Un “Falso” Ante Litteram, Però Anche Un Bel Disco. Jimmy Reed – At Carnegie Hall + Found Love

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Jimmy Reed – At Carnegie Hall + Found Love – Soul Jam Records

Questo disco (anzi questi dischi, perché nel CD ne sono contenuti due), può essere considerato un classico caso di “fake” ante litteram, quando si chiamavano ancora bufale o falsi se preferite: nel 1962 esce per la Vee Jay (la stessa etichetta che pubblicò il primo album americano dei Beatles, quel Introducing…The Beatles che poi scomparirà dalla discografia ufficiale del quartetto di Liverpool, ma anche una sorta di antenata della mia “amata” Cleopatra). La Vee Jay era una etichetta di Chicago, concorrente della Chess, specializzata nella pubblicazione di dischi di blues, di gruppi vocali, di jazz, rock e R&B, per esempio per l’etichetta incidevano Memphis Slim, John Lee Hooker e Jimmy Reed. In effetti già nel 1958 era uscito I’m Jimmy Reed, un LP che assemblava diversi singoli incisi tra il 1953 e il 1958 dal bluesman nativo di Dunleth, Mississippi, Found Love, l’altro disco che troviamo in questo CD, esce nel 1960, e nel 1961 viene pubblicato anche At Carnegie Hall che diventa un grande successo.

Anche quest’ultimo raccoglieva materiale registrato tra il 1955 e il 1961: e fin qui nulla di male, in quanto in quel periodo praticamente quasi tutti gli artisti facevano uscire LP che raccoglievano canzoni uscite in precedenza come 45 giri, ma quelli della Vee Jay si superarono presentando questo At Carnegie Hall come una ricreazione di un ipotetico concerto dal vivo (anche se in effetti, per la precisione, le parole Live o In Concert non vengono mai citate) alla famosa sala da concerto di New York, concepito realizzando una scaletta di fantasia, che però raccoglieva in pratica gran parte dei successi del bluesman americano. Da allora in poi tutte le edizioni in vinile, e poi in CD, riportano, nel retro ovviamente, la scritta which despite its title was actually recorded in the studio”, quindi consideriamolo una sorta di Greatest Hits dell’artista, anche di raccolte se ne esistono molte altre, considerando che però nella edizione della Soul Jam Records sono state aggiunte ulteriori 6 bonus, portando il totale dei brani a un rispettabile 29 canzoni.

Quindi chi compra questo CD di Jimmy Reed ha comunque una occasione unica per conoscere una delle grandi leggende delle 12 battute (e nel CD c’è un bel libretto che ne racconta le vicende con dovizia di particolari) che se nella storia del blues non riveste la stessa importanza, che so, di Robert Johnson, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, John Lee Hooker, i tre King, B.B., Albert e Freddie, per citarne alcuni, con quel suo stile particolare che ruotava intorno alla sua voce pigra, diciamo laidback, lo stile ipnotico della chitarra, e gli sbuffi penetranti dell’armonica, che Reed suonava all’unisono con la chitarra, ha composto quella che viene considerata una lunga serie di standard del blues, in una carriera che si è conclusa alla sua morte nel 1976 a Oakland, Ca., a soli 50 anni. E quindi nel CD scorrono una serie di classici assoluti, dove Reed, accompagnato tra gli altri da Eddie Taylor e William “Lefty” Bates alle chitarre, Willie Dixon, Curtis Mayfield (!) e lo stesso Taylor al basso, e Earl Phillips alla batteria, oltre alla moglie Mary Reed alle armonie vocali.

Il CD ci regala brani come Bright Lights, Big City, Baby What You Want Me To Do, Big Boss Man, Shame, Shame, Shame, ma anche lo splendido blues lento I’m Mr. Luck, con eccellente lavoro della solista, l’intensa e cadenzata What’s Wrong Baby?, l’ipnotica Found Joy, dove il cantato ricorda il giovane Bob Dylan, lo shuffle vivace Kind Of Lonesome, potete anche cambiare i titoli, perché lo stile era alla fine intercambiabile, Reed aveva quei due o tre formati sonori su cui inseriva poche ma incisive variazioni, qualche assolo basico ma essenziale alla formula, qualche rara accelerazione come in I’m A Love You o rallentamento come nella narcotica Blue Blue Water, che conclude Carnegie Hall, o la brillante Found Love che dà il titolo al secondo disco, e tra le bonus la quasi scatenata Shame Shame Shame. Nel CD, che ha un suono decisamente buono nell’insieme, anche se magari non memorabile, qui e là troviamo pure dei brani strumentali . Un disco da 4 stellette, magari mezza stelletta in meno nel giudizio rispetto ai contenuti è per il “trucchetto” del finto concerto.

Bruno Conti

Il “Mago” Del Blues? Più O Meno. Omar And The Howlers – Zoltar’s Walk

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Omar And The Howlers – Zoltar’s Walk – Big Guitar Music           

Il disco precedente, The Kitchen Sink, uscito nel 2015, me lo ero perso, leggendo in giro i commenti si era parlato di un album per certi versi interlocutorio, qualcuno aveva rilevato segnali di una certa “stanchezza” da parte di Omar e dei suoi Howlers, all’incirca per gli stessi motivi altri erano invece comunque soddisfatti dei risultati. In fondo la formula è comunque più o meno sempre quella, il classico power trio di ambito blues(rock), di derivazione texana (il nostro è nato nel Mississippi, ma vive ad Austin da una vita), aperto ad altre influenze, in ogni caso inserite nel grande bacino delle 12 battute classiche. Negli anni precedenti Omar Dykes aveva provato ad inserire nel menu nuovi elementi, pubblicando a proprio nome, e non del gruppo, Runnin’ With The Wolf, un disco che era un omaggio (riuscito) alla musica di Howlin’ Wolf, prima ancora erano usciti un paio di album dedicati a Jimmy Reed, uno in coppia con Jimmie Vaughan e uno da solo, mentre nel CD del 2012, Too Much Is Not Enough. era accreditato come membro aggiunto Gary Primich http://discoclub.myblog.it/2013/07/09/vai-col-vocione-omar-dykes-runnin-with-the-wolf-5499510/ . Ma poi con I’m Gone si era tornati alla formula in trio classica di Omar And The Howlers http://discoclub.myblog.it/2012/06/28/un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m/ , poi ribadita con il citato The Kitchen Sink e ora con questo nuovo The Zoltar’s Walk.

Come forse sapete Dykes si ostina, già dal 2012, a festeggiare i suoi 50 anni di carriera (quindi ora dovrebbero essere 55), non male per uno nato nel 1950, le cui prime mosse risalgono al 1973 e il primo album al 1980. Ma questa è una storia già raccontata, veniamo agli undici brani contenuti nell’album; questa volta sono tutte composizioni originali, che ruotano intorno alle vicende di questo Zoltar, mago e divinatore che appariva nel film Big ma anche in altri cartoons giapponesi, niente cover quindi, ma il risultato non cambia di molto, forse per l’occasione c’è più grinta e passione, anche più divertimento, il vocione di Omar è sempre poderoso e fin dall’apertura Diddleyana di Under My Spell, con riferimenti all’immancabile Jimmy Reed, il groove della ritmica e il lavoro della solista di Dykes sono trascinanti. L’etichetta è piccola, la Big Guitar Music, ma come indica la ragione sociale, il suono vorrebbe essere “grande” e vorticoso; Keep Your Big Mouth Shut rimanda anche al sound dei vecchi Fabulous Thunderbirds, con elementi rock e boogie, a fianco dell’immancabile blues.

E Omar è chitarrista dal tocco all’occorrenza felpato e ricco di feeling, come nella ballata quasi presleyana rappresentata nella delicata What Can I Do, per poi scatenarsi nello shuffle strumentale Zoltar’s Walk o ancora nella più cadenzata Stay Out Of My Yard, dove appare anche una guizzante armonica, suonata da Ted Roddy, ma comunque i “difetti” palesati nel suddetto The Kitchen Sink in parte rimangono, non sempre il vecchio “fervore” del passato è presente, non dico che il gruppo suoni per onorare il contratto, visto che l’etichetta è loro, ma non tutti i brani sono all’altezza. Soapbox Shouter, dedicata a Chuck Berry che sta a metà strada tra Stevie Ray Vaughan e Thorogood, ha la giusta intensità e la chitarra viaggia di gusto, con Meaning Of The Blues che tiene fede al suo titolo ed è più “rigorosa” e Big Chief Pontiac, che è di nuovo uno showcase per l’armonica, in questo caso di Dykes. Non può mancare lo slow blues intenso e ingrifato (ce ne vorrebbero di più) di Always Been A Drifter, dove si apprezzano la tecnica ed il feeling sopraffino di Omar Dykes, o il divertente R&R a tutta velocità della scatenata Mr. Freeze, o i ritmi latineggianti e sudisti della “misteriosa” Hoo Doo, in ricordo dell’amato Howlin’ Wolf. Insomma tutto molto piacevole ma anche, volendo, non indispensabile.

Bruno Conti

Ripassi Estivi 3: Come Chitarrista Niente Da Dire, Per Il Resto… Glenn Alexander & Shadowland

glenn alexander & shadowland

*NDB In effetti questo album rientra proprio a pieno diritto nella categoria dei “ripassi estivi”, considerando che il disco in origine era uscito nel luglio del 2016, ma visto che neppure del maiale si butta via nulla, recuperiamo anche questa uscita: buona lettura.

Glenn Alexander & Shadowland – Glenn Alexander & Shadowland – Rainbow’s Revenge CD

Glenn Alexander è un chitarrista originario di Wichita, Kansas, in attività da più di trent’anni, e nel corso del tempo coinvolto in una lunga serie di sessions ed iniziative varie (tra cui il combo jazz-rock-fusion Mahavishnu Project), ma è maggiormente noto per essere da qualche anno la chitarra solista degli Asbury Jukes di Southside Johnny. Il suo ultimo progetto in ordine di tempo è un gruppo di sette elementi (compreso sé stesso) da lui denominato Shadowland, un combo che propone una miscela di rock, blues, funky, soul e rhythm’n’blues, una sorta di Asbury Jukes di secondo piano: infatti il suono del gruppo non è molto diverso da quello della band capitanata da John Lyon, anche perché la sezione fiati è esattamente la stessa (Chris Anderson alla tromba, John Isley al sassofono e Neal Pawley al trombone), e pure il batterista Tom Seguso fa parte di entrambi i gruppi, mentre al basso troviamo Greg Novick ed alle armonie vocali una certa Oria, che non è altro che la figlia di Alexander (in qualità di ospiti troviamo anche l’organista dei Jukes, Jeff Kazee, e lo stesso Southside ospite all’armonica in un brano).

