Il Nuovo Capitolo Del “Cantore” Della Solitudine. Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles

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Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles – Gypsy Eyes Music

Da quando è tornato sobrio, esclusivamente per merito di sua moglie Cindy, il buon Malcolm Holcolmbe sembra rinato a nuova vita musicale, incidendo periodicamente negli ultimi anni una serie di ottimi lavori come Down The River (12), Pitiful Blues (14), The RCA Sessions (15), e Another Black Hole (16), tutti recensiti da chi scrive, su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2016/03/09/leggenda-dellunderground-americana-malcolm-holcombe-another-black-hole/ . Di conseguenza, di questo signore e della sua vita avventurosa, i lettori di questo blog sanno già tutto, quindi tralascio di ripercorrere per l’ennesima volta le sue note biografiche e la sua carriera, che lo hanno portato ad incidere questo undicesimo album in studio. Una delle prime cose che si nota ascoltando Pretty Little Troubles, è il forte contrasto tra la musica e la voce di Malcolm, e questo lo si deve in gran parte al noto polistrumentista e produttore Darrell Scott (autore in passato di svariati ottimi lavori solisti), che ha radunato negli Outlaw Music Sanctuary Studios in quel di Crawford nel freddo Tennessee, una serie di eccellenti musicisti, tra i quali il fidato Jared Tyler al dobro, mandolino e voce, Verlon Thompson alle chitarre acustiche e slide, Marco Giovino alla batteria, Dennis Crouch al basso, Joey Miskulin alla fisarmonica, e il bravo Kenny Malone alle percussioni, senza dimenticare il contributo di stagionati turnisti di area come Jelly Roll Johnson, Mike McGoldrick, e Jonathan Yudkin,  tutti impegnati ad assecondare Holcombe e la sua chitarra, suonata come sempre con il suo personalissimo “fingerpicking”.

I “piccoli problemi” di Malcolm si aprono  sulla sorprendentemente “bluesy”  Crippled Point O’View, con un arrangiamento leggermente funky, a cui fanno seguito la commovente Yours No More (dedicata agli immigrati, il country-folk quasi da “campi di cotone” di una briosa Good Ole Days, la sofferta elegia di Outta Luck, con in sottofondo l’armonica di Jelly Roll Johnson. Troviamo anche l’atmosfera “zingaresca” della bellissima South Hampton Street, dove oltre alla voce di Holcombe svetta la fisarmonica di Miskulin, come pure nella seguente splendida ballata Rocky Ground, mentre la title track Pretty Little Troubles è di nuovoun moderno blues acustico, eseguito come lo avrebbe suonato il bravo Steve Seasick, per poi passare alla divertente Bury, England, dove il dobro di Jared Tyler gareggia in bravura con la chitarra di Malcolm. Il sound spoglio e acustico di Pretty Little Troubles si manifesta anche nella chitarra e voce di Damm Weeds, per poi ampliarsi con una strumentazione da brano  celtico come in The Eyes O’Josephine, una ballata romantica popolare senza tempo, e avviarsi alla fine dei “problemi” con una rustica e incalzante The Sky Stood Still, valorizzata alle corde dal bravo Jonathan Yudkin, e chiudere con gli accordi crepuscolari di una intima e scarna We Struggle.

Questo “signore” ormai lo ascolto da oltre vent’anni, e oggi come ieri Malcolm Holcombe mi pare un cantautore apparentemente di un’altra epoca, in quanto principalmente il nostro in fondo è un musicista di montagna, che scrive canzoni sempre intriganti (soprattutto quelle basate sulle proprie esperienze), con una voce che raschia in gola e raccoglie ogni suono, partendo dal primo Dylan, passando per Johnny Cash, e finendo con il Tom Waits più notturno. Amato da molti musicisti (in primis da Steve Earle e Lucinda Williams) e riconosciuto dalla critica internazionale, Holcombe si conferma un artista essenziale nel proporre il suo “talkin’ blues”, raccontando storie di provincia che lui vive sulla propria pelle (come in questo ultimo Pretty Little Troubles), cantate con voce calda e profonda, con risultati che lo innalzano ancora una volta alla pari dei grandi storytellers americani, e verso il “gotha”, se esiste, dei cantautori di culto!

