Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte I

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*NDB. Come al solito quando Marco si lascia prendere la mano (ma per qualcosa che vale la pena) il contenuto del Post si allunga a dismisura, quindi dividiamo in due parti la recensione del cofanetto.

Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Da sempre Ian Hunter è uno dei miei musicisti preferiti, in quanto per me rappresenta la quintessenza del cantante rock, con in più quel tocco dylaniano nel songwriting che non guasta (anzi): durante la sua lunga carriera, sia come frontman dei Mott The Hoople che da solista, ha mantenuto una qualità decisamente elevata, confermata circa due mesi fa dall’ottimo nuovo disco, Fingers Crossed. Per celebrare la parte solista del cammino discografico di Hunter, la Proper ha pubblicato (solo sul suo sito ed in una quantità limitata a 2.500 copie) questo Stranded In Reality, mastodontico box di ben 28 CD più due DVD, un’opera magnifica che ha il solo difetto di costare parecchio (250 sterline), ma che dimostra che quando si vuole è possibile gratificare i fans con prodotti di altissimo livello come questo. Infatti il box, oltre a comprendere tutti gli album solisti di Ian, sia quelli in studio (tranne l’ultimo, che è però appena uscito) sia i live ufficiali (e tutti in versione rimasterizzata ex novo, in confezione simil-LP e mantenendo tutte le bonus tracks delle varie edizioni deluxe uscite nel corso degli anni, ed ognuno con il suo bel booklet con testi e note), aggiunge ben nove CD quasi completamente inediti, tra brani in studio, outtakes, rarità assortite e canzoni dal vivo, e due DVD con performance varie ed anche in questo caso il più delle volte rare. In più, uno splendido libro con copertina dura e note di Ian stesso canzone per canzone, una rivista fittizia, intitolata Shades, che comprende recensioni ed articoli vari sul nostro pubblicati negli anni dalle più prestigiose testate inglesi, ed una foto autografata. Un cofanetto da leccarsi i baffi dunque, che vado a riepilogare per sommi capi, approfittandone anche per riassumere la carriera di un artista che secondo me andrebbe inserito nel novero dei grandi.

Ian Hunter (1975): il disco d’esordio di Ian è subito un classico. Con Mick Ronson come chitarra solista, partnership che proseguirà anche negli anni a seguire, Hunter ci regala un album che rappresenta alla perfezione la sua arte, a partire da Once Bitten, Twice Shy, un coinvolgente rock’n’roll ispirato da Chuck Berry, e che prosegue con la vigorosa Who Do You Love, la sontuosa Boy, una fantastica ballata di quasi nove minuti, l’acustica e toccante 3.000 Miles From Here, la solida The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth, con uno strepitoso assolo di Ronson, la vibrante e roccata I Get So Excited e, tra i bonus, le outtakes Colwater High e One Fine Day (entrambe con parti vocali incise nel 2005), che non avrebbero sfigurato sul disco originale.

All American Alien Boy (1976): registrato a New York con una superband (che vede Chris Stainton al piano, Jaco Pastorius al basso ed Aynsley Dunbar alla batteria, oltre a tre quarti dei Queen, cioè Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor ai cori nella ballad You Nearly Did Me In), questo è un altro grande disco, con più pezzi lenti rispetto all’esordio (ma Ian è un fuoriclasse anche nelle ballate), che si apre con la splendida Letter From Britannia To The Union Jack, una vera e propria missiva scritta con il cuore in mano da Ian al suo paese in profonda crisi, la scintillante title track, con gran lavoro di Pastorius, o la pianistica e bellissima Irene Wilde, una delle ballate più riuscite del nostro. Ma non sono da meno neanche Rape, dal sapore gospel, e la volutamente dylaniana God.

Overnight Angels (1977): un buon disco, molto più rock del precedente ma inferiore nel songwriting, un album poco considerato ma solido, con qualche buona canzone ed altre più normali. Golden Opportunity è un inizio potente e deciso come un pugno in faccia, ben bilanciato dalla pianistica Shallow Crystals, una rock ballad coi fiocchi. Ma la poco spontanea title track, un tentativo costruito a tavolino di scrivere una hit, non funziona, così come la pomposa Broadway; il resto si divide tra cose più riuscite ed altre meno (tra le prime la gradevole Miss Silver Dime e The Ballad Of Little Star, il miglior slow del disco), o veri e propri riempitivi come l’insulsa Wild’n’Free.

You’re Never Alone With A Schizofrenic (1979): al quarto disco Ian firma il suo capolavoro: con mezza E Street Band in session (Roy Bittan, Garry Tallent e Max Weinberg, più Ronson  di nuovo alla solista, l’ex Velvet Underground John Cale al piano in Bastard ed Eric Bloom dei Blue Oyster Cult ai cori) Schizofrenic è un grandissimo disco, quasi un greatest hits se si contano i futuri classici presenti. Grandi canzoni rock come Just Another Night, Cleveland Rocks, When The Daylight Comes (splendida) e Bastard, e superbe ballate come Ships, dal suono levigato, Standing In My Light e la straordinaria The Outsider, forse il più bel lento mai scritto dal nostro. Ma il disco brilla anche nei momenti meno noti, come il festoso errebi Wild East ed il boogie pianistico Life After Death; tra le bonus tracks, una Just Another Night più lenta ma altrettanto bella (con un grande Bittan) ed una scatenata versione del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ Goin’ On.

