In Studio O Dal Vivo, Sempre un Gran Chitarrista! Tom Principato – Live And Still Kickin’

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Tom Principato – Live And Still Kickin’ – Powerhouse CD+DVD

Lo avevamo lasciato un paio di anni fa, nel 2013, con l’ottimo Robert Johnson Told Me So http://discoclub.myblog.it/2013/10/15/mi-manda-eric-clapton-tom-principato-robert-johnson-told-me/ , e quindi non vi tedierò di nuovo con vita, morte e miracoli del nostro: mi limito a confermarvi che questo signore è uno dei migliori chitarristi/cantanti attualmente in circolazione in quel ambito che sta fra blues e rock, a maggior ragione in una dimensione concertistica dove si possono godere le sue virtù di grande solista e portatore della memoria storica del passato, due fra tutti nel suo caso, Roy Buchanan e Danny Gatton, entrambi molto presenti nel DNA musicale di Tom Principato. Questo disco dal vivo è l’ideale prosecuzione di un Live And Kickin’ uscito nel lontano 2000 e presenta materiale registrato nel corso del tour che nel 2014 lo ha portato in Europa: infatti si tratta di estratti di due diversi concerti, il primo a Vienna al Barns Of Wolf Trap, con una formazione arricchita da una sezione fiati in alcuni pezzi, e il secondo a Les Escales St. Nazaire in Francia, dove è molto popolare, solo i tre brani finali. Il tutto, che è stato filmato anche per un DVD allegato al CD, viene pubblicato dalla etichetta personale di Principato, la Powerhouse.

E non posso che confermare, oltre alle influenze dei due musicisti ricordati (e di tutti i grandi del blues), una sorta di affinità con Eric Clapton, sin dalla postura con cui Tom si propone sia dal vivo che in foto, ma soprattutto a livello musicale, con questo stile che pesca da tutte le nuances del blues-rock e attraverso la penna e la sensibilità di Principato viene riversato con gusto, grinta e una notevole dose di tecnica sugli ascoltatori dei suoi concerti. Per intenderci, come nel caso di Manolenta, i brani sono costruiti per farci arrivare all’assolo che è il clou della canzone, ma nello stesso tempo, a differenza di quelli della categoria degli “esagerati”, l’assolo è un fine e non un mezzo per farci vedere quanto sono bravi, c’è tanto altro intorno. Tom Principato ovviamente non è il salvatore del blues-rock tout court, ma uno dei praticanti dell’arte di riproporre e reiterare una musica che abbiamo sentito mille volte ma che vive grazie alla capacità del musicista di farlo con i giusti riferimenti, cercando di metterci qualcosa di proprio, magari poco, soprattutto nella interpretazione.

E allora, pescando a caso dalla scaletta del repertorio, ecco scorrere il delizioso assolo con wah-wah che incornicia la ritmata e quasi reggata In the Middle Of Night, dove le tastiere di Tommy Lepson e le percussioni di Josh Howell, altrove anche alla armonica, provvedono a quel tocco caraibico che insaporisce il menu blues, o il r&r fiatistico e ad alta concentrazione boogie della iniziale Call Of The Law, sempre con l’organo a ben spalleggiare le mosse della solista di Principato, che poi fa la sua parte come si deve. O ancora le traiettorie santaneggianti della sinuosa Bo Bo’s Groove, uno strumentale che sembra uscire dai solchi di uno dei primi tre dischi dei Santana, quelli migliori. Hey Now Baby ha la giusta quota funky-soul, mentre Don’t Wanna Do It, sempre con la massiccia presenza dei fiati, è un altro esempio della bella calligrafia delle ri-scritture di Principato dei canoni blues-rock, con Helping Hand che propone il lato blues & soul revue. Cross Cut Saw, una delle rare cover della serata, viene dal repertorio di Albert King, quindi occasione peri indulgere in un lato più blues, anche grazie all’armonica di Howell. Molto piacevoli puree Sweet Angel e la tiratissima Return Of The Voodoo King (un omaggio a Jimi) https://www.youtube.com/watch?v=7lFv7AqBUCo  che chiudono la parte del concerto registrata a Vienna. Nei tre brani parigini non c’è la sezione fiati, e quindi lo spazio per la chitarra di Principato è ancora più evidente, a partire da un sontuoso lento come The Rain Came Pouring Down che evidenzia le influenze di Buchanan, con la solista che disegna traiettorie di grande fascino e tecnica. Le conclusive If Love Is Blind e Robert Johnson Told Me So (con uso di slide), uno dei due brani tratti dall’ultimo album, sono entrambe molto vicine allo spirito di Clapton e quindi estremamente godibili e ricchi di spunti chitarristici di gran classe. Che è quello che si chiede in fondo ad un disco come questo, uno dei migliori Live dell’anno appena concluso.

