scelta bizzarra di includere una versione del superclassico dei Procol Harum A Whiter Shade Of Pale (non adattissima ai nostri), mentre è invece ottima Mercy, Mercy, Mercy, scritta dal non ancora leader dei Weather Report Joe Zawinul per il Cannonball Adderley Quintet. Le bonus tracks qui sono ben nove, tra cui sei sono brani usciti solo su singolo: da non perdere la bella rilettura della classica Love Of The Common People e la squisita Nothing But The Best di Rick Kemp.

E veniamo a Roots (1968), il migliore dei tre album presi in esame e quello che rappresenta la vera svolta nel suono dei fratelli, un disco che è anche una delle prime produzioni di un giovane Lenny Waronker, che nei seventies diventerà uno dei nomi più richiesti in cabina di regia, e che vede ancora i membri della Wrecking Crew con l’aggiunta delle tastiere di Van Dyke Parks. L’album vede dunque Don & Phil perfettamente calati nei panni di novelli cantanti country-rock, con cristalline versioni di classici come Mama Tried e Sing Me Back Home (le due canzoni più celebri di Merle Haggard), Less Of Me di Glen Campbell, T For Texas di Jimmie Rodgers e You Done Me Wrong di George Jones; un paio di pezzi sono scritti da Ron Elliott, leader dei Beau Brummels e collaboratore del disco (le folkeggianti Ventura Boulevard e Turn Around), mentre l’unico brano originale dei due fratelli, I Wonder If I Care As Much, è quasi psichedelico e non imperdibile (c’è anche una canzone, Living Too Close To The Ground, scritta dall’attrice Venetia Stevenson, all’epoca moglie di Don). Completano il quadro una pimpante rilettura del traditional Shady Grove in puro stile bluegrass ed un inedito del giovane Randy Newman, Illinois, brano già con l’impronta futura del pianista e cantante di Los Angeles. Sette le tracce bonus tratte dalle sessions, la maggior parte delle quali sono canzoni originali di Phil & Don (Omaha è la migliore), completata da due preziose cover di Mr. Soul (Neil Young) e In The Good Old Days (Dolly Parton) e da una bluesata e grintosa Down In The Bottom di Willie Dixon.

Con Roots, nonostante il perdurante insuccesso del disco, gli Everly Brothers sembravano lanciati verso una nuova carriera all’insegna del country-rock, e nessuno all’epoca poteva immaginare che come duo (quandi escluse le peraltro poche fatiche soliste) avrebbero pubblicato soltanto più cinque album durante il resto della carriera, due negli anni settanta e tre negli ottanta: un motivo in più per riscoprire le registrazioni incluse in questo triplo CD.

Marco Verdi

Dopo Trent’Anni E’ Ancora Una Goduria! Roy Orbison – Black & White Night 30

roy orbison black and white night

Roy Orbison – Black & White Night 30 – Legacy/Sony CD/DVD – CD/BluRay

Nella seconda metà degli anni ottanta ci fu una meritoria operazione di revival per quanto riguardava il grande Roy Orbison, uno degli originali rock’n’roller del periodo d’oro della Sun Records: dopo i fasti (e le tragedie personali) degli anni cinquanta e sessanta, la figura di Roy cadde nel dimenticatoio per tutti i settanta (anche se in quel periodo continuò ad incidere) e soprattutto nel primo lustro degli eighties; il primo a tirare fuori il nostro dalla naftalina fu il regista David Lynch, che nel suo controverso ma famoso film Blue Velvet diede una parte centrale alla canzone In Dreams. Poi ci fu il Grammy vinto per il duetto con k.d. lang in Crying, e nel 1987 il doppio album In Dreams, contenente versioni rifatte da capo a piedi dei suoi classici. Ma la parte centrale dell’operazione di recupero di “The Big O” fu il concerto tenutosi nel Settembre del 1987 al piccolo Cocoanut Grove di Los Angeles, un evento che rimarrà negli annali come Black & White Night, in quanto il bianco e nero era sia il dress code della serata che la tecnica con cui venne girato il filmato. Il concerto ebbe un enorme successo (passò via cavo per la HBO ed uscì anche al cinema), tanto che dopo due anni uscì anche in CD e VHS (ed in DVD diversi anni dopo): peccato che nel 1989 il vecchio e malandato cuore di Orbison avessa già ceduto, senza avere il tempo di godersi il successo del suo vero e proprio comeback album, lo splendido Mystery Girl (invece riuscì a vedere il suo nome di nuovo in testa alle classifiche con il primo disco del supergruppo dei Traveling Wilburys, formato con George Harrison, Bob Dylan, Tom Petty e Jeff Lynne).

Oggi i figli di Roy, curatori degli archivi dopo la morte della madre Barbara (che era anche la manager del nostro, oltre che la seconda moglie), ripubblicano quella storica serata nel trentennale del suo svolgimento (ma sono già passati trent’anni? Quasi), in un’elegante confezione contenente sia il CD che il DVD (o, per la prima volta, il BluRay), ed aggiungendo anche dei bonus per rendere il piatto ancora più succulento. Le cose che saltano all’occhio (e all’orecchio) sono la nitidezza dell’immagine nonostante il bianco e nero e la purezza del suono, completamente rimasterizzato, ma soprattutto il fatto che per questa edizione tutto il filmato sia stato rimontato da capo a piedi, utilizzando riprese inedite effettuate con telecamere diverse da quelle del video originale, rendendolo quindi accattivante anche per chi possedeva il vecchio DVD o VHS. Ed è un immenso piacere godere nuovamente di quella magica serata, che vede in Roy un frontman carismatico ed in forma smagliante, accompagnato da una house band coi controfiocchi, la TCB Band, ovvero il backing group di Elvis Presley negli ultimi anni di carriera: Glen D. Hardin al piano, Jerry Scheff al basso, Ron Tutt alla batteria e soprattutto l’inarrivabile chitarrista James Burton, che sarà il vero protagonista della serata, dopo Roy ovviamente.

Ma questa Black & White Night è passata alla storia anche per la quantità impressionante di “amici” sul palco ad accompagnare Orbison, un vero e proprio parterre de roi che comprende un insieme di backing vocalists composto da Jackson Browne, J.D. Souther, Steven Soles, Bonnie Raitt, Jennifer Warnes e k.d. lang, più un trio di chitarristi formato da Bruce Springsteen, Elvis Costello e T-Bone Burnett (che è anche il cerimoniere), e Tom Waits all’organo e chitarra acustica (completano il quadro Mike Utley alle tastiere, Alex Acuna alle percussioni ed un quartetto d’archi). E la cosa che si nota è che nessuno degli ospiti invade lo spazio di Roy, non ci sono neppure duetti (solo il Boss armonizza con il leader in due brani, Uptown eDream Baby https://www.youtube.com/watch?v=ANy4x3wgTSA ), anzi guardano al nostro con immenso rispetto e devozione, quasi intimoriti dal suo particolare carisma (Orbison ha sempre avuto una presenza magnetica pur non muovendo un muscolo durante le sue esibizioni, tanto bastava la sua voce formidabile per entusiasmare): la sola presenza di Waits, uno che fa fatica a muoversi anche per promuovere sé stesso, è indicativa in tal senso. E’ quindi, lo ribadisco, un immenso piacere riascoltare (e rivedere) il grande Roy alle prese con le sue inimitabili ballate, veri e propri classici quali Only The Lonely https://www.youtube.com/watch?v=4YG__LBJVZ0 , In Dreams, Crying (cantata da solo nonostante la presenza della lang), It’s Over, Running Scared, Blue Bayou, canzoni nelle quali la voce allo stesso tempo gentile e potente del nostro è davvero l’arma in più; ma se Roy è famoso più che altro come balladeer, in questo concerto ha grande spazio anche l’Orbison rocker, con versioni strepitose e coinvolgenti Dream Baby, Mean Woman Blues (durante la quale Roy gigioneggia e si diverte con il suo tipico brrrrrrrr), e due incredibili versioni di Ooby Dooby e Go!Go!Go! (Down The Line), con Burton che fa letteralmente i numeri con la sua sei corde.