Welcome To The Club (1979): la decade dei grandi dischi dal vivo si chiude con uno dei più belli, registrato al Roxy di Los Angeles, e che vede Hunter in forma strepitosa, ben coadiuvato da Ronson e da un gruppo che va come un treno. Dopo un inizio con la potente rilettura dello strumentale degli Shadows FBI, il doppio CD presenta versioni spiritate di classici di Ian solista ma anche dei Mott The Hoople (Angeline, poco conosciuta ma bellissima, All The Way From Memphis, I Wish I Was Your Mother, Walkin’ With A Mountain, il superclassico All The Young Dudes, One Of The Boys e The Golden Age Of Rock’n’Roll): un disco potente ma lucido ed ispirato anche nelle ballate (una Irene Wilde da favola), e con in fondo tre brani nuovi incisi in studio, dei quali il migliore è senza dubbio lo slow Silver Needles.

Short Back’n’Sides (1981): nonostante la presenza di due Clash, Topper Headon e soprattutto Mick Jones (che produce insieme a Ronson), questo esordio di Ian nella nuova decade è un disco un po’ involuto e senza particolari guizzi, con sonorità gonfie tipiche del periodo: si salvano Central Park’n’West, un pop-rock orecchiabile e coinvolgente nonostante l’uso massiccio di sintetizzatori, e la stupenda Old Records Never Die, ballata incisa la sera in cui viene assassinato John Lennon. Il resto, con la possibile eccezione della colorita I Need Your Love, un errebi alla Southside Johnny, è trascurabile (e Noises è proprio brutta): Hunter stesso, nelle note del book accluso al box, non è per nulla tenero verso questo album.

All Of The Good Ones Are Taken (1983): questo sarà l’ultimo disco di Ian negli anni ottanta (una decade nefasta per molti rockers), un album che non contiene classici futuri ma una media di canzoni migliore del precedente, anche se il sound è notevolmente peggiorato (Captain Void’n’The Video Jets fa davvero schifo): tra gli highlights abbiamo la bella title track, una rock song che risente solo in parte del suono dell’epoca (e presenta un paio di buoni interventi al sax di Clarence Clemons), il rock’n’roll un po’ bombastico di Every Step Of The Way, la bowiana Fun, l’orecchiabile That Girl Is Rock’n’Roll (ma troppi synth) e la soulful Seeing Double.

Yui Orta (1990): dopo sette lunghi anni di silenzio, Ian torna con l’unico disco accreditato a metà anche a Mick Ronson (che però si limita, si fa per dire, a suonare la solista ed a collaborare al songwriting), ed è un buon disco, un album rock con una produzione rutilante e con diverse buone canzoni, anche se non serve a rilanciare la figura del nostro. Hunter ritrova comunque grinta e smalto e le belle canzoni non mancano, come la potente rock ballad American Music, al livello dei suoi pezzi degli anni settanta, la seguente The Loner, diretta come un macigno, l’energica e vibrante Women’s Intuition, o ancora la trascinante Big Time, un rock’n’roll scatenato come ai bei tempi. E Livin’ In A Heart dimostra che il nostro è ancora in grado di scrivere ballate coi fiocchi.

Ian Hunter’s Dirty Laundry (1995): nel 1993 scompare tragicamente Mick Ronson, e Hunter va fino in Norvegia ad incidere il nuovo disco con musicisti locali. Le nuove generazioni conoscono poco il nostro, ed il fatto che Dirty Laundry esca per una piccola etichetta locale non aiuta di certo; è un peccato, perché il disco è il più riuscito dai tempi di Schizofrenic, un album di rock al 100%, grezzo, diretto e chitarristico, con brani come la ritmata Dancing On The Moon, la corale e splendida Good Girls, uno dei più bei rock’n’roll del nostro, la travolgente Never Trust A Blonde, rollingstoniana fino al midollo, la deliziosa Psycho Girl, tra rock e pop e con una fulgida melodia. Ma poi abbiamo anche la meravigliosa Scars, una sontuosa ballata elettroacustica e dylaniana, che avrebbe meritato ben altra sorte. E quelle che non ho citato non sono certo inferiori (Invisible Strings è splendida): un disco da riscoprire assolutamente.

BBC Live In Concert (1995): accreditato alla Hunter-Ronson Band, questo CD registrato a Londra nel 1989 è stato pubblicato anche per omaggiare lo scomparso Mick. Un ottimo live, ben suonato e con un Hunter in forma, che accanto a classici assodati (Once Bitten, Twice Shy, Just Another Night, Standing In My Light, Bastard, Irene Wilde), presenta ben sei brani in anteprima da Yui Orta, che uscirà di lì ad un anno (eccellenti How Much More Can I Take? e Big Time), ed anche un inedito, Wings, invero piuttosto trascurabile.

The Artful Dodger (1996): disco registrato in Norvegia come Dirty Laundry, ma con maggior dispendio di mezzi (all’epoca uscì per la Polydor), The Artful Dodger è meno rock e con più ballate del suo predecessore, ma ha il merito di rimettere in circolo il nome di Hunter. Un lavoro più che buono, che ha come brano centrale Michael Picasso, una toccante ballata dedicata all’amico Ronson, ma che presenta diversi pezzi sopra la media, come Too Much, uno slow d’atmosfera davvero riuscito, la superlativa Now Is The Time, il limpido folk-rock Something To Believe In, la cristallina (ed autobiografica) 23A, Swan Hill, o la title track, unico vero rock’n’roll del CD. Mentre il funk-rap di Skeletons era meglio se non ci fosse stato.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Torna La “Veterana” Del Rock Indipendente. Thalia Zedek Band – Eve

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Thalia Zedek Band – Eve – Thrill Jockey Records/Goodfellas

Di questa signora e della sua storia musicale (che ha attraversato 35 anni del rock indipendente americano), è tutto documentato dalle precedenti recensioni fatte su questo Blog,  in occasione delle uscite degli album Via (13) e  dell’EP Six (14) sempre editi dalla Thrill Jockey Records http://discoclub.myblog.it/2013/03/20/dal-post-punk-alla-via-dark-thalia-zedek-band-via/ . Ora Thalia Zedek torna (con mio sommo piacere) con questo nuovo lavoro dal titolo breve come i precedenti: Eve, composto da dieci tracce di “blues urbano”, cantate da una voce per certi versi unica, album che non fa rimpiangere il suo passato con i Come, e i “classici” di quel periodo.

