An Englishman In New York Da Cui E’ Lecito Aspettarsi Di Più. James Maddock – No Time To Cry

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James Maddock – No Time To Cry – Appaloosa Records/IRD

James Maddock, come molti di voi già sapranno, è nato nei sobborghi della città inglese di Leicester ma dall’inizio del duemila risiede a New York dove ha realizzato le prime esperienze musicali con la band dei Wood, prima di iniziare una brillante carriera da solista aperta dallo splendido album del 2009 Sunrise On Avenue C. Nel corso degli anni si è costruito una solida fama in tutto il circuito dei locali newyorkesi grazie a innumerevoli esibizioni live coadiuvato da ottimi musicisti, tra cui l’ex chitarrista dei Counting Crows David Immergluck e l’apprezzatissimo tastierista Brian Mitchell, già noto per i suoi trascorsi accanto a Dylan, Levon Helm, B.B.King e molti altri. Nella Big Apple Maddock ha avuto modo di conoscere e fare amicizia con parecchi illustri colleghi, come Mike Scott, con cui ha scritto alcune pregevoli canzoni, Garland Jeffreys e Willie Nile, al cui recente e bellissimo tribute album ha partecipato con una eccellente versione della ballad She’s Got My Heart https://discoclub.myblog.it/2020/09/10/anche-willie-nile-ha-il-suo-pregevole-e-meritato-tribute-album-various-artists-willie-nile-uncovered/ .

Frequenti le sue incursioni live anche nel nostro paese, avendo pubblicato gli ultimi album per l’etichetta brianzola Appaloosa che prosegue l’encomiabile consuetudine di inserire nel libretto dei CD le traduzioni in italiano dei testi. Personalmente ero presente alle sue eccellenti performances all’interno del Buscadero Day degli ultimi due anni e pure a quella molto intima ed insolita a Milano, organizzata dalla Feltrinelli di Viale Pasubio per la serie aperitivi in musica. Doveva esserci un’altra data al FolkClub di Torino, lo scorso 17 aprile, ma tutto è saltato causa lockdown e l’unico modo per rivedere suonare il buon James è stato attraverso le molteplici dirette facebook, tutte di ottimo impatto tra l’altro, in cui si è esibito in solitaria dal soggiorno di casa. Per fortuna il Covid non gli ha impedito di registrare nuova musica e di pubblicare da poco un nuovo album intitolato No Time To Cry, la cui foto di copertina lo ritrae non a caso ad occhi bassi al centro di una avenue newyorkese semideserta. Rispetto al precedente lavoro del 2018 If It Ain’t Fixed, Don’t Break It, non tra i più riusciti a mio parere, si nota subito l’assenza di quelle cadenze rock’n’roll un po’ vintage che lo caratterizzavano in gran parte, per privilegiare invece la formula della rock ballad di cui il nostro protagonista è abilissimo interprete.

Certo, calcolando che su nove episodi, due sono cover e altri due sono stati scritti a quattro mani, non pare che egli stia vivendo un periodo creativamente molto prolifico. Proprio a una cover è riservato il compito di aprire il disco e, aggiungo, nel migliore dei modi, vista la qualità del brano. Williamsburg Bridge viene dalla penna di una giovane e interessante cantautrice, Cariad Harmon, e subito, dalle prime note dell’accordion di Brian Mitchell, si entra in una soffusa e magica atmosfera in cui la voce roca e suadente di Maddock calza a pennello, quando poi entrano anche il violino di Heather Hardy e il mandolino di Immergluck il tessuto sonoro si fa perfetto (esiste anche un bel video per voce, chitarra e armonica, ripreso lo scorso gennaio al Bohemia Cafè di NYC). Il livello si mantiene altissimo anche nella successiva The A Train Takes You Home, che nella lunga introduzione strumentale cita, secondo me volutamente, Mandolin Wind di Rod Stewart e nei suoi cambi di ritmo ci ripresenta il Maddock più ispirato per i suoi richiami a Van Morrison o allo Springsteen dei primi dischi. Proseguiamo con la bella e romantica Waiting On My Girl, inframmezzata da un bel solo di pedal steel guitar di Immergluck, mentre nel finale Mitchell mette in mostra tutte le sue doti di raffinato pianista.

Se l’album fosse stato tutto su questi livelli si potrebbe parlare di eccellenza, ma purtroppo così non è, a causa di sonorità a tratti un po’ troppo cariche e zuccherose che riguardano alcuni successivi episodi. I’ve Driven These Roads è stata scritta insieme a Joy Askew (una musicista che vanta un lungo passato di collaborazioni con artisti del calibro di Laurie Anderson, Joe Jackson e Peter Gabriel), ideatrice di una lunga introduzione vocale in stile Burt Bacharach secondo me un po’ pesante e avulsa dal resto di questa malinconica canzone. L’atmosfera si fa più sanguigna nella seguente The High Chose You, composta insieme al co-produttore e chitarrista Scott Rednor, dal testo ironico sulle conseguenze per chi fa uso abituale di droghe, ma dal ritornello non entusiasmante scandito da un banale hand claps. Il piano di Brian Mitchell e il violino della Hardy ci riportano a sonorità più consone nella bella rivisitazione di quella appassionata e romantica serenata che è New York Skyline di Garland Jeffreys.

La title track fa anch’essa parte delle cose migliori, una ballad di gran classe che richiama un’altra delle buone fonti d’ispirazione di James, il mai abbastanza considerato Ian Hunter, Notevoli nel finale i ricami di chitarra elettrica da parte dello stesso Maddock, è prevedibile che diventi uno degli highlights dei suoi prossimi concerti. Ancora profusione di sentimenti nella lenta Open Up To You, che sarà senz’altro un’efficace dichiarazione d’amore per l’attuale compagna, ma onestamente non mi fa impazzire. Meglio la conclusiva ninnananna Top Of The Stairs, che, malgrado i suoi coretti pop decisamente demodè si fa apprezzare per la bella linea melodica sottolineata dal violino. In definitiva, definirei questo No Time To Cry un album di qualità altalenante, un episodio transitorio, visto anche il periodo in cui è stato realizzato, che nulla toglie alle grandi doti di autore ed interprete che sicuramente James Maddock continuerà a dimostrare in futuro. Lo attendiamo, spero prestissimo, ancora protagonista sui nostri palchi per grandi serate di emozioni dal vivo.

Marco Frosi

Anche Willie Nile Ha Il Suo Pregevole E Meritato Tribute Album! Various Artists – Willie Nile Uncovered

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Various Artists – Willie Nile Uncovered – 2 CD Paradiddle Records

Un album tributo, per di più di ottimo livello come quello che vado a descrivervi, Willie Nile se lo meritava davvero! Il sottotitolo di Willie Nile Uncovered, Celebrating 40 Years Of Music, rende bene l’idea, ma sarebbe stato opportuno aggiungere l’aggettivo Great, perché di grande musica (rock, folk, cantautorale, definitela come più vi piace) il songwriter nato a Buffalo settantadue anni fa ne ha prodotta veramente tanta. Se poi consideriamo le sue immense doti di performer, l’innata capacità di salire su un palco e trascinare qualunque tipo di audience verso l’entusiasmo più puro con la forza e il lirismo delle sue canzoni, diventa scontato ritenere che Willie sia diventato a ragione un punto di riferimento importante per le ultime generazioni di musicisti rock e folk. Per realizzare questo sentito omaggio, l’equipe dell’etichetta indipendente Paradiddle ha assemblato un cast di tutto rispetto, interpellando sia personaggi assai noti, nonchè amici e coetanei di Willie, sia gruppi e solisti emergenti, tutti o quasi con la comune caratteristica di aver svolto gran parte o tutta la propria carriera in quel particolarissimo microcosmo rappresentato da New York City e i suoi dintorni.

Alla Grande Mela Nile ha dedicato parecchie delle sue migliori canzoni, anche nel recente New York At Night https://discoclub.myblog.it/2020/05/20/dopo-40-anni-di-grandi-canzoni-unaltra-splendida-new-york-city-serenade-willie-nile-new-york-at-night/ , e ovviamente alcune le ritroviamo riproposte nel tributo, strutturato in due CD, per un totale di ventisei brani (25 in realtà perché uno si ripete con due diverse versioni). Per mia comodità, suddivido i partecipanti in due gruppi, le vecchie glorie, con nomi illustri nell’ambito del rock e del folk, e gli sconosciuti ai più, tra cui troviamo già tante belle sorprese, al punto da stimolare la ricerca, anche se non facile, di loro precedenti produzioni. Sul primo dischetto si mettono in bella mostra cinque band emergenti dotate di buon sound ed idee, a cominciare dai Leland Sundries, quintetto di Brooklyn, che rivisitano The Day I Saw Bo Diddley In Washington Square inserendo degli incisi ritmici tipici del protagonista del titolo (pensate a Mona o Not Fade Away) ottenendo un effetto notevole. Oppure i Quarter Horse di Long Island che rifanno When Levon Sings (dedicata al compianto Levon Helm) con un adeguato sound elettroacustico e il mandolino in primo piano a condurre la danza. Gli XL Kings ripescano dal mitico disco d’esordio di Willie That’s The Reason, con una discreta atmosfera sixties, ma meglio fanno gli Iridesense con History 101, mostrando grinta e personalità da vendere, guidati dalla brava vocalist Tara Eberle.

Chiude la cinquina una vecchia conoscenza dei locali di Long Island, il chitarrista Russ Seeger, che coi suoi Four Amigos ci regala una vivida versione della bellissima On Some Rainy Day. Tra i solisti troviamo una buona rappresentanza femminile, a cominciare dalla brillante Emily Duff, che, come una novella Michelle Shocked, ripropone Hell Yeah facendone una sorta di gospel acustico, con tamburello e bottleneck. Caroline Doctorow possiede una voce fresca come l’acqua di un ruscello di montagna e rifà con adeguata intensità la malinconica Lonesome Dark Eyed Beauty. Jen Chapin, figlia del famoso songwriter Harry Chapin, vanta buoni precedenti in ambito folk e jazz e qui ci offre una sentita cover per chitarra e voce di una ballad certo non tra le più note del vasto catalogo di Nile, The Crossing (era su American Ride). Annie Mark, cantautrice roots-rock, introduce col banjo la scoppiettante Everybody Needs a Hammer dandone una versione discreta che non sfiora però la trascinante forza dell’originale. Tra i maschietti, invece, si mettono in luce il giovane Pete Mancini (quattro album alle spalle) con una tonica ed efficace Asking Annie Out, Allen Santoriello che trasforma House Of A Thousand Guitar in una divertente honky tonk ballad e il veterano Gene Casey (definito the premier barroom troubadour of Eastern Long Island) che non sfigura riproponendo in stile Johnny Cash quel piccolo capolavoro che è American Ride.

Se grazie ai piccoli calibri l’operazione può già dirsi riuscita, dopo i nomi che ora comincio ad elencarvi vi convincerete che questo Willie Nile Uncovered vale assolutamente la spesa., non indifferente. Richard Barone, già leader della new wave band The Bongos, noto anche come produttore e regista teatrale, si confronta con l’inno Street Of New York e ne realizza una versione piacevole irrobustita da chitarre e batteria, arricchita pure da un godibile video. Niente a che vedere però con il pathos dell’originale, per sola voce, piano e armonica. Alcuni dei vecchi amici di Willie, conosciuti all’inizio della carriera, negli anni in cui frequentava il Greenwich Village esibendosi nei più noti locali, hanno voluto omaggiare il suo talento compositivo, primo fra tutti John Gorka, che mette tutta la sua immensa classe nella limpida rivisitazione di I Don’t Do Crazy Anymore. Lucy Kaplansky, di cui vi invito a riscoprire l’intera discografia, fa scorrere più di un brivido con una versione per solo piano, voce e archi della liricissima When The Last Light Go Out On Broadway, mentre il valentissimo Richard Shindell reinterpreta da par suo la commovente On The Road To Calvary dedicata dal suo autore alla tragica e prematura fine di Jeff Buckley.

Un secondo trittico cantautorale di notevole spessore vede protagonisti Rod Picott, Slaid Cleaves e Dan Bern: il primo scandisce con voce calda e partecipe le parole di Looking For Someone, su un arrangiamento ridotto all’osso, il secondo si avvale di una bella lap steel guitar per aggiungere un ulteriore tocco romantico alla dolce Sideways Beautiful e il terzo dà un po’ di fuoco alle polveri con la bella cavalcata elettrica Life On Bleeker Street, rumorosa e nostalgica rivisitazione della vita trascorsa nel Village. Detto che il bravo Nils Lofgren si cimenta in una vibrante (ma un tantino troppo ampollosa) versione di All God’s Children, il cui testo a parer mio andrebbe insegnato nelle scuole, vado ad introdurvi l’ultimo trittico di interpreti che a parer mio fanno arrivare al top questa già ottima raccolta. Elliott Murphy, solo per il fatto che da tanti anni ormai risiede a Parigi, non poteva che scegliere Les Champs Elysees di cui converte la furia quasi punk in pacato humor, reinventandola come una ballad acustica con tanto di azzeccatissimo trio d’archi sullo sfondo e il solito prezioso intervento chitarristico di Olivier Durand. Chapeau, monsieur Murphy!

Vagabond Moon è il primo grande rock anthem di Willie Nile sempre presente nei suoi concerti come lo è Born To Run in quelli del Boss. Rallentarla fino a farla diventare una gospel song, come fa qui il redivivo Kenny White (cantautore newyorkese di culto), potrà sembrare a molti un sacrilegio, ma funziona, eccome se funziona! L’uso delle voci e del piano è splendido, pregevoli gli interventi di hammond, mandolino e chitarra elettrica, una cover davvero da applausi.

Come merita applausi pure James Maddock, (di cui da poco è uscito il nuovo brillante CD No Time To Cry, a breve la recensione sul Blog) che trasforma in oro tutto ciò che tocca, compresa la deliziosa She’s Got My Heart, che interpreta con il consueto timbro roco spezzacuori e un arrangiamento perfetto. Ho tenuto per ultimo non a caso il leone inglese Graham Parker che si impadronisce del live anthem One Guitar come fosse una cosa sua, cavalcando il pezzo con l’energia di un ventenne, un vero esempio di illuminata longevità artistica. Cosa che manca totolmente al simpatico bassista della band di Willie Johnny Pisano, a cui è stata data l’occasione di registrare una sua versione reggae della suddetta One Guitar, più inutile che dannosa. Né questa né la scialba When One Stands interpretata da tale Henroy Vassell, che cerca, senza riuscirci, di fare il verso a Garland Jeffreys, possono inficiare il giudizio più che positivo su questo doveroso tributo a uno dei più grandi autori di rock stories dei nostri tempi. God bless Willie Nile!