Bruno Conti

L’Ultimo Dei “Veri” Chitarristi Blues, In Gran Forma! Buddy Guy – Born To Play Guitar

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Buddy Guy – Born To Play Guitar – RCA/Silvertone/Sony

La foto di copertina è probabilmente un omaggio al suo “discepolo” Hendrix, mangiatore di chitarre, nel disco vengono ricordati due grandi che non ci sono più, come Muddy Waters B.B. King, e tutto il disco è incentrato sul suono di uno dei più grandi chitarristi che il Blues abbia mai prodotto, forse l’ultimo dei grandissimi ancora in vita, ora che BB ci ha lasciato. Buddy Guy, 79 anni compiuti il 30 luglio, il giorno primo della pubblicazione di questo Born To Play Guitar, quarto album di studio consecutivo prodotto dal bravo Tom Hambridge (oltre al Live del 2012), ennesima dimostrazione che se questi artisti vengono affidati ad un produttore capace sono ancora in grado di fare faville. Hambridge, oltre a produrre, suona la batteria, arrangia e compone gran parte del materiale di questo album, sceglie i musicisti, tutti eccellenti: Billy Cox al basso (un omonimo o l’originale?), Kenny Greenberg, Bob Britt, Rob McNelley Doyle Bramhall II, alle chitarre aggiunte, Tommy MacDonald, Michael Rhodes  e Glen Worf, che si alternano ancora al basso Kevin McKendree o Reese Wynans, alle tastiere, che sono coloro che Hambridge utilizza abitualmente nelle sue produzioni, oltre alle McCrary Sisters, alle armonie vocali. Ospiti speciali, Kim Wilson, Billy Gibbons, Joss Stone e Van Morrison. E il risultato è ancora una volta ottimo, come era stato per il precedente Rhythm And Blues di due anni fa http://discoclub.myblog.it/2013/07/25/buddy-guy-non-lascia-anzi-raddoppia-il-30-luglio-compie-77-a/, quasi 60 anni di carriera e 28 album di studio non hanno intaccato la voglia di Buddy Guy di fare buona musica blues!

Proprio Tom Hambridge, con l’aiuto di Richard Fleming, costruisce una sorta di piccola cronistoria autobiografica nella title-track, uno slow Chicago Blues di quelli duri e puri, dove Buddy racconta la sua vicenda di giovane virgulto nato a Lettsworth in Lousiana con le 12 battute già incorporate nelle sue vene, mentre Wear You Out è un poderoso boogie-rock-blues dove Guy, sempre in gran voce, e Billy Gibbons, un po’ meno, duellano però con le chitarre, nel pezzo del disco che più concede alle dinamiche del rock, ma quando ci vuole ci vuole, e qui i due fanno veramente sfracelli con le loro Stratocaster https://www.youtube.com/watch?v=hThlFYaUXds . Back Up Mama è un altro lento di quelli ad alta intensità con il nostro amico che gigioneggia e dispensa blues di gran qualità, spalleggiato dai musicisti citati sopra, tutti che si dannano l’anima per tenere botta ad un Buddy in gran spolvero, ottimi Bramhall e Wynans (o è McKendree?) al piano. Too Late è un  brano che porta la firma di Charles Brown e Willie Dixon, vecchio cavallo di battaglia di Little Walter, permette a Guy, grazie alla presenza di uno scatenato Kim Wilson all’armonica, di ricreare i vecchi duetti con Junior Wells. Whiskey, Beer And Wine, uno dei cinque brani co-firmati da Buddy Guy è un’altra poderosa costruzione sonora con la solista che dispensa sciabolate di blues, ma grazie alla precisa costruzione di Hambridge non è mai sopra alle righe, come in passato succedeva di tanto in tanto nei vecchi dischi. E anche Kiss Me Quick, il secondo duetto con Kim Wilson, è un perfetto esempio di come deve suonare il blues elettrico nel ventunesimo secolo https://www.youtube.com/watch?v=DYOkbVwkLuk : come lo si suonava sul finire anni cinquanta a Chicago con il grande Muddy.

Addirittura Crying Out Of One Eye, ancora con la firma Guy/Hambridge, e con l’aiuto di una sostanziosa sezione fiati, suona come un brano tratto dal vecchio Blues Jam At Chess registrato a Chicago con i Fleetwood Mac di Peter Green, un blues dove la chitarra è alla ricerca di sonorità lente e spaziali. Sempre a proposito di Chess Records, (Baby) You Got What It Takes, il duetto con una Joss Stone finalmente in grado di esprimere i suoi talenti in modo efficace e misurato, sembra un brano tratto dal vecchio repertorio di Etta James o ancor più Koko Taylor, con Hambridge che aggiunge un pizzico di genio nella trovata di aggiungere una sezione di archi https://www.youtube.com/watch?v=fYfWNYecvJA . In Turn Me Wild  Buddy Guy innesta il pedale wah-wah e lascia andare la sua solista in modalità più selvaggia, come solo lui sa fare, uno dei maestri della moderna chitarra elettrica, quello che ha insegnato a Jimi due o tre trucchetti su come si suona il blues, qui lo dimostra ancora una volta https://www.youtube.com/watch?v=c7yfVy0Fm24 . Crazy World, con la voce filtrata e carica di eco, sospesa su un tappeto di organo, e di nuovo con il wah-wah più atmosferico di Guy, ci illustra una ulteriore sfaccettattura di questo artista sempre in grado di variare il suo stile all’interno delle grande strade della musica del diavolo (o del Signore). Smarter Than I Was, altro brano autobiografico costruito ad hoc da Hambridge, mostra ancora una volta perché gente come gli Stones e Clapton idolizzano questo signore di quasi ottanta anni, una vera leggenda vivente, in grado di cavare dalla sua chitarra torrenti di note ribollenti, come se il tempo per lui si fosse fermato.

Negli ultimi tre brani è tempo di ricordare e commemorare: prima con una Thick Like Mississippi Mud che ricorda le folate elettriche anni cinquanta, anche con fiati, del suo vecchio datore di lavoro e maestro, quel McKinley Morganfield con cui Guy ha lavorato relativamente poco, apparendo però in alcuni degli album migliori del Muddy Waters inizio anni ’60, nello specifico Muddy Waters Sings Big Bill Broonzy e Folk Singer, due capolavori di equlibri sonori. Non c’entra quasi nulla con il resto a livello sonoro, in teoria, ma Flesh And Bone (Dedicated To B.B. King), il duetto con Van Morrison, è una ballata quasi celtic soul, tipica del rosso irlandese, cantata meravigliosamente da entrambi, con Buddy Guy che ricama arabeschi con la sua chitarra e i fiati e le McCray Sisters che aggiungono quello spirito cerimoniale tipico del miglior gospel, un omaggio sentito e realizzato con classe immensa, bellissima canzone. E anche la seconda dedica a Waters, una delicata e quasi acustica Come Back Muddy, si riappropria dello stile di Folk Singer con assoluta naturalezza e un pizzico di nostalgia, per concludere in gloria un album che si candida come uno dei migliori della carriera di Buddy Guy: signori, questo è il vero Blues, con la B maiuscola, è lui è veramente nato per suonare la chitarra!

Bruno Conti

Tipa Tosta, Molto Rock E Poco Blues! Kelly Richey Band – Live At The Blue Wisp

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Kelly Richey Band – Live At The Blue Wisp – Sweet Lucy Records Records

“Bella e brava” direi che non si possa dire di questa artista originaria di Lexington, Kentucky, bruttina ma brava non mi permetterei (mi rendo conto che mi sto infilando in un cul de sac),  possiamo dire di questa epigona dichiarata di Stevie Ray Vaughan (e forse ancor più di Jimi) che la dimensione dal vivo è quella più consona a una cantante e chitarrista che ha fatto del blues-rock la sua ragione di vita, D’altronde sei album Live (compreso un DVD) su tredici totali e in venti anni di carriera, lo stanno a testimoniare. Con una nuova Kelly Richey Band che la vede accompagnata da due tipi tosti pure loro, sin dal nome, Freekbass, al basso ovviamente, e il batterista Big Bamn, il gruppo piomba sul Blue Wisp di Cincinnati per un set sulfureo di rock anni ’70 miscelato a Blues, non troppo per la verità, 12 brani, firmati dalla stessa Richey, che vengono un po’ da tutti gli album della sua discografia.

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Diciamo che le sottigliezze della tecnica chitarristica (che pure c’è) non sono il primo pensiero della nostra amica, è evidente subito, fin dall’iniziale e tirata Fast Drivin’ Mama, un chiaro manifesto di intenti, basso e batteria pompano di gusto, la voce è quella della rocker intemerata, lo stile lo abbiamo citato, chitarra dura e tirata e pedalare. I Went Down Easy avrebbero potuto farla tanti colleghi maschi negli anni gloriosi del rock-blues più cattivo, quasi hard, di quegli anni, la chitarra inizia ad urlare e strepitare, mentre la sezione ritmica, per il momento, è precisa e quasi trattenuta. One Way Ticket comincia ad aumentare i ritmi, siamo dalle parti di Beth Hart o Dana Fuchs, senza la classe vocale delle due rockers americane, però con una chitarra che si destreggia tra riff rocciosi e improvvise accelerazioni della solista sulle variazioni funky, soprattutto di Freekbass, che tiene fede al suo moniker https://www.youtube.com/watch?v=YXu7bFeRa7A . La cosa viene portata ai suoi eccessi massimi negli oltre dodici minuti di Sister’s Gotta Problem https://www.youtube.com/watch?v=vUcxMxYEaWI , che era la title-track del primo disco di studio, wah-wah innestato, basso poderoso, anche un po’ di DJ scratching per aumentare il “casino” (niente paura, se non amate, l’hip hop è lontano continenti interi), l’assolo di batteria immancabile nel tipo di musica (non so se proprio mi mancava), e poi quello di un basso molto “effettato”, fanno da apripista all’immancabile orgia chitarristica, anche se Jimi e Stevie Ray avevano ben altra consistenza, e peraltro il rito classico del rock si perpetua per l’ennesima volta https://www.youtube.com/watch?v=xZD96BKlY2Y .

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Workin’ Hard Woman sta sempre dalle parti degli hard-rock irriducibili, mentre Everybody Needs A Change, sempre con il basso funkyssimo solista in primo piano, prosegue sulle derive di Sister’s e alla lunga, devo dire, comincia a stancare. I dieci minuti di Is There Any Reason portano qualche variazione, i tempi si fanno più lenti e dilatati, si vira persino verso certa psichedelica acida, la chitarra si fa più sognante, per quanto sempre debordante, con accelerazioni improvvise in crescendo e basso e batteria che si dividono gli spazi con la solista della Richey, in questo lungo brano strumentale che una sua aura “hendrixiana” ce l’ha, insomma la “giovanotta” sa suonare. Leavin’ It All Behind è abbastanza scontata, il riff di Something’s Going On fa molto Foxy Lady (o era Purple Haze, o entrambe?) e Just A Thing pure, cose sentite quei due o tre milioni di volte, anche se la grinta non manca. Feelin’ Under, ancora con il volume della chitarra a undici, sta sempre da quelle parti e la conclusiva Risin’ Sun, tratta dall’album dello scorso anno Risin’ Sun,ci porta ad una ulteriore dozzina di minuti di grooves e riff https://www.youtube.com/watch?v=fthFcKiYeAs , melodie e idee poche, se le cercate in questo disco avete sbagliato posto, se cercate chitarre fumanti siete in quello giusto!

Bruno Conti

Rock E Blues In “Bianco E Nero”! John The Conqueror – The Good Life

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John The Conqueror – The Good Life – Alive Natural Sound Records

Un poderoso terzetto (con tastiere aggiunte, all’occorrenza) di stanza a Philadelphia, sulla East Coast, ma originari della zona del Mississippi, Jackson, dove il blues trae le sue radici, i John The Conqueror, nome preso in prestito dal famoso principe/schiavo della tradizione popolare nero-americana, con questo The Good Life sono già al secondo album per la Alive Natural Sound Records, etichetta che vede nel suo roster di artisti anche nomi come Lee Bains III & The Glory Fire, Left Lane Cruiser, Buffalo Killers, Hollis Brown, Beachwood Sparks e la recente aggiunta Mount Carmel (già attivi presso altre etichette), oltre ai Black Keys che per la Alive pubblicano vinili ed EP, tutta gente buona, come vedete.

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Forse proprio ai primi Black Keys si può far risalire il sound di questi John The Conqueror, un rock-blues denso e scarno, che però aggiunge elementi soul e funky, vista la presenza di due artisti di colore nei ruoli chiave della band, chitarra solista e voce Pierre Moore, batteria Michael Gardner, che dovrebbe essere il cugino, mentre al basso l’unico bianco Ryan Lynn che si porta al seguito Steve Lynn alle tastiere, che però non fa parte ufficialmente del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=mF0CUs4u1Fk . A tutti gli effetti una sorta di power trio rock-blues, anche se non di quelli che fanno dell’arte della jam e delle lunghe improvvisazioni chitarristiche il loro credo, optando per un suono chiaramente rock ma dove non si prevede la presenza di un guitar hero a tutti i costi, anche se Moore se la cava egregiamente alla sua Gibson, ma senza esagerare mai, preferendo i riff densi e cattivi dell’iniziale Get’Em dove la band costruisce un groove funky con rimandi a vecchi gruppi “neri” che facevano rock come i Chambers Brothers (senza la componente gospel), ma anche e molto ai citati Black Keys, con soli brevi e vagamente simili pure al miglior Kravitz (non è una eresia) o a Jimi quando concedeva qualcosa alle sue radici nere https://www.youtube.com/watch?v=EwVtJQ3-o1I , anche Mississippi Drinkin’ viene da quella scuola, chitarre riverberate e “primali”, intrecci vocali di stampo vagamente R&B su una base decisamente rock.

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Ritmi tribali e reiterati, come nelle derive leggermente psych di Waking Up To You, dove riff e grinta vanno di pari passo, soli brevissimi e ficcanti, pochissime concessioni al virtuosismo, forse una eccessiva ripetitività, anche se l’aggiunta delle tastiere conferisce a What Am I Gonna Do una sorta di patente soul-rock molto incisiva, dove la bella voce di Moore ha ragione di farsi apprezzare. Però i brani viaggiano quasi tutta in quella sorta di mid-tempo funky, dove il groove è più importante della melodia e le capacità compositive di Pierre Moore non sono eccelse, i brani si assomigliano un po’ tutti. Non è un caso se il brano che forse si nota di più è una cover di Let’s Burn Down The Cornfleld di Randy Newman, musicista notoriamente non dedito abitualmente al blues-rock di matrice sudista, ma che le note sa metterle in fila per benino, anche se l’esecuzione della band non è poi molto differente da quella delle altre canzoni https://www.youtube.com/watch?v=GK2Ye1ym6kM . Potrebbero essere  avvicinati pure ad una sorta di Roots, meno vari e “moderni”, più rockisti e meno hip-hop, ma abili in questa fusione di elementi rock con varie forme di musica nera, blues grezzo e ritmato in primis. John Doe, rallenta i ritmi e si avvale con buoni risultati dell’organo di Steve Lynn mentre Daddy’s Little Girl, dall’inizio soffuso, sembra tentare altre strade sonore ma poi ritorna in fretta al “solito” suono denso e cattivo, ma quantomeno Moore prova a diversificare lo stile compositivo e la solista si lascia andare per una volta tanto. Interessanti ma non fondamentali, li attendiamo a prove più decisive, se ci saranno!

Bruno Conti