I suoi “complici” in questa nuova avventura sono come sempre dei musicisti al suo fianco sin dal 2001, come il violista David Michael Curry e il bravo pianista Mel Lederman, con l’aggiunta di Winston Braman al basso, Jonathan Ulman alla batteria e percussioni, con la stessa Zedek che suona le chitarre. Fin dai primi accordi di una grintosa Afloat si entra fortemente nella musica di Thalia, con una sezione ritmica “underground” a dettare il ritmo, pezzo a cui fanno seguito una 360° memore dei tempi andati con il suono della chitarra sincopato, la lenta liturgia di una canzone dolente come Be The Hand, per poi passare alla pianistica Illumination (che sembra quasi cantata da Nico), e una ballata blues notturna con la voce in primo piano come You Will Wake. Lo spirito di John Cale si manifesta fortemente durante lo sviluppo sonoro di Northwest Branch, canzone che fa da preludio al capolavoro del disco, rappresentato dalle forti tensioni di una Not Farewell, che parte in sordina con pochi accordi di chitarra, poi lentamente entra tutta la band e la musica nel finale si dilata in una forma simil “psichedelica”, mentre la viola accompagna una robusta sezione ritmica in Try Again, andando poi a chiudere in chiave folk con una elettro-acustica (Tom Verlaine style) Walking In Time, e infine All I Need una canzone d’amore in forma “unplugged”.

Thalia Zedek è nota principalmente per la sua militanza nei “bostoniani” Come, ma da quando, dal 2001, ha intrapreso la sua carriera solista, tutto il rock “indie” in fondo deve riconoscerle e restituirle, almeno in parte, la giusta considerazione che (purtroppo) non ha mai avuto in carriera. In questo ultimo lavoro Eve, come al solito la scrittura di Thalia e il suo “background” urbano danno alle canzoni un suono semplicemente affascinante, con una strumentazione tagliente e dolente, sorretta da una voce rauca e nello stesso tempo intensa, con momenti di dolore di rara intensità. Se alla fine di questo percorso non vi ho convinto, consiglio comunque il CD a chi ama il “genere”, e in passato è stato legato ai meravigliosi Come di Chris Brokaw e Thalia Zedek: a ben vedere dischi come questo non solo sono una rarità, ma sono toccasana per la cura dell’anima.!

Tino Montanari

Un Ripasso Più Che Doveroso! Lou Reed – The Sire Years: Complete Albums Set

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Lou Reed – The Sire Years: Complete Albums Set – Sire/Warner 10CD

Due anni fa, ad Ottobre, moriva prematuramente Lou Reed, uno dei grandi, anzi secondo me uno dei più grandi di tutti i tempi (e celebrato scandalosamente in sordina dalla stampa “che conta”, ma si sa che tra Lou ed i media l’amore non era mai sbocciato), e non è che da allora il mercato discografico sia stato inondato di iniziative a lui dedicate (anzi): è quindi con piacere che accolgo la pubblicazione di questo The Sire Years, che si occupa dell’ultima parte della carriera del rocker newyorkese, live compresi (mancano gli ultimi due album, cioè Berlin Live ed il CD in collaborazione coi Metallica Lulu, in quanto usciti per altre etichette…ed evito di citare il disco ambient Hudson River Meditations ed il live rumoristico The Creation Of The Universe preferendo consegnarli ad un giusto oblio). L’opinione comune è che il miglior periodo di Reed sia quello con la RCA/Arista, durante il quale il nostro ha prodotto capolavori assoluti come Transformer e Berlin e grandi album come Coney Island Baby, Street Hassle, The Bells e The Blue Mask, oltre a quello che per me è il più bel disco dal vivo di sempre dopo il Fillmore East degli Allman Brothers Band, cioè il formidabile Rock’n’Roll Animal: ebbene, questo boxettino smentisce in parte questa teoria, perché se è vero che Lou dopo il 1986 ha diradato di parecchio la sua produzione, è anche indubbio che ha sempre mantenuto un livello di qualità molto alto. Questo cofanetto è quindi indispensabile per chiunque voglia approfondire il discorso musicale dell’ex Velvet Underground, favorito anche dal costo per una volta contenuto (la confezione è di quelle spartane, niente note e bonus tracks, né rimasterizzazione, ma i dischi di Lou hanno sempre suonato benissimo): è dunque opportuno un breve ripasso dei dieci dischetti contenuti nella confezione.

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New York (1989): Lou inizia col botto la sua nuova avventura discografica, cioè con quello che è il suo disco da me preferito dopo Transformer. New York è, come da titolo, un concept dedicato alla sua città, che descrive con toni talvolta pieni d’amore, altre volte duri e critici, non mandandole a dire come da suo costume e facendo nomi e cognomi (Rudy Giuliani, allora non ancora sindaco, Jesse Jackson, George Bush Sr., ma anche Mike Tyson e Papa Wojtyla) e preferendo parlare più del degrado urbano e dei bassifondi che dei lati positivi. Musicalmente il disco è molto rock e diretto, e vede il nostro in grande forma, accompagnato da una solida ed essenziale band e con ospiti come Maureen Tucker e Dion. Le grandi canzoni sono più d’una, dalle roccate Romeo Had Juliet, Busload Of Faith, There Is No Time e la potente Strawman, ma anche ispirate ballad come Halloween Parade, Endless Cycle o la vivace Sick Of You. Ma la punta di diamante è senza dubbio Dirty Blvd., un instant classic che dal quel momento nei concerti assumerà la stessa importanza di Walk On The Wild Side e Sweet Jane.

Songs For Drella (1990): accreditato a Lou insieme all’ex compagno dei Velvet John Cale, Songs For Drella è un affettuoso e poetico ma anche ironico omaggio al loro ex mentore Andy Warhol scomparso da poco (Drella era un suo soprannome, un incrocio tra Dracula e Cinderella, usato per descrivere il suo carattere, un misto di crudeltà e dolcezza). Suonano tutto Lou e John, il primo la chitarra ed il secondo piano e viola, ma le interpretazioni sono talmente intense che non ci si accorge dell’assenza di una band: data l’unitarietà del lavoro ha poco senso citare un brano piuttosto di un altro, ma se proprio devo dico la bella Open House, la deliziosa Nobody But You e la commovente Hello It’s Me, in assoluto una delle più toccanti interpretazioni di Lou.

Magic And Loss (1992): un altro grande disco, anche se molto diverso da New York: Magic And Loss è un album cupo e permeato da testi che parlano della morte (è infatti ispirato alla scomparsa di due cari amici di Lou, uno dei quali è il noto songwriter Doc Pomus), un tema trattato con molta meno leggerezza che su Songs For Drella, ma con un valore poetico tra i più alti mai raggiunti dal nostro. Da segnalare la diretta What’s Good (il singolo dell’epoca), la cupa ma intensa Magician, la splendida Sword Of Damocles, una delle canzoni più emozionanti di Lou, o la scorrevole Warrior King. E se non vi viene la pelle d’oca ascoltando Cremation e Harry’s Circumcision vuol dire che siete dei duri di cuore.

Set The Twilight Reeling (1996): a quattro anni da Magic And Loss (ma nel mezzo c’è stata la reunion con i Velvet Underground) Lou torna con un buon disco, anche se inferiore ai precedenti (il classico tre stelle e mezza). Ispirato in parte ancora da New York, Set The Twilight Reeling ci consegna un Reed comunque in buona forma, e si fa ricordare per l’accattivante HookyWooky, la dura Egg Cream, la controversa Sex With Your Parents ma anche per cose più rilassate come NYC Man, che sembra un rifacimento di Walk On The Wild Side, o la title track, una ballata coi fiocchi, una delle più belle di Lou, che da sola vale l’acquisto del CD.

Perfect Night: Live In London (1998): dopo l’inarrivabile Rock’n’Roll Animal, questo è il live di Lou che preferisco. Registrato in modalità elettroacustica (ma full band) al Meltdown Festival di Londra nel 1997, e con un suono davvero spettacolare, Perfect Night vede il nostro in forma strepitosa presentare una bella serie di classici del suo repertorio. La sequenza iniziale formata da I’ll Be Your Mirror, Perfect Day, The Kids, Vicious (molto diversa da quella conosciuta), Busload Of Faith e Kicks è semplicemente da urlo, ma poi abbiamo anche una stupenda Coney Island Baby, una convincente New Sensations, fino al finale a tutto rock’n’roll di Dirty Blvd. Imperdibile.

Ecstasy (2000): l’ultimo grande disco di studio di Lou (infatti a distanza di quattro anni dalla sua uscita non ho ancora deciso se Lulu è un mezzo capolavoro o un mattone indigeribile), Ecstasy è un ottimo lavoro di classico rock alla maniera del nostro che, ad eccezione della pesantissima ed inascoltabile Like A Possum (diciotto minuti quasi rumoristici), contiene diverse canzoni di livello medio-alto, come la quasi rollingstoniana Paranoia Key Of E, la grintosa Future Farmers Of America, la superba ballad Turning Time Around o la conclusiva e trascinante Big Sky. Però la copertina che ritrae Lou con un’espressione orgasmica ce la potevano risparmiare.

The Raven (2003): uno dei progetti più ambiziosi del nostro, cioè la riscrittura e messa in musica delle opere del grande Edgar Allan Poe, per un disco in parte deludente. Nonostante i molti ospiti di nome (David Bowie, Ornette Coleman, la moglie Laurie Anderson, Kate & Anna McGarrigle, The Blind Boys Of Alabama, oltre purtroppo al solito Antony che rovina coi suoi gorgheggi, o sarebbe meglio dire gargarismi sotto acido, un rifacimento della splendida Perfect Day) l’album soffre una certa pesantezza di fondo, ed i continui intermezzi narrati non contribuiscono di certo a rendere più fruibile il tutto (esiste anche una versione singola senza le parti parlate). In più, dal punto di vista compositivo il lavoro suona involuto e cerebrale, ed i brani che salvano la baracca sono quelli (pochi) dove Lou lascia fuoriuscire maggiormente la sua vena più classica: Edgar Allan Poe, un furioso ed adrenalinico rock’n’roll, Call On Me, uno slow di grande impatto emotivo, e soprattutto la maestosa Who Am I?, che farebbe la sua bella figura su qualsiasi disco del nostro.

Animal Serenade (2004): un altro live, doppio (registrato al Wiltern di Los Angeles), con un Lou Reed insolitamente loquace e spiritoso, ma quando suona fa sul serio eccome: la band è un macigno (fatta eccezione per l’ingombrante presenza di Antony Hegarty ed i suoi insopportabili vocalizzi), ed il disco ha un’atmosfera piuttosto cupa. Ci sono diversi classici dei Velvet, tra cui una toccante Sunday Morning (raramente proposta dal vivo) ed una magnifica Venus In Furs, mai così cruda ed agghiacciante; ottime anche Tell It To Your Heart, The Day John Kennedy Died ed una Street Hassle che fa il paio con Venus In Furs in quanto a drammaticità.

Considerazione finale: nel riascoltare questi dieci dischetti mi è venuta voglia di ripassare anche gli album precedenti di Lou Reed. Potenza della (grande) musica.

