Finalmente La Degna Ristampa Di Un Disco Mitizzato! Delaney & Bonnie – Motel Shot

delaney and bonnie motel shot expanded

Delaney & Bonnie – Motel Shot (Expanded) – Real Gone CD

Periodo felice questo per la riscoperta del catalogo di Delaney & Bonnie, duo formato dal cantautore e chitarrista Delaney Bramlett e dalla cantante, ed all’epoca moglie, Bonnie O’Farrell Bramlett, che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta fu responsabile di alcuni tra i più bei dischi in circolazione all’epoca: a pochi mesi dalla ristampa dell’ottimo To Bonnie From Delaney, la benemerita Real Gone (e grazie al noto archivista Bill Inglot) ha appena rieditato uno dei dischi più belli e celebri della coppia, Motel Shot. E’ anche il più raro, in quanto per anni l’unica versione disponibile in CD era un’edizione giapponese difficile da trovare ed esageratamente costosa:(*NDB Anche se pure la nuova edizione non costa molto meno) questa ristampa, oltre a presentare le dodici canzoni originali opportunamente rimasterizzate, presenta anche otto outtakes mai sentite, diventando quindi praticamente imperdibile (però non capisco perché hanno dovuto cambiare la copertina: quella originale forse non era il massimo, ma questa odierna fa sembrare il CD un bootleg o un’antologia a basso costo).

delaney and bonnie motel shot

Motel Shot, quarto album di studio del duo, è anche il più particolare, in quanto è basato su una session piuttosto informale tenutasi nell’appartamento di Bruce Botnick (l’ingegnere del suono nei dischi dei Doors), con diverse canzoni improvvisate ed un suono al 95% acustico, e un alone gospel che pervade tutti i brani; l’album doveva uscire nel 1970 per la Elektra, ma per varie peripezie fu spostato in avanti di un anno e fu pubblicato dalla Atlantic, che però giudicò il materiale troppo informale, al limite dell’amatoriale, e pretese di mescolarlo con registrazioni più professionali da tenersi nei loro studi. L’album che poi uscì fu quindi una sorta di ibrido tra i brani incisi a casa di Botnick, principalmente cover, e le canzoni registrate in studio, scritte da Delaney: il risultato finale fu comunque eccellente, al punto che per molti Motel Shot è il miglior album inciso dai nostri (su questo non concordo, per me il più bello rimane il loro esordio, Home): un lavoro forse non perfetto dal punto di vista tecnico, ma altamente ricco di anima e feeling, con brani di derivazione gospel e la solita formula del duo che mischia alla grande rock, blues e soul.

Lo strumento protagonista dell’album è sicuramente lo splendido pianoforte di Leon Russell, centrale in ognuna delle canzoni, ma se guardiamo i nomi degli altri musicisti coinvolti c’è da godere solo a leggere: dai soliti noti Bobby Whitlock e Carl Radle, al grande Duane Allman alla slide in tre pezzi, passando per l’allora chitarrista dei Byrds, Clarence White, per finire con un’altra leggenda, Gram Parsons, alla chitarra e voce. Senza dimenticare Bobby Keys ed il suo sax, il violinista e banjoista John Hartford, Dave Mason alla chitarra, il super batterista Jim Keltner e Joe Cocker ai cori (manca invece, e stranamente, Eric Clapton). L’inizio è particolare, sembra quasi un rehersal, ma si nota che l’ensemble è in stato di grazia, con una rilettura straordinaria del traditional Where The Soul Never Dies, solo piano, tamburello e coro ma un’intensità da brividi, brano che confluisce direttamente nell’inno della Carter Family Will The Circle Be Unbroken e nella lenta (e classica) Rock Of Ages, quasi a voler formare una mini-suite gospel (ed anche la trascinante Talkin’ About Jesus, con la voce di Cocker chiaramente riconoscibile, avrà lo stesso trattamento). C’è spazio anche per un classico country come Faded Love di Bob Wills, alla quale i nostri cambiano completamente veste facendolo diventare un toccante lento soul, sempre con il piano di Russell a tessere la melodia.