Tino Montanari

Una Leggenda Dell’Underground “Americana”! Malcolm Holcombe – Another Black Hole

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Malcolm Holcombe – Another Black Hole – Gypsy Eyes Music / Proper Records

Per chi scrive è sempre un grande piacere occuparsi di un nuovo album di Malcolm Holcombe (con questo siamo arrivati a quattro negli ultimi anni http://discoclub.myblog.it/2015/04/30/musica-che-graffia-lanima-malcolm-holcombe-the-rca-sessions/ ), in quanto l’intensità della sua musica, sempre con testi importanti, accompagnata da una voce tagliente, imbevuta probabilmente da mille Bourbon (oltre che da mille sigarette), lo porta ad essere uno degli ultimo “narratori underground” della musica Americana. In occasione del suo ultimo passaggio dalle nostre parti ( fu lo scorso anno, quando tenne  un magnifico concerto anche al Bar Trapani in quel di Pavia, a cui ha assistito pure chi vi scrive), ci aveva anticipato che stava lavorando ad un nuovo lavoro, e si auspicava di poter coinvolgere nello sviluppo delle canzoni la magica chitarra del grande Tony Joe White.

Fortunatamente il progetto è andato in porto, Malcolm ha radunato nei “mitici” Room & Board Studios di Nashville la sua abituale band, composta da musicisti stellari, tra i quali ricordo l’abituale pard Jared Tyler alla chitarra, banjo, mandolino e dobro, David Roe al basso, Ken Coomer (Wilco, Uncle Tupelo) alla batteria e percussioni, e come ospiti Roy Wooten Aka Future Man alle percussioni aggiunte, la brava Drea Merritt alle armonie vocali, e, come detto, Tony Joe White, presente con la sua chitarra in gran parte dei brani, il tutto con la produzione del pluridecorato Ray Kennedy (Steve Earle, Billy Joe Shaver).

L’album prende il via in grande stile con Sweet Georgia, un moderno bluegrass con il banjo di Tyler a dettare il ritmo, seguita dalla title track Another Black Hole, uno “swamp blues” dove entra in azione la slide guitar di White, per poi passare al cadenzato country di una solare To Get By, alle note quasi narrate di una suggestiva Heidelberg Blues, e ad un accenno di blues nella viscerale Don’t Play Around, accompagnata dalla voce imbevuta di soul della Merritt. Si riparte con il banjo a mille di una “appalachiana” Someone Missing, il “rocking blues” di Papermill Man dove si evidenzia ancora l’anima soul di Drea, mentre l’acustica September è un breve colloquio quasi recitato dal vocione di Malcolm, per poi ritornare allo “swamp country” di Leavin’ Anna (chissà perché mi ricorda Polk Salad Annie dell’ospite Tony Joe White? Mistero!), andando a chiudere con le dolci melodie di Way Behind, da sempre marchio di fabbrica del suo inimitabile “sound”.

Il solito “modus operandi” di Holcombe persiste in tutte le canzoni di questo Another Black Hole, brani che mescolano country, bluegrass, blues e folk, su testi poetici che raccontano storie di vita della North Carolina, da un artista maestro del “fingerpicking” che ultimamente sforna dischi a ritmo costante (dopo la sua ammirevole rinascita artistica), aumentando e consolidando la sua fama di artista di “culto”. Nonostante un talento infinito, Malcolm Holcombe è il tipico caso di un cantautore destinato ad una piccola cerchia di adepti, un “beautiful loser”, nel senso più vero del termine, che prosegue imperterrito a fare la sua musica come una sorta di Tom Waits dei Monti Appalachi, a scrivere canzoni di cristallina bellezza che vengono sublimate dalla sua caratteristica voce. Ci sono poche certezze nella vita, un nuovo album di Holcombe è una di queste, e chi avrà la voglia di andare a recuperare i suoi  dischi precedenti, non potrà che rimanere letteralmente conquistato dalla sua arte musicale.

Tino Montanari