Marco Verdi

E’ Sempre Un Piacere (Nonostante Le Ripetizioni)! Ian Hunter – From The Knees Of My Heart

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Ian Hunter – From The Knees Of My Heart – The Chrysalis Years (1979-1981) – Chrysalis 4CD

Come avevo già scritto parlando della sua ultima fatica When I’m President, io sono da sempre un ammiratore di Ian Hunter, che ho sempre considerato una sorta di Bob Dylan più rock’n’roll (e io adoro sia Dylan che il rock’n’roll, quindi…), con l’aggiunta di un gusto melodico sopraffino che lo ha sempre visto eccellere anche nelle ballate.

Nonostante questo, quando ho visto il contenuto di questo boxettino intitolato From The Knees Of My Heart, in un primo momento mi sono girati i maroni: ma come? Dopo soli tre anni dalla sontuosa edizione doppia deluxe di You’re Never Alone With A Schizofrenic, cioè il disco più bello di Hunter insieme ai primi due (ma non sottovaluterei il recente Man Overboard), lo stesso album mi viene ripresentato in un’edizione più “povera” come primo dei quattro CD?

La cosa che mi ha subito calmato è stato il prezzo del box: praticamente come un singolo CD, e visto che il quarto dischetto è (quasi) totalmente inedito, e che ci sono anche alcune sorprese sparse sugli altri CD, ho deciso che questa era una pubblicazione da avere.

Ma andiamo con ordine: From The Knees Of My Heart, come recita il sottotitolo, prende in esame gli album pubblicati da Ian durante il suo breve periodo alla Chrysalis, cioè due dischi in studio ed un live, più un altro concerto all’epoca uscito solo in VHS (e sfido chiunque di voi ad averlo, nel 1981 in Italia c’erano a malapena i videoregistratori).

Se siete seguaci di questo blog, non penso che io debba parlarvi più di tanto di You’re Never Alone With A Schizofrenic: semplicemente è uno dei grandi dischi rock degli anni settanta, con Hunter ispirato come non mai, e con un gruppo di musicisti incredibile (oltre al fido Mick Ronson, c’è dentro il cuore della E Street Band, cioè Bittan, Tallent e Weinberg, oltre a John Cale ed a Eric Bloom, lead vocalist dei Blue Oyster Cult). Un disco imperdibile, con classici assoluti di Ian quali Just Another Night, Cleveland Rocks, Ships, When The Daylight Comes, Standin’ In My Light, anche se forse il mio brano preferito è The Outsider, una ballata stellare, nella quale Hunter raggiunge punte di pura poesia rock, cantata con un pathos formidabile. Il primo CD contiene anche alcune versioni alternative tratte dalla ristampa del 2009, oltre ad un brano disponibile solo in download (una prima versione di Ships) e tre inediti assoluti, tra cui Alibi, un brano mai pubblicato prima da Ian.

Il secondo CD contiene Welcome To The Club, ovvero il miglior live album della carriera di Hunter: registrato al Roxy di Los Angeles, vede Ian ripercorrere il meglio della sua carriera solista e con i Mott The Hoople, con una band tostissima guidata da un Mick Ronson in stato di grazia. Ian stesso è in forma strepitosa, e ci regala quasi un’ora e mezza di rock’n’roll da strapparsi i capelli (Once Bitten, Twice Shy, All The Way From Memphis, The Golden Age Of Rock’n’Roll, la formidabile cover di Laugh At Me di Sonny Bono) e di ballate strepitose (Irene Wilde, la superdylaniana I Wish I Was Your Mother), oltre naturalmente al superclassico All The Young Dudes. Questo secondo CD non contiene bonus, anzi omette i brani registrati in studio per il disco originale (ma li recupererà sul quarto CD), e mancano anche due live tracks presenti invece nella ristampa del 2007 (ma difficile da trovare). E’ comunque sempre una goduria di disco!

Il terzo CD contiene Short Back’n’Sides che è, parola di fan, l’album meno bello di tutta la discografia di Ian: prodotto con Mick Jones dei Clash, ha i suoi punti di forza in due soli brani, cioè Central Park’n’West, infarcita di sintetizzatori ma con un bel tiro rock ed una melodia coinvolgente, e Old Records Never Die, una delle più belle ballate di Hunter, incisa la sera dell’omicidio di John Lennon. Per il resto, una serie di brani irrisolti, non particolarmente ispirati, e con arrangiamenti talvolta discutibili, tra pop, new wave e reggae, si salvano Rain e la buona Keep On Burning: i bonus sono in parte tratti dalla ristampa del 1994 (ormai introvabile), più un paio di inediti assoluti (Detroit e China) che nulla aggiungono al disco.

Il quarto CD, intitolato Ian Hunter Rocks, è come già detto la ristampa di una videocassetta registrata dal vivo nel 1981 a New York, con Hunter come al solito impeccabile on stage: non è Welcome To The Club (non c’è neppure Ronson), ma ha comunque il suo perché. I brani di Short Back’n’Sides guadagnano punti in questa veste (specialmente I Need Your Love, quasi un’altra canzone, in medley addirittura con Honky Tonk Women degli Stones, che il libretto mette erroneamente mixata con All The Way From Memphis), ed in più nel finale c’è un medley spettacolare di una decina di minuti che fonde All The Young Dudes, Ships, Honaloochie Boogie e la fantastica Roll Away The Stone.

Come cilegina, nel booklet interno ci sono le disamine brano per brano (tra il serio e il faceto, anzi quasi sempre faceto) di Ian stesso, che danno così un sigillo di garanzia all’operazione.

Dio benedica Ian Hunter.