La parte blues è formata da Come On In My Kitchen (Robert Johnson), proposta in una eccellente versione stripped-down  molto annerita (e con Duane alla slide acustica), e da Don’t Deceive Me (Chuck Willis), dal ritmo strascicato e performance vocale strepitosa da parte di Bonnie. Poi ci sono i quattro pezzi originali scritti da Delaney: Long Road Ahead, ancora dai sapori gospel, un chiaro brano dall’impronta sudista, guidato di nuovo dallo splendido pianoforte di Leon, la deliziosa Never Ending Song Of Love, una canzone saltellante di ispirazione quasi country, che è anche stato il più grande successo come singolo della coppia (ed è stata incisa in anni recenti anche da John Fogerty), la corale Sing My Way Home, fluida, distesa e dalla melodia influenzata dall’amico George Harrison (ancora Allman alla chitarra, stavolta elettrica) e la southern Lonesome And A Long Way From Home (già incisa da Clapton sul suo debutto solista). A completare il quadro, una spedita versione, ancora molto gospel, di Going Down The Road Feelin’ Bad, che proprio in quegli anni diventerà un classico nei concerti dei Grateful Dead.

Tra le otto bonus tracks, tutte provenienti dalle sessions originali in casa Botnick, ci sono tre versioni alternate di brani poi apparsi sul disco (Long Road Ahead, Come On In My Kitchen e Lonesome And A Long Way From Home, quest’ultima meglio di quella poi pubblicata, con una parte strumentale da urlo), una cover cristallina, guidata dalla chitarra acustica, di I’ve Told You For The Last Time, un brano poco conosciuto di Clapton, anch’esso proveniente dall’esordio di Manolenta, un rifacimento più informale della bella Gift Of Love (apparsa due anni prima su Accept No Substitute, secondo album della coppia), un blues acustico abbastanza improvvisato ma interessante, intitolato semplicemente Blues, ed un finale ancora a tutto gospel con What A Friend We Have In Jesus e la famosissima Farther Along. Una ristampa dunque imperdibile, che anche se non è il lavoro migliore di Delaney & Bonnie rimane comunque un grande disco, oltre che una fulgida testimonianza di un periodo irripetibile della nostra musica.

Marco Verdi

Il “Solito” Disco Di Luka Bloom, Per Fortuna! Head And Heart

luka bloom head & heart

Luka Bloom – Head And Heart – Skip/V2Compass/Ird

Prosegue imperterrita la striscia di ottimi album pubblicati da Luka Bloom, difficilmente i suoi dischi, come si diceva anche in altre occasioni, hanno raggiunto l’eccellenza assoluta, ma la sua opera omnia non manca in ogni occasione di stupire gli appassionati, per la consistenza e la qualità di questi lavori https://www.youtube.com/watch?v=07_n211EvBk . Come è ormai noto (almeno tra i suoi estimatori e gli appassionati della buona musica) il vero nome di Luka è Kevin Barry Moore, fratello minore di Christy Moore, e per chi scrive, giusto una “anticchia” inferiore all’augusto fratello https://www.youtube.com/watch?v=WxLTuzx82XM . Pur avendo vissuto per qualche anno pure fuori dall’Irlanda, dove se è svolta la parte centrale della sua carriera, Luka Bloom ha sempre mantenuto vivi i contatti con la sua terra di origine, e in questo CD c’è una accorata ballata intitolata Liffeyside, dedicata al quartiere di Newbridge, nella County Kildare irlandese, dove si è svolta la sua infanzia https://www.youtube.com/watch?v=5t-nzW9dkRM .

luka bloom christy moore

La novità di questo disco, se tale si può definire, non è tanto nel tipo di sound utilizzato, quanto nel fatto che, con l’esclusione del brano citato e di un’altra canzone di cui parliamo tra poco, si tratta di un album tutto di covers, che quindi esaminano anche la componente non celtico-irlandese della sua musica, che è peraltro presente in alcuni brani. L’altra canzone che porta la firma di Luka Bloom è Give You Wings, una canzone scritta di getto sull’onda emotiva provocata dall’incidente avvenuto in una galleria svizzera nel 2012, quando un bus belga si era schiantato provocando la morte di 28 persone, di cui 22 erano bambini, non so se ricordate il fatto, ma il nostro pubblicò all’epoca su YouTube un filmato che conteneva questa canzone che raccontava la tragedia in modo poetico https://www.youtube.com/watch?v=SvoW6Vqv7PU , vista dal punto di vista dei genitori che non avrebbero più rivisto i loro piccoli figli.

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Bloom è in parte, nella sua poetica, un cantore di questi sentimenti universali, messi sotto forma di canzone, non per nulla il disco si chiama “la testa e il cuore” e nel precedente http://discoclub.myblog.it/2013/01/05/una-certa-aria-di-famiglia-luka-bloom-this-new-morning/ c’erano il brano sull’incontro tra la regina Elisabetta e la Presidentessa irlandese, quello sull’artista olimpica Sonia O’Sullivan e Gaman sul disastro nucleare di Fukushima, quindi un occhio sempre attento anche sull’attualità. Ma in questo album ci si rivolge decisamente al passato: accompagnato dal trio del pianista Phil Ware, del contrabbassista Dave Redmond e del batterista Kevin Brady, registrati nello studio casalingo di Luka, il repertorio pesca alcune “perle” della musica mondiale, qualcuna celebre, altre meno note.

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La title-track Head And Heart, ad esempio, è tratta da uno dei dischi non più celebrati, ma comunque bellissimi, di John Martyn, Bless The Weather, e viene rivista in un arrangiamento jazzato vicino allo spirito dello scozzese, la voce non è cosi fluida e magica, ma è comunque sempre un bel sentire, perché anche la voce di Luka ha quell’impeto in comune con il fratello Christy https://www.youtube.com/watch?v=aEStVgQttBM . Bloom lavora spesso anche con il suono inconfondibile della sua chitarra, suonata in modo particolare, quasi “spaziale”, a causa dei problemi di tendinite che lo hanno afflitto ad inizio carriera. Banks Of The Lee, con la filigrana delicata dell’acustica ci riporta alla tradizione della musica celtica, un brano tradizionale scozzese interpretato dai Silly Wizard ma famoso anche per la versione che ne fece Sandy Denny con i suoi Fotheringay, re-intitolandola Banks Of The Nile. Molto intima e raccolta è la versione di uno dei pochi “classici”  degli anni ’80 di Dylan, una Every Grain Of Sand, che si riappropria dello spirito da troubadour del primo Zimmerman. The First Time I Ever Saw Your Face l’ha scritta Ewan MacColl, ma l’hanno cantata in mille, da Presley a Cash, anche se la versione di riferimento, quella di maggiore successo, e forse la più bella è quella di Roberta Flack, Bloom cerca di impossessarsi dello spirito “amoroso” di questa canzone.

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Dopo la dolcissima Give Me Wings, Bloom riporta Gentle On My Mind allo spirito folk dell’originale di John Hartford (anche se le versione più conosciuta è quella di Glenn Campbell). My Wild Irish Rose è una vecchia canzone romantica irlandese di fine ‘800 https://www.youtube.com/watch?v=VZ7g-oxClkE , mentre Lonesome Robin, un altro delicato brano folk acustico, l’ha scritto un vecchio cantautore, tale Bob Coltman (ammetto di non conoscere). And I Love You So viceversa la conoscono tutti, un’altra stupenda canzone d’amore scritta da Don McLean (Vincent e American Pie dicono qualcosa?) per il suo primo album Tapestry https://www.youtube.com/watch?v=WxLTuzx82XM , poi diventata uno degli ultimi successi di Perry Como. Detto della malinconica Liffeyside anche Danny Boy è una delle più celebri ballate uscite dalla terra d’Irlanda nel secolo scorso, cantata in modo struggente da Luka Bloom. Conclude The Joy Of Living, il secondo brano firmato da Ewan MacColl, ancora musica folk d’autore, sostenuta solo dalla delicata chitarra arpeggiata del nostro amico e quasi sussurrata, ma con grande abbandono, dal cantante irlandese. Se uno è bravo, è bravo!

Bruno Conti

Lloyd Cole – Standards? Buoni, Decisamente Buoni!

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Lloyd Cole – Standards – Tapete Records

Quella che sta vivendo da alcuni anni Lloyd Cole è una sorta di terza giovinezza o di “third coming” se vogliamo dirla all’inglese, iniziata con l’eccellente Broken Records nel 2010 com-e-diventato-vecchio-ma-bravo-lloyd-cole-broken-record.html, e ora proseguita con questo Standards che conferma il nuovo stato di grazia che sta vivendo la musica di Lloyd. Intendiamoci, non siamo, forse, di fronte al capolavoro assoluto, come potrebbe sembrare leggendo le recensioni di Uncut che gli ha dato 8/10 o le quattro stellette di Mojo, ma neppure a quel lavoro di copia e incolla, e di seconda mano, della musica che ha sempre amato, che si potrebbe ricavare leggendo alcune recensioni italiane.

Ad essere sinceri, questo gusto per la citazione della musica altrui, Lloyd Cole l’ha avuto sempre presente, ma quando è sorretto da buone canzoni, come in questo caso, o, in passato, nel primo Rattlesnakes con i Commotions (ma anche Easy Pieces non era per niente male) e poi ancora nel suo primo album omonimo da solista nel 1990,  le stesse canzoni sono in grado di regalare all’ascoltatore il piacere della musica semplice ma fedele agli stilemi del rock (e del pop) più classico. Come ricordo spesso e voglio farlo anche in questa occasione, sono le canzoni che contano e poi se i riff e i ritornelli ricordano qualcuno o qualcosa, pazienza, le note e gli accordi sono quelli, l’importante, se citi o ti ispiri alla musica d’altri, è farlo con classe e nel rispetto della musica, senza volerlo fare di nascosto come è usanza per molti musicisti, anche di categoria superiore.

Il nostro amico ha sempre avuto un buon seguito di pubblico e di critica, soprattutto nel Regno Unito e in alcuni paesi europei (compresa la Germania, dove ha sede la sua etichetta e dove è uscito, recentemente, un disco di musica elettronica registrato in coppia con Hans-Joachim Rodelius dei Cluster, che una collaborazione non la nega a nessuno), ma non ha mai sfondato negli USA, dove vive, nel Massachusetts, con la famiglia, dal lontano 1989 e dove è stato registrato il disco, tra Los Angeles, New York e Easthampton. Eppure la sua musica è sempre stata influenzata da quella americana, Lou Reed, Dylan, Leonard Cohen, l’amato Tom Verlaine e i suoi Television, sono sempre stati punti di riferimento nella musica di Cole, insieme al pop dei Beatles e dei Kinks, per citare alcuni capisaldi della sua musica, che ancora una volta ritornano in questo disco.

Lloyd ha anche una passione, neppure troppo nascosta, per i nomi oscuri di certo country alternativo americano, come dimostra la energica cover rock di California Earthquakes del grande John Hartford che apre l’album: il sound, curato dal veterano collaboratore di Cole, nonché batterista, Fred Maher, si avvale di altri vecchi pards, come Matthew Sweet, qui al basso e alle armonie vocali, ma ottimo cantautore anche in proprio, Blair Cowan alle tastiere, fin dai tempi dei Commotions, e anche Joan Wasser (in arte Joan As A Policewoman) a violino, tastiere e background vocals, forse i chitarristi, lo stesso Lloyd, Matt Cullen, Mark Schwaber e il figlio Will Cole, non sono all’altezza del grande Robert Quine, ma la grinta e l’energia del rock’n’roll non mancano, come dimostra Women’s Studies che un riff o due e l’inlessione vocale “forse” la prendono da Lou Reed, ma con ottimi risultati, non è l’opera di un mero imitatore, e poi si è ispirato anche al miglior sé stesso del passato, con tutte le influenze citate poc’anzi bene in evidenza.

Il riff iniziale di basso di Period Piece è preso da “Un Cuore Matto” (scherzo!) ma il brano, ricco di simbolismi e di colte citazioni alla Dylan, è una piccola delizia “Coliana” e che dire di quella stupenda ballata che risponde al nome di Myrtle and Rose, con il lato malinconico e aulico di Cole che ancora una volta sale al proscenio: gente che scrive canzoni così belle in giro ce n’è poca, e chissenefrega se ricorda altri, è anche bravo di suo e quella voce è inconfondibile e regala emozioni all’ascoltatore, anche dopo ripetuti ascolti non stanca. Delicata e dolce anche la breve No Truck conferma il ritorno della migliore ispirazione anche in età matura ( i 50 ormai sono un ricordo pure per Cole)! Molto belle le atmosfere raffinate di Blue Like Mars, che il recensore di Mojo paragona ad un Chris Isaak fantascientico, con le chitarre e le tastiere che si intrecciano alla perfezione negli intermezzi strumentali, senza mai prevaricarsi ma interagendo in modo quasi chirurgico.

Lo hanno citato tutti, posso non farlo io? L’attacco di Opposites Day è proprio preso, pari pari, dal riff iniziale delle due chitarre di Marquee Moon dei Television, e più che una citazione è proprio un omaggio ad un autore, Tom Verlaine, che Cole, aveva già rivisitato ad inizio carriera con una bellissima cover di Glory. Se dovesse servire “solo” a ricordare l’opera di questo musicista geniale e uno degli album minori della storia del rock più belli di sempre, il suo compito l’avrebbe svolto egregiamente, ma poi il brano si sviluppa comunque in un rocker grintoso dove l’incedere circolare delle chitarre è stimolante di suo. Silver Lake è un’altra ballatona stupenda con il violino della Wasser in bella evidenza, le belle canzoni non mancano proprio in questo disco, sembra una di quelle che George Harrison sfornava a raffica ai tempi di All Things Must Pass. Non bastasse, c’è pure l’omaggio anche ai Beatles tutti in It’s Late, che sembra una You Won’t See Me rallentata o comunque un brano dei primi album, quelli più pop, ma già perfetti fin dalle armonie vocali inarrivabili qui duplicate con rispetto. Profumi dal passato ancora una volta nel reportage dei tempi che passano di Kids Today, sempre con quella malinconia immancabile che però non piange su sè stessa, ma cerca di trasporre i lati positivi del passato nel presente. L’ultimo “Standard” del disco è una ulteriore perla del tipo Pop Music, si chiama Diminished Ex e conclude degnamente un album che non posso non consigliarvi caldamente. Modelli come questo se ne fanno pochi, citano il passato ma lo fanno con gran classe!

Bruno Conti

Real Gone Music: Old, New & Previews. Tom Jans, Rick Wakeman, Cat Mother, Billy Joe Shaver, Pozo Seco, John Hartford, Freddie King, Don Nix, Sam Samudio, Borderline

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Mi riservavo sempre di dare uno spazio alle ripubblicazioni di questa nuova etichetta, che si chiama Real Gone Music, e viene vista come una “alleata” di case storiche come la Rhino, la Ace, la Repertoire, la Esoteric, e mille altre, nella difficile arte della Ristampa. Qualità sonora, libretti dettagliati e, ove possibile, bonus tracks, sono tre ingredienti immancabili, e direi che la Real Gone li rispetta tutti. L’etichetta americana è in pista da un paio di anni e nasce dall’incontro tra due persone che già si occupavano di musica, Gabby Castellana della Hep Cat Records e, soprattutto, Gordon Anderson, fondatore della Collectors’ Choice, che per un paio di decadi aveva allietato le vite degli appassionati di buona musica. Sono partiti con qualche vinile d’epoca e poi hanno iniziato a ristampare i titoli della serie Dick’s Picks dei Grateful Dead. Da lì a diventare una delle etichette di punte nel mercato delle ristampe è stato breve. Diciamo che non tutto il catalogo che pubblicano è di interesse per gli appassionati di rock, perché la Real Gone si occupa molto anche di cantanti e musicisti, diciamo tradizionali e, marginalmente anche di jazz. Se volete vedervi tutto il catalogo andate qui http://www.realgonemusic.com/, ma di alcuni titoli recenti e futuri, quelli più interessanti, ad insindacabile giudizio di chi scrive, ci occupiamo oggi. Del primo che vedete effigiato qui sopra, Sam Dees, mi ero già occupato, e lo trovate sfogliando a ritroso le pagine del Blog, che è sempre una piacevole attività, mentre gli altri due sono tra i più gustosi in relazione all’uscita del 2 aprile.

Tom Jans sembra finalmente avere lo spazio che merita e dopo l’antologia della australiana Raven (era-ora-finalmente-in-cd-tom-jans-loving-arms-the-best-of-19.html e qualche uscita giapponese, la Real Gone pubblicherà per la prima volta un CD sul mercato americano: Tom Jans & Mimi Farina Take Heart e l’omonimo Tom Jans, vengono uniti in un dischetto unico. Le informazioni le leggete nel post linkato, questa è la lista dei brani contenuti.

Songs: 

Take Heart

1.   Carolina

2.   Charlotte

3.   Kings and Queen

4.   The Great White Horse

5.   Reach Out (For Chris Ross)

6.   Madman

7.   In the Quiet Morning (For Janis Joplin)

8.   Letter to Jesus

9.   After the Sugar Harvest

10. No Need to Be Lonely

Tom Jans

 

 

 

11. Margarita

12. Old Time Feeling

13. Tender Memory

14. Slippin’ Away

15. Green River

16. Blue Sky Rider

17. Loving Arms

18. Free and Easy

19. (Why Don’t You) Meet Me at the Border

20. Hart’s Island

Don Nix è uno dei tesori nascosti della musica americana ed i suoi dischi originali sono di reperibilità molto difficoltosa, per usare un eufemismo, qualche sporadica uscita giapponese, ma per il resto solo tributi o materiale recente. Come dicevo in altre occasioni, Nix comunque è quello che è scritto Going Down, era uno dei membri fondatori, come sassofonista, dei Mar-Keys e poi produttore, sideman ed arrangiatore alla Stax, per Booker T & Mg’s e il giro di Otis Redding e altri artisti dell’etichetta. Poi è andato alla Shelter di Leon Russell, ma nello stesso tempo continuava a produrre e suonare in dischi di gente come Joe Cocker, Delaney & Bonnie, Tracy Nelson, Albert King, Freddie King. Questo Living By The Days, in uscita il 2 aprile, veniva pubblicato in origine dalla Elektra nel 1971. Nel disco, oltre alla sezione ritmica dei Muscle Shoals, c’erano Donald “Duck” Dunn e parecchi musicisti del giro Shelter People che suonavano con Leon Russell e Joe Cocker, tipo Don Preston (anche con Zappa), Claudia Lennear, Kathi McDonald (scomparsa di recente)e come ospite Furry Lewis (proprio quello del brano di Joni Mitchell), che da lì a poco avrebbe dato vita con lo stesso Nix e Lonnie Mack agli Alabama State Troopers, altra band leggendaria di quel periodo.

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I Borderline erano un trio, sconosciuto ai più, composto da Dave & Jon Gershen e da Jim Rooney. Siamo nel 1972 (anche se il disco uscirà nel 1973), dalle parti di Woodstock, patria della Band e della Bearsville Records, di cui Rooney era il manager e il factotum, da quelle bazzicano fior di musicisti tra cui Van Morrison, prossimo a finire il suo periodo americano, ma soprattutto musicisti country, di quelli che in quel periodo incrociavano i loro strumenti con il meglio del rock dell’epoca: Ben Keith al dobro (dalla band di Neil Young), Vassar Clements e Ken Kosek al violino, Billy Mundy dalla band di Zappa, alla batteria, David Sanborn al sax e, dal giro della Band, Richard Manuel e Garth Hudson, sotto gli pseudonimi di Dick Handle e Campo Malaqua, e il loro produttore, John Simon, al piano. Il disco, Sweet Dreams And Quiet Desires, pubblicato ai tempi dalla Avalanche, che era una sottomarca della United Artists, venne praticamente ignorato, ma visti i musicisti coinvolti fu un vero peccato, perchè si trattava di ottima musica, quella che oggi definiremmo “Americana”, il genere praticato da Little Feat e The Band. Non è che in CD abbia avuto una sorte migliore, pubblicato in Giappone è sparito quasi subito, ma oggi la Real Gone lo (ri)pubblica, con le matrice originali, e aggiungendo anche un The Second Album, rimasto inedito ai tempi, dove suonavano tra gli altri i Brecker Brothers, Will Lee, Amos Garrett, anche in questo caso con le registrazioni originali, miracolosamente riapparse. Il tutto in un unico CD.

Ancora più oscuro è il disco dei Pozo Seco, che all’epoca, 1968, avevano perso per strada il suffisso Singers e un componente, ma vantavano nelle loro fila una voce femminile Susan Taylor (che si faceva chiamare Taylor Pie) e, da sette anni in formazione, tale Don Williams, che da lì a poco, 1971, sarebbe diventato una della stelle della country music, definito “The Gentle Giant” e amatissimo, tra i tanti, da Eric Clapton. Questo Shades Of Time, che potremmo definire un disco di folk-country-pop-rock (mi è venuto così), ha la particolarità di essere prodotto da due grandi del tempo, Elliott Mazer e Bob Johnston (esatto, proprio quelli rispettivamente di, Neil Young e Janis Joplin, e Bob Dylan e Simon & Garfunkel). Il disco, molto piacevole, ha undici bonus tracks, tratte dai singoli dell’epoca.

Forse (anzi togliete pure il forse), No Earthly Connection, non rientra tra i migliori dischi di Rick Wakeman, e neppure tra quelli più popolari, visto che in CD è uscito solo in una rara versione giapponese, ma questo disco editato in orgine nel 1976, farà la gioia dei fans del rock progressivo e non è neppure orribile. Un brano di 28 minuti diviso in cinque parti e due brani di 7 minuti ciascuno, lo inseriscono d’ufficio nel filone del prog rock. In questo caso niente bonus.

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 Tre CD doppi, due usciti da qualche mese, e uno in questi giorni.

Quello di John Hartford, Aereo-Plain/Morning Bugle The Complete Warner Bros. Recordings, raccoglie i due dischi pubblicati per la major americana, tra il 1971 e il 1972, quando questo signore, che non dimentichiamolo è quello che è scritto Gentle on My Mind per Glen Campbell, un brano che ha venduto qualche gazillione di copie, ha il merito di avere re-introdotto la musica bluegrass nel country americana, con tanti altri, a partire dai Dillards. Ma in questi due album, fantastici, suona gente come Vassar Clements, Tut Taylor, Norman Blake, Sam Bush, addirittura nel secondo un trio, che a fianco di Hartford e Blake, vede la presenza del grande contrabassista jazz Dave Holland, per uno stile che Sam Bush dei New Grass Revival, avrebbe proprio ribatezzato come “New Grass”, improvvisazione allo stato puro ma nell’alveo della tradizione popolare country americana. Ovviamente ci sono 8 bonus, quattro nel primo e quattro nel secondo CