La “Cura Jeff Lynne” Ha Fatto Bene Anche A Lui? Bryan Adams – Get Up!

bryan adams get up

Bryan Adams – Get Up! – Polydor CD

Chi frequenta abitualmente questo blog forse avrà notato la mia passione (proibita…insana?) per Jeff Lynne, grazie anche a Bruno che ospita le mie digressioni sui progetti che lo coinvolgono, sia come musicista che in cabina di regia. Infatti fin da quando, soprattutto a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, il barbuto leader della ELO era il produttore “da avere”, ho iniziato a collezionare tutta una serie di dischi che vedevano Jeff in consolle, fosse anche solo in una canzone, e se in molti casi quegli album me li sarei accaparrati comunque (George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison, Traveling Wilburys, Del Shannon, Randy Newman, Paul McCartney solo per citare i più noti), altre volte ho preso sulla fiducia lavori di (per me) perfetti sconosciuti, tipo Julianna Raye, Miss B Haven o Jimmy Nail, o altri che conoscevo, ma che in me suscitavano scarso interesse (Regina Spektor, Joe Walsh), solo per sentire un’altra volta il “Lynne touch”. Ora, giusto un mese dopo il suo ritorno sul mercato discografico con l’ottimo live registrato lo scorso anno a Hyde Park http://discoclub.myblog.it/2015/09/26/ritorno-grande-stilejeff-lynnes-elo-live-hyde-park/ , ed un mese prima del suo definitivo comeback come ELO leader e factotum (Alone In The Universe), Jeff è presente come produttore unico nel nuovo CD di Bryan Adams, Get Up!, che segue di un anno il controverso cover album del canadese, Tracks Of My Years e di ben sette l’ultimo lavoro con materiale originale, 11.

Adams, per quanto mi riguarda, rientra nell’ultima delle categorie che ho citato prima, cioè dei musicisti che mi interessano poco, e avrei fatto passare inosservato questo suo ultimo lavoro se non fosse stato per la presenza di Lynne: ho infatti sempre giudicato la proposta musicale del biondo canadese troppo annacquata e radio oriented per essere definita veramente rock, e d’altro canto troppo poco raffinata per farla ricadere nel campo dell’AOR, oltre al fatto che Bryan come songwriter è piuttosto ripetitivo e negli ultimi 25 anni non ha fatto altro che autoriciclarsi con poco costrutto (mentre, a suo favore, i primi dischi non erano malaccio, e soprattutto Cuts Like A Knife ed il million seller Reckless non sfigurerebbero in nessuna collezione che si rispetti). Invece, non so se grazie a Lynne o semplicemente per la sua lunga assenza discografica dalle scene, secondo me Get Up! è un buon disco, una proposta fresca e gradevole che, pur non essendo un capolavoro, si lascia ascoltare con piacere dall’inizio alla fine senza far rimpiangere i soldi spesi.

La mano di Jeff si sente eccome, in certi momenti sembra di ascoltare i Wilburys, ma le canzoni sono tutte di Bryan (scritte con il suo abituale partner Jim Vallance, tranne una con Lynne), e risultano le più fresche, genuine e godibili da molti anni a questa parte. Unico punto negativo non la durata esigua delle canzoni che anzi potrebbe essere quasi un pregio, ma il fatto che siano solo nove (vena inaridita? Nove brani in sette anni sono pochini), e che il brodo venga allungato con ben quattro versioni acustiche di pezzi già presenti (cosa che di solito si fa per le deluxe editions), mentre sarebbe invece bastato aggiungere un paio di covers oppure, dato che c’era Lynne a disposizione, scrivere una o due canzoni in più con lui, dato che non è proprio l’ultimo arrivato.

Ma, ripeto, a monte di tutto Get Up! è un bel dischetto, Lynne o non Lynne (che per me, sia chiaro, è la ciliegina sulla torta), che ci fa ritrovare un Bryan Adams finalmente in buona forma, un lavoro molto rock’n’roll e con tante chitarre: infatti, a parte Mr. ELO che suona anche tutto il resto (piano, basso e batteria, ma avrei preferito un vero batterista), nel disco troviamo solo chitarristi (oltre a Bryan, Jeff e Vallance, ci sono Phil Thornalley che si occupa degli assoli, Rusty Anderson, che è anche il lead guitarist della live band di McCartney, e Keith Scott, anch’egli da sempre a fianco di Adams). L’album si apre con la trascinante You Belong To Me, un rockabilly decisamente wilburyiano (sul genere di End Of The Line), con un ritmo ed una melodia convincenti: giustamente è stata scelta come primo singolo. Go Down Rockin’ è più roccata (appunto), ha un riff potente e chitarre dappertutto: come canzone in sé non è un masterpiece, ma ha il tiro giusto e centra il bersaglio; We Did It All è invece una buona ballad in cui Lynne si sente in ogni nota, tappeto di chitarre acustiche, chitarre elettriche twang, riverberi e melodia che piace al primo ascolto, mentre That’s Rock And Roll è esattamente come suggerisce il titolo, chitarre e ritmo a palla, musica just for fun ma fatta bene.

Don’t Even Try è invece uno dei pezzi migliori, e rivela più che mai il fatto che la presenza di Jeff qualche influenza su Bryan la deve aver pure avuta: infatti ci troviamo di  fronte ad un delizioso pop-rock molto sixties, con una melodia beatlesiana ed un arrangiamento vintage che ricorda Orbison, due influenze raramente palesate da Adams in passato; la gioiosa e solare Do What Ya Gotta Do è il brano scritto con Lynne, e si sente, in quanto l’occhialuto produttore qui è, come dicono in America, all over the place, ed anche la sua voce emerge quasi di più di quella di Bryan, praticamente un duetto. Thunderbolt è più rock, l’unico pezzo con assoli “cattivi”, anche se la canzone in sé non è niente di che (e qui si sente più che mai l’assenza di un vero batterista), mentre Yesterday Was Just A Dream è una squisita ballata elettrica avvolta da sonorità calde; l’album vero e proprio (che effettivamente è molto corto) si chiude con Brand New Day, una rock song a tutto tondo e forse quella più nello stile tipico di Adams, anche se il suono è palesemente figlio del signore che sta in consolle. Alla fine, come già detto, quattro versioni voce e chitarra di brani già ascoltati in precedenza (Don’t Even Try, We Did It All, You Belong To Me e Brand New Day, forse i migliori), che non aggiungono nulla se non minuti in più.

In definitiva, se siete fans di Lynne Get Up! è un gustoso antipasto nell’attesa del nuovo disco di “Mr. Blue Sky”, mentre se vi piace Bryan “Wilbury” Adams troverete un disco piacevole che riscatterà in parte le ultime prove opache del rocker dell’Ontario. E comunque io non riesco a smettere di canticchiare You Belong To Me.

Marco Verdi

Il Miglior Disco Dal Vivo Di Tom? Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State

tom petty southern accents live

Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State – Gossip 2CD

Per principio di solito tendo a bypassare i sempre più molteplici CD tratti da trasmissioni radiofoniche dell’epoca, in primo luogo perché faccio già fatica a star dietro alle uscite “ufficiali”, in secondo perché la fregatura (leggasi qualità di registrazione insufficiente) è sempre dietro l’angolo, ed in ultima battuta perché questi prodotti è giusto chiamarli con il loro nome: bootleg. L’unica eccezione l’ho fatta per questo live di Tom Petty con i suoi Heartbreakers messo fuori dalla Gossip (???), che documenta la registrazione completa del suo homecoming concert del 1993 a Gainesville, Florida, per la semplice ragione che considero il biondo rocker ed i suoi compari la migliore rock’n’roll band sul pianeta assieme ai Rolling Stones ed a Bruce Springsteen & The E Street Band ma, a differenza delle Pietre e del Boss (che ultimamente hanno aperto gli archivi dei concerti), sono sempre stati un po’ avari sul fronte delle uscite ufficiali dal vivo (a parte il cofanetto pubblicato qualche anno fa, che infatti è uno dei classici dischi da isola deserta). Facendo ricerche online, ho letto poi che la qualità del suono di questo Southern Accents In The Sunshine State era considerata tra l’ottimo e l’eccellente, e con mio grande godimento posso confermare che esistono album dal vivo “regolari” che suonano molto peggio di questo.

Nel 1993 Tom era in un periodo di grazia: veniva da due album di grande successo (Full Moon Fever e Into The Great Wide Open, il suo periodo Jeff Lynne), la sua intesa sul palco con la band era ormai a prova di bomba (oltre ai veterani Mike Campbell e Benmont Tench, c’erano ancora Stan Lynch alla batteria prima di lasciare per darsi…all’oblio, e Howie Epstein, prima che la droga se lo portasse via per sempre) e, grazie anche alla sua militanza nei Traveling Wilburys, la sua popolarità era alle stelle. Venendo a questo doppio CD, e già detto del suono ottimo, sottolineerei prima di una rapida disamina del contenuto la spettacolarità della scaletta, che comprende il meglio degli ultimi due album, vari classici del passato, qualche brano “oscuro”, un paio di interessanti covers e due brani offerti in anteprima.

L’inizio tramortirebbe una mandria di tori: si passa dalla potente Love Is A Long Road, brano oggi un po’ dimenticato ma perfetto per aprire un concerto, alla splendida Into The Great Wide Open (Petty canta benissimo), alla byrdsiana Listen To Her Heart, fino alla grandissima I Won’t Back Down, nella quale tutto il pubblico canta insieme a Tom (e pure io dal mio divano). Anche Free Fallin’ è un perfetto singalong, mentre con le seguenti Psychotic Reaction (un oscuro brano anni sessanta dei Count Five) e Ben’s Boogie, Petty riposa per un po’ le corde vocali, in quanto la prima vede Lynch come cantante solista (con Tom all’armonica) e la seconda è una trascinante improvvisazione strumentale guidata dalle evoluzioni pianistiche di Tench. Tom si riprende il centro del palco con la lunga Don’t Come Around Here No More, da sempre uno degli highlights dei suoi show (ed una vetrina per la bravura di Campbell, sentite il finale), per poi presentare due brani all’epoca nuovi (erano gli inediti del Greatest Hits in uscita in quei giorni): la gradevole Something In The Air (altro brano oscurissimo di una band ancor più sconosciuta, i Thunderclap Newman) e la strepitosa Mary Jane’s Last Dance, grandissima canzone che vede, in quasi nove minuti, Tom e Mike duellare mirabilmente alle chitarre, un pezzo che andrebbe fatto sentire a chiunque sostenga che il rock è morto. Chiudono il primo CD due deliziose canzoni proposte con un inedito arrangiamento acustico, Kings Highway e A Face In The Crowd (ed il pubblico è sempre più caldo).

Il secondo dischetto comincia sempre acustico, con una sorprendente versione, ricca di feeling, del classico dei Byrds Ballad Of Easy Rider (perfetta per la vocalità di Petty), seguita da due cover (elettriche) della celebre Take Out Some Insurance di Jimmy Reed, dove gli Spezzacuori bluesano come se non sapessero fare altro, ed una pimpante Thirteen Days di JJ Cale. Ed ecco un altro brano-manifesto di Petty, quella Southern Accents che, nel 1985, diede il titolo ad uno dei dischi più controversi di Tom (ma la canzone è magnifica), con a ruota la divertente Yer So Bad, con un altro ritornello killer; a seguire abbiamo due canzoni inedite, che a tutt’oggi non hanno una versione in studio: Drivin’ Down To Georgia e Lost Without You (assieme a Something In The Air presenti proprio in questa versione anche nella Live Anthology), due pezzi discreti ma Tom sa fare di meglio. Ed ecco che si preparano i fuochi d’artificio finali: Refugee non ha bisogno di presentazioni, è forse la signature song di Petty per antonomasia insieme ad American Girl, ma anche Runnin’ Down A Dream fa la sua porca figura (e Campbell arrota alla grande), mentre Learning To Fly, full band a differenza degli ultimi anni in cui Tom la fa acustica, è forse ancora meglio dell’originale (e ce ne vuole). Finale pirotecnico con una trascinante Rainy Day Women # 12 & 35 (dopo Byrds e Cale, non poteva mancare Bob Dylan per completare l’omaggio alle influenze di Tom), subito seguita dalla già citata American Girl, più che una canzone una vera e propria celebrazione.

Congedo acustico e solitario con la poco nota Alright For Now: Live Anthology a parte (in cui peraltro tre brani di questo concerto appaiono), come scrivo nel titolo del post questo Southern Accents In The Sunshine State è semplicemente il miglior album dal vivo sul mercato, DVD compresi, di Tom Petty, al punto da farmi quasi dimenticare che è un bootleg.

Marco Verdi

Più Che Un Tributo, Una Goduria! The Art Of McCartney

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The Art Of McCartney – Arctic Poppy 2CD – Deluxe 2CD/DVD – Super Deluxe 4CD/DVD/4LP/USB

E’ solo negli ultimi anni che la critica “intelligente” ha riabilitato e sdoganato Paul McCartney. Infatti, per decenni il buon Paul era considerato l’anima poppettara e commerciale dei Beatles, a lui si preferiva di gran lunga John Lennon, che rappresentava alla perfezione l’essenza di artista radical-chic, con cuore a sinistra e portafoglio a destra (e lussuoso appartamento nell’Upper West Side di New York), o anche George Harrison (da sempre il Beatle preferito da chi scrive), per la sua riservatezza, la sua spiritualità, il suo sarcasmo e la sua elegante e raffinata tecnica chitarristica (Ringo Starr è invece sempre stato visto come il simpaticone del gruppo e basta).

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A concorrere all’opera di riabilitazione artistica di McCartney un posto di primo piano lo occupa questo sontuoso tributo appena uscito, The Art Of McCartney, nel quale le canzoni dell’ex scarafaggio vengono rivisitate da una serie impressionante di artisti.

Il curatore e produttore del progetto, Ralph Sall, è un esperto del settore, avendo in passato pubblicato lo splendido Deadicated, che omaggiava i brani dei Grateful Dead, ed il popolarissimo Common Thread, dedicato agli Eagles (Stoned Immaculate, che riguardava le canzoni dei Doors, è meno conosciuto). Sall ha impiegato ben undici anni per mettere insieme il cast presente su questo tributo (non faccio nomi per ora per non ripetermi dopo), ma il risultato finale lo premia oltremodo: The Art Of McCartney è un lavoro splendido, nel quale tutti gli artisti coinvolti hanno dato il meglio, con esiti quasi sempre eccellenti, specie nel primo CD, che sfiora a mio parere il massimo dei voti.

art of mccartney paul mccartney

Certo, ci sono dei brani sottotono, qualche assenza importante (la più clamorosa quella di Ringo, ma aggiungerei anche quella di Elvis Costello, che alla fine degli anni ottanta collaborò con Paul alla stesura di varie canzoni), ma è il classico pelo nell’uovo: The Art Of McCartney è senza dubbio il tributo dell’anno, ed uno dei più belli degli ultimi anni.

Merito anche dell’idea di Sall di usare come house band, tranne pochi casi, il gruppo che da anni accompagna Paul dal vivo, e che quindi conosce le canzoni a menadito: Brian Ray, Rusty Anderson, Paul “Wix” Wickens ed Abe Laboriel Jr.

E poi ci sono, naturalmente, le canzoni, molte delle quali sono tra i capolavori degli ultimi cinquant’anni. L’album esce in versione standard doppia con 34 canzoni, doppia con un DVD che presenta un documentario sulla realizzazione (che al momento non ho ancora visto), ed una Super Deluxe Edition con un CD aggiuntivo con otto brani extra, un altro CD che però è la parte audio del documentario, il DVD, quattro LP colorati con tutte le 42 canzoni ed una chiavetta USB a forma di basso Hofner con i pezzi dei primi due dischetti (oltre ad uno splendido libro, vari poster, ecc.).

Ed è proprio questa versione che vado ad esaminare.

art of mccartney billy joel maybe

Il tributo si apre con il redivivo Billy Joel che rifà alla grande Maybe I’m Amazed, la prima grande canzone del Paul solista: Billy è in ottima forma, è ancora in possesso di una gran voce, e la band fornisce un background lucido e potente. Non male come inizio https://www.youtube.com/watch?v=8nJZwRIy8G8 .

art of mccartney dylan

Il fiore all’occhiello del lavoro è senza dubbio la presenza di Bob Dylan: il Vate rifà alla sua maniera Things We Said Today, uno dei brani simbolo del periodo noto come Beatlemania, la band lo segue con discrezione e Bob dylaneggia alla grande, secondo me divertendosi non poco https://www.youtube.com/watch?v=efr5XyMd-sw .

art of mccartney ann wilson

Mi sono sempre piaciute le Heart (soprattutto Nancy Wilson, e non solo musicalmente), e con Band On The Run, una delle grandi canzoni di Paul, hanno gioco facile: il brano si impenna come al solito con l’arrivo del tema centrale ed Ann Wilson si dimostra una cantante di peso (battuta scontata, lo so) https://www.youtube.com/watch?v=mXBLUmAo0j8 .

Steve Miller negli ultimi anni ne ha azzeccate poche, ma Junior’s Farm è una pop song gradevole e Steve non delude; di primo acchito The Long And Winding Road non è il primo pezzo che assocerei a Cat Stevens (o Yusuf che dir si voglia), ma il Gatto è ancora un grande e la sua versione, pianistica e senza l’overdose di archi dell’originale dei Beatles, è ben fatta.

Quel piacione di Harry Connick Jr. se la vede con My Love, un brano che mi ha sempre lasciato indeciso: melodia bellissima ma arrangiamento troppo zuccheroso nell’originale di Paul (anzi, dei Wings), e qui il dubbio rimane perché Harry non cambia una virgola, anche se la voce non è male.

art of mccartney brian wilson

Ed ecco uno degli highlights del triplo CD: Brian Wilson si porta la sua band da casa e ci regala una versione scintillante di Wanderlust https://www.youtube.com/watch?v=kG9tXM_x_1o , uno dei brani di punta di quel grande disco che era Tug Of War. L’ex leader dei Beach Boys è in forma smagliante, e se non fosse per il “giovanotto” che incontreremo tra due brani, la palma del migliore se la aggiudicherebbe lui. Bluebird, per contro, è un pezzo che non ho mai amato, e Colinne Bailey Rae non fa molto per farmi cambiare idea.

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Non pensavo di dover arrivare nel 2014 per ascoltare la versione definitiva di Yesterday, un brano che vanta circa 315.600 riletture, eppure Willie Nelson riesce, con il solo ausilio della sua voce, di tre strumenti in croce e di tonnellate di feeling, a regalarci qualcosa di meraviglioso, al limite del commovente: a 81 anni Willie è ancora uno dei numeri uno, e che voce… https://www.youtube.com/watch?v=0KZYBvkVq0M

Da brividi.

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Il mio amico Jeff Lynne non ha mai fatto mistero di essere un grande fan di McCartney, e la sua versione della bella Junk ha il suo tocco tipico (oltre ad un suo intervento in sede di produzione) e si rivela godibilissima, come peraltro anche l’ex leader dei Bee Gees (e purtroppo l’unico in vita), Barry Gibb, con una divertente e scanzonata rivisitazione di When I’m 64.

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Confesso di non conoscere Jamie Cullum, ma la sua Every Night è fatta con gusto e misura, mentre un altro momento clou è la riproposizione di Venus And Mars/Rock Show da parte dei KISS: Gene Simmons e Paul Stanley (gli altri due non ci sono) fanno quello che sanno fare meglio, cioè rock’n’roll, e la canzone ne esce rivitalizzata, addirittura non di tanto inferiore all’originale.

Paul Rodgers è ancora in possesso di una gran voce, e Let Me Roll It è una grande canzone: il risultato non può che essere esplosivo, meglio di quanto faccia Roger Daltrey con Helter Skelter, ma forse solo perché il brano mi piace di meno. Perfino i Def Leppard si ricordano di essere una rock band che quando vuole sa suonare, e la loro Helen Wheels ha un sapore boogie che l’originale non aveva; viceversa, i Cure non mi sono mai piaciuti, anche se alle prese con Hello Goddbye (insieme al figlio di Paul, James McCartney) riescono a non deludere https://www.youtube.com/watch?v=uDxDW9jEjHg .

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Billy Joel apre anche il secondo CD, stavolta con la potente Live And Let Die; stesso discorso fatto prima; non pensavo che Let It Be, un capolavoro ma comunque una ballata, potesse riuscire bene nelle mani di Chrissie Hynde, che è essenzialmente una rockeuse, ma la bruna leader dei Pretenders fornisce un’interpretazione di gran classe https://www.youtube.com/watch?v=0egprfEy6yM .

Robin Zander e Rick Nielsen dei Cheap Trick si occupano di Jet, e qui più che in altri momenti affiora l’effetto karaoke, in quanto il brano è proposto pari pari; meno male che c’è Joe Elliott, in ottima forma anche senza i Leppard, che rocka e rolla da par suo con la trascinante Hi Hi Hi.

Ancora le Heart, ancora brave con l’ottima Letting Go, mentre meno bene la seconda chance di Steve Miller: Hey Jude, grandissima canzone, non è secondo me assolutamente tagliata per lui (una provocazione: e chiamare a cantarla Julian Lennon, primogenito di John, dato che Paul l’aveva dedicata a lui?).

art of mccartney perry farrell

I peggiori del lotto sono però gli Owl City, una band di pop elettronico senza alcun talento (ma che ci fanno qui?), che provano a rovinare Listen To What The Man Said e non ci riescono del tutto solo perché la canzone è bella; Perry Farrell invece si dimentica di essere il leader dei Jane’s Addiction e mi stupisce con una versione decisamente in parte di Got To Get You Into My Life, mentre mi aspettavo di più da Dion: il rocker del Bronx, alle prese con Drive My Car, sembra infatti avere il freno a mano tirato.

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Allen Toussaint è un grandissimo arrangiatore, un ottimo pianista ma come cantante non è mai stato il massimo, e pertanto alla sua Lady Madonna manca qualcosa (peccato), ed anche Dr. John, solitamente una sicurezza, arranca non poco con Let ‘em In, a causa anche della pochezza del brano.

art of mccartney dr.john

Per fortuna termina questo piccolo momento di crisi con il grande Smokey Robinson: So Bad è una bella canzone romantica, con il tasso zuccherino tenuto a bada, e poi il vecchio Smokey ha ancora una grande voce. I poco noti Airborne Toxic Event rilasciano un’ottima No More Lonely Nights in versione ballata acustica, una piccola perla, mentre Alice Cooper è una delle migliori sorprese del tributo: non pensavo che un giorno avrei trovato il suo nome nella stessa frase con la parola “classe”, ma provate ad ascoltare la sua Eleanor Rigby e poi mi direte. Da non credere https://www.youtube.com/watch?v=sdsevtSO_FU .

art of mccartney bb king

Non amo molto il reggae, ma Toots Hibbert, insieme con Sly & Robbie, rilascia una versione divertente e solare di Come And Get It (un brano a suo tempo ceduto da Paul ai Badfinger), l’enorme (in tutti i sensi) B.B. King bluesa da par suo con On The Way (alzi la mano che si ricorda la versione di Paul, era su McCartney II), mentre chiude il doppio CD “regolare” il rossocrinito Sammy Hagar, che alle prese con Birthday ci regala una versione un po’ sguaiata e sopra le righe.

art of mccartney sammy hagar

Il terzo dischetto vede ancora sotto i riflettori Robert Smith, stavolta senza i Cure: C Moon non è mai stata una gran canzone, e Smith non è certo quello che può migliorarla; Booker T. Jones invece personalizza alla grande Can’t Buy Me Love, sostituendo la parte cantata con il magico suono del suo organo: eccellente. Ma il top il CD lo raggiunge con Ronnie Spector, che fornisce una grande interpretazione di P.S: I Love You: con alle spalle un wall of sound che avrebbe fatto felice l’ex marito Phil Spector, l’ex leader delle Ronettes tira fuori una voce modificata dagli anni e dai vizi, ma profonda e carismatica come poche (alla Marianne Faithfull per intenderci). Meritava di stare nei primi due CD. Sempre scuderia Spector con Darlene Love: qui la voce è ancora purissima, e All My Loving è sempre bella; Ian McCulloch, ex frontman di Echo & The Bunnymen, non è un granché, e così anche For No One risulta un po’ piatta.

La band indie svedese Peter, Bjorn & John rifà molto bene Put It There, una delle ballate acustiche di Paul che preferisco (complimenti anche per la scelta), mentre la “nonna del rock” Wanda Jackson mostra grinta e feeling nella mossa Run Devil Run, nonostante la voce da cartone animato. Chiude ancora Alice Cooper, che dimostra di essere in stato di grazia roccando con finezza e misura con la coinvolgente Smile Away.

Un opera importante quindi, nonostante qualche episodio di livello inferiore: so che questo tributo ha ricevuto critiche controverse da più parti, ma per quanto mi riguarda rientra nella categoria imperdibili.

Marco Verdi

*NDB Come forse sapete anche il titolare del Blog, cioè il sottoscritto è un fan dei Beatles, e di conseguenza di Paul McCartney, anzi alla famose domande: preferisci i Beatles o i Rolling Stones? Ami di più Paul McCartney o John Lennon? Ho sempre risposto: entrambi (ma con una leggerissima preferenza per i primi in entrambi i quesiti, anche se non era politically correct)! Quindi mi unisco agli elogi di Marco per questa operazione, ma secondo me ci si può “accontentare” anche della versione in doppio CD!

Sconosciuti Ma Molto Bravi! – New American Farmers – Brand New Day

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New American Farmers – Brand New Day – Big Barncat CD

Anche se è targato 2013, questo è uno dei migliori dischi che ho ascoltato durante questo inizio anno.

*NDB Il disco è uscito nella primavera del 2013, ma se è bello, come vedete ultimamente sul Blog, se ne parla senza problemi. Uno “sgub” al contrario, il Tony Sales che suona la batteria nella band non è “quello” dei Tin Machine, che suonava il basso!

I New American Farmers sono un duo formato da Paul Michael Knowles e Nicole Storto, e sono la naturale evoluzione dei Mars, Arizona, un monicker sotto il quale hanno inciso ben quattro album, decisamente ardui da reperire http://www.youtube.com/watch?v=5XEIawDp0iY .

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Ma l’interesse al momento è spostato verso il lavoro di esordio dei NAF (vado di acronimo per far prima), intitolato Brand New Day, che si rivela essere un piccolo grande disco di rock californiano, strettamente imparentato con il country (o come sono stati definiti dalla stampa USA, Cosmic Americana).

Un suono che ha decisi punti di contatto con i Byrds post-Sweetheart Of The Rodeo, quelli guidati da Roger McGuinn con Clarence White come alter ego, ma anche con Tom Petty, sia per il timbro vocale di Knowles sia perché comunque Petty stesso ha sempre avuto i Byrds come influenza principale; qualche punto di contatto si trova anche con i Beatles e, se non altro perché stiamo parlando di un duo uomo-donna, come la collaborazione tra Gram Parsons ed Emmylou Harris.

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E poi ci sono le canzoni: nove brani originali più una cover (ed una bizzarria finale), brani di valore assoluto, eseguiti con grande feeling dai due, assieme ad una manciata di amici (in session c’è perfino il quasi dimenticato Gene Parsons, un altro link con i Byrds quindi); ad un ascolto distratto potrebbero sembrare derivativi, ma la materia è talmente buona che alla fine Brand New Day brilla di luce propria e non riflessa.

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E infine Knowles e la Storto sono due songwriters coi fiocchi, e lo dimostrano facendoci tornare per una manciata di minuti ai gloriosi giorni in cui la California era, musicalmente parlando, al centro del mondo.

L’album dura circa poco più di mezz’ora, ed è diviso in due come i vecchi vinili (this side e that side), un altro rimando ad un periodo davvero irripetibile.

L’iniziale Everywhere sembra proprio provenire da uno degli ultimi LP dei Byrds: un brano vivace guidato dal banjo e dalla steel, con una grande melodia e la voce di Knowles giusto a metà tra Petty e McGuinn http://www.youtube.com/watch?v=-r5_l7qILfw .

Miglior inizio non ci poteva essere.

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La limpida Brand New Day sembra una outtake di Petty con George Harrison alle spalle (l’intro di slide è da brividi lungo la schiena), con poche ma suggestive note di piano come ciliegina: un brano splendido, sentire per credere; la tenue Sad Hotel, perfettamente cantata a due voci, è invece un’intensa ballata dominata dalla steel, un pezzo a dir poco evocativo.

Una tromba introduce la fluida Don’t Wait For Me Here, che fonde mirabilmente jingle-jangle byrdsiano ed armonie beatlesiane; Can’t Get It Out Of My Head è proprio il classico del 1974 scritto da Jeff Lynne per la ELO, qui riproposta con la sola voce femminile di Nicole ed un arrangiamento cameristico per steel e quartetto d’archi, che lascia nuda la bella melodia del brano http://www.youtube.com/watch?v=2Z1lLqeqJUI .

Una versione che dimostra anche una bella dose di inventiva da parte dei due.

Con l’acustica Faking The Divine torniamo ad atmosfere californiane, una canzone di spessore che sembra uscire dall’ultimo disco dei Byrds (prima dell’estemporanea reunion dei cinque membri originali), quel Farther Along che a mio parere andrebbe assolutamente rivalutato: bello l’assolo centrale per tromba mariachi.

La bella Good And Sober ha addirittura una ritmica boom-chicka-boom di cashiana memoria http://www.youtube.com/watch?v=7bKGZ7AdCEQ , con la voce di Paul che dà profondità ad un brano già bello di suo; Open Arms è invece un ottimo slow dai toni epici, con una melodia che ha qualche punto di contatto anche con The Band, ed un assolo distorto di chitarra a metà brano che crea un contrasto intrigante con il clima classico e rilassato del brano: uno degli highlights del CD.

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Hypocrite è più roccata e diretta http://www.youtube.com/watch?v=5XEIawDp0iY , mentre la pianistica How Do We Do It? è una dolce ballata eseguita con feeling enorme: voce, piano e nient’altro, come fa ogni tanto Neil Young.

Chiude la strana Sunday Market, che più che una canzone è un collage di versi di animali, voci umane e rumori ambientali, con in sottofondo un tizio (probabilmente Knowles) che ad un certo punto intona Che Sarà di José Feliciano, e per di più in italiano!

A parte il finale bizzarro, un disco comunque di tutto rispetto, una bella sorpresa che mi sento di consigliare a chiunque.

Sentiremo ancora parlare dei New American Farmers, o almeno lo spero.

Marco Verdi

Ristampe Che Passione 2! ELO & Jeff Lynne

*NDB. Il 2 al titolo l’ho aggiunto io, in quanto già utilizzato in un vecchio post, mentre aggiungo ancora che le ristampe verranno pubblicate la settimana prossima in Italia e quella successiva in Inghilterra e Stati Uniti, quindi le leggete in anteprima sull’uscita: la parola a Marco.

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Electric Light Orchestra: Live (Frontiers CD) Electric Light Orchestra: Zoom (Frontiers CD)

Jeff Lynne: Armchair Theatre (Frontiers CD)

In realtà all’inizio avevo pensato di intitolare questo post “Barrel Bottom Scratching”, in quanto è da un po’ di tempo che il mio amico Jeff Lynne tende a cucinare con gli avanzi (lo scorso anno un dischetto di cover, Long Wave, di appena mezz’oretta ed una collezione di nuove incisioni di successi della ELO dal titolo di Mr. Blue Sky), ma siccome tra queste tre ristampe ce n’è almeno una del tutto inedita (più o meno, e con qualche difettuccio come vedremo) ed una è di un disco introvabile da anni, qualche punto di interesse c’è.

Live.  Questo sarebbe il disco “inedito”, ma in realtà è la riproposizione su CD del DVD Zoom Tour Live, che conteneva un concerto televisivo del 2001 di Jeff & Band (ribattezzata ELO per chiari motivi di marketing, e forse per la presenza del tastierista Richard Tandy), ma, mentre nel DVD vi erano ben ventitre brani, in questo CD ne vengono riportati solo undici. I fans non potranno comunque esimersi dall’acquisto perché, e qui sta la finezza, quattro di questi undici non erano sul DVD (Secret Messages, Sweet Talkin’ Woman, Confusion e Twilight), e quindi udibili qui per la prima volta.  (So comunque che esistono altre esecuzioni, tra cui Rock’n’Roll Is King, tuttora inedite, quindi aspettiamoci qualche altra “sorpresa” futura). Non sto chiaramente a parlarvi delle canzoni, le conoscete tutti, ma dico solo che comunque il concerto è ottimo, suonato con vigore (nella band ci sono anche i fratelli Bissonette, Matt e Gregg, alla sezione ritmica, gente abituata a pompare) e con Jeff in forma smagliante; in più, come ulteriore bonus, ci sono due brani di studio nuovi di zecca: il rock’n’roll allo stato puro Out Of Luck, breve ma trascinante, e Cold Feet, un brano di quelli che Lynne scrive anche quando dorme.

Zoom.  Album uscito nel 2001 e che segnava il ritorno su disco della ELO da Balance Of Power del 1986, era in realtà un disco del solo Jeff (con Tandy in un solo brano, più due ospiti di prestigio come George Harrison e Ringo Starr), accreditato al suo ex gruppo un po’ per motivi commerciali ed un po’ per fare chiarezza (all’epoca girava infatti una band di ex membri della ELO che si faceva chiamare Electric Light Orchestra Part II, vi assicuro una cosa triste).

Un discreto album, con meno violoncelli e più chitarre, che vede Jeff in buona forma ma non smagliante: diciamo che ad undici anni dal suo ultimo album di materiale originale uno poteva pensare anche a qualcosa di meglio. Ci sono alcuni ottimi brani (la vigorosa Alright, che apre l’album all’insegna del rock, la languida Moment In Paradise, Just For Love, con il classico ELO-sound, il boogie trascinante Easy Money e la solare Melting In The Sun), ma anche diversi riempitivi (In My Own Time, A Long Time Gone, Lonesome Lullaby). L’impressione è quella di un’ottima cena, ma riscaldata e riproposta la sera dopo: manca la freschezza.

Anche qui troviamo due bonus track: una Turn To Stone presa dal DVD Zoom Tour Live ma non presente sul CD di cui vi ho parlato sopra (ma che burlone il nostro Jeff!) e One Day, un inedito registrato nel 2004 e superiore a molto del materiale presente su Zoom. E con Zoom, in teoria, si chiude la campagna di ristampe della ELO, anche se mancherebbero all’appello il Live del 1974 (tutt’altro che imperdibile) e la colonna sonora del film Xanadu, che però era per metà appannaggio di Olivia Newton-John.

Armchair Theatre.  A livello artistico, il migliore dei tre: primo (e unico, fino a Long Wave dello scorso anno) disco accreditato al solo Jeff, uscito nel 1990 e fuori catalogo da anni, Armchair Theatre è un disco veramente ispirato, che, se si escludono le tre cover presenti (Don’t Let Go, September Song e Stormy Weather), interpretate in maniera un po’ troppo scolastica, ci presenta alcune delle migliori canzoni scritte da Jeff, suonate e prodotte alla grande. Su tutte Lift Me Up, uno splendido e solare pop rock, influenzato chiaramente dai Beach Boys (ma tutto il disco profuma di California), con George Harrison che suona la slide da par suo. Non male anche il singolo dell’epoca, l’energica ma orecchiabile Every Little Thing, l’insolita Now You’re Gone, suonata con musicisti indiani e con una bella coda strumentale, la gradevole Don’t Say Goodbye, con tutti e due i piedi negli anni sessanta, e la bella What Would It Take, che sembra una outtake dei Traveling Wilburys. Per finire con la toccante ballad Blown Away, scritta con Tom Petty, e la squisita e breve folk song ecologista Save Me Now. Anche qui due bonus (ma pare che le outtakes fossero molte di più), la lenta Forecast, un brano nella media, e la scoppiettante e solare Borderline (versione alternata di un lato B dell’epoca), che non avrebbe sfigurato affatto sull’album.

Particolare per maniaci: le copertine delle reissues di Zoom e Armchair Theatre escono leggermente diverse da quelle originali. Accogliamo dunque con (moderato) giubilo queste tre ristampe, adesso però è ora che Lynne la smetta di sparpagliare canzoni inedite come bonus dei vari dischi (e nella versione giapponese di Zoom ce n’è un’altra, Lucky Motel, che non è quella di John Trudell) e che ci consegni un disco nuovo come si deve.

Marco Verdi                             

Anche Per La ELO Sono 40 Anni…E Jeff Lynne Si Fa In Due!

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Jeff Lynne: Long Wave

Jeff Lynne/ELO: Mr. Blue Sky – The Very Best Of Electric Light Orchestra – Frontiers Records CD

Prima precisazione (lo so, non si comincia una recensione con una precisazione, ma il titolare di questo Blog mi ha concesso piena libertà…): sono sempre stato nel dubbio se dire “gli” ELO o “la” ELO, e alla fine ho optato per la seconda, in quanto Orchestra in greco (lingua dalla quale deriva) è una parola femminile (fine della lezione).

Seconda precisazione: gli anni sarebbero 41 (infatti il primo album, l’omonimo Electric Light OrchestraNo Answer in America – è del 1971), ma mi sembra che nell’ultimo periodo artisti e case discografiche con gli anniversari non vadano molto per il sottile.

Come avevo già accennato nella mia recensione dell’ultimo disco di Joe Walsh, Analog Man, ho sempre avuto una predilezione per Jeff Lynne, sicuramente poco condivisa tra i frequentatori abituali di questo Blog (ma chi non ha dei piaceri “proibiti”?): secondo me il fatto di essere stato per anni il leader della ELO, cioè uno dei gruppi di maggior successo commerciale degli anni settanta, gli ha inviso gran parte della critica musicale “colta”, che ha finito per sottovalutare la sua grande abilità come songwriter pop e, soprattutto, come arrangiatore e produttore (il Washington Post lo ha addirittura recentemente messo al quarto posto tra i produttori musicali più importanti di tutti i tempi, mica bruscolini…). Certo, alcuni arrangiamenti di celebri brani della ELO non erano proprio il massimo, ed il flirt con la musica disco (l’album Discovery) non è stata un gran scelta per Jeff (per l’immagine, il suo conto in banca è cresciuto eccome), ma, come ha dimostrato in seguito George Harrison “sdoganandolo” per fargli produrre il suo album Cloud 9, ci trovavamo di fronte ad un fior di musicista. Da quel momento, e per molti anni, Lynne diventò il produttore “da avere”, e fu chiamato da gente non proprio di seconda fascia, tra cui Tom Petty, Roy Orbison, Paul McCartney, Randy Newman, Brian Wilson (uno che non ha bisogno di produttori), i Beatles riuniti e molti altri, oltre a far parte con Harrison, Orbison, Petty e Bob Dylan di quel meraviglioso ensemble dopolavoristico che furono i Traveling Wilburys.

Come solista non ha mai prodotto molto: un album nel 1990 (Armchair Theatre), passato quasi inosservato, ed un disco nel 2001, Zoom, accreditato però alla ELO per motivi puramente di marketing (ma nel disco suonava solo Jeff). Ora, dopo aver scaldato le gomme producendo circa metà del disco di Joe Walsh, Lynne si rifà vivo con ben due progetti in una botta sola: il primo, Mr. Blue Sky, sembra apparentemente la centotreesima antologia della ELO, ma in realtà sono incisioni nuove di zecca fatte da Jeff in perfetta solitudine, suonando tutti gli strumenti, di dodici brani storici più un inedito, mentre il secondo, Long Wave (dalla bellissima copertina) è una serie di rivisitazioni fatte da Lynne di evergreen da lui ascoltati alla radio durante gli anni della giovinezza.

Diciamo una cosa, e cioè che anche il più fedele dei fans, dopo undici anni di silenzio assoluto, avrebbe potuto storcere la bocca vedendosi davanti due dischi con appena una canzone nuova (e l’album di cover che dura mezz’oretta scarsa), ma il buon Jeff ha subito pensato di stoppare le eventuali critiche annunciando di essere già a buon punto su un nuovo album di inediti, in uscita probabilmente già il prossimo anno.

Oggi vorrei parlare principalmente dell’album di covers, in quanto Mr. Blue Sky è una sorta di regalo ai fans della ELO, una serie di brani famosissimi reincisi in quanto, a detta di Jeff, gli originali lo avevano sempre lasciato non del tutto convinto. Ebbene, alcuni di questi brani suonano quasi come copie carbone degli originali, anche se si sente che il suono è notevolmente migliorato (Evil Woman, Mr. Blue Sky, Turn To Stone), mentre in altri si sente eccome il miglioramento, la voce è più centrale, i suoni più nitidi, gli arrangiamenti più asciutti e “rock”: fanno parte di questa seconda categoria brani come Do Ya (che vi piaccia o no, uno dei più bei riff di chitarra della storia), Livin’ Thing (ovvero le radici del Wilbury sound), la splendida ballata Can’t Get It Out Of My Head, l’errebi Showdown (che era uno dei brani preferiti in assoluto da John Lennon). Il meglio viene alla fine, con una versione tosta e vigorosa di 10538 Overture, che apriva in origine il primo disco della ELO (l’unico con Roy Wood in formazione), e la nuova Point Of No Return, un brano rock, decisamente caratterizzato dal tipico Lynne sound, con una melodia estremamente orecchiabile. Un bel disco, anche se fondamentalmente inutile, che delizierà i fans e lascierà indifferenti tutti gli altri.

Ed ora veniamo a Long Wave, che come ho già detto presenta una serie di brani che Jeff ha amato particolarmente durante la sua giovinezza, arrivando come limite temporale fino alla fine degli anni ’50 (ecco dunque spiegata l’assenza di canzoni dei Beatles, vera fonte d’ispirazione in seguito per Lynne): diciamo subito che, a paragone con i dischi analoghi di Rod Stewart e Glenn Frey (che facevano alquanto calare le palpebre, e anche qualcos’altro…), Jeff non ha ripreso alla lettera le sonorità originarie, ma ha intelligentemente usato arrangiamenti più personali e moderni, usufruendo dei suoi abituali trucchi di studio (riverberi, wall of sound di chitarre acustiche, batteria molto pestata, cori in stile Beach Boys); se vogliamo fare però una critica (oltre all’eccessiva brevità del CD), in alcuni casi le interpretazioni suonano un po’ troppo superficiali, quasi che Jeff avesse una sorta di timore referenziale nei confronti dell’originale. Un fatto che, comunque, non rovina la godibilità del dischetto al quale, ripeto, avrei piuttosto aggiunto almeno un altro quarto d’ora di musica.

L’apertura è ottima con la splendida She, un classico assoluto di Charles Aznavour, che Jeff ripropone arrangiandola come un brano ELO al 100% (senza diavolerie elettroniche però), elettrificandola e riuscendo nella non facile impresa di farla sua.

Anche If I Loved You (di Rodgers & Hammerstein, tratta dal musical Carousel) prosegue sulla stessa falsariga: voce in primo piano, suoni semplici (piano, chitarra e batteria), e brano che si ascolta con piacere. In So Sad degli Everly Brothers Jeff canta proprio come Phil e Don, cioè doppiando sé stesso, inventandosi un accompagnamento acustico che ricorda le cose dei Wilburys; Mercy Mercy, un successo di Don Covay, è invece un gustoso errebi dal sapore sixties, che Lynne personalizza con i suoi tipici riverberi. E’ anche il primo singolo, ed è accompagnato da un divertente video nel quale Jeff esegue il brano accompagnato da tre suoi cloni (un’idea già sperimentata da McCartney nel video di Coming Up). (*NDB. La facevano anche gli Stones).

Misurarsi con Roy Orbison è sempre un rischio, ma Running Scared rientra nelle corde di Jeff, e la cover si può dire riuscita, anche se Lynne soffre un po’ il confronto vocale con Roy (ma va?); Bewitched, Bothered And Bewildered (di Rodgers & Hart) è l’unica del disco ad essere un tantino soporifera, mentre la nota Smile di Charlie Chaplin è una gran bella canzone, e Jeff le trasmette un po’ di sapore pop-rock che non guasta. La notissima At Last esce bene dal Jeff Lynne treatment, non differisce molto dall’originale di Etta James (tranne che per la voce, ovvio) e si segnala come una delle più riuscite dell’album; avevo paura prima di ascoltare Love Is A Many Splendoured Thing, il superclassico tratto dall’omonimo film diretto da Henry King, ma Jeff mi ha stupito con un arrangiamento dei suoi, bella voce e performance fluida.

Un po’ di rock’n’roll ci voleva: Let It Rock (Chuck Berry, of course) viene eseguita in maniera trascinante, anche se finisce proprio sul più bello; l’album si chiude con la splendida Beyond The Sea (originariamente La Mer di Charles Trenet, ma diventata un successo internazionale in inglese per mano di Bobby Darin), rifatta da Jeff in maniera molto vigorosa.

(N.D.M: nella versione giapponese del CD, che è quella in mio possesso – anche perché l’uscita mondiale del disco è intorno al 10 Ottobre – si trova un brano in più, e cioè Jody di Del Shannon, in origine sul lato B del singolo Runaway e, in effetti, del valore di un lato B).

Quindi un uno-due gradito (almeno a me) da parte di Lynne, un antipasto nell’attesa dei suoi progetti futuri, sperando che non faccia passare altri undici anni.

Marco Verdi

P.s. *NDB A noi del Blog (e a me che lo faccio) invece Jeff Lynne (non sempre) ci piace e quindi questi dischi, che mi sembrano assai piacevoli, a maggior ragione incontreranno il (mio) nostro favore!

Non Un Capolavoro…Ma Neppure Un Brutto Disco! Joe Walsh – Analog Man

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Joe Walsh – Analog Man – Fantasy/Universal – Deluxe CD + DVD

Non sono mai stato un grandissimo fan di Joe Walsh, l’ho sempre considerato per quello che in realtà è: un ottimo chitarrista, un buon animale da palcoscenico (talvolta al limite del clownesco), ma dal punto di vista vocale e del songwriting un personaggio di seconda, o forse anche di terza fascia. Musicista di secondo piano negli anni settanta (anche se con la James Gang ha fatto la sua figura), deve senz’altro la sua popolarità al fatto di essere stato chiamato negli Eagles come sostituto di Bernie Leadon, e di avere esordito con loro proprio in Hotel California, cioè in uno degli album più famosi di tutti i tempi. Ma da solista non ha mai combinato granché di buono (come tutte le Aquile d’altronde, escluso forse Don Henley), con l’eccezione dei due dischi a nome Barnstorm,  quello omonimo e l’ottimo The Smoker You Drink… e a parte un altro paio di album discreti negli anni settanta, vivendo sempre di rendita su vecchie canzoni come Life’s Been Good, Rocky Mountain Way o In The City. In più, Analog Man arriva a ben vent’anni di distanza dalla sua ultima fatica, quel Songs For A Dying Planet che non aveva certo fatto gridare al miracolo, per usare un eufemismo.

Quindi, direte voi, perché questo post? Perché il produttore (solo in cinque brani su dodici, parlo della “solita” versione deluxe, quella normale ne ha dieci) è un mio autentico pallino: Jeff Lynne, negli ultimi anni poco attivo ma a cavallo tra gli ottanta ed i novanta era un vero produttore deluxe, avendo collaborato con il gotha della musica rock mondiale.

Solo per fare qualche nome (ma la lista sarebbe lunghissima): George Harrison (che lo ha “sdoganato” dopo che la critica di mezzo mondo lo odiava per il fatto di essere il leader della Electric Light Orchestra), Roy Orbison, Tom Petty (forse il suo apice come produttore e co-autore), Traveling Wilburys, Paul McCartney, Randy Newman, Del Shannon, oltre ai riuniti Beatles e a Brian Wilson (che è uno che ha probabilmente bisogno di tante cose, ma non certo di un produttore). E comunque, Lynne a parte (che, ripeto, agisce in meno del 50% del disco, ma guarda caso i tre brani migliori vedono lui alla consolle), Analog Man è, contro ogni previsione, un buon disco di classico rock californiano: Walsh si è preso il suo tempo, ma ha messo a punto una serie di canzoni che, pur non essendo dei capolavori, non deludono (tranne un paio di casi, ma temevo peggio!), la voce è sempre quella che è, ma la grinta c’è e la tecnica chitarristica la conosciamo tutti. E poi, per fortuna, le cose meno riuscite Joe le ha lasciate quasi alla fine del disco.

Oltre a Lynne, nell’album sono presenti nomi altisonanti come Ringo Starr (che se non lo sapete è il cognato di Joe, in quanto Walsh ha sposato Marjorie Bach, sorella di Barbara), il bassista dei Crazy Horse Rick Rosas, oltre a David Crosby e Graham Nash ai cori in Family.

Joe parte bene con la title track (nella quale ci rivela essere un nostalgico delle vecchie tecnologie e di diffidare delle nuove), un potente rock dei suoi, ma anche orecchiabile, con la mano di Lynne che si sente eccome, specie nel suono della batteria, nella nitidezza della strumentazione e nel suo tipico big sound). Ancora meglio Wrecking Ball (titolo un po’ inflazionato ultimamente…), dotata di un ritornello estremamente piacevole, un bell’assolo di slide e Lynne che suona tutti gli strumenti tranne la lead guitar e canta i cori. L’ex ELO deve aver lasciato il segno, in quanto anche Lucky That Way, pur se prodotta dal solo Walsh, risente palesemente dell’influenza del barbuto inglese: una bella ballata solare californiana, cantata bene da Joe e con il giusto campionario di chitarre acustiche e riverberi; Spanish Dancer sembra davvero un brano dell’ultimo periodo della ELO, se non fosse per un paio di intermezzi chitarristici tipici di Joe. Band Played On, dal sound orientaleggiante, non è un granché, anche se il bel finale chitarristico la risolleva, mentre Family è una discreta slow ballad (genere nel quale Joe non ha mai eccelso), nobilitata dalle inconfondibili voci di Crosby & Nash, anche se il synth di sottofondo ce lo potevano risparmiare.

One Day At A Time, che vede il ritorno di Lynne in consolle, è una canzone che gli Eagles hanno già proposto dal vivo negli anni più recenti: una bella canzone, sul genere delle cose migliori di Joe, ed il tocco di Jeff non può che farle bene (anche se qui sembra più Wilburys che Eagles). Di certo il brano migliore del CD. Hi-Roller Baby scivola via gradevole ma innocua, Funk 50, seguito palese della celebre Funk # 49, mostra più muscoli che cervello, mentre India è uno strumentale abbastanza assurdo, un brano ambient-techno-dance senza né capo né coda. Una schifezza, in poche parole.

Per fortuna arriva Lynne a rimettere le cose a posto con Fishbone, che non è un capolavoro ma almeno ha i suoni in ordine, mentre l’ultimo brano è del tutto particolare: But I Try è infatti frutto di una jam inedita, incisa nei primi anni settanta, dalla James Gang con Little Richard (che è anche il cantante solista), un buon brano di rock classico, abbastanza lontano dallo stile tipico del rocker di colore, ma con uno splendido duello finale tra il suo pianoforte e la chitarra di Walsh.

Quindi un buon disco, almeno per tre quarti, che non dovrebbe comunque far rimpiangere i soldi spesi: Joe Walsh non è un fenomeno (e lo sa), ma stavolta è riuscito a non strafare (India a parte) e quindi direi che si merita la promozione, anche se alla lode forse non ci arriverà mai.

Marco Verdi

P.S: per la precisione, la versione deluxe contiene anche un DVD con il making of e tre brani dal vivo.

*NDB (Nota del Blogger o del Bruno, come preferite). Oggi doppia razione, appena sotto trovate un’altra recensione. Quando non vedete la mia firma ma quella di uno dei graditi ospiti del Blog, non sto riposando in panciolle ma devo comunque “preparare” i Post che poi leggete, munendoli di foto, filmati e quant’altro. Buona lettura!

La (Seconda) Migliore Rock And Roll Band Al Mondo! Tom Petty And The Heartbreakers

NDB. Come avrebbero detto ai tempi d’oro di “Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto”, la parola ad uno dei nostri radiocronisti, da Lucca, Marco Verdi!

Tom Petty And The Heartbreakers – Lucca, Piazza Napoleone – 29 Giugno 2012

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Eh già, “solo” la seconda, in quanto considero di poco superiori Bruce Springsteen & The E Street Band (con tante scuse ai Rolling Stones, ma il terzo posto è comunque un gran bel risultato), che forse non hanno al loro interno musicisti di grandissima tecnica (esclusi forse Lofgren, Bittan e Weinberg), ma hanno una maggior capacità di coinvolgere il pubblico, merito sicuramente del Boss, un animale da palcoscenico di quelli che ne nascono uno ogni cento anni.