Marco Verdi

Novità Di Ottobre Parte I. John Cale, Who Tribute, Beatles, Lau, Mary Gauthier, Tori Amos, Meat Loaf, Bruce Foxton, Bob Dylan, Tragically Hip

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La settimana del 2 ottobre si aprono le grandi manovre di autunno, come uscite discografiche ed escono moltissimi dei dischi annunciati sul Blog nei mesi scorsi. Se volete, andando a ritroso, ed è una buona occasione per “sfogliare” questo spazio, li trovate tutti: da Van Morrison a Diana Krall, Wanda Jackson, Tift Merritt, Beth Orton, Iris Dement, Muse, Heart, Mark Eitzel, Bob Mould, Steve Winwood, la ristampa di Arc Of A Diver, il cofanetto Atlantic Soul Legends, Lucy Kaplansy, sono in uscita domani, ma scavando tra le uscite ci sono altri titoli interessanti da citare. Quelli che non trovate, probabilmente, avranno una recensione apposita a parte, oppure semplicemente non interessano o me li sono dimenticati, comunque partiamo, anche con qualche mini recensione, visto che poi, nonostante l’aiuto dei miei validi collaboratori, non sempre c’è il tempo di tornare a parlare di tutto, con appositi approfondimenti.

John Cale, a parte un EP lo scorso anno, era dal 2005 di Black Acetate che non rilasciava un nuovo album. Il CD del 2012 si chiama Shifty Adventures In Nookie Wood, esce per la Double Six/Domino Records e prevede tra l’altro una collaborazione con Danger Mouse nell’iniziale I Wanna Talk to U. Speriamo bene, si parla di escursioni in vari stili e generi, come è sempre stata caratteristica di Cale, ma i suoni moderni e l’elettronica avranno il sopravvento sulla sua anima rock?

Ennesimo tributo a cura dell’americana Cleopatra Records che ormai si è creata una sua nicchia di mercato dedicata ai “vecchi ma bravi”, questa volta è il turno di Who Are You – An All Star Tribute To The Who, quindi dopo Supertramp e Prog Rock è il turno di Townshend e Daltrey. La lista dei brani e dei partecipanti è notevole, con qualche scelta discutibile (il trio che fa My Generation, per esempio e anche Raveonettes e gli Sweet che fanno Won’t Get Fooled Again, ma pe’ cottesia!):

1. Eminence Front – John Wetton (Asia) K.K. Downing (Judas Priest) Derek Sherinian (Dream Theater)
2. Baba O’Riley – Nektar Jerry Goodman (Mahavishnu Orchestra)
3. I Can See For Miles – Mark Lindsay (former lead singer of Paul Revere & the Raiders) Wayne Kramer (MC5)
4. Love Reign O’er Me – Joe Elliot (Def Leppard) Rick Wakeman (Yes) Huw Lloyd-Langton (Hawkwind) Carmine Appice (Vanilla Fudge)
5. My Generation – Knox (The Vibrators)
Dave Davies (The Kinks) Rat Scabies (The Damned)
6. The Kids Are Alright – The Raveonettes
7. Won’t Get Fooled Again – Sweet
8. Anyway Anyhow Anywhere – Todd Rundgren Carmine Appice (Vanilla Fudge)
9. I Can’t Explain – Iggy Pop
10. Behind Blue Eyes – Pat Travers
11. Magic Bus – Peter Noone (Herman s Hermits) Peter Banks (Yes) Ginger Baker (Cream)
12. Who Are You – Gretchen Wilson Randy Bachman (Bachman-Turner Overdrive)
13. Pinball Wizard – Terry Reid Mike Pinera (Blues Image) Brad Gillis (Night Ranger)
14. Squeeze Box – John Wesley (Porcupine Tree) David Cross (King Crimson)
15. Bargain – 38 Special Ted Turner (Wishbone Ash) Ian Paice (Deep Purple)
16. The Seeker – Joe Lynn Turner (Rainbow) Leslie West (Mountain)

Tori Amos, da quando incide per la Deutsche Grammophon si sta un po’ avvitando su sè stessa. Gold Dust è una sorta di uscita celebrativa per festeggiare il 20° dall’uscita di Little Earthquakes, ma è anche l’occasione per Tori di rivisitare il meglio del suo catalogo, con nuove versioni di molti classici registrate con l’aiuto della Metropole Orchestra diretta da Jules Buckley, un po’ come ha fatto Sting recentemente, tra l’altro suo compagno di etichetta alla DG. Il tutto è stato registrato in presa diretta con l’orchestra e quindi anche il piano ha ampio spazio negli arrangiamenti. Non manca la versione Deluxe con DVD allegato, che contiene il classico Making Of, più i video di Flavor e Gold Dust.

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I Lau sono considerati tra i migliori gruppi del nuovo folk tradizionale britannico (scozzese per la precisione), non per nulla hanno vinto il BBC Folk Awards nel 2008-9-10; questo Race The Loser è il loro terzo album di studio, più un live Sarebbero (sono) il gruppo di Kris Drever, che pubblica anche a nome proprio oltre ad avere una miriade di collaborazioni. Il disco è prodotto da Tucker Martine, che questa settimana ha in uscita anche i dischi di Tift Merritt e Beth Orton, sempre curati da lui. Un uomo molto occupato.

Torna, a sorpresa, l’ho letto proprio in questi giorni, anche Mary Gauthier, una delle voci femminili preferite su questo Blog. Il CD è dal vivo, Live At Blue Rock, che è un piccolo ranch convertito alla musica in quel di Austin, Texas. Una sorta di greatest hits registrato con i suoi collaboratori abituali, Tania Elizabeth al violino e Mike Meadows alle percussioni. Ci sono però anche due canzoni nuove e la classica hidden track alla fine (se è “nascosta” perché ce lo dicono prima o addirittura lo scrivono, mah?). Distribuisce la Proper Records. Non dimenticate che The Foundling è stato uno dei dischi più belli del 2010.

Il Boxettino che vedete di Bob Dylan è più che altro una curiosità, una nuova serie della Sony dedicata ad alcuni nomi classici del loro rooster di artisti: si chiama The Real Bob Dylan (ne ho visti anche un paio di altri dedicati a Benny Goodman e Dave Brubeck), è triplo, dovrebbe costare meno di 10 euro e il contenuto è anche interessante, per novizi (e collezionisti):

Disc: 1
1. Talkin’ New York
2. Song To Woody
3. A Hard Rain’s A-Gonna Fall
4. The Times They Are A-Changin’
5. With God On Our Side
6. Chimes Of Freedom
7. Boots Of Spanish Leather
8. Mr. Tambourine Man
9. It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding)
10. Like A Rolling Stone
11. I Want You
12. Positively 4th Street
13. Down Along The Cove
14. All Along The Watchtower
15. I’ll Be Your Baby Tonight
16. Tonight I’ll Be Staying Here With You
Disc: 2
1. If Not For You
2. You Ain’t Goin’ Nowhere
3. Forever Young
4. Watching The River Flow
5. Knockin’ On Heaven’s Door – Carol, Patterson, Brenda, Donna
6. On A Night Like This
7. The Mighty Quinn (Quinn, The Eskimo)
8. Precious Angel
9. Tangled Up In Blue
10. Gotta Serve Somebody
11. One More Cup Of Coffee
12. Changing Of The Guards
13. Hurricane
14. Buckets Of Rain
Disc: 3
1. Silvio
2. Foot Of Pride
3. Blind Willie McTell
4. Jokerman
5. Pressing On
6. Everything Is Broken
7. Series Of Dreams
8. Most Of The Time
9. The Groom’s Still Waiting At The Altar
10. Every Grain Of Sand
11. Sweetheart Like You
12. Brownsville Girl
13. Dignity
14. Dark Eyes

 

I brani li hanno scelti un po’ a casaccio, a occhio mi sembra che non ci siano , delle molte famose, Blowin’ In The Wind e Lay Lady Lay, però per un neofita o per chi non vuole spendere cifre folli per dei Greatest Hits, mi sembra molto funzionale, una buona iniziativa nel cinquantenario del vecchio Bob!

 

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Uno dei campioni mondiali dei “piaceri proibiti” in ambito musicale, a cui si accennava nel Post dedicato a Jeff Lynne, forse è proprio Meat Loaf. Con Bat Out Of Hell ci ha costruito una intera carriera, eppure quel disco, per chi scrive, rimane un chiaro esempio di come fare della buona musica rock, con l’aiuto di un grande produttore, Todd Rundgren, un bravo autore, Jim Steinman, e dei musicisti fantastici, mezza E Street Band, quasi tutti gli Utopia e ospiti assortiti vari, tra cui Ellen Foley ed Edgar Winter. Salvo poi, con una serie di seguiti di valore vieppiù decrescente, rovinarsi la reputazione, anche se uno zoccolo duro di fans lo ha sempre mantenuto. Chi meglio di lui quindi poteva pubblicare un bel Guilty Pleasure Tour (Live From Sydney, Australia 2011), un CD+DVD edito dalla Store For Music (?!?): la parte audio contiene 10 brani e dura 70 minuti, la parte video ne riporta 13 per un totale di 120 minuti, più (o compreso, non si capisce) un documentario di 40 minuti sul tour. Ci sono ovviamente molti dei classici ma anche qualche brano recente. “Polpettone” invecchia ma ci prova sempre.

Dopo essersi riavvicinati in seguito alla morte della moglie di Bruce Foxton e del padre di Paul Weller, i due ex Jam collaborano al primo disco da solista di Foxton. Il titolo del disco del bassista è Back In The Room, esce per la Bass Tone Records e tra i musicisti coinvolti ci sono Mark Brzezicki alla batteria, il chitarrista e vocalist Russ Hastings  e come ospiti, Steve Norman, il sassofonista degli Spandau e Steve Cropper. Foxton, non se la cava male anche come cantante, considerando che in alcuni brani dei Jam, tipo This Is The Modern World e David Watts, la voce solista era lui. Ad essere del tutto sinceri, Foxton nel 1983 aveva già pubblicato un album come solista, Touch Sensitive, ma credo non se lo ricordi nessuno.

I Tragically Hip, canadesi, sono una delle band più longeve del rock alternativo, più o meno contemporanei dei R.E.M., il primo disco è del 1983, e mi sono occupato di loro ai tempi sul Buscadero, recensendone alcuni dischi. Ricordo anche che mi piacevano parecchio e quindi avrei voluto postare la recensione in anteprima di questo Now For Plan A, poi come al solito, mi è mancato il tempo. Però il disco, che li riporta con una major, la Zoe Records/Rounder del gruppo Universal, è bello e Gord Downie ha sempre una bella voce, ricordano molto i Rem, è vero, ma ci sono arrivati insieme, non sono dei meri copisti. Produce Gavin Brown (Metric, Three Days Grace, Tea Party, Barenaked Ladies e anche Sarah Harmer, che appare nell’album). Il loro rock alternativo, melodico e ben cantato, si ascolta con piacere.

Breve appendice.

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Vi sembrava possibile che il 50° anniversario dall’uscita del primo singolo dei Beatles, Love Me Do sarebbe passato sotto silenzio? Certo che no. E quindi il 5 ottobre, la data fatidica, uscirà questa versione limitata in vinile, manco a dirlo su etichetta Parlophone, del 45 giri originale!

Bruno Conti

Anche Per Lui Il Tempo Si E’ Fermato! Ian Hunter – When I’m President

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Ian Hunter – When I’m President Slimstyle/Proper CD

Per uno come me, appassionato, tra le altre cose, di rock’n’roll e di Bob Dylan, Ian Hunter ha sempre rappresentato uno dei musicisti preferiti in assoluto, e se siete frequentatori abituali di questo blog non devo certo stare qui a spiegarvi perché.

Ho seguito i passi artistici di Hunter fino dai tempi dei Mott The Hoople, sia all’inizio, quando non se li filava nessuno, sia nella loro “golden age” (ovvero da All The Young Dudes in poi), passando per i suoi primi dischi solisti, alcuni tra i più belli degli anni settanta (specialmente il debutto omonimo, il seguente All American Alien Boy ed il live Welcome To The Club), fino agli anni ottanta e novanta, il suo periodo più buio, durante il quale pubblicava dischi che compravano solo i suoi parenti stretti. Poi, nel nuovo millennio, complice anche un certo revival del rock classico dopo gli anni del grunge, il nome di Hunter torna alla ribalta, anche se in misura molto minore rispetto a prima, ed album come Rant e Shrunken Heads ricevono ancora l’attenzione di pubblico e critica, per non parlare dello splendido Man Overboard di tre anni fa, uno dei suoi dischi più belli in assoluto (io l’avevo eletto disco dell’anno 2009).

*NDB (Che sarebbe Nota del Bruno o del Blogger) Mi intrometto per dire che io avrei inserito, forse anche al primo posto, You’re Never Alone With A Schizophrenic, quello con mezza E Street band, John Cale, e Mick Ronson produttore. Ristampato tre anni fa in una versione da sballo doppia, con inediti e live a profusione, per il 30° anniversario! Mi taccio e ridò la parola a Marco).

Il bello di Hunter è proprio questo: anche nei periodi di anonimato, di dischi brutti non ne ha mai fatti (beh, forse Short Back’n’Sides del 1981 non era proprio un capolavoro…), e anche questo nuovo lavoro, When I’m President, risente positivamente della vena artistica apparentemente inesauribile dell’occhialuto Ian.

Non siamo ai livelli eccelsi di Man Overboard, ma quasi: a 72 anni suonati Ian non ha perso un’oncia della sua grinta, ed anche dal punto di vista vocale e compositivo è più in forma che mai: When I’m President è decisamente più rock del suo predecessore, che era più bilanciato tra brani elettrici e ballate, ma non c’è un solo brano sottotono, e Ian ci dà dentro come un ragazzino. Il merito è anche della produzione asciutta di Andy York (già stretto collaboratore di Willie Nile, ma soprattutto di John Mellencamp), che mette in primo piano la voce e le chitarre, e della bravura della sua Rant Band, nella quale militano elementi di grande esperienza che danno del tu agli strumenti (tra loro spiccano certamente Mark Bosch, straordinario chitarrista, il tastierista Andy Burton, già con Robert Plant, ed il batterista Steve Holley, ex membro nei seventies dei Wings di Paul McCartney).

Ian parte a tutta birra con Comfortable (Flyin’ Scotsman), un irresistibile rock’n’roll dei suoi, che richiama da vicino il periodo d’oro coi Mott: chitarre e piano in evidenza, gran ritmo e voce dylaniana in grande spolvero, un inizio migliore non poteva esserci.

Fatally Flawed parte quasi come un brano soul, poi nel ritornello le chitarre prendono il sopravvento e le tonalità diventano decisamente rock (sentite l’assolo centrale di Bosch, siamo ai limiti dell’hard rock): a più di settanta primavere Ian ha ancora la grinta di un ventenne (anzi, i ventenni di oggi mi sembrano molto più svogliati).

When I’m President ha un testo ferocemente sarcastico (nel quale Ian se la prende coi candidati di tutti i colori politici, sostenendo a ragione che i loro buoni propositi una volta eletti e dopo aver assaggiato il potere vanno a farsi fottere), mentre musicalmente è un rock lineare e fluido tipico suo, dotato di una melodia e di un refrain che si fanno apprezzare al primo ascolto: grande classe.

What For è ancora puro rock’n’roll Hunter-style, dal ritmo semplicemente travolgente, sullo stile di brani storici come The Golden Age Of Rock And Roll o All The Way From Memphis.

Black Tears è una ballata pianistica, ma sempre molto elettrica: non è tra i migliori slow di Ian, ma si fa ascoltare con piacere, e poi l’assolo chitarristico vale il prezzo.

Saint è una godibilissima rock song elettroacustica, uno di quei brani da canticchiare subito e che al nostro riescono particolarmente bene, impreziosito da un bel riff di clavinet: uno dei miei preferiti finora. Molto bella anche Just The Way You Look Tonight, una splendida ballata di matrice folk-rock, ritmo saltellante, melodia contagiosa e Ian che canta sempre meglio. Wild Bunch è ancora rock’n’roll, ed anche qui si fatica a restare fermi, con Hunter che sembra davvero divertirsi un mondo (bello l’assolo di piano di Burton ed il coro finale sul tema di Glory Glory Halleluyah); Ta Shunka Witko (Crazy Horse), introdotta da una ritmica tribale, è una canzone tesa ed affilata dedicata agli indiani d’America, musicalmente meno immediata delle precedenti.

L’album si chiude con la potente I Don’t Know What You Want, un rock-blues insolito per Ian, denso, chitarristico e cantato benissimo, e con Life, finalmente una ballata di quelle che hanno reso famoso Hunter: lunga, fluida e discorsiva, piena di pathos e con un motivo di prim’ordine, è la degna conclusione dell’ennesimo grande disco del riccioluto rocker britannico. La frase finale del brano è talmente toccante nella sua semplicità e spontaneità che sento il dovere di riportarla pari pari: “I hope you had a good time, hope your time was good as mine, my you’re such a beautiful sight. I can’t believe after all these years you’re still here and I’m still here, laugh because it’s only life”.

Che dire ancora? Che di musicisti come Ian Hunter non ne fanno più! Ripeto: grande disco…peccato per la copertina, veramente orrenda (ma lo perdono).

Marco Verdi