Ci sono anche un paio di brani nuovi, che finiranno due anni dopo su Mystery Girl (la marziale The Comedians, scritta da Costello, e la pimpante (All I Can Do Is) Dream You), ed un gran finale con una Oh, Pretty Woman da urlo, più di sei minuti di grande rock’n’roll con Burton che sotterra tutti nella jam finale, entusiasmando non poco il pubblico del piccolo club (nel quale si riconoscono Kris Kristofferson, Billy Idol e l’attore Patrick Swayze). Abbiamo detto dei bonus, sia nella parte audio che video: due nel concerto principale (la lenta Blue Angel, assente anche dalla trasmissione televisiva dell’epoca, ed una versione alternata e più sintetica di Oh, Pretty Woman), più un mini-concerto segreto tenutosi a fine serata e con un pubblico ristretto, cinque canzoni che erano presenti anche nella setlist principale, ed eseguiti più o meno allo stesso modo (ma Claudette secondo me è più riuscita), che nel CD sono assenti ma proposti a parte come download digitale con tanto di codice, una pratica piuttosto antipatica a mio parere. Conclude il tutto un documentario di poco più di dieci minuti con immagini tratte dalle prove e brevi interviste ad alcuni ospiti della serata, un filmato interessante ma forse non indispensabile. Black & White Night era uno dei migliori live degli anni ottanta, ed in assoluto una delle cose migliori della carriera di Roy Orbison, e questa ristampa ce lo riconsegna in tutto il suo splendore.

Marco Verdi

“Solo” Un Altro Disco di Richard Thompson – Still

richard thompon still

Richard Thompson – Still – Proper/Concord

Potremmo aggiungere che è “solo” il sedicesimo disco di studio di Richard Thompson (ma ovviamente non contiamo quelli fatti con Linda, la famiglia, collaboratori vari, i Fairport Convention, oltre ai dischi dal vivo, le antologie, i cofanetti, le raccolte di inediti, i DVD, e molto altro): dal 1967, quando è uscito il primo disco omonimo dei Fairport ad oggi, Thompson credo (anzi ne sono certo) non abbia mai fatto un disco, non dico brutto, ma scarso. Nella sua discografia ci sono varie punte di eccellenza e un ilvello medio-alto costante negli anni, fatto che per il sottoscritto lo mette nella Top 10 degli artisti viventi più importanti della storia del rock (del folk e di qualsiasi altra musica vi venga in mente). Forse sarò parziale, ma per me Richard Thompson vale i Beatles, Dylan, Hendrix, gli Stones, Van Morrison, Springsteen, Presley e gli inventori del R&R e del soul nel pantheon dei grandi, e pur avendolo detto in altre occasioni, non essendo Paganini, lo ripeto! Il titolo, per Thompson, con l’ironia che lo contraddistingue, lascia intendere che si potrebbe interpretare anche come ” Ancora! Ma non era sparito da secoli?”, con quel piccolo tocco di vanità e amor proprio che non guasta, perché il punto interrogativo non c’è. Quindi “ancora”!