E comunque ribadisco che ho sempre considerato Tom Petty & The Heartbreakers di poco inferiori, avendo avuto modo negli anni di vederli all’opera purtroppo solo in DVD, anche se ho ancora un vago ricordo dell’unica volta che suonarono in Italia, nel lontano 1987, come backing band di Bob Dylan: li vidi a Milano, all’Arena Civica (era il mio primo concerto in assoluto), e già allora mi lasciarono senza fiato anche se non conoscevo assolutamente il loro repertorio, mi piacquero quasi più di Dylan, all’epoca al minimo storico in termini di comunicativa col pubblico. Poi per anni, il buio: poche tournée in Europa (mi ricordo quella del 1992, avevo un bootleg inciso, male, a Basilea), ed il nostro paese regolarmente ignorato, anche se qualche anno fa sembrava che Tom dovesse fare una serata al Forum di Assago (ma poi non successe nulla). Quindi quest’anno, quando ho visto che Petty ed i suoi erano in cartellone al Lucca Summer Festival, non ci ho pensato neppure un minuto e mi sono accaparrato subito i biglietti (per me ed un altro mio amico “carbonaro”), anche se il capoluogo toscano non è proprio dietro l’angolo rispetto a dove abito (tre ore di macchina, ma mi sono preso mezza giornata di ferie, ed il fatto che il 29 Giugno sia un venerdì aiuta parecchio, in quanto mi posso fermare a dormire una notte sul posto). Tom Petty non posso proprio perdermelo, e quando lo ribecco!

Lucca è una bella cittadina, anche se ci sono altre città e borghi in Toscana che preferisco, ma Piazza Napoleone è di gran lunga la miglior location possibile: circondata da palazzi storici, in mezzo al verde, sembra proprio nata per farci degli spettacoli. Incontro altra gente delle mie parti che conosco (noi “carbonari” siamo sempre gli stessi), ed insieme andiamo a mangiare qualcosa per poi dirigerci ai cancelli, che apriranno alle 19.30: fa un caldo terrificante, ancora più che da noi al Nord, con l’aggravante di un’umidità spaventosa, che inciderà non poco sulla tenuta fisica del pubblico e della band stessa. Alle 20.30 sale sul palco Jonathan Wilson con la sua band, un giovane musicista della Carolina del Nord che propone un’interessante miscela di rock californiano in stile CSN&Y e di psichedelia alla Pink Floyd: circa tre quarti d’ora di musica, pochi brani e molto dilatati, di buona qualità, che il pubblico mostra di apprezzare non poco (la piazza è sufficientemente gremita direi).

Ma siamo tutti qui per Tom Petty, il quale sale sul palco, finalmente, solo verso le 22.00, dopo un interminabile instrument check da parte dei roadies: volto sorridente, barba lunga, vestito con un completo gessato (ma si libererà quasi subito della giacca), accompagnato come al solito dai fidi Mike Campbell (treccine lunghe e camicia rossa sgargiante), Benmont Tench, Ron Blair, il colossale Steve Ferrone e Scott Thurston. Tom imbraccia subito la sua Rickenbacker 12 corde (ma tra lui e Campbell cambieranno almeno 15 chitarre a testa nel corso della serata) ed attacca con Listen To Her Heart, uno dei brani più byrdsiani del primo periodo della sua carriera (era sul secondo album, You’re Gonna Get It!): il pubblico è subito caldo (in tutti i sensi) e gli Heartbreakers sembrano stupiti dell’accoglienza.

You Wreck Me è un rock’n’roll che il popolo di Lucca mostra di conoscere bene, una versione bella tirata con Campbell, che sarà il protagonista della serata, che comincia a fare i numeri. I Won’t Back Down è uno dei brani più belli e famosi tra quelli scritti con Jeff Lynne, ed il pubblico la canta parola per parola con Tom, rendendola quasi una celebrazione, come d’altronde la seguente Here Comes My Girl, un vero classico che viene accolto alla grande.Handle With Care è il brano più noto dei Traveling Wilburys, e Tom la ripropone spesso come omaggio all’amico George Harrison: Thurston canta come voce solista la parte che era di Roy Orbison e Campbell rilascia un delizioso assolo di slide. Petty ha già la serata in mano, e con Good Enough (il primo dei due brani tratti dal recente Mojo) iniziano le jam: Campbell si dimostra un mostro di tecnica e feeling, ma anche Tom inizia a far sentire la voce della sua solista (non la suona spessissimo, preferisce la ritmica, ma la stoffa ce l’ha eccome).

Oh Well è un brano dei Fleetwood Mac periodo Peter Green: Tom alla voce e maracas, mentre Mike è il vero protagonista del brano con una serie di assoli strepitosi. Il pubblico è in visibilio, anche se il caldo inizia a mietere le prime vittime (nel senso che si nota una certa staticità), ed anche i ragazzi sul palco hanno un po’ di fiatone. Something Big è un brano poco noto, ma bello, dall’arrangiamento quasi alla John Fogerty, uno swamp-rock molto elettrico e ritmato, mentre Don’t Come Around Here No More è come al solito quasi un pretesto per il finale pirotecnico, nel quale Campbell mette tutti al tappeto con la sua tecnica chitarristica da urlo.Free Fallin’ viene accolta da un boato, ed è un vero e proprio singalong collettivo; la lunga It’s Good To Be King (versione strepitosa di un brano che in studio sembra normale, ma stasera gli assoli di Mike e Tom la rendono monumentale) ed una cover diretta e molto rock’n’roll di Carol di Chuck Berry (nella quale il protagonista è Benmont Tench, pianista coi controfiocchi) ci portano al momento semiacustico del concerto: Learning To Fly è un altro capolavoro pettyano, e questo arrangiamento intimo (già ascoltato sulla Live Anthology) la nobilita, mentre la divertente Yer So Bad non la si sente spesso in un concerto di Tom. La breve ed elettrica I Should Have Known It porta allo strepitoso uno-due finale di Refugee e Runnin’ Down A Dream, due delle più grandi canzoni rock del nostro (specie la prima, un classico assoluto), nelle quali Tom e i suoi non fanno prigionieri, ridando vita anche alla parte di pubblico ammazzato dal caldo.

Una breve pausa, poi i bis: Mary Jane’s Last Dance è una grande canzone rock, e per me questa ascoltata stasera è la versione definitiva: splendida, tesa, chitarristica, con un finale stratosferico nel quale le twin guitars di Tom e Mike si incrociano in una serie di assoli pazzeschi. Alla fine tutti esausti, ma che versione!Il concerto termina del tutto con un brano nuovo presentato in anteprima, dal titolo Two Men Talking (un blues abbastanza canonico, sullo stile di certe cose di Mojo) ed il superclassico American Girl, breve come sempre ma decisamente intensa e piena di feeling.Ora è proprio finita, Tom e i suoi Spezzacuori salutano felici (Petty ha anche promesso che tornerà presto, vedremo…) e sfiancati dal gran caldo (Campbell sta letteralmente boccheggiando), lasciando un pubblico in visibilio. Anch’io fisicamente sono provato, ma sono conscio di avere assistito ad una grande serata di rock, per merito di un gruppo che non ha eguali sulla faccia della terra.Da ricordare questo 2012: Bruce Springsteen e Tom Petty nello stesso mese…e quando mi ricapita?

Marco Verdi

Per Pochi Intimi Ma Comunque Sempre Grande Musica! Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live

Oggi razione doppia, con “tutti questi collaboratori” sono oberato dai Post, meglio per chi legge!

Bruno Conti

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Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live – Reprise Records Vinyl EP

Un titolo alternativo per questo post poteva essere: dura poco, costa tanto, si fa fatica a trovarlo, ma ne vale la pena! Il Record Store Day, lodevole iniziativa atta a preservare i (pochi) negozi di dischi indipendenti ancora in piedi, che coinvolge una-due volte l’anno in tutto il mondo una selezione appunto di questi negozi “eroici”, sta assumendo anno dopo anno le sembianze di una pura e semplice operazione di marke(t)ting grazie alle quali gli artisti coinvolti (o meglio, le loro case discografiche) cercano di spillare altri soldini ai poveri fruitori di musica “fisica” (categoria alla quale mi onoro di appartenere). Infatti, tranne poche eccezioni, le pubblicazioni esclusive ed in edizione limitata per questa giornata (l’ultima si è svolta più o meno a fine Novembre), tutte ovviamente in vinile, sono più sbilanciate sulla manifattura del supporto fonografico che sull’utilità del suo reale contenuto: in parole povere, lussuosi manufatti con poco o nulla di inedito. Quest’anno hanno visto la luce, tra gli altri, un cofanetto di 45 giri anni sessanta di Bob Dylan, un mini lp di Pete Townshend con estratti del box di Quadrophenia, un cofanetto con gli lp (senza inediti) di Janis Joplin, (ma di Janis, sempre in vinile, è uscito anche un box di 4 7″ Move Over ricco di inediti e rarità, che poi probabilmente verranno inserite in un The Pearl Sessions in uscita a inizio 2012! NDB. Nota del Blogger o del Bruno che è la stessa cosa), un box dei Pink Floyd con i singoli tratti da The Wall ed un’edizione per il quarantennale dell’album Imagine di John Lennon (questo però contiene un disco a parte con sei inediti.

