Un’Altra Gemma Dagli Archivi Di Uno Dei Più Grandi Jazzisti Di Sempre. John Coltrane – Blue World

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John Coltrane – Blue World – Impulse/Universal CD

Non sono mai stato (e a questo punto mai sarò) un grande appassionato di jazz, il che non vuol dire che qualche volta non mi conceda qualche digressione nel genere, specie quando si parla di grandi artisti e soprattutto di musica non troppo cerebrale; ci sono poi due artisti davanti ai quali non posso far altro che togliermi il cappello ed inchinarmi, e cioè Miles Davis e John Coltrane, tra l’altro entrambi gratificati in questi giorni da pubblicazioni inedite. Ma se Rubberband, che contiene sessions inedite degli anni ottanta del trombettista di Alton, è un lavoro raccogliticcio e pesantemente manipolato in fase di post-produzione, Blue World di Coltrane è un album assolutamente degno di nota. Sinceramente non pensavo che a distanza di appena un anno dallo splendido “album perduto” Both Directions At Once avremmo avuto tra le mani un’altra uscita inedita del più grande sassofonista jazz di sempre: Blue World è il frutto di sessions che il nostro tenne nel 1964 a capo del suo quartetto (con Jimmy Garrison al basso, Elvin Jones alla batteria e lo straordinario McCoy Tyner al pianoforte, per chi scrive la miglior configurazione tra le tante della carriera di “Trane”) con l’intento di registrare le musiche per la colonna sonora del film Le Chat Dans Le Sac del regista canadese Gilles Groulx.

Quella soundtrack non fu mai pubblicata all’epoca, e nel film venne usata solo una canzone per intero ed i frammenti di altre due, ma oggi la Impulse ci regala a sorpresa il prodotto di quelle registrazioni, ed il risultato è davvero eccelso. Coltrane in quel periodo era in stato di grazia, aveva appena dato alle stampe Crescent e stava per pubblicare il suo capolavoro assoluto A Love Supreme (e Both Directions At Once era stato inciso appena un anno prima), e le otto tracce di Blue World ci mostrano un gruppo che suona in maniera fantastica, riuscendo a coniugare mirabilmente arte ed accessibilità. Sì, perché il disco è veramente piacevole e per nulla ostico, ed è formato da brani relativamente brevi (tranne uno), perfetti in teoria per commentare le immagini di un film: la durata complessiva è di appena 36 minuti, il che forse contribuisce a rendere l’ascolto ancora più godibile. Pur essendo incisioni mai sentite prima, l’unico vero inedito è la title track (che in realtà è basata sulla melodia di Out Of This World, brano scritto da Harold Arlen e Johnny Mercer e presente sull’album Coltrane del 1962), mentre gli altri pezzi sono rifacimenti di canzoni che il nostro aveva messo su album di qualche anno prima, quando ancora incideva per la Atlantic e per la Prestige.

Il CD (rimasterizzato in maniera spettacolare) inizia subito benissimo con Naima, pezzo lento e raffinato pieno di sonorità calde che ci avvolgono all’istante: John suona in maniera decisamente rilassata e dopo circa due minuti lascia spazio al magnifico piano di Tyner (con il ritmo che aumenta leggermente), per poi riprendere in mano il brano e portarlo a termine in scioltezza. Village Blues ha appunto la struttura ritmica di un blues, anche se poi Trane sciorina una melodia molto discorsiva e gradevole, doppiato dal trio alle sue spalle che lo segue in modo perfetto, con Tyner che chiude il brano da par suo. Blue World, la canzone, vede la band guidata dal piano iniziare senza il leader, che però non si fa attendere e ci delizia con un’altra performance fluida e, ripeto, decisamente fruibile, sei minuti di grande musica seguiti da altre due takes di Village Blues, più rilassata la prima e leggermente accelerata la seconda, ma entrambe impeccabili e con un gran lavoro della sezione ritmica. La breve Like Sonny ha un ritmo scattante e spezzettato, con John che duetta in maniera sopraffina con McCoy, suo vero alter ego all’interno della band, mentre Traneing In è la traccia più lunga, quasi otto minuti, i primi tre dei quali occupati da un assolo di basso di Garrison a cui fa seguito l’ingresso in sincrono di piano e batteria, ed il brano è una raffinatissima ed elegante ballata in cui Tyner ci delizia le orecchie con una prestazione sontuosa: pensate che Coltrane arriva solo dopo cinque minuti a chiudere il pezzo, proprio come fanno i grandi chef con i loro piatti. L’album termina con una seconda take di Naima, anch’essa tutta costruita intorno al magico suono di sax e pianoforte.

L’appuntamento autunnale con un disco inedito di John Coltrane potrebbe a questo punto diventare una piacevole abitudine: se il livello è quello di Blue World (ma anche di Both Directions At Once) non mi lamento di sicuro.

Marco Verdi

Il Jukebox “Personale” Di Joe Camilleri! Black Sorrows – Endless Sleep

black sorrows endkess sleep

Black Sorrows – Endless Sleep/One More Time – Roosty Music/Ird – 2 CD

Lo confesso, sono di parte, ma per chi scrive Joe Camilleri, cantante, compositore, chitarrista e sassofonista, è uno dei più grandi “losers” di cui è piena la storia del rock, ma lui dopo più di cinquanta anni di carriera musicale se ne infischia e prosegue inossidabile per la sua strada. Una strada che negli anni lo vede prima comprimario e poi protagonista e leader di varie formazioni, di cui le più importanti sono certamente stati i Jo Jo Zep And The Falcons (nel primo periodo), i Relevators con James Black e Joe Creighton, e infine la sua creatura preferita, i formidabili Black Sorrows (giunti con questo disco al 18° album). Questo nuovo lavoro è composto da due CD: il primo, Endless Sleep raccoglie 14 nuove tracce che sono delle cover degli eroi musicali di Joe (una operazione simile se ben ricordo era stata già fatta con i Relevators con Amazing Stories il disco del ’93)), mentre One More Time è un Bonus CD che raccoglie in tredici brani i grandi successi di questa grande band australiana.

Per togliersi questo sfizio, il buon Joe porta negli studi Woodstock & Black Pearl di Melbourne la sua attuale line-up, composta da John McAll alle tastiere, Claude Carranza alle chitarre, Angus Burchall alla batteria, Mark Gray al basso, la sua corista preferita, la bravissima Vika Bull,  con l’apporto di una “squadra di turnisti” del posto che risponde ai nomi di Jeff Burstin, Eric Budd, Paul Williamson, Ed Bates, Paddy McMullin, Matt Amy, Nui Moon, Johnny Salerno, Phillip Rex, Danny Spencer, e ovviamente il leader indiscusso Joe Camilleri voce, chitarre e sassofono.

Il “jukebox” dei ricordi si apre con due pezzi da novanta, una Devil In Disguise di J.J. Cale, che viene rivoltata come un calzino, in una versione rock’n’roll, e la mitica Dirty Boulevard di Lou Reed, rifatta con il marchio di fabbrica del gruppo, per poi passare al gospel-blues di God Don’t Like It di Blind Willie McTell, mentre That’s A Pretty Good Love è cantata da Vika Bull, che sale in cattedra la sua bellissima voce, per poi lasciare il passo ad una gioiosa Excitable Boy del compianto Warren Zevon. Dopo il rifornimento di monete, il Jukebox riparte con la title track Endless Sleep di Jody Reynolds (un cantante di Rockabilly degli anni ’60), una sofferta e bella versione di un brano tra i più celebri di Hank Williams I’m So Lonesome I Could Cry (è stata cantata fra i tanti anche da Elvis Presley e Johnny Cash), passando ancora per il blues di Hard Time Killing Flor di Skip James, la rilettura jazz di un classico di John Coltrane Lonnie’s Lament solo pianoforte e sax del duo McAll-Camilleri, mentre Better Days Ahead è un brano di grande atmosfera uscito dalla penna di Gil Scott-Heron, cantato e suonato al meglio da tutta la band. Inseriti gli ultimi spiccioli nel Jukebox andiamo alla scoperta di un pioniere del blues, il cantante-chitarrista Fred “Mississippi” McDowell per una torrida versione di una 61 Highway dove spicca la slide-guitar di Carranza, passando per Baby Let Me Kiss You un pezzo del cantante soul King Floyd, stravolto in una versione funky, omaggiare il grande Willy DeVille con una stratosferica versione di StoryBook Love (la trovate nella Colonna Sonora di The Princess Bride), e chiudere con un altro grande loser della musica, Eddie Hinton e la sua Just Like The Fool That I Was, chiaramente in chiave “soul”.

One More Time recupera brani di successo tratti dai loro innumerevoli album, e forse si poteva fare una selezione migliore, riproponendo canzoni bellissime che hanno avuto meno fortuna come Hold It Up To The Mirror, che trovate su Harley & Rose (90),(un disco da avere assolutamente), in ogni caso è sempre un bel sentire, a partire dai ritmi folk-soul di Lover’s Story, la storica Hold On To Me, ballate classiche del gruppo come Chosen Ones e la bellezza incontaminata di Ain’t Love The Strangest Thing cantata e suonata al meglio (voce e sax) da Camilleri, e non poteva mancare la musica di frontiera di Harley & Rose, per chiudere con le fisarmoniche ariose e il canto seducente di A Fool And The Moon.

 

Con Endless Sleep lo scopo di Joe è perfettamente riuscito, recuperare un gruppo di canzoni da sempre amate, scritte da autori da sempre considerati come propri punti di riferimento, incisi con i suoi amati Black Sorrows, interpretate e suonate in maniera del tutto originale, mescolando il rock al soul, il country al folk, il blues al reggae, spingendosi fino al jazz e gospel, con lo scopo dichiarato di dare nuova vita ad una manciata di piccole “gemme” più o meno dimenticate.

Tino Montanari

Prossimo Disco Dal Vivo Per Eric Johnson – Europe Live

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Eric Johnson – Europe Live – Mascot/Provogue/Edel CD/2LP 24-06 UK/EU 01/07 ITA

Come dicevo, recensendo il precedente Up Close Another Look http://discoclub.myblog.it/2013/02/13/provaci-ancora-eric-una-anteprima-eric-johnson-up-close-anot/ , Eric Johnson non è un artista particolarmente prolifico, tra dischi in studio, dal vivo e il progetto G3 fatichiamo ad arrivare a dieci. Quindi questo nuovo Europe Live giungerà come una gradita sorpresa per i fans del chitarrista texano. Registrato nel corso del tour europeo del 2013, la maggior parte del materiale proviene dalla serata al Melkweg di Amsterdam, con alcuni brani tratti da due date in Germania, ed è l’occasione per fare il punto della situazione sulla sua carriera, ma soprattutto per ascoltare uno dei massimi virtuosi della chitarra elettrica attualmente in circolazione: il genere di Johnson non è di facile definizione, sicuramente c’è una forte componente rock, ma anche notevoli accenti prog, blues, fusion, jazz e qualche piccola spolverata di country, folk e qualsiasi altra musica vi venga in mente, con l’enfasi posta proprio sul virtuosismo allo strumento, in quanto la musica prevede poche parti cantate e quindi si basa molto sul lavoro alla chitarra di Eric, che in questa occasione (come quasi sempre) si esibisce in trio, con gli ottimi (benché non molto noti Chris Maresh al basso e Wayne Salzmann alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=4M6amrKDt1w .

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Tra i suoi prossimi progetti ci sono collaborazioni con il collega Mike Stern e nuovi dischi in studio, sia elettrici che acustici, mentre in tempi recenti è stato possibile ascoltarlo nei dischi di Sonny Landreth, Christopher Cross, Oz Noy, e sempre Mike Stern, mentre il side-project degli Alien Love Child (dove appariva il bassista Maresh) al momento sembra silente. Proprio da quel disco proviene Zenland, uno dei brani più rock di questo Live, preceduto da una breve Intro, che è una delle due tracce inedite di questo album. Austin, è il brano dedicato da Mike Bloomfield alla città texana, uno di quelli cantati dallo stesso Eric, anche se la versione di studio su Up Close, mi pareva più grintosa, non si può negare il fascino di questo brano, dove il blues assume quell’allure molto raffinata che lo avvicina a gente come Robben Ford, Steve Morse ed altri musicisti “prestati”  alle dodici battute, anche se nel caso di Robben è vero amore https://www.youtube.com/watch?v=KPH8YitsJwQ .

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Forty Mile Town è una ballata romantica e dagli spunti melodici, cantata sempre da Johnson, in modo più che dignitoso, ma non memorabile, nobilitata da un lirico assolo. Una delle cover principali del disco è una versione vorticosa di Mr. P.C, un brano di John Coltrane, quasi dieci minuti di scale velocissime ed improvvisate che escono dalla chitarra di Johnson, con ampio spazio per gli assolo del basso di Maresh e della batteria di Salzmann, come nei live che si rispettano, siamo più dalle parti del jazz-rock e della fusion, ma il tutto viene eseguito con grande finezza. Manhattan era su Venus Isle, il disco del 1996, un altro strumentale naturalmente molto intricato nei suoi arrangiamenti, con la chitarra sempre fluida ed inventiva del titolare a deliziare la platea dei presenti e noi futuri ascoltatori del CD. Zap, che era su Tones, il suo disco migliore, a momenti vinse il Grammy nel 1987 come miglior brano strumentale, ed è una bella cavalcata a tempo di rock, con continui cambi di tempo e tonalità della struttura del brano e Chris Maresh che fa numeri alla Pastorius con il suo basso elettrico fretless.

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A Song For Life vede Eric Johnson passare all’acustica, un brano tra impressioni classiche e new age, che si trovava sul primissimo Seven Worlds. Fatdaddy viceversa viene dall’ultimo Up Close ed è uno dei brani più tirati dell’intero concerto, quasi a sfociare in un hard rock virtuosistico degno dei migliori Rush o dei più funambolici Dixie Dregs dell’amico Steve Morse. Last House On The Block è il brano più lungo del CD, una lunga suite di oltre dodici minuti, tratta dal disco degli Alien Love Child, divisa in varie parti, anche cantate, e tra le migliori cose del concerto nei suoi continui cambi di tempo ed atmosfere sonore, che si avvicinano, a momenti, al miglior rock progressive degli anni ’70. La breve Interlude ci introduce al brano più famoso di Johnson, Cliffs Of Dover, che il Grammy lo ha vinto (video vintage https://www.youtube.com/watch?v=smwQafhNU6E, altra cavalcata nel migliore rock progressivo, mentre Evinrude Fever, è l’altro brano inedito presentato in anteprima in questo tour europeo e che è l’occasione per una bella jam di stampo rock con tutta la band che viaggia a mille sui binari del rock più travolgente, con intermezzi blues e R&R inconsueti nel resto del concerto. Finale con Where The Sun Meets The Sky ribattezzata per l’occasione Sun Reprise, un brano affascinante, molto complesso nel suo dipanarsi, con effetti quasi cinematografici e che chiude degnamente questo Live destinato agli amanti di un certo rock, ricco di virtuosismi ma non privo di sostanza e qualità.

Bruno Conti

*NDB In questi giorni mi sono accorto che, a mia insaputa (come all’ex ministro Scajola), è stato aperto un canale su YouTube dedicato al Blog https://www.youtube.com/channel/UC_HDvJLsHP-MY0cQQjjb_Aw, probabilmente generato dai moltissimi video che inserisco in ogni Post oppure dalla nuova piattaforma WordPress utlizzata da MyBlog, non saprei dirvi, comunque c’è e potete entrare a leggere i post anche da lì.   

“Nuovi” Guitar Heroes. Chris Duarte Group – Live

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Chris Duarte Group – Live 2 CD Blues Bureau/Shrapnel

Sono passati all’incirca sei mesi da quando ci eravamo sentiti per l’ultimo album di Chris Duarte, My Soul Alone, ( clienti-abituali-chris-duarte-group-my-soul-alone.html) ed eccoci con un nuovo album, questo doppio Live. Per onestà non è che il chitarrista di Austin, Texas sia un musicista così prolifico d’abitudine, la sua media è un disco all’anno dal 2007 ad oggi, con il 2012 dedicato ad una ristampa (era probabilmente impegnato con il tour giapponese che ha dato vita a questo disco dal vivo) e gli anni precedenti con uscite più sporadiche. Come detto più volte Duarte è quanto di più vicino ci sia, tecnicamente e nello spirito, al compianto Stevie Ray Vaughan. Non è un clone, ma ci assomiglia parecchio, in alcuni momenti la somiglianza del sound è impressionante, quasi più SRV dell’originale. In venti anni circa di onorata carriera non aveva mai pubblicato un disco dal vivo e per il power-blue-trio rock di Chris Duarte la dimensione in concerto è naturalmente l’ideale. Al basso e seconda voce c’è Yoshi Ogashara del gruppo giapponese Bluestone Co. che aveva suonato nel disco 396 e alla batteria Jack Jones e insieme costituiscono una sezione ritmica di tutto rispetto, potente ma anche valida tecnicamente, se c’è da picchiare ci danno dentro, ma nei blues lenti e nelle improvvisazioni jazzate, tipo la cover di Alabama di John Coltrane, sanno essere molto ricercati.

La maggior parte delle cover è concentrata nella parte iniziale del concerto: il classico strumentale Hideaway di Freddie King è eseguito con vigore ma con la giusta dose di classe, considerando che Duarte è in possesso di una tecnica notevole, spesso straripante verso un hard-rock-blues anche violento e caciarone, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui, a maggior ragione da un Live. Big Legged Woman era un brano scritto da Leon Russell sempre per Freddie King nell’ultimo periodo di carriera, quello degli album RSO con Eric Clapton (che verrà ricordato negli extra di un box di Eric che uscirà tra non molto, vedrete). Brano funky con la chitarra che si inerpica nei meandri del Texas blues di Stevie Ray Vaughan con ottima scelta di toni e sonorità nel dispiegarsi del brano. Ridin’ è un bel pezzo rock hendrixiano che si trovava su Infinite Energy del 2010. Altra cover per Do The Romp di Junior Kimbrough, cattiva il giusto e poi Make Me Feel So Right un ottimo shuffle che si trovava su Blues In The Afterburner, l’album che veniva promosso in quel tour, sempre da quell’album il primo slow blues, una lancinante e torrenziale Bottle Blues.

Let’s Have A party sempre attribuita a Duarte, come da titolo è una sarabanda a tutta velocità nei territori del R&R cari a Bugs Henderson o per rimanere nei texani classici, Johnny Winter sempre con SRV nel cuore. Still I Think You era nel disco con i Bluestone Co, onesta ma nulla più, come il disco di studio, Free For Me dai ritmi spezzati e sincopati era sul disco del 2000, bello l’assolo. Poi un cover che non ti aspetti (anche se l’aveva già registrata in studio), una versione psichedelica di One More Cup Of Coffee di Dylan come avrebbe potuto farla Hendrix se fosse stato ancora vivo. Ancora hendrixiana la strumentale 101 che ci rimanda ai gloriosi anni con gli Experience. Nel secondo CD vorrei ricordare una versione lunghissima del super classico funky dei Meters, People Say dove Duarte dà il meglio di sé, Hold Back The Tears, un ottimo brano lento, dalle atmosfere sospese, firmato ancora con i giapponesi Bluestone Co. e cantato ottimamente dal bassista Ogashara, la violentissima Sundown Blues, un rock-blues di gran classe, il funky jazz-rock della complessa Cleopatra e ancora il Texas blues, scandito a tempo di Vaughan di Hard Mind. Conclude la versione già ricordata del brano di Coltrane, improvvisazione allo stato puro. Inutile dire che trattasi di disco per appassionati della chitarra elettrica, file under guitar heroes o rock-blues, di quello buono.

Bruno Conti  

“Vecchio” Ma Sempre Nuovo. Ronnie Earl & The Broadcasters – Just For Today

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Ronnie Earl and The Broadcasters – Just For Today – Stony Plain/CRS/Ird

Mi è capitato molte volte, nel corso degli anni, di recensire dischi di Ronnie Earl per il Busca (e per il Blog temp-7c86eb47861bfd87e08cf80efc4797bd.html), e, come dicevo nella recensione del penultimo, Spread The Love e ribadisco per questo Just For Today, se vi dovessi dire qual è il mio album preferito nella sua copiosa discografia, sarei in seria difficoltà e quindi ogni volta, non sbagliando mai, mi limito a citare il più recente. Questo non vuol dire che sono tutti uguali fra loro (beh, un po’ sì, per essere onesti, anche se il livello è sempre medio-alto): d’altronde Earl (un quasi omonimo, tradotto in inglese, di chi scrive) è un virtuoso chitarrista, uno dei migliori, fa del Blues, perlopiù strumentale, è su piazza da oltre un trentennio, prima nei Roomful Of Blues, poi come leader di varie edizioni dei Broadcasters, periodicamente piazza un nuovo CD sul mercato che, immancabilmente, soddisfa la piccola schiera di appassionati del personaggio e del genere, ma non turba i sonni di coloro che non si muovono entro queste ristrette coordinate.