E il disco, ma non poteva essere diversamente, è ancora una volta molto bello: preceduto da grandi attese, quando si era saputo che l’album sarebbe stato prodotto da Jeff Tweedy, registrato negli studi di Chicago dei Wilco, molti pensavano che avrebbe potuto segnare un cambiamento nei suoni e nell’andamento sonoro della musica di Thompson, essere il suo Yankee Hotel Foxtrot, una strada però che era già stata percorsa nei dischi prodotti da Mitchell Froom, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, alcuni peraltro molto riusciti (penso a Rumor and Sigh o al doppio You?Me?Us?, ma brutti non ne ha fatti, per cui…), con suoni più carichi e complessi, ricchi di tastiere, forse meno immediati, ma con le canzoni sempre al centro del progetto. E comunque anche, per la serie dei corsi e ricorsi, First Light Sunnyvista avevano avuto questo approccio sonoro più elaborato. Il nostro vive da moltissimi anni negli Stati Uniti e quindi questo tipo di suono americano è già stato usato nel passato, anche quello più recente, con l’eccellente Electric  http://discoclub.myblog.it/2013/02/22/semplicemente-richard-thompson-electric/  che percorreva, in parte, addirittura i sentieri del genere “americana”, grazie alla produzione di un altro chitarrista, in quel caso Buddy Miller. Poi ci sono stati il DVD dal vivo, il disco acustico e quello con la famiglia, assai diversi stilisticamente tra loro. Ora è la volta di Still, dove Tweedy ha privilegiato il suono di Thompson quando suona dal vivo, il classico trio, chitarra-basso e batteria, con le canzoni che sono il veicolo sonoro e la chitarra di Richard libera di improvvisare quando l’estro lo richiede, cioè abbastanza spesso. Probabilmente era difficile cercare di migliorare la quasi perfezione del sound, quindi, come ammette lo stesso musicista inglese, il contributo di Tweedy potrebbe risultare quasi impercettibile alle orecchie dell’ascoltatore, ma si affretta ad aggiungere, comunque indispensabile https://www.youtube.com/watch?v=o-b2ACVhSzU . Tradotto in soldoni, è il solito bel disco di Richard Thompson. E’ non è poco, Jeff Tweedy e Jim Elkington aggiungono le loro chitarre (Tweedy anche marxophone, mellotron e guitarorgan !!, quindi forse il complimento di Thompson è meritato), Liam Cunningham, la brava cantautrice emergente Sima Cunningham e Siobhan Kennedy aggiungono le loro voci, ma il protagonista assoluto è ancora una volta il nostro amico: con la sua voce inconfondibile, la chitarra unica e quando serve un tocco di fisarmonica, uno di mandolino e di ukulele e il gioco è fatto.

Dodici canzoni nella versione standard ( più altre cinque nella versione doppia Deluxe, che include il Variations EP e che vi consiglio): She Never Could Resist A Winding Road è un classico brano à la Thompson, quindi bellissimo, una ballata folk di purezza cristallina, con gli arpeggi delle chitarre di Thompson che iniziano a costruire le solite delizie da gourmet della sei corde, piccoli tocchi di tastiere sullo sfondo e le armonie vocali della Kennedy, tutto nel tipico e classico canone thompsoniano, rafforzato da un testo che racconta di un personaggio ricorrente nelle sue canzoni, un’altra faccia della donna di Beeswing, “piedi freddi” e cuore caldo, indecisa ma sempre “migliore” delle sue controparti maschili, descritta con la consueta partecipazione e simpatia. Beatnik Walking, con due chitarre acustiche a inseguirsi dai canali dello stereo è un delicata delizia folk per i nostri padiglioni auditivi e il lavoro cesellato della sezione ritmica di Prodaniuk e Jerome ha una “presenza” da incontro sonoro ravvicinato. Patty Don’t You Put Me Down, la storia di una relazione finita, è anche l’occasione per le consuete metafore politiche e sociali di Richard, sarcastico e quasi cattivo nei suoi giudizi, ma è anche un brano rock dove la chitarra di Thompson traccia quelle traiettorie soliste che sono solo sue, con un paio di assolo che valgono il prezzo del biglietto (o del disco). Eccellente anche Broken Doll, dove delle tastiere quasi spettrali aggiungono un tocco di drammaticità ad un brano dall’andatura più sospesa e meno immediata, con l’elettrica di Thompson che qui lavora sui toni e la coloritura. All Buttoned Up è un’altra variazione nel vasto repertorio del nostro, andatura nervosa e rimbalzante, si potrebbe usare funky se non fosse lui, (anche se una una volta parlò di funky folk), forse si applica a questo brano, con la chitarra a disegnare le solite “impossibili” evoluzioni solistiche, tra mandolini, tastiere e altre chitarre che occhieggiano sullo sfondo. Josephine è una delicata ballata acustica di stampo folk, memore del suo passato e presente amore per la grande tradizione della canzone popolare inglese, che incarna perfettamente.