Marco Frosi

Dopo 40 Anni Di Grandi Canzoni, Un’Altra Splendida “New York City Serenade”. Willie Nile – New York At Night

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Willie Nile – New York At Night – River House Records

Quando lo scorso ottobre Willie Nile iniziò a registrare le nuove canzoni negli Hobo Sound Studios di Weehawken, New Jersey, non poteva certo aspettarsi, come nessuno di noi, tutto quello che sarebbe accaduto nei primi mesi di questo travagliatissimo 2020: la pandemia che è dilagata in tutto il mondo, avvicinando in modo drammatico Milano, Bergamo e Brescia alla sua New York, tragici epicentri di un male nascosto e spietato che ha stravolto le nostre esistenze. Alla luce di tutto ciò, acquista ancora più valore l’ennesimo affresco traboccante di musica e vita che il rocker di Buffalo ha saputo dedicare alla sua città di adozione, presentandocelo come il seguito ideale dell’eccellente Streets Of New York, pubblicato quattordici anni fa. Prodotto insieme all’esperto amico Stewart Lerman, che ricordiamo in cabina di regia anche con Elvis Costello, Patti Smith e Neko Case, New York At Night è l’ennesima prova dello straordinario talento di Willie Nile nella doppia veste di compositore e performer.

Ad accompagnarlo nell’alternanza di lirismo e adrenalina che pervade questa dozzina di nuovi brani, troviamo un ristretto numero di fidati musicisti che spesso lo hanno supportato anche dal vivo: Il bassista Johnny Pisano, il batterista Jon Weber e i chitarristi Matt Hogan e Jimi K. Bones, a cui vanno aggiunti alcuni ospiti illustri come il blasonato polistrumentista Steuart Smith, che molti ricorderanno nelle più recenti esibizioni live degli Eagles o nei dischi di Rosanne Cash e di Rodney Crowell, il sopraffino tastierista Brian Mitchell, già collaboratore di B.B. King, Levon Helm e Bob Dylan, e, tra i vocalist, il fedele amico Frankie Lee e lo stimato collega James Maddock. Permettetemi di citare anche la copertina dell’album, l’ennesima superba istantanea in bianco e nero scattata dalla compagna di Willie, Cristina Arrigoni, (di cui consiglio caldamente il magnifico libro fotografico The Sound Of Hands, edizioni Wall Of Sound) che ritrae il nostro songwriter con le spalle appoggiate a una colonna di una stazione metropolitana mentre un treno gli sfreccia accanto.

Per saltare idealmente su quel treno, non dobbiamo fare altro che far partire New York Is Rockin’, la traccia di apertura del nuovo lavoro. Sembra di fare un salto indietro di quarant’anni, quando un giovane Willie Nile si presentava al mondo del rock con una sublime serenata elettrica dedicata alla sua luna vagabonda. L’energia e il sound sono gli stessi di allora, tra chitarre sferraglianti e ritmica incalzante, fino ad un ritornello che già ci fa immaginare (quando si potrà) sotto un palco a cantare a squarciagola a braccia alzate. Questa è la meravigliosa spontaneità comunicativa di un piccolo grande rocker capace con quattro semplici accordi di arrivare all’essenza gioiosa del rock ‘n’ roll, come pochi altri sanno fare. Il riff assassino di The Backstreet Slide non dà tregua, trascinandoci nei bassifondi poco illuminati della Grande Mela, con la voce del protagonista che si fa più roca e scura, mentre alle sue spalle le sei corde impazzano con gran lavoro di bottleneck, in omaggio al Willie DeVille di Cadillac Walk. Una tastiera soffusa ci introduce alla prima delle ballads, Doors Of Paradise, che parte lenta ma poi prende ritmo su una piacevole linea melodica, con tanto di coretto in chiave afro-gospel sullo sfondo. Gradevole sì, ma non proprio memorabile.

Decisamente meglio Lost And Lonely World, che lancia subito il suo ripetitivo refrain, tipico dei brani di Willie che diventano inni cantati in coro da tutto il suo pubblico durante i concerti. Tra sventagliate di chitarra e grande pathos nel testo diventerà sicuramente uno degli highlights del prossimo tour, che avrebbe già dovuto partire questa primavera con date in Spagna ed Italia, ma che per i ben noti problemi verrà posticipato all’autunno, se non al prossimo anno. Anche The Fool Who Drank The Ocean, scritta insieme a Frankie Lee, avrà di sicuro una bella resa dal vivo col suo incedere duro ed incalzante, le chitarre che si inseguono a briglia sciolta mentre il testo sembra alludere alla classe dirigente americana, facendo uso di una satira pungente. A Little Bit Of Love, come spiega il suo autore, è nata in seguito agli emozionanti incontri che Willie ebbe lo scorso anno con suo padre, giunto alla veneranda età di centodue anni e definito un grande storyteller. Composta al pianoforte nel corso di una notte, fa emergere tutta la sua carica emotiva reggendosi su una melodia limpida e subito assimilabile. Il suo lento crescendo diventa via via irresistibile e ne fa uno dei migliori brani di questa raccolta, sulla scia di altre grandi ballate del passato come Love Is A Train, Renegades o Back Home.

Non so quale sia la vostra idea della perfetta rock ‘n’ roll song, la mia si avvicina parecchio a quanto si ascolta nella title track New York At Night: chitarre infuocate, ritmica a palla, melodia vincente, parole urlate in modo semplice e diretto, da cantare in coro come una selvaggia catarsi. Chi altri è in grado di pubblicare oggi pezzi di questa potenza e immediatezza? Forse gli Stones o Springsteen, se ne avesse ancora voglia, lascio a voi l’ardua sentenza, perché si cambia completamente registro con la successiva The Last Time We Made Love, una preziosa ballad pianistica sulla falsariga di altri gioielli sparsi da sempre all’interno della sua discografia. E una volta di più Willie ci mette a tappeto, con un’interpretazione vocale da brividi e con le note struggenti del suo piano a cui viene sovrapposta a metà e in coda una chitarra elettrica dal suono abrasivo, quasi a sottolineare la malinconica fugacità di un amore che non può tornare. Ci torniamo noi indietro, fino alla seconda metà degli anni settanta, grazie alle atmosfere acide e allucinate di Surrender The Moon, che pare un tributo ai Television per i suoni taglienti delle chitarre mentre Nile canta in modo declamatorio facendo il verso a Patti Smith.

Questo brano risale a tredici anni fa e nacque da un’idea del fratello minore di Willie, John Noonan (Robert Anthony Noonan è il vero nome del nostro protagonista, per chi ancora non lo sapesse) poi venuto a mancare l’anno successivo. Willie si dice sicuro che il fratello sarebbe contento e orgoglioso di questa versione, e noi lo siamo con lui. Under This Roof ci fa fare un ulteriore salto nel passato, quando la sua casa e i locali che frequentava erano nel Greenwich Village e uno stuolo di romantici bohémiens, armati di chitarra acustica, facevano a gara per farsi ascoltare e trovare fortuna in luoghi poi mitizzati come il Cornelia Street Cafè o il Kenny’s Castaways. Under This Roof è un luminoso ricordo di quegli anni e dei sogni e delle illusioni che nascevano e svanivano sotto quel tetto nell’arco di una sola notte. Dopo questa delicata ed intima parentesi, ripartono i fuochi d’artificio con un altro potenziale singolo, la ruvida Downtown Girl, ennesimo esempio di rock immediato ed efficace, proposto con l’impeto di una garage band. Ma il gran finale è riservato a un brano che Willie registrò nel 2003 con la sua band di allora, The Worry Dolls. Incredibile che un pezzo di questo livello abbia dovuto aspettare 17 anni per essere pubblicato, si intitola Run Free ed è un’esortazione a spezzare ogni tipo di catena e puntare in alto inseguendo i propri sogni. Musicalmente si rivela una trascinante cavalcata elettrica con il piano in bella evidenza e una slide imperiosa che ricama sullo sfondo. A metà strada, acquisisce i colori del gospel grazie all’intervento di un coro di voci femminili che ne accrescono ulteriormente l’impeto e la solennità. Una degna conclusione per un album costruito con ottime canzoni che non mancheranno di avere la loro consacrazione definitiva dal vivo.

Per passione, energia e talento Willie Nile si conferma un punto di riferimento per le nuove generazioni di cantautori rock e, per noi appassionati ascoltatori, un compagno di viaggio insostituibile.

Marco Frosi

Dopo Jono Manson, Torna Un Altro Songwriter Amico Dell’Italia. Bocephus King – The Infinite And The Autogrill, Vol. 1

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Bocephus King – The Infinite And The Autogrill, Vol. 1 – Appaloosa/IRD CD

Bocephus King, musicista canadese di Vancouver (all’anagrafe James Perry), alla fine degli anni novanta sembrava una delle “next big things” del cantautorato mondiale. Dopo l’esordio nel 1996 con Joco Music (da lui poco amato), King pubblicò infatti nel 1998 e nel 2000 due tra i più riusciti lavori di quegli anni, A Small Good Thing e The Blue Sickness, due album che rivelavano un musicista geniale e creativo, con influenze che andavano da Bob Dylan a Van Morrison passando per Tom Waits e Bruce Springsteen, ma anche Townes Van Zandt e Willie Nelson (la splendida Ballad Of The Barbarous Nights, che chiudeva alla grande The Blue Sickness, sembrava proprio un valzerone del countryman texano). Negli anni seguenti il nostro si perse un po’, complice un comportamento un po’ naif e “freak” e soprattutto un lungo silenzio tra All Children Believe In Heaven del 2003 e l’ottimo Willie Dixon God Damn! del 2011 (secondo chi scrive il suo ultimo lavoro di un certo spessore). Nello stesso periodo King ha cominciato a frequentare il nostro paese (da lui sempre amato in quanto grande appassionato di arte, poesia e cinema d’autore), partecipando a più riprese agli annuali Buscadero Day e soprattutto a svariate edizioni del Premio Tenco, ricevendo anche più di un riconoscimento.

Senza dimenticare l’amicizia con Andrea Parodi, che lo porterà a produrre i primi due album del musicista di Cantù, e la decisione di intitolare la bellissima antologia uscita nel 2015 Amarcord, in omaggio a Federico Fellini. Ora, a cinque anni di distanza dal discreto The Illusion Of Permanence e quattro dal doppio CD di cover Saint Eunice, Bocephus pubblica quello che si può considerare il suo disco più “italiano” di sempre: intanto esce per la nostrana Appaloosa (sua etichetta già da qualche anno), poi è prodotto proprio insieme all’amico Parodi, ed infine l’emblematico titolo The Infinite And The Autogrill (con quel Vol. 1 che fa presagire un seguito) che rivela la sua ammirazione per le opere di Giacomo Leopardi e per le canzoni di Francesco Guccini (e proprio Autogrill del cantautore di Pavana è stata interpretata in uno dei passati Premi Tenco da King), entrambi tra l’altro raffigurati sul disegno in copertina. E l’album, inciso tra Vancouver e Meda (comune della Brianza) è davvero riuscito, forse il migliore del nostro da Willie Dixon God Damn!, un lavoro di un artista finalmente ispirato e “sul pezzo” come non accadeva da diverso tempo. King non si perde in inutili svolazzi artistici ma ci consegna un disco solido, ben suonato e con una miscela creativa e stimolante di rock, folk, Americana ed un pizzico di soul.

Tra i musicisti che lo accompagnano troviamo nomi di caratura internazionale come la violinista Scarlet Rivera, il rocker James Maddock e Vini “Mad Dog” Lopez, mitico primo batterista della E Street Band, oltre a realtà nostrane come lo stesso Parodi ed il chitarrista Alex “Kid” Gariazzo (Treves Blues Band). L’iniziale One More Troubadour, dalla lunga introduzione acustica, è un folk-rock cupo ed intenso, con un backgroung elettrico, uno sviluppo melodico discorsivo che ricorda certe ballatone di Tom Petty ed un suggestivo uso di violino e violoncello. Something Beautiful è una deliziosa e solare ballata blue-eyed soul chiaramente ispirata alle opere dei primi anni settanta di Van The Man, con quell’aria californiana ed un gusto pop dietro ad ogni nota; inizialmente pensavo che Buscadero fosse dedicata al mensile musicale che nel 1998 mise per primo il nostro in copertina, ma invece è un racconto western con un testo che mescola antico e moderno citando Toro Seduto, Buffalo Bill, Annie Oakley, Akira Kurosawa e Sergio Leone (il Buscadero è il cinturone nel quale i pistoleri del vecchio West infilavano le pallottole), e musicalmente è un mix strano ma coinvolgente tra folk, western, rock, Messico ed un pizzico di Oriente, un brano debordante dallo stile curiosamente simile a quello del nostro Vinicio Capossela. The Other Side Of The Wind è splendida, una sontuosa rock ballad notturna tra Waits e Springsteen, con le chitarre acustiche ed elettriche a guidare il motivo insieme ad un bel pianoforte e la steel che accarezza sullo sfondo, una canzone che differisce nettamente da John Huston, che vede Bocephus alle prese con una frenetica e sbilenca rock’n’roll song dallo stile quasi ska, con un refrain diretto al quale partecipano vocalmente anche Parodi, Maddock e Lopez.

Identity, in cui spunta anche un sitar, è una ballata fluida e decisamente intrigante, con una melodia accattivante che colpisce al primo ascolto, mentre Life Is Sweet è una incantevole folk song bucolica dal retrogusto old time dato dall’uso dei fiati in puro Dixieland style. Ho volutamente lasciato alla fine le uniche due cover del disco, che uniscono ancora di più King all’Italia dato che sto parlando di due versioni in inglese di classici della musica nostrana (e nessuno dei due è Autogrill): la prima è una splendida rilettura di Lugano Addio di Ivan Graziani intitolata Farewell Lugano, che diventa un terso e limpido folk-rock alla George Harrison con Bocephus doppiato dalla voce di Claudia Buzzetti, uno dei momenti migliori del CD. Creuza De Ma era già una grande canzone nell’interpretazione originale di Fabrizio De André, ed il passaggio dal dialetto genovese all’inglese non ne scalfisce per nulla la bellezza, con il nostro che accelera leggermente il tempo ma mantiene intatta la struttura melodica. Dopo Jono Manson ecco quindi un altro songwriter d’oltreoceano con il cuore in Italia: The Infinite And The Autogrill, Vol. 1 non sarà bello come https://discoclub.myblog.it/2020/02/12/il-miglior-lavoro-di-sempre-del-nostro-amico-ormai-mezzo-italiano-jono-manson-silver-moon/ ma di certo è uno dei migliori di Bocephus King, e mi sento perciò di consigliarlo senza remore.

Marco Verdi

Il Miglior Lavoro Di Sempre Del Nostro Amico Ormai Mezzo Italiano! Jono Manson – Silver Moon

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Jono Manson – Silver Moon – Appaloosa/Ird CD

Jono Manson ha da anni un rapporto speciale con la nostra penisola, avendo collaborato più volte con alcuni dei migliori musicisti nostrani come i Mandolin’ Brothers (è anche il produttore del loro ultimo 6), i Gang (Jono era dietro la consolle sia per Sangue E Cenere che per il bellissimo Calibro 77, e pare che concederà il tris anche per il prossimo lavoro dei fratelli Severini), Andrea Parodi e Paolo Bonfanti, oltre ad aver fatto parte del supergruppo Barnetti Bros. Band con Parodi, Massimiliano Larocca e Massimo Bubola e non mancare quasi mai nelle kermesse annuali del Buscadero Day. Ma Jono non vive in Italia, abita da anni a Santa Fe (New Mexico), e si ritrova a dover mandare avanti anche la sua carriera di musicista in proprio, ormai ferma al 2016 con l’ottimo The Slight Variations https://discoclub.myblog.it/2017/02/09/variazioni-lievi-ma-significative-sempre-ottima-musica-jono-manson-the-slight-variations/ : Manson si è preso del tempo, ha scelto le canzoni che reputava migliori ed è riuscito a fare ciò che si era prefissato, cioè il capolavoro di una vita. Sì, perché Silver Moon (questo il titolo del suo nuovo album, sempre distribuito dalla Appaloosa, altro punto di contatto con l’Italia) è un grande disco, il più bello, il più convinto di sempre per quanto riguarda il songwriter newyorkese, un lavoro dal respiro internazionale in cui la sua consueta miscela di ballate e brani rock in puro stile Americana toccano il vertice artistico massimo.

Jono questo lo sapeva, se lo sentiva, ed è per questo che per arricchire ancora di più il piatto ha chiamato attorno a lui una serie di ospiti da far tremare i polsi: non ci sono superstar (non aspettatevi Clapton o Knopfler), ma comunque non è da tutti avere contemporaneamente in un proprio album Warren Haynes, Terry Allen, James Maddock, Eliza Gilkyson, Joan Osborne, Eric “Roscoe” Ambel, oltre al nostro Bonfanti, al chitarrista degli Spin Doctors Eric Schenkman, all’altro axeman Eric McFadden fino al bravissimo tastierista Jason Crosby ed agli abituali collaboratori di Manson (Ronnie Johnson al basso, Paul Pearcy alla batteria e Jon Graboff alle chitarre e steel). Ma gli ospiti danno solo quel qualcosa in più, servirebbero a poco se non ci fossero le canzoni, ed in Silver Moon ne troviamo di bellissime, a partire da Home Again To You, scintillante pezzo che porta alla mente il primo Steve Earle, quello a metà tra country e rock: ritmo spedito, melodia accattivante e squisito accompagnamento chitarristico jingle-jangle. Only A Dream è cantata a due voci con Maddock, ed è una sontuosa rock ballad elettrica di stampo classico con il passo di quelle dei grandi della nostra musica, davvero bella, mentre la title track è una luccicante ballatona sudista, calda nei suoni ed impreziosita dagli splendidi organo e piano elettrico di Crosby e soprattutto dall’inconfondibile slide di Haynes: altra grande canzone.

Si rimane al sud con la goduriosa Loved Me Into Loving Again, saltellante e gustoso errebi con la voce di Manson doppiata dalla Osborne e l’aggiunta di una sezione fiati di quattro elementi; I Have A Heart è tosta ed elettrica, puro rock’n’roll di quelli che trascinano fin dalle prime note, con Springsteen come ispirazione principale, a differenza di I Believe che è un’intensa slow ballad dalle leggere reminiscenze dylaniane (ma vedo anche Butch Hancock) e con un motivo toccante e bellissimo. Con la cadenzata I’m A Pig siamo in territori rock-blues per un brano decisamente grintoso dominato dal piano di Crosby e dalla chitarra di Schenkman (e con un refrain corale vincente), Shooter è ancora più rock, una ballata elettrica e chitarristica di notevole impatto con Bonfanti che fa il bello e il cattivo tempo, mentre The Christian Thing è un lento strepitoso che sa un po’ di Messico ed un po’ di southern country, reso ancora più bello dalle voci di Terry Allen e della Gilkyson. Face The Music è ancora puro rock’n’roll ed è una delle più immediate ed irresistibili, Everything That’s Old (Again Is New) introduce un’atmosfera pop ed una slide degna di George Harrison, e porta alle due canzoni conclusive: la country ballad Every Once In A While, tersa e limpida, ed il blues elettrico e “texano” The Wrong Angel, di nuovo con Bonfanti alla solista. Jono Manson con questo Silver Moon è dunque riuscito perfettamente nel suo intento di regalarci il suo disco più bello di sempre (non disdegnando “a little help from his friends”), un lavoro che conferma la sua bravura nella scrittura, la sua competenza ed il suo amore per la vera musica.

Marco Verdi

Per Chi Avesse Voglia Di Un Po’ Di Sano Rock’n’Roll! Willie Nile – Children Of Paradise

willie nile children of paradise

Willie Nile – Children Of Paradise – River House CD

Willie Nile, al secolo Robert Noonan, da quando ha ripreso ad incidere con una certa costanza, non ha più mollato il colpo, tra dischi bellissimi (Streets Of New York, American Ride) e “solo” belli (House Of A Thousand Guitars, The Innocent Ones). Lo scorso anno Willie ci aveva deliziato con l’ottimo Positively Bob, in cui rileggeva alla sua maniera alcuni classici del suo idolo Bob Dylan https://discoclub.myblog.it/2017/06/30/e-dopo-bob-sinatra-ecco-a-voi-willie-dylan-comunque-un-grande-disco-willie-nile-positively-bob/ , ma il suo ultimo lavoro composto da brani originali era World War Willie del 2016, un buon album, molto spostato sul versante rock, che bilanciava il sorprendente If I Was A River di due anni prima, formato esclusivamente da ballate pianistiche. Ora Willie torna tra noi con un disco nuovo di zecca, Children Of Paradise, che si può tranquillamente inserire tra i suoi lavori più riusciti. Nile non cambia di una virgola il proprio suono, un rock’n’roll molto diretto e chitarristico, con occasionali intermezzi in cui sono le ballate a farla da padrone, ma in questo lavoro si nota subito una freschezza compositiva maggiore che in World War Willie, con addirittura un paio di canzoni che potrebbero entrare di diritto in qualsiasi “best of” del rocker di Buffalo. Willie ha fatto un gran lavoro anche per quanto riguarda i testi, che sono influenzati dalla difficile situazione politica ed economica degli Stati Uniti, con un pizzico di ecologia che non guasta mai, ed in alcuni casi i brani si esprimono anche in modo crudo e diretto.

Come la musica d’altronde, che vede il nostro accompagnato dagli abituali compagni di viaggio (Steuart Smith, chitarrista che è da anni nella live band degli Eagles al posto di Don Felder, Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre ritmiche, Jon Weber alla batteria ed Andy Burton all’organo, mentre Willie come di consueto si alterna a chitarre e pianoforte), con l’aggiunta dell’amico James Maddock ai cori. Per la verità il brano iniziale, Seeds Of A Revolution, non è nuovissimo, in quanto faceva parte dell’ormai introvabile EP del 1992 Hard Times In America, ma siccome il testo è ancora attuale Willie ha pensato bene di riproporlo: uno scintillante folk-rock di sapore byrdsiano, che rispetto alla versione originale ha un suono decisamente più solido e vigoroso, puro Nile al 100%. La saltellante All Dressed Up And No Place To Go è un altro tipo di canzone che nei dischi di Willie non manca mai, una classica rock song con un call & response voce-coro, una sorta di trascinante filastrocca rock’n’roll dal testo profondamente ironico; Don’t è un pezzo molto elettrico ed aggressivo (anche nelle liriche), il cui ritmo decisamente sostenuto e le sventagliate chitarristiche fanno pensare ai Ramones https://www.youtube.com/watch?v=41ECsxenuwE . Earth Blues prosegue all’insegna del rock, un brano duro e roccioso ma che manca di quell’immediatezza compositiva che viceversa trovavamo nei pezzi precedenti, anche se il gruppo arrota che è una meraviglia.

La title track è l’altra canzone non nuova del CD, in quanto era presente nell’ottimo Places I Have Never Been del 1991 (l’ultimo disco inciso da Willie per una major), ma qui ha un suono molto più diretto che in origine ed un refrain davvero immediato: la quintessenza del vero rock’n’roll. Ancora meglio Gettin’ Ugly Out There, un folk-rock elettroacustico dalla melodia contagiosa ed accompagnamento strumentale perfetto, per chi scrive tra le cose più belle proposte da Willie, almeno ultimamente: dopo un solo ascolto non riesco a smettere di canticchiare il ritornello https://www.youtube.com/watch?v=D_z2X26k_vw ; la roboante I Defy mostra che tra i gruppi preferiti dal nostro ci sono anche i Clash, mentre Have I Ever Told You è una ballata soffusa e tutta giocata su una tenue melodia, un’oasi gradita a questo punto del CD https://www.youtube.com/watch?v=OmWm1eewuow . Secret Weapon riporta l’album su territori elettrici, una rock ballad vigorosa ed ancora con un motivo diretto e fruibile, il marchio di fabbrica di Willie; Lookin’ For Someone è un brano scritto con lo scomparso Andrew Dorff, una delicato folk tune elettrificata, guidata da mandolino e chitarra elettrica, oltre che da un limpido pianoforte, altro brano da antologia. Finale per Rock’n’Roll Sister, un travolgente pezzo ad alto ritmo che mantiene ciò che promette nel titolo, e la toccante All God’s Children, una ballatona pianistica che non poteva mancare: bella e struggente, perfetta per chiudere con una nota malinconica l’ennesimo ottimo rock’n’roll album da parte di Willie Nile, un altro di quelli che non tradiscono mai.

Marco Verdi

Un Bellissimo Tributo…Made In Italy! When The Wind Blows -The Songs Of Townes Van Zandt

when the wind blows the songs of townes van zandt

VV.AA. – When The Wind Blows: The Songs Of Townes Van Zandt – Appaloosa/IRD 2CD

Ogni tanto anche in Italia, in campo musicale, sappiamo fare le cose per bene: When The Wind Blows è uno splendido tributo alle canzoni del grande Townes Van Zandt, songwriter texano scomparso ormai da più di vent’anni ma ancora di enorme importanza ed influenza per molti, ed è stato fortemente voluto da Andrea Parodi, che ha prodotto il doppio CD (32 canzoni, due ore di musica) insieme a Jono Manson, musicista americano ma che ultimamente è spesso coinvolto in progetti “nostrani”. Ed il disco, oltre ad essere molto bello ed a comprendere il meglio del songbook di Van Zandt, è caratterizzato dalla presenza di un cast internazionale di livello eccelso, con diversi nomi di alto profilo ed altri meno conosciuti, ma sempre nel nome della professionalità e della grande musica; l’unica cosa in cui il doppio CD è un po’ carente e nelle informazioni, dato che mancano i sessionmen presenti nei vari pezzi, e le liner notes si limitano ad una presentazione (in inglese) del Townes Van Zandt Festival che si svolge ogni anno a Figino Serenza, nel comasco. *NDB Comunque proprio a quel link contenuto nel libretto http://townesvanzandtfestival.com/index.php/cd trovate tutte le informazioni sui musicisti che suonano nell’album, brano per brano).

L’album parte con la splendida Snowin’ On Raton, affrontata da Jaime Michaels con piglio da vero countryman, limpida e deliziosa; non conoscevo Luke Bolla, ma la sua Heavenly Houseboat Blues (con Paolo Ercoli) è davvero riuscita, una ballata acustica cristallina, suonata e cantata in maniera emozionante, ed anche lo svedese Christian Kjellvander non lo avevo mai sentito, ma credetemi se vi dico che Tower Song è da brividi, solo voce e chitarra ma un feeling “alla Chip Taylor” ed un timbro caldo e profondo. Ecco arrivare un tris d’assi, uno dietro l’altro: il grande Terry Allen si fa sentire ormai di rado, ed è un vero peccato in quanto è ancora in forma smagliante, e la sua White Freightliner Blues è solida, ritmata ed elettrica; anche Joe Ely ha diradato di molto la sua produzione negli ultimi anni, ed è dunque un piacere sentirlo tonico ed in palla nella toccante If I Needed You, mentre Thom Chacon conferma il suo ottimo momento con una Still Looking For You folkeggiante e bellissima. Non mi metto a citare tutti i partecipanti per non dilungarmi, ma mi limito a quelli che raggiungono o sfiorano l’eccellenza (e già questi non sono pochi): il bravo Slaid Cleaves ci regala una Colorado Bound per voce e strumenti a corda molto suggestiva, Andrea Parodi fa sua con piglio sicuro la nota Tecumseh Valley traducendola liberamente in italiano (non mi sembra che Townes citasse Genova ed Alghero…), ma fornendo una delle prove migliori e più creative del lavoro, mentre David Corley, con una voce a metà tra Van Morrison e Tom Waits tira fuori una To Live Is To Fly decisamente intensa.

My Proud Mountains nelle sapienti mani dei Session Americana è puro folk (con un ottimo crescendo strumentale), la bella voce di Kimmie Rhodes, accompagnata solo dallo splendido pianoforte di Bobbie Nelson (sorella di Willie), fa un figurone in Catfish Song, mentre il sempre più bravo Sam Baker (autore anche del disegno in copertina) dà il suo contributo con una struggente e quasi fragile Come Tomorrow; il primo CD termina con Malcolm Holcombe alle prese con una Dollar Bill Blues dal sapore western. Il secondo dischetto comincia con l’ottimo Jono Manson che rilascia una limpida e countreggiante At My Window, seguito dal redivivo Chris Jagger (fratello di Mick) che ci delizia con Ain’t Leavin’ Your Love, in puro stile folk-blues. Tra gli highlights da segnalare una drammatica Highway Kind ad opera di Chris Buhalis, la vibrante Flyin’ Shoes da parte di Radoslav Lorkovic, emozionante (e che pianoforte) ed una roccata ed energica Loretta, affidata a James Maddock, sempre più bravo anche lui. Non conosco Jeff Talmadge, ma la folkie I’ll Be Here In The Morning affidata a lui è scintillante, a dir poco, così come la profonda Lungs nelle mani di Richard Lindgren, mentre l’attore e cantante Tim Grimm fa sua Colorado Girl con classe e feeling. Waiting Around To Die, uno dei pezzi più cupi di Townes, è perfetta per Michael McDermott, ed il capolavoro assoluto del texano, Pancho & Lefty, una delle più belle canzoni di sempre in assoluto, viene affrontata con bravura e rispetto dal newyorkese Paul Sachs, una rilettura lenta nella quale la melodia risalta in tutta la sua bellezza. Chiude Jack Trooper, figlio di Greg, con il puro folk dal sapore quasi irlandese di Our Mother The Mountain.

Un tributo eccellente quindi, realizzato in maniera professionale e contraddistinto dal grande amore e rispetto dei partecipanti per la figura di Townes Van Zandt, il tutto senza protagonismi e, per citare un brano del grande texano, “for the sake of the songs”.

Marco Verdi

Il Ritorno Del Figliol Prodigo. James Maddock – Insanity Vs. Humanity

james maddock insanity vs. humanity

James Maddock – Insanity Vs. Humanity – Appaloosa Records

Nel 2010, Sunrise On Avenue C fu un vero e proprio colpo di fulmine per il sottoscritto. James Maddock, con le sue ammalianti rock ballads costruite su piano e chitarre e quella voce gradevolmente roca alla Ian Hunter, mi aveva subito conquistato e aggiunto il proprio nome alla lunga lista di beautiful losers che sanno regalare emozioni vere, ispirati dai grandi maestri Dylan, Springsteen e Van Morrison. Seguirono altre belle conferme, lo spumeggiante Live At Rockwood Music Hall, l’ottimo Wake Up And Dream dell’anno successivo, Another Life del 2013, più folk ed intimista dei suoi predecessori. Dopo una serie di prove tanto convincenti, grande fu la delusione che mi procurò l’ascolto di The Green, l’album del 2015, in buona parte rovinato da campionamenti e suoni fasulli. Per fortuna, dubbi e timori sono stati spazzati via come una folata d’aria fresca appena ho inserito nel lettore il nuovo Insanity Vs. Humanity e la limpida melodia dell’iniziale I Can’t Settle ha cominciato a diffondersi. Come negli episodi migliori dei vecchi dischi è il pianoforte a condurre le danze, e intorno chitarre acustiche, mandolino, organo e tastiere accompagnano la voce del protagonista nel suo racconto che tanto richiama alla memoria i personaggi delle backstreets springsteeniane. Subito dopo, altro bel colpo di acceleratore per la trascinante Watch It Burn, davvero irresistibile nel suo ritornello:

james maddock insanity

https://www.youtube.com/watch?v=ZPdEP-mlVDE

Burn Burn Burn urla James Maddock sostenuto da voci femminili e non posso evitare di pensare alle infuocate performances del grandissimo Dirk Hamilton nei suoi brillanti esordi degli anni settanta. Cambio di passo nella successiva Leave Me Down, soul ballad ad altissimo tasso emotivo con un crescendo paragonabile al repertorio del miglior Southside Johnny. Il binomio voce e chitarra elettrica nel finale del pezzo è da pelle d’oca. Basterebbero questi tre brani per convincerci della ritrovata vena del suo autore, ma le buone notizie proseguono con il country rock ruspante della seguente What The Elephants Know, anch’essa sostenuta dal gran lavoro alla sei corde del fido John Shannon. Kick The Can è l’ennesima composizione vincente col piano di Oli Rockberger ancora sugli scudi e un impeto degno delle migliori ballads di Bob Seger. Tre anni fa Maddock collaborò attivamente alla riuscita del positivo penultimo album dei Waterboys, Modern Blues (quanto scarso è invece l’ultimo Out Of All This Blue, una delle peggiori delusioni dell’anno appena concluso!) scrivendo insieme a Mike Scott tre dei migliori episodi di quel lavoro. Ora James si riappropria di due di quelle canzoni modificandone l’arrangiamento con ottimi risultati: November Tale è rallentata accentuandone il malinconico fascino che ti entra sotto pelle,. Mentre Nearest Thing to Hip, impreziosita dallo splendido apporto del piano, è una canzone che veniva eseguita dal vivo già da molto tempo, e ci offre una delle migliori interpretazioni del suo autore che cita nel testo Charlie Parker, Davis e Coltrane modulando la voce con un seducente sussurro nello stile del maestro Van Morrison, fino all’esaltante conclusione affidata alle lancinanti note dell’armonica.

james maddock insanity 2

https://www.youtube.com/watch?v=_blB8xjMyTU

The Old Rocker diventerà sicuramente uno degli highlights nei concerti del songwriter inglese (ma ormai newyorkese d’adozione) col suo refrain fatto apposta per essere cantato insieme al pubblico, un piccolo divertissement che profuma di anni sessanta e non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Faces di Rod Stewart. La title track è un’altra perla, una canzone dall’incedere solenne e dal testo significativo che si colora di gospel nel finale, grazie al bell’intervento di un coro. Insanity Vs. Humanity fa il paio con la seguente The Mathematician, una classica ballata ad ampio respiro dalla  linea melodica che si fa apprezzare al primo ascolto. Fucked Up World è più arrabbiata, come suggerisce il titolo, e si movimenta nella seconda metà con l’ingresso dell’elettrica che si sovrappone al resto. The Flame, se mi passate il gioco di parole, non infiamma più di tanto, con gli archi ed il piano dal tocco jazzato a creare un’atmosfera da musical di Broadway, un po’ troppo zuccherosa. Torniamo comunque su livelli elevatissimi con la superlativa Nearest Thing To Hip di cui vi ho già parlato, e con la conclusiva Fairytale Of Love, personale rivisitazione della fiaba di Hansel e Gretel, delicato acquarello suonato in punta di spazzole dal batterista degli Spin Doctors Aaron Comess e con ricami deliziosi di Rockberger che fa il verso al professor Roy Bittan. Davvero un gran bel ritorno, James Maddock è vivo e in piena forma!

P.S.: Se ci riuscite, procuratevi anche il Live At Daryl’s House, già uscito da tempo e venduto solo sul sito  http://jamesmaddock.net oppure nelle sedi dei concerti che speriamo possano presto toccare anche la nostra penisola. Ne vale assolutamente la pena, come potete verificare nella nostra recensione http://discoclub.myblog.it/2017/03/25/un-rocker-inglese-di-casa-a-new-york-james-maddock-live-at-daryls-house/ !

Marco Frosi

E Dopo Bob Sinatra Ecco A Voi Willie Dylan: Comunque Un Grande Disco! Willie Nile – Positively Bob

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Willie Nile – Positively Bob: Willie Nile Sings Bob Dylan – River House/Pledge CD

Robert Noonan, meglio conosciuto come Willie Nile, è un rocker di razza, ed è forse il mio preferito tra i  molti outsiders della musica americana: Willie è uno che non ha mai deluso, a partire dal fulminante esordio omonimo del 1980 (un disco da cinque stelle anche dopo 37 anni), passando per il suo seguito, l’inferiore ma sempre ottimo Golden Down (1981), per l’album della rinascita Places I Have Never Been (1991, forse il suo lavoro più “mainstream”, e comunque avercene), ma anche se si parla dei dischi usciti nel nuovo millennio, tra i quali i più riusciti sono senz’altro Streets Of New York (2006), American Ride (2013) ed il recente World War Willie (2016). Tutti album di puro rock’n’roll, suonato a cento all’ora da parte di uno degli artisti più sinceri ed onesti in circolazione; ma Nile non è solo un (grande) rocker, è anche un cantautore di alto livello, cosa che si notava appieno nel sorprendente If I Was A River (2014), intensissimo ed inatteso album di ballate pianistiche, tra gli episodi più riusciti della sua carriera. Oggi però Willie decide di riporre momentaneamente la penna per omaggiare in maniera lussuosa uno dei suoi miti assoluti, Bob Dylan, e lo fa con un lavoro bellissimo, Positively Bob: Willie Nile sings Bob Dylan, un disco nel quale il nostro riprende dieci gemme del leggendario cantautore di Duluth (volevate che dicessi menestrello?), dieci capolavori assoluti che Willie rifà in maniera decisamente intelligente, lasciando cioè intatte le melodie e le strutture di base, ma dando il suo tocco personale e condendo il tutto con una gran dose di ritmo e chitarre, rockeggiando alla grande e portando a casa quindi il risultato pieno: merito anche della solida band che lo accompagna (tra i cui membri troviamo la nostra vecchia conoscenza James Maddock alla chitarra, doppiato da Matt Hogan, con Johnny Pisano al basso e l’ex Spin Doctors Aaron Comess alla batteria) e del produttore Stewart Lerman, che ha dato al disco un suono diretto e potente.

Willie (che pare abbia anche pronto un disco di brani originali) ha realizzato l’album con il crowdfunding, tramite la piattaforma Pledge Music, e, se vogliamo, Positively Bob ha come unico difetto il fatto che contiene solo dieci pezzi (in un primo momento ne erano stati annunciati nove): due o tre brani in più, data anche la durata non lunghissima di quelli presenti, non avrebbero infatti guastato (ad esempio avrei visto benissimo Positively 4th Street, così da ricollegarsi anche al titolo del disco, un brano che secondo me Willie avrebbe rifatto in maniera meravigliosa). The Times They Are A-Changin’ apre il CD, ma la canzone, da inno folk che era, diventa un tipico rock’n’roll di Willie, ritmo alto e chitarre in gran spolvero: la melodia resta intatta ma il brano ne esce completamente trasformato ed anche, perché no, rivitalizzato. Con Rainy Day Women # 12 & 35 Nile è nel suo ambiente naturale: cadenzata, con una bella slide a dare un sapore bluesato, e con il motivo un po’ cambiato, risulta però decisamente trascinante; Blowin’ In The Wind è una sorpresa: velocissima, quasi punk, con un feeling alla Ramones e chitarre decisamente in palla, davvero strepitosa.

A Hard Rain’s A Gonna Fall (come vedete Willie predilige il Dylan dei sixties) è invece trasformata in un valzerone lento, una versione scintillante e piena d’anima di uno dei vertici assoluti del songbook dylaniano, anche se manca la drammaticità dell’originale, mentre I Want You ha una veste completamente diversa dal classico proveniente da Blonde On Blonde, è più intima, quasi folk, ma non per questo meno interessante, con un leggero feeling bucolico ed ottimi “fill” di piano. Subterranean Homesick Blues è puro rockabilly, anche se i ripetuti interventi dei backing vocalists sono forse superflui (ma rimane godibile), Love Minus Zero/No Limit era già splendida in origine, e qua Willie fa una mossa intelligente non cambiandola più di tanto, solo accelera leggermente il ritmo e ci consegna uno degli highlights del disco (sempre per il discorso che non basta cantare dei capolavori per fare un bel disco, bisogna anche essere bravi): davvero bellissima; Every Grain Of Sand è la più recente (1981), ma qui la versione di Bob è di quelle che non si possono avvicinare: Willie comunque se la cava egregiamente, con un delizioso accompagnamento elettroacustico (ed ancora un tempo un tantino più mosso). L’album si chiude con una squisita rilettura in puro country style di You Ain’t Goin’ Nowhere, nella quale il nostro tiene presente la versione dei Byrds, e con la rara Abandoned Love (una outtake di Desire che Dylan recuperò su Biograph), un folk-rock cristallino e dalla melodia stupenda, che Willie interpreta alla grande.

Positively Bob è dunque uno dei dischi più piacevoli da ascoltare tra quelli finora usciti in questo 2017, ed in generale anche nella discografia di Willie Nile, e mi ha messo una gran voglia di ascoltare il bis, nel quale magari il rocker di Buffalo potrebbe omaggiare il suo amico Bruce Springsteen.

Marco Verdi

14 Passi Nel Rock’n’Roll Stradaiolo di New York Con Garland Jeffreys – 14 Steps To Harlem

garland jeffreys 14 steps to harlem

Garland Jeffreys – 14 Steps To Harlem – Luna Park Records

Garland Jeffreys, a parere di chi scrive, è uno di quei musicisti di cui non si può fare a meno, infatti è un cliente abituale di questo blog, ne abbiamo parlato per il concerto a Pavia nel 2013, ma anche in altre occasioni, nelle uscite di The King Of In Between (11)  http://discoclub.myblog.it/2013/07/17/piccoli-ri-passi-della-storia-del-rock-garland-jeffreys-in-c/, Truth Serum (13) http://discoclub.myblog.it/2013/10/05/70-anni-e-non-sentirli-un-grande-garland-jeffreys-truth-seru/ , e la ristampa del live Paradise Theater, Boston October ’79, fatte con la consueta solerzia dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2016/03/10/quasi-piu-bello-del-vecchio-live-ufficiale-garland-jeffreys-paradise-theater-boston-october-79/ .In una lunga carriera tutt’altro che lineare (tra cambi di etichetta e lunghe pause ), questo signore, tra un decennio e l’altro, ha consegnato ad ogni tappa almeno un grande disco: Ghost Writer (77), Escape Artist (81), Don’t Call Me Buckwheat (91), e Truth Serum (13) senza dimenticare Live Hot Point (08) con Elliott Murphy e Chris Spedding, piccoli e grandi capolavori nati dalle sue radici che affondano nelle “backstreets” di Brooklyn.

Questo nuovo lavoro 14 Steps To Harlem. prodotto da Garland con il nostro “amico” James Maddock (se ne parlato anche recentemente per il Live At Daryl’s House http://discoclub.myblog.it/2017/03/25/un-rocker-inglese-di-casa-a-new-york-james-maddock-live-at-daryls-house/ ), vede l’apporto di musicisti di riguardo, tra i quali Tom Curiano alla batteria, Brian Stanley al basso, Charly Roth e Mark Bosch alle chitarre, Brian Mitchell e Ben Stivers alle tastiere, con la partecipazione al violino di Laurie Anderson, il fido “compagno di merende” Alan Freedman alla chitarra elettrica, e la figlia Savannah in un duetto e al pianoforte, per dodici brani che danno vita ad un nuovo breve viaggio sui sentieri del migliore rock’n’roll. Vediamo allora cosa ci riserva questo nuovo 14 Steps To Harlem: che parte con il ritmo incalzante di una grintosa When You Call My Name, per poi passare subito allo “shuffle” di Schoolyard Blues, seguito dalla title track 14 Steps To Harlem, una magnifica ballata “soul” che vede la partecipazione ai cori di James Maddock e Cindy Mizelle (cantante e corista di Springsteen), e al pop raffinato di una amorevole Venus (dedicata alla moglie). In ogni disco di Garland che si rispetti non può mancare il “reggae”, e quindi eccoci accontentati con il ritmo di una ballabilissima Reggae On Broadway, poi bilanciata con la splendida ballata Times Goes Away, cantata in duetto con la figlia Savannah, anche al pianoforte e James Maddock alla lap-steel guitar, per poi passare ancora ai ritmi “latini”, tra fisarmonica e mandolino, di una danzereccia Spanish Harlem, e alle delicate e soffuse note di una più che sofferente I’m A Dreamer.

I 14 passi proseguono con due cover, prima Waiting For The Man, un sentito omaggio ai Velvet Underground dell’amico Lou Reed, interpretata da Garland in maniera simile a livello vocale, e una intrigante versione “slow” di Help dei Beatles, dove giganteggia la fisarmonica di Brian Mitchell, e per chiudere il rap moderno di una Colored Boy Said, ma soprattutto la “perla” dell’album, la pianistica e struggente ballata Luna Park Love Theme, impreziosita dal violino magico della moglie di Lou Reed, Laurie Anderson, un brano che avrebbe fatto la sua “sporca” figura anche su Don’t Call Me Buckwheat o sul mitico Ghost Writer (per il sottoscritto i suoi dischi migliori).

Questo arzillo 74enne ( che ho visto personalmente, qualche anno fa, come ricordato saltellare sul palco in Piazza Della Vittoria a Pavia), ancora oggi rimane un artista raffinato, eclettico e istrionico, dalla voce calda e amichevole, stimato dai colleghi (nomi come Bruce Springsteen, Dr.John, David  Bromberg, Joe Ely, John Cale, Willie Nile, Alejandro Escovedo, James Taylor, Phoebe Snow,  e molti altri ancora), ma poco apprezzato (purtroppo) dal pubblico di massa, anche se il suo status di artista di culto gli ha permesso, nonostante tutto, nell’arco di una carriera quarantennale, di disseminare dozzine di splendide canzoni (anche piccoli capolavori), senza mai lasciarsi travolgere dai tempi e dal “cliché” del rock’n’roll business, e per un tipo che fin dagli anni ’70 faceva scorrere nei solchi dei suoi dischi un misto di generi come rock, pop, reggae, ska, black music, soul e anche dance, testimonia, nel bene e nel male che l’artista Garland Jeffreys è ancora vivo, e rimane un musicista essenziale per New York City, e per tutti gli amanti della buona musica.!

Tino Montanari