E’ questo è un peccato, perché il musicista merita, escludendo i fans, che una volta appurato che il nostro non abbia fatto un disco di dubstep o tarantelle delle Transilvania (se esistono!) e quindi acquistano in ogni caso i suoi dischi, anche l’appassionato di buona musica un paio di dischi del buon vecchio Ronnie (60 anni quest’anno) li dovrebbe avere nella propria discoteca. Perchè non proprio Just For Love, che tra l’altro è uno dei rari dischi dal vivo registrati nel corso della sua carriera? Gli elementi migliori ci sono sempre, come al solito: tecnica strumentale all’attrezzo (di solito una Fender Telecaster) mostruosa, in bilico tra le folate texane chitarristiche à la Stevie Ray Vaughan di una iniziale tiratissima The Big Train, dove ben sostenuto dall’organo B3 di Dave Limina che gli tira la volata, mostra tutte le sue virtù di solista, ma anche (come direbbe un “nostro amico” politico”, ma è ancora in giro? Quasi quasi gli faccio scrivere la prefazione al Blog, è uno specialista del genere) gli slow blues in crescendo, con finali lancinanti che ti sommergono sotto un diluvio di note e che sono il suo marchio di fabbrica e che molto, secondo me, devono a Roy Buchanan, un altro che come Earl raramente cantava e quando lo faceva era meglio non lo avesse fatto, Blues For Celie è il primo della serie, e si becca la giusta ovazione del pubblico a fine esibizione, pur segnalandovi che il disco è registrato in modo perfetto, non sembra neppure un live, lo capisci solo da applausi e presentazioni a fine brano.

D’altronde Ronnie Earl, per problemi di salute, raramente suona dal vivo, e quando lo fa rimane comunque nei paraggi di casa, nel Massachusetts, Boston e dintorni (ma quest’anno è in tour negli States), oppure invita il pubblico in studio, come per il precedente live del 2007, Hope Radio (anche in DVD). Miracle è un altro di quei brani torrenziali, dove lo spirito del miglior Santana o di Buchanan via Jeff Beck si impadronisce delle mani di questo uomo che è una vera forza della natura con una chitarra in mano. Se ami il genere, ripeto, uno così non ti stanchi mai di ascoltarlo, peraltro lui non è instancabile come Bonamassa che fa quattro o cinque dischi all’anno, quindi è sostenibile anche a livello finanziario, il precedente CD era del 2010. Heart Of Glass( ma anche la finale Pastorale) è un altro di quei brani, lenti e sereni, ricchi di spiritualità, dove Earl esplora il manico della sua chitarra alla ricerca di soluzioni di tecnica e di feeling che ti lasciano sempre basito per l’intensità dei risultati. Rush Hour è uno dei rari shuffle, dedicato al grande Otis Rush, dove Ronnie viene raggiunto sul palco dal secondo chitarrista Nicholas Tabarias per fare pulsare alla grande il suo Blues. Ampio spazio per Dave Limina, questa volta soprattutto al piano, nel travolgente Vernice’s Boogie ma poi è nuovamente tempo di tributi con Blues For Hubert Sumlin, un altro dei grandi, affettuosamente ringraziato anche nelle note del libretto, uno slow di quelli torridi come il nostro sa fare come pochi.

Per la cover di Equinox di John Coltrane oltre allo stile di Carlos Santana i Broadcasters si affidano anche ad un groove latineggiante che fa tanto Santana Band e la solista, ben coadiuvata dall’organo di Limina, cesella note, timbri e volumi con una precisione e una varietà incredibili che sfociano anche in territori tra jazz e blues, come ama fare pure un altro virtuoso della chitarra come Robben Ford. Ain’t Nobody’s Business, un’altra delle cover presenti, faceva parte del repertorio di Billie Holiday e sotto la guida del piano di Limina la band si lancia anche in territori ragtime e poi di nuovo, in tuffo, nel blues. Un altro omaggio Robert Nighthawk Stomp, quasi a tempo di R&R e sono di nuovo le 12 battute di Jukein’ a introdurre l’unico brano cantato dell’album, una fantastica e vibrante I’d Rather Go Blind affidata alla ottima voce di Diane Blue. Forse niente di nuovo, ma non suona mai “vecchio”!  

Esce il 9 Aprile.

Bruno Conti