Long John Silver, la storia di un moderno pirata dei giorni nostri è l’occasione per un altro tuffo nel rock inconfondibile alla Thompson, chitarra tagliente e sempre imprevedibile e ritmi vivaci, poi virati nei tempi quasi marziali di una Pony In The Stable che ci riporta ai gloriosi giorni del folk-rock dei primi Fairport Convention. A seguire una ballata sontuosa ed avvolgente, come la struggente Where’s Your Heart, altra dimostrazione della inesauribile vena compositiva di questo signore che non finisce di stupire per la sua capacità di scrivere ad ogni album nuove piccole perle da aggiungere al suo songbook, ottimo nuovamente il lavoro di Siobhan Kennedy, alle armonie vocali. Poi è di nuovo tempo di rock con le evoluzioni frenetiche di No Peace, No End, pezzo dove Thompson estrae dalla sua solista altre incredibili mirabilie da ascoltare in religioso silenzio, mentre Dungeon Eyes rallenta ad un mid-tempo più ragionevole, non per questo meno intenso e godibile delle altre canzoni presenti in Still. Che si conclude con un brano, Guitar Heroes, che si potrebbe definire “The Rock’n’Roll According to Richard Thompson”, una cavalcata di quasi otto minuti dove Thompson ripropone gli stili di alcuni grandi chitarristi che hanno influenzato la sua storia di giovane ascoltatore di musica: e quindi ecco perfette citazioni di Melodie Au Crepuscule di “Django” Reinhardt, Caravan, nella versione di Les Paul, Brenda Lee di Chuck Berry, il chicken pickin’ di James Burton in Susie-Q e gli Shadows di Apache, prima di concludere con uno sferzante assolo di quelli che sono solo suoi.

Bruno Conti

Un Piccolo Ripasso Nella Storia Della Chitarra Elettrica! James Burton, Albert Lee, Amos Garrett, David Wilcox – Guitar Heroes: Making History

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James Burton, Albert Lee, Amos Garrett, David Wilcox – Guitar Heroes: Making History – Stony Plain/Dixie Frog/Ird

Una volta tanto un titolo (e dei protagonisti) che non si possono equivocare. Si sarebbe potuto chiamare, parafrasando il famoso brano e album di John Hiatt, Masters Of Telecasters, visto che tutti e quattro sono adepti e virtuosi del famoso modello di chitarra Fender. Uno in particolare, James Burton, è considerato, giustamente, uno dei maestri assoluti della chitarra elettrica (ancora al n°19 nella classifica di Rolling Stone dei più grandi di sempre) https://www.youtube.com/watch?v=dz657p72ypk , vediamo perché: oltre che solista nella versione originale di Susie Q. https://www.youtube.com/watch?v=N0L44Zea9Ms , quella di Dale Hawkins per intenderci, per anni chitarrista con Ricky Nelson, poi con lElvis Presley post-comeback https://www.youtube.com/watch?v=1EjIp15d1g4  e nella Hot Band di Emmylou Harris, e con mille altri, nonché inventore del famoso “chicken pickin” https://www.youtube.com/watch?v=6sGm81S2xJY , di cui proprio il suo discepolo, e degno emulo nella terra d’Albione, Albert Lee, è stato uno dei praticanti più significativi, fin dai tempi degli Heads, Hands & Feet (visti ai tempi, grandissimo gruppo https://www.youtube.com/watch?v=1aIft448lBA ), poi anche lui nella Hot Band in sostituzione proprio di Burton https://www.youtube.com/watch?v=ocNPcvLaloo , per anni nella Touring band di Clapton, con gli Everly Brothers nella reunion anni ’80, e ancora con i Rhythm Kings di Bill Wyman, oltre ad avere inciso una ventina di album a nome proprio. Pure Amos Garrett ha un CV da far paura, senza citare le decine di artisti con cui ha suonato, si ricorda il suo bellissimo assolo in Midnight At The Oasis https://www.youtube.com/watch?v=VlrKETxwRvM , nel disco di esordio del 1973 di Maria Muldaur. Il “giovane” del gruppo è il canadese David Wilcox, sicuramente il meno celebre di questi “eroi” e da non confondere con l’omonimo cantautore americano, come aveva fatto chi scrive: infatti mi chiedevo cosa c’entrasse con cotanti chitarristi! Proprio quest’ultimo è il padrone di casa alla Vancouver Island Musicfest, tenutasi in una serata speciale ed unica il 12 luglio 2013 e preservata per i posteri in questo CD, molto bello, ma per dirla alla Sacchi/Crozza non “streordinario” come mi sarei aspettato, anche se…

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I quattro si danno da fare alla grande, coadiuvati dalla ottima band di Albert Lee, dove Jon Greathouse oltre che alle tastiere, è impiegato come voce solista in un paio di brani: pezzi che sono pescati tra i classici ma anche nel repertorio di ciascuno, e forse, vista l’unicità della serata, forse qualche altro brano più celebre avrebbe alzato la qualità del repertorio, a scapito, per esempio, delle scelte dei brani di Wilcox. Una ottima idea del curatore del libretto è stata quella di inserire, canzone per canzone, l’esatta sequenza dei vari soli che si susseguono, a partire dall’iniziale, molto pimpante, That’s Allright (Mama), dove Albert Lee è la voce solista, ma poi gli altri lo seguono in una vorticosa serie di evoluzioni chitarristiche https://www.youtube.com/watch?v=kW0PXAOJLxg , tra country, R&R  e rockabilly, che era (ed è) il tratto distintivo dello stile, sia di Lee quanto di James Burton, per non parlare di una eccellente Susie Q., cantata da Greathouse, che non ha nulla di invidiare (a parte Fogerty) a quella dei Creedence, con tutte le chitarre schierate.

Niente male anche l’esercizio di stile e tecnica che è la versione di Sleep Walk il brano di Santo & Johnny (ebbene sì), con il solo Amos Garrett che la riprende quasi alla Roy Buchanan https://www.youtube.com/watch?v=tXctCNp2kLo , poi di nuovo tutti insieme appassionatamente per una versione della celebre Leave My Woman Alone, uno dei must di Ray Charles, di nuovo tra country, soul e rock, con Albert Lee e Jon Greathouse alla guida della pattuglia dei solisti, che nella seconda parte del brano si scambiano licks in modo libidinoso https://www.youtube.com/watch?v=jsDm_UrCVqk . E fin qui nulla da eccepire, ma la sequenza centrale a guida David Wilcox, con una eccezione, è meno scintillante, sempre tecnica notevole, ma anche un po’ di noia, nel blues di Jimmy Rogers You’re The One e nello strumentale latineggiante Comin’ Home Baby, mentre Flip, Flop and Fly, il vecchio jump di Big Joe Turner (ma anche dei Blues Brothers) è sempre divertente e trascinante https://www.youtube.com/watch?v=Fm0BTjtagN4 , piacevole anche Only The Young, una vecchia ballata scritta da Jimmy Seals, dal repertorio di Ricky Nelson, qui in versione strumentale. Poderosa poi la versione di Polk Salad Annie del vecchio Tony Joe White, priva della parte cantata ma non della grinta del brano https://www.youtube.com/watch?v=bMPuLKvqitk , discreta Bad Apple, di nuovo di Wilcox e fantastica la conclusione con una grandissima, e tirata a velocità supersoniche, versione del cavallo di battaglia di Albert Lee, una Country Boy che riporta la qualità del concerto su livelli superbi https://www.youtube.com/watch?v=2rq4JNhMu10 . Diciamo non più quattro giovanotti, ma Chitarristi (C maiuscola please) così non se ne fanno quasi più!

Bruno Conti