La pubblicazione più succosa di tutte è senz’altro questo mini live di Tom Petty & The Heartbreakers, intitolato Kiss My Amps (raffinato gioco di parole tratto da un tipico insulto americano che non sto a spiegare), sei canzoni tratte dal tour di Mojo del 2010 (e tutte provenienti da quel disco) più una rara canzone suonata nel tour del 2008: tutte versioni ovviamente mai sentite prima. Chi è Tom Petty lo sapete di certo: uno dei migliori rockers degli ultimi 35 anni (è nella mia Top Five di tutti i tempi, alzi la mano a chi interessa…) e, a mio parere, il miglior live act mondiale dopo Bruce Springsteen & The E Street Band (ed un gradino sopra gli ultimi Rolling Stones, sempre grandissimi per carità, ma forse un tantino prevedibili e mainstream, se capite cosa voglio dire). E dire che per anni l’unico supporto live di Petty & Band (a parte il rarissimo The Official Live ‘Leg, pubblicato nel 1977) è stato il doppio del 1985 Pack Up The Plantation, che tra l’altro a mio parere non rendeva per nulla l’intensità di un concerto del biondo rocker della Florida. Poi per anni tante pubblicazioni video (VHS prima e DVD dopo), sempre tendenti dall’ottimo all’eccellente (i miei preferiti sono Take The Highway, con il sound che risentiva del “periodo Jeff Lynne”, e lo splendido Live In Gainesville del 2006, incluso come bonus del film Runnin’ Down A Dream) ma dischi mai, o peggio, soltanto assaggini, come il mini CD di quattro brani inserito nel DVD The Last Dj Live At The Olympic o l’EP live dei Mudcrutch.

Tutto questo almeno fino a due anni fa, quando Petty si è finalmente deciso e ha pubblicato il monumentale quintuplo The Live Anthology (per me, il live del secolo), un’opera incredibile che faceva letteralmente scomparire il multiplo live di Springsteen uscito nel 1985. Ora Petty ci ricasca, e fa uscire di nuovo un live “monco” (si sa che noi carbonari siamo insaziabili) che, come dicevo all’inizio, ha una durata limitata, non viene regalato, e, soprattutto, non si trova nei negozi “normali” (se però avete discreta padronanza con internet, lo trovate con relativa facilità su Ebay, ma chiudete un occhio sui prezzi), ma è comunque decisamente bello. Petty e i suoi si trovano ad occhi chiusi, e vorrei vedere dato che sono insieme da una vita (la triade Petty-Mike Campbell-Benmont Tench dai tempi dei Mudcrutch, Ron Blair è tornato dopo la morte di Howie Epstein, e Steve Ferrone e Scott Thurston sono lì da circa quindici anni ormai) e dimostrano ancora una volta di essere una delle poche band ormai in grado di suonare vero rock’n’roll, oltre ad essere singolarmente (specie Tench e Campbell) dei grandissimi strumentisti.

Altra loro prerogativa è quella di migliorare nettamente on stage i brani incisi in studio (lampante l’esempio di Live At The Olympic, che faceva sembrare il debole The Last DJ tutto un altro disco): Mojo era stato abbastanza criticato, ma secondo me (pur essendo un po’ troppo lungo) è il classico disco che cresce alla distanza, anche se è meno immediato di altri lavori più celebrati di Petty (anche Southern Accents all’epoca era stato massacrato, ma ora è tranquillamente un disco da quattro stelle), ma è indubbio che il trattamento dal vivo aggiunge ai brani ulteriore smalto. Dopo un benvenuto al pubblico da parte di Tom, il disco parte con Takin’ My Time, un blues all’apparenza canonico, ma che nelle mani degli Heartbreakers diventa sublime: Petty gioca a fare il consumato bluesman di Chicago, e Campbell inizia a fare i numeri al suo fianco. I Should Have Known It, diretta e chitarristica (come tutte le altre, in effetti), riesce ad essere molto più coinvolgente che su Mojo: l’accelerazione ritmica a fine brano, con Campbell letteralmente strepitoso, è da buttarsi per terra. Sweet William è l’unica a non provenire dall’ultimo album di studio di Tom (era inserita come bonus su un CD singolo tratto da Echo, album del 1999, e quindi la conoscono in tre), ed è un brano tipico di Petty, un rock blues con accenni sudisti, un grande Tench all’organo hammond e sonorità decisamente “calde”.

Jefferson Jericho Blues è un altro blues (appunto) “normale”, ma Petty e i suoi riescono a fare la differenza, anche se il brano è forse il meno brillante del lotto. Per contro, First Flash Of  Freedom era il capolavoro di Mojo, ed uno dei brani degni di stare su qualsiasi best of di Tom, una lunga rock song, potente e fluida nello stesso tempo, con più di un accenno psichedelico, le chitarre che dialogano che è una meraviglia e Benmont che ricama di fino sullo sfondo: un capolavoro! La saltellante e trascinante Running Man’s Bible dà la possibilità a Tom di farci sentire la voce della sua solista: non sarà Campbell ma perbacco se ci dà! Chiude il dischetto (cominciavo a prenderci gusto) la bella Good Enough, ennesima rock song di gran classe, dal vestito southern e con Campbell che si conferma come uno dei migliori chitarristi della sua generazione (e Petty canta sempre meglio).

All’interno del disco c’è un tagliando con un codice per scaricare l’album completo (?!?), anche se scommetto che fra qualche mese ce lo troveremo bello bello in tutti i negozi: a pensar male…    Nell’incertezza, se ci riuscite e se avete voglia di spendere una cifra superiore a quella ragionevole, fate vostro questo Kiss My Amps, non ve ne pentirete di certo.

Marco Verdi

P.S: a Giugno del prossimo anno Tom tornerà finalmente in Italia (dopo la tournée con Bob Dylan nel lontano 1987), anche se solo a Lucca. E’ un bel viaggetto, ma è un venerdì sera e la Toscana è bella, io ci farei un pensierino…

Martin Scorsese Presents: George Harrison – Living In The Material World

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George Harrison – Living In The Material World – Lions Gate Home Entertaiment – 2DVD – BluRay – Deluxe Edition 2DVD + Blu-Ray + CD + Libro

Living In The Material Word è stato il titolo di un album di George Harrison del 1973, uno dei suoi migliori, ma è anche il titolo della biografia scritta da Olivia Harrison e pubblicata la settimana scorsa, nonchè il titolo di questo documentario di Martin Scorsese che esce la settimana prossima in Inghilterra ma non in Italia e neppure negli Stati Uniti per il momento, per ricordare il 10° anniversario della morte del Beatle (lo sei per tutta la vita e oltre, anche se lui non avrebbe voluto) avvenuta il 29 novembre 2001.

Come al solito esce in varie versioni.

Una doppia con il documentario di 210 minuti diviso in due parti sui 2 DVD, più alcuni extra come le interviste a Paul McCartney e Jeff Lynne e un capitolo intitolato Here Comes The Sun. Il Blu-ray singolo ha gli stessi contenuti.

Il cofanetto Deluxe, che come al solito si fanno pagare profumatamente (intorno ai 100 euro, più o meno), ha però molti extra nel DVD, il Blu-Ray, un libro di 96 pagine ricco di foto mai viste e un CD di 10 brani con materiale inedito, questo il contenuto:

1. My Sweet Lord (demo) 3:33
2. Run Of The Mill (demo) 1:56
3. I’d Have You Any Time (early take) 3:06
4. Mama You’ve Been On My Mind (demo) 3:04
5. Let It Be Me (demo) 2:56
6. Woman Don’t You Cry For Me (early take) 2:44
7. Awaiting On You All (early take) 2:40
8. Behind That Locked Door (demo) 3:29
9. All Things Must Pass (demo) 4:38
10. The Light That Has Lighted The World (demo) 2:23            

Inutile dire che come tutti i film di Scorsese dedicati alla musica è bellissimo, ricco di particolari come il recente No Direction Home dedicato a Dylan o la lunga serie sul Blues, per non parlare del “mitico” The Last Waltz. Con moltissimo materiale video inedito tratto dagli archivi personali di Harrison, filmati dei suoi concerti e molte interviste realizzate appositamente per l’occasione (c’è naturalmente anche Clapton che parla del loro rapporto controverso per motivi amorosi, ma alla fine fortissimo) è una occasione imperdibile per ripercorrere la vita e la carriera di uno dei più bravi musicisti dello scorso secolo.

Mi “accontenterò” della versione normale ed è un bel accontentarsi.

Bruno Conti