Glenn Alexander & Shadowland è quindi una sorta di session dei Jukes senza Johnny, e la differenza, sarò banale, si sente: Glenn è un ottimo chitarrista (se no non suonerebbe coi Jukes), ma forse non ha del tutto la statura adatta per fare l’artista solista, sia dal punto di vista compositivo che vocale. Il suo timbro infatti è discreto, ma manca di quella profondità necessaria se si affronta il tipo di musica proposta, va bene nei pezzi più rocciosi, ma nei brani più soulful nei quali servirebbero maggiori sfumature mostra la corda: rimane comunque un eccellente axeman, ed il gruppo (ma questa non è una sorpresa) suona che è un piacere, e quindi il disco alla fine, pur se non imprescindibile, risulta piacevole, alternando canzoni di buon spessore ad altre tagliate un po’ con l’accetta. If Your Phone Don’t Ring è una rock’n’roll song potente e chitarristica, con i fiati a dare più colore ed un ottimo assolo da parte di Glenn, che mostra che il manico c’è, ed una voce che qui non sfigura. Anche Earl Erastus è un pezzo piuttosto granitico, non originalissimo ma se vi piace il rock-blues chitarristico un po’ di grana grossa qui troverete trippa per i vostri gatti; Memphis Soul è invece un funky abbastanza riuscito, gradevole e con i fiati maggiormente dentro alla canzone, mentre Big Boss Man, il noto classico di Jimmy Reed, è rifatto in maniera non convenzionale: il blues c’è eccome, ma la ritmica ed i fiati le danno un tono errebi, e la chitarra fa benissimo la sua parte.

Con I Picked The Wrong Day (To Stop Drinkin’) si cambia registro, in quanto ci troviamo di fronte ad una ottima soul ballad con elementi gospel, molto classica e con un motivo fluido, anche se forse qui serviva un cantante con più profondità; la mossa Get A Life è un jumpin’ blues con fiati, puro Southside Johnny sound (e difatti Mr. Lyon compare all’armonica), solo che il cantante del New Jersey l’avrebbe cantata molto meglio, mentre la lunga Blues For Me And You è a metà tra jazz e blues, un pezzo raffinato e suonato con discreta classe, con Oria che duetta con il padre (mostrando che forse la cantante solista del gruppo avrebbe dovuto essere lei) e la solita inappuntabile chitarra. Get Up è ancora funky suonato in maniera impeccabile ma che mostra ancora una volta l’assenza di un vero cantante, mentre con Common Ground siamo di nuovo in territori soul, forse uno dei pezzi più riusciti del CD, Come Back Baby è un blues swingato di ottimo livello (i fiati suonano alla grande), anche se dal punto di vista vocale il paragone con l’originale di Ray Charles è impietoso. Chiudono la roccata e monolitica The Odds Are Good e C.O.D., altro godibile blues ricco di swing e ritmo. Un discreto disco quindi, anche se sono comunque dell’idea che Glenn Alexander possa continuare a dare il meglio di sé come chitarrista per conto terzi.

Marco Verdi

Un Altro Tassello Nell’Infinita Storia Delle 12 Battute. Eddie Taylor – In Session: Diary Of A Chicago Bluesman 1953-1957

eddie taylor in session

Eddie Taylor – In Session – Diary Of A Chicago Bluesman 1953-1957 – Jasmin Records

Dopo l’interessante compilation dedicata alle prime registrazioni di Roy Buchanan The Genius Of The Guitar http://discoclub.myblog.it/2016/08/24/completare-la-storia-roy-buchanan-the-genius-of-the-guitar-his-early-recordings/ , l’etichetta inglese Jasmine ora ne pubblica una dedicata ad un altro chitarrista (e cantante) che in vita non ha ricevuto i riconoscimenti che avrebbe meritato. Pur non essendo stato dello stesso livello tecnico di Buchanan, Eddie Taylor è stato ciò nonostante uno dei solisti più importanti della scena del blues nero elettrico di Chicago, fin dagli inizi degli anni ’50: anche se era nativo di Benoit, Mississippi, Taylor ha dapprima operato come sessionmen in diverse registrazioni di importanti bluesmen (che vediamo fra un attimo) prima di pubblicare il suo primo album per la Testament solo nel 1966, e poi diverse interessanti uscite tra gli anni ’70 e ’80, fino alla sua morte avvenuta a Chicago nel 1985, a soli 62 anni. Il nostro non viene ricordato negli annali del Blues come uno dei nomi basilari, ma è stato fondamentale nello sviluppo dell’opera, ad esempio, di Jimmy Reed, di due anni più giovane di lui, al quale ha insegnato tutti i trucchi della chitarra, e di cui è stato a lungo collaboratore. Senza addentrarci ulteriormente nelle cronache del blues, diciamo anche che queste registrazioni, nonostante la qualità sia variabile a seconda della provenienza originale, è per la maggior parte più che accettabile, spesso sorprendente, considerando gli anni in cui sono stati registrate tutte le canzoni.

Eddie Taylor, con la sua chitarra (e in qualche brano anche voce) è l’unica presenza costante in tutti i pezzi, alcuni, secondo le note, non pubblicati ai tempi della registrazione ed inseriti in stretto ordine cronologico. I primi due brani vengono da un 45 giri del maggio 1953 attribuito a John Brim, anche lui nella storia del blues di Chicago, ma che francamente non ricordavo, poi ascoltando il primo brano, Ice Cream Man, mi sono ricordato che la canzone appariva nel primo disco dei Van Halen, lo stile chitarristico di Taylor è ovviamente meno dirompente di quello di Eddie, ma, grazie anche alla presenza di Little Walter all’armonica, fa la sua bella figura https://www.youtube.com/watch?v=-FXzfXBHXW8 , come pure la successiva Lifetime Blues. Poi c’è il primo brano con Jimmy Reed, You Don’t Have To Go, con Reed all’armonica e voce e Taylor e John Littlejohn alle chitarre, più un certo Albert King alla batteria, ma non credo sia “quel” King. Classico Chicago Blues elettrico degli esordi. Seguono sette brani del febbraio 1954, quattro a nome Sunnyland Slim, che canta e suona il piano, e tre attribuiti a Floyd Jones, ma la formazione è comunque la stessa in tutte le canzoni, con i due artisti citati, più Eddie Taylor, Snooky Pryor all’armonica, Alfred Wallace alla batteria, ottime Going Back To Memphis e The Devil Is A Busy Man (bel titolo) di Sunnyland Slim, e pure la mossa Shake It Baby, mentre quando guida il vocione di Jones, si apprezzano gli  ottimi slow Schooldays On My Mind e Ain’t Times Hard,, che sembrano dei brani perduti di Muddy Waters, con eccellente lavoro di Taylor alla chitarra e Pryor all’armonica.

Ancora due brani di Brim del 1954 e due tracce di Little Willie Foster, un nome che mi “mancava”! Finalmente i primi due pezzi del gennaio 1955 a nome Eddie Taylor, un 45 giri per l’etichetta Vee-Jay, dove già si notano la grinta e la chitarra del musicista di Benoit. A fine ’55 c’è anche la prima collaborazione con John Lee Hooker, una Wheel And Deal dove ci sono sia Reed che Taylor, e del grande Hook più avanti nel CD ci sono altri due brani, tra cui Dimples, uno dei suoi più grandi successi in assoluto, ma solo anni dopo, negli anni ’60 e in Inghilterra, in pieno boom del British Blues,che su questo pezzo ci costruirà un genere, il primo beat inglese https://www.youtube.com/watch?v=lhitRUFOVts . Nel CD ci sono ancora due pezzi di Jimmy Reed, tra cui spicca You Got Me Dizzy, nonché altre otto canzoni a nome Eddie Taylor, tra cui ricordiamo Big Town Playboy, Don’t Knock At My Door e il “lentone” Lookin’ For Trouble dove si apprezza anche la voce del nostro https://www.youtube.com/watch?v=oYWJDzqERKw  e pure Ride ‘Em On Down, che alla luce delle ultime notizie farà parte di Blue And Lonesome, il “nuovo” disco dei Rolling Stones dedicato ad alcuni classici del Chicago blues. Quindi, anche se la registrazione è tipicamente anni ’50, ma buona comunque, non si tratta di un disco per soli archivisti, ma di un altro tassello nell’infinita storia delle 12 battute.

Bruno Conti

Il Miglior Disco Dal Vivo Di Tom? Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State

tom petty southern accents live

Tom Petty & The Heartbreakers – Southern Accents In The Sunshine State – Gossip 2CD

Per principio di solito tendo a bypassare i sempre più molteplici CD tratti da trasmissioni radiofoniche dell’epoca, in primo luogo perché faccio già fatica a star dietro alle uscite “ufficiali”, in secondo perché la fregatura (leggasi qualità di registrazione insufficiente) è sempre dietro l’angolo, ed in ultima battuta perché questi prodotti è giusto chiamarli con il loro nome: bootleg. L’unica eccezione l’ho fatta per questo live di Tom Petty con i suoi Heartbreakers messo fuori dalla Gossip (???), che documenta la registrazione completa del suo homecoming concert del 1993 a Gainesville, Florida, per la semplice ragione che considero il biondo rocker ed i suoi compari la migliore rock’n’roll band sul pianeta assieme ai Rolling Stones ed a Bruce Springsteen & The E Street Band ma, a differenza delle Pietre e del Boss (che ultimamente hanno aperto gli archivi dei concerti), sono sempre stati un po’ avari sul fronte delle uscite ufficiali dal vivo (a parte il cofanetto pubblicato qualche anno fa, che infatti è uno dei classici dischi da isola deserta). Facendo ricerche online, ho letto poi che la qualità del suono di questo Southern Accents In The Sunshine State era considerata tra l’ottimo e l’eccellente, e con mio grande godimento posso confermare che esistono album dal vivo “regolari” che suonano molto peggio di questo.

Nel 1993 Tom era in un periodo di grazia: veniva da due album di grande successo (Full Moon Fever e Into The Great Wide Open, il suo periodo Jeff Lynne), la sua intesa sul palco con la band era ormai a prova di bomba (oltre ai veterani Mike Campbell e Benmont Tench, c’erano ancora Stan Lynch alla batteria prima di lasciare per darsi…all’oblio, e Howie Epstein, prima che la droga se lo portasse via per sempre) e, grazie anche alla sua militanza nei Traveling Wilburys, la sua popolarità era alle stelle. Venendo a questo doppio CD, e già detto del suono ottimo, sottolineerei prima di una rapida disamina del contenuto la spettacolarità della scaletta, che comprende il meglio degli ultimi due album, vari classici del passato, qualche brano “oscuro”, un paio di interessanti covers e due brani offerti in anteprima.

L’inizio tramortirebbe una mandria di tori: si passa dalla potente Love Is A Long Road, brano oggi un po’ dimenticato ma perfetto per aprire un concerto, alla splendida Into The Great Wide Open (Petty canta benissimo), alla byrdsiana Listen To Her Heart, fino alla grandissima I Won’t Back Down, nella quale tutto il pubblico canta insieme a Tom (e pure io dal mio divano). Anche Free Fallin’ è un perfetto singalong, mentre con le seguenti Psychotic Reaction (un oscuro brano anni sessanta dei Count Five) e Ben’s Boogie, Petty riposa per un po’ le corde vocali, in quanto la prima vede Lynch come cantante solista (con Tom all’armonica) e la seconda è una trascinante improvvisazione strumentale guidata dalle evoluzioni pianistiche di Tench. Tom si riprende il centro del palco con la lunga Don’t Come Around Here No More, da sempre uno degli highlights dei suoi show (ed una vetrina per la bravura di Campbell, sentite il finale), per poi presentare due brani all’epoca nuovi (erano gli inediti del Greatest Hits in uscita in quei giorni): la gradevole Something In The Air (altro brano oscurissimo di una band ancor più sconosciuta, i Thunderclap Newman) e la strepitosa Mary Jane’s Last Dance, grandissima canzone che vede, in quasi nove minuti, Tom e Mike duellare mirabilmente alle chitarre, un pezzo che andrebbe fatto sentire a chiunque sostenga che il rock è morto. Chiudono il primo CD due deliziose canzoni proposte con un inedito arrangiamento acustico, Kings Highway e A Face In The Crowd (ed il pubblico è sempre più caldo).

Il secondo dischetto comincia sempre acustico, con una sorprendente versione, ricca di feeling, del classico dei Byrds Ballad Of Easy Rider (perfetta per la vocalità di Petty), seguita da due cover (elettriche) della celebre Take Out Some Insurance di Jimmy Reed, dove gli Spezzacuori bluesano come se non sapessero fare altro, ed una pimpante Thirteen Days di JJ Cale. Ed ecco un altro brano-manifesto di Petty, quella Southern Accents che, nel 1985, diede il titolo ad uno dei dischi più controversi di Tom (ma la canzone è magnifica), con a ruota la divertente Yer So Bad, con un altro ritornello killer; a seguire abbiamo due canzoni inedite, che a tutt’oggi non hanno una versione in studio: Drivin’ Down To Georgia e Lost Without You (assieme a Something In The Air presenti proprio in questa versione anche nella Live Anthology), due pezzi discreti ma Tom sa fare di meglio. Ed ecco che si preparano i fuochi d’artificio finali: Refugee non ha bisogno di presentazioni, è forse la signature song di Petty per antonomasia insieme ad American Girl, ma anche Runnin’ Down A Dream fa la sua porca figura (e Campbell arrota alla grande), mentre Learning To Fly, full band a differenza degli ultimi anni in cui Tom la fa acustica, è forse ancora meglio dell’originale (e ce ne vuole). Finale pirotecnico con una trascinante Rainy Day Women # 12 & 35 (dopo Byrds e Cale, non poteva mancare Bob Dylan per completare l’omaggio alle influenze di Tom), subito seguita dalla già citata American Girl, più che una canzone una vera e propria celebrazione.

Congedo acustico e solitario con la poco nota Alright For Now: Live Anthology a parte (in cui peraltro tre brani di questo concerto appaiono), come scrivo nel titolo del post questo Southern Accents In The Sunshine State è semplicemente il miglior album dal vivo sul mercato, DVD compresi, di Tom Petty, al punto da farmi quasi dimenticare che è un bootleg.

Marco Verdi

Di Nuovo Effetti Slide! Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’

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Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’ – Ron Hacker

Nell’ultimo periodo, puntuale, ogni due anni circa, Ron Hacker si (ri)presenta con un nuovo album, e noi, altrettanto tempestivi, ve ne diamo conto. Dopo gli ultimi, notevoli, Filthy Animal e Live In San Francisco http://discoclub.myblog.it/2013/01/12/l-arte-della-slide-ron-hacker-live-in-san-francisco/ , il musicista della Bay Area (ma originario di Indianapolis, 70 anni quest’anno) ci propone, nella consueta formula del trio, la sua personale visione del Blues, e lo fa rivisitando, in questo Goin’ Down Howlin’, molti classici delle 12 battute, invertendo il programma tipico delle sue esibizioni, concertistiche e discografiche, dove abitualmente si ascoltava una serie di brani della stesso Hacker, arricchita da alcun cover, scelte con cura nel repertorio sterminato del blues. Per l’occasione il vecchio Ron apre il nuovo album con due brani che portano la propria firma e poi rilegge una serie di canzoni famose di Sleepy John Estes, due brani, Little Walter, Jimmy Reed, Fred McDowell, Chuck Berry, St. Louis Jimmy Oden, e Chester Burnett (aka Howlin’ Wolf), a cui si ispira il titolo del CD. Come ricorda nelle note la figlia Rachell (con due l, così chiamata in onore del mentore di Hacker, Yank Rachell), la musica di questi musicisti è stata la colonna sonora della sua vita, fin dall’infanzia, e se agli altri bambini cantavano ninne nanne, lei si trovava a canticchiare Miss You Like The Devil di Slim Harpo, un brano composto quasi 100 anni prima. Quindi le sembra giusto e doveroso che il babbo abbia voluto rendere omaggio ai grandi musicisti blues che lo hanno preceduto.

Armato della sua immancabile chitarra d’acciaio e di un bottleneck, come riporta la foto di copertina, aiutato da Artis Joyce al basso e da Ronnie Smith alla batteria, e con la sua inconfondibile voce vissuta, Ron Hacker ci regala dieci perle di blues classico (una in due versioni), con due brani acustici, posti in apertura e chiusura, che incapsulano questo disco, tra i migliori della sua discografia. Si apre con Evil Hearted Woman, solo voce e chitarra, e poi si comincia a rollare, con il boogie scatenato di Big Brown Eyes, dove la slide del titolare inizia a macinare note con la consueta grinta e maestria. La prima cover è un adattamento dello stesso Hacker di Hate To See You Go, un brano di Little Walter, dalla classica costruzione sonora, che conferma l’impressione che per l’occasione Ron abbia trattenuto la sua proverbiale furia sonora, brani più brevi del solito, al solito infarciti di soli, però meno selvaggi e irrefrenabili del solito. Impressione confermata nella successiva Axe Sweet Momma, il primo dei brani a firma Sleepy John Estes, qui reso in una versione elettrificata dove si apprezza, come sempre, la slide del titolare, mentre Baby What You Want Me To Do è uno dei brani più famosi di Jimmy Reed e del blues tutto, eccellente la versione presente nell’album, come pure quella di You Got To Move, brano di Fred McDowell, già apparso in altri dischi di Hacker, per esempio in Filthy Animal, dove era attribuito a Memphis Minnie, per l’occasione in versione solo voce e chitarra slide.

Nadine, di Chuck Berry ovviamente, richiede una veste elettrica più tirata e il nostro Ron non si tira indietro, anche se fino a che non si scatena al bottleneck, la prima parte sembra un poco con il freno a mano tirato. Come ricorda il titolo, Goin’ Down Slow, è uno dei grandi “lenti” del blues, prima in versione elettrica, eccellente, e poi in chiusura, acustica, brano famoso anche nella versione di Howlin’ Wolf, e che nel corso degli anni hanno suonato tutti, da B.B. King agli Animals, i Canned Heat, gli stessi Led Zeppelin la suonavano live nel medley di Whole Lotta Love, come riportato nel bellissimo How The West Was Won, ma anche Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, tutti i grandi chitarristi l’hanno suonata, poteva mancare la versione di Ron Hacker? Che poi rende omaggio anche all’appena citato Chester Burnett con una sapida Howlin’ For My Darlin’ e chiude con una scoppiettante Goin’ To Brownsville che più che a Sleepy John Estes sembra appartenere ad Elmore James per la sua profusione di effetti slide.

Bruno Conti  

In Visita Notturna Al “Grande Fiume”! The Mystix – Midnight In Mississippi

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The Mystix – Midnight In Mississippi – Mystix Eyes Records

Non c’è due senza tre (parafrasando un’antico proverbio), così, dopo i Deadman e i Gathering Field dei giorni scorsi, completo questa triade di artisti di culto, parlandovi del nuovo lavoro, Midnight In Mississippi, dei Mystix, un “ensemble” di veterani musicisti di area bostoniana, di cui avevo già recensito il precedente Mighty Tone (12) http://discoclub.myblog.it/2012/05/08/viaggio-nelle-radici-della-musica-the-mystix/ .

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L’attuale line-up di questo mini “supergruppo”, oltre alla confermata presenza del grintoso frontman Jo Lily alla chitarra, annovera musicisti, minori ma validissimi, del calibro di Bobby Keyes (Mary J.Blige) alla chitarra ritmica, il grande bassista Jesse Williams (John Hammond, Al Kooper, Duke Robillard e altri), Matt Leavenworth (Maria Muldaur, Jerry Lee Lewis) al violino e mandolino, la bravissima armonicista Annie Raines (Paul Rishell, Susan Tedeschi), Dennis McDermott (Rosanne Cash, Marc Cohn) alla batteria e percussioni, e alle tastiere Tom West (Susan Tedeschi, Peter Wolf): circondato da questi fantastici musicisti mi viene difficile pensare che possa uscire un disco di poca qualità, e infatti Jo Lily offre undici brani pieni di nostalgia pescati dal repertorio di alcuni grandi artisti blues e R&R, ma non solo.

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Si parte bene con la title track Midnight In Mississippi, firmata dallo stesso Lily, mentre il grande Jimmie Rodgers viene omaggiato con la sua Jimmie’s Blues con l’armonica della Raines a dettare i tempi https://www.youtube.com/watch?v=yTgGtiorEs0 , passando poi a due brani portati al successo da Jimmy Reed Thing’s Ain’t What They Used To Be https://www.youtube.com/watch?v=BidV8J43Tmw  e I’m Going Upside Your Head https://www.youtube.com/watch?v=Xc3i9DXTDmc , intervallati da una bellissima versione di Sunnyland di Elmore James cantata alla grande, con la sua voce di catrame, da Jo https://www.youtube.com/watch?v=GlC7obTdH6A , e il blues acustico di Dream Girl (Slim Harpo) con l’armonica e il violino che si fondono quasi all’unisono https://www.youtube.com/watch?v=peB9AJNDEgU , si riparte con un altro brano firmato da Lily, A Lifetime Worth Of Blues, una splendida ballata da afterhours con un violino dolcissimo che accompagna la melodia, per poi passare a una sofferta Out Of My Mind (Jerry Lee Lewis), al ruspante Johnny Cash di Walking The Blues, al ritmo “dixie” di Jelly Roll dei fratelli di New Orleans, Louisiana, Clarence e Spencer Williams, andando a chiudere con il country-valzer Which Side Of Heartache, dove violino e mandolino accompagnano ancora una volta il tessuto musicale del brano.

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Midnight In Mississippi è quindi un lavoro con un buon equilibrio di brani originali e di cover, una serie di canzoni eccellenti suonate al meglio da questi musicisti “mercenari”(nel senso buono), che non conoscono solo la storia della loro musica, ma anche il dolore e il vissuto delle tante storie personali, e questo album è in fondo una collezione di una musica senza tempo, il suono di un’America rurale rappresentato da un album pieno di “anima”, che potrebbe interessare soprattutto a tutti gli amanti dei buoni dischi https://www.youtube.com/watch?v=OtQfaaz8WBU e di questi Mystix in particolare, un gruppo che sa come suonare questo tipo di repertorio musicale, preso dalle radici dei vari stili utilizzati, con un piccolo sforzo per recuperare i loro CD, diciamo di non facile reperibilità!

Tino Montanari

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

johnny winter live bootleg series vol.11

Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti

“Troppo” Potrebbe Non Essere Abbastanza! Omar And The Howlers – Too Much Is Not Enough

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Omar And The Howlers featuring Gary Primich – Too Much Is Not Enough – Big Guitar Music

Prima che lo diciate voi, e avendolo detto probabilmente tutto l’universo dei recensori blues dell’umano creato, e anche lo stesso Omar Dykes nelle note di questo CD, ebbene sì, aveva già pubblicato un tributo a Jimmy Reed, in coppia con l’amico Jimmie Vaughan, On The Jimmy Reed Highway, nel 2007: ma come dice il titolo di questa “nuova” fatica Too Much Is Not Enough. E poi, sempre come ci ricorda lo stesso Omar Kent Dykes, questo era stato registrato in precedenza e poi accantonato. Ma ora, anche come tributo al recentemente scomparso Gary Primich, che appare all’armonica in dieci dei dodici brani del disco, è stato deciso di pubblicare questo ennesimo omaggio all’arte del grande bluesman Jimmy Reed, questa volta sotto la sigla Omar And The Howlers. E fanno tre dischi a nome del gruppo in questo 2012, nulla per nove anni (escluso un live) e poi il nuovo I’m Gone (un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m.html ), una Essential Collection e ora questo album. Peraltro, nelle note del dischetto, Omar ci “minaccia” benevolmente – Se pensate che sia andato oltre le righe con Jimmy Reed, aspettate quando pubblicherò il mio materiale su Bo Diddley e Howlin’ Wolf –.

Intanto che aspettiamo,  proprio il vecchio lupo mi sembra il punto vocale di riferimento di questo Too Much…, i brani saranno anche tratti dal repertorio di Jimmy Reed, ma Omar li interpreta come se si fosse reincarnato nello spirito di Howlin’ Wolf, con molte inflessioni che ricordano anche il Captain Beefheart più bluesato. Nel disco sono presenti, oltre alla sezione ritmica, meno selvaggia che nei dischi più rock-blues del gruppo, Jay Moeller, fratello di Johnny, e batterista dei Fabulous Thunderbirds, l’allora giovanissimo chitarrista nero texano Gary Clark Jr., che ha di recente pubblicato l’eccellente Blak and Blu per la Warner, oltre al citato Primich e a Derek O’Brien che completa la pattuglia dei chitarristi. Ma, stranamente, non siamo di fronte ad un disco di chitarra blues, ma semplicemente di Blues: ovvio che la chitarra fa parte delle procedure, ma è usata in un modo molto discreto, alla Jimmy Reed direi, niente svolazzi e assoli selvaggi (che vengono riservati ad altre occasioni, soprattutto dal vivo, perché sono comunque nel DNA del buon Omar), ma un suono classico e tradizionale, con moltissimo spazio lasciato all’armonica, che spesso è la protagonista. Omar Kent Dykes tra l’altro si ostina a voler festeggiare i suoi 50 anni di carriera, con tanto di bollino nel libretto del CD, facendo decorrere l’inizio della sua carriera dal 1962, quando aveva 12 anni e suonava nel suo primo gruppo. Ma dove, mi domando io?

Gary Clark ci delizia con la sua tecnica alla slide in un paio di brani, I Gotta Let You Go e la “Elmoriana” (nel senso di Elmore James), You Don’t Have To Go, tutti i musicisti si divertono nella latineggiante Roll In Rhumba. In Ain’t Got You, Omar torna a quel tempo di boogie del suo materiale classico, dove sembra veramente Howlin’ Wolf o Captain Beefheart alla guida degli ZZ Top con formazione ampliata da un ottimo armonicista come Primich. Mentre nel super classico Shame, shame, shame sembra di ascoltare il Duke Robillard più pimpante. Ma tutto il disco è molto piacevole, fuori dal tempo, con un suono volutamente “antico”, fuori dal tempo. non dissimile da quello che utilizza spesso il suo amico Jimmie Vaughan, per amanti del Blues più tradizionale ma non per questo non apprezzabile da chi ama il rock.

Bruno Conti

Viaggio Nelle Radici Della Musica. The Mystix – Mighty Tone

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The Mystix – Mighty Tone – Mystix Eyes Records 2012

Non sempre è facile accostarsi ai nomi minori, la tentazione ed il desiderio insieme è quello di voler scoprire a tutti i costi nuovi artisti, e sottoporli al pubblico degli appassionati per farne oggetto di “culto”, oltretutto la difficile reperibilità degli autori di volta in volta scoperti, aumenta la curiosità ed il gioco di complicità che ne scaturisce. Fatta dunque questa onesta precisazione, vi consiglio l’ascolto di tali The Mystix, attempati veterani della scena blues-rock di Boston,un “supergruppo” di  vecchi marpioni che hanno stile, classe, senso del ritmo e tecnica sopraffina, dovuta ad una lunga gavetta come sessionmen di lungo corso per tanti grossi calibri della scena cittadina e non solo.

Acclamati dal New England come miglior Band di  Boston, debuttano con Satisfy You (2006), e il loro secondo lavoro Blue Morning (2008) è un disco caldo, avvolgente, di grandissimo mestiere, con due cover di valore, I’m a Love You un blues di Jimmy Reed e una sorprendente Rattled dei mai dimenticati Traveling Wilburys, trasformata in un pregevole country-rock. Con Down To The Shore (2009), fanno un ulteriore salto di qualità con una dose massiccia di Chicago Blues, e una forte tradizione sudista. Compongono questa formazione di “turnisti”, Jo Lily ex frontman dei Duke and the Drivers, Bobby Keyes bravissimo chitarrista per Mary J.Blige e Jerry Lee Lewis, Marty Richards batterista con J.Geils Band, Gary Burton e Duke Robilard, il tastierista Tom West che accompagna Susan Tedeschi e Peter Wolf e Marty Ballou bassista con Edgar Winter e John Hammond, più altri musicisti dell’area Bostoniana.

Il risultato di Mighty Tone è tutto da sentire, canzoni senza fronzoli, partendo dall’iniziale Blues #4 pescata dal repertorio di Jimmie Rodgers tra gli inventori del country e dello yodel (infatti il brano in origine si chiamava Blue Yodel #4), eseguita con la voce al catrame di Jo Lily, e proseguendo con lo swamp-rock di Wish I Had Answered (firmata da Pop Staples). Mighty Love e Mean Woman Blues sono due torridi brani blues con armonica d’ordinanza. Il brano che dà il titolo alla raccolta Mighty Tone è uno spensierato honky-tonky, mentre il tradizionale Wave My Hand  è un blues da suonare in un locale di New Orleans, come la seguente Jelly Roll, dixie fino al midollo. Bobby Keyes è un chitarrista dal tocco brillantissimo, e lo dimostra ampiamente in Keep On Walkin’, mentre Just To Be With You è una ballata blues che sarebbe piaciuta al compianto Willy Deville. Non poteva mancare un tocco di Messico con I Believe I’ll Run On, mentre Time Brings About A Change è un boogie raffinato che avrebbe fatto la sua bella figura in Modern Times di Dylan (pur con tutti i distinguo e senza scandalizzarvi troppo). Chiude il disco un altro brano tradizionale Too Close, un “bluesaccio”  solo chitarra, armonica e la voce migliore che potessero desiderare di avere i Mystix.

E’ un peccato che questo gruppo di “malviventi” di talento non abbiano il riconoscimento dovuto, anche se è questo il sottile ed egoistico desiderio degli appassionati, ma poco male, Mighty Tone è un disco di blues bianco e non solo, di puro godimento, i compagni ideali per il vostro sabato sera, poi se decidessero di fare un salto dalle nostre parti (in un certo locale di Pavia), sarei ben contento di dividere con loro un buon Jack Daniel’s.

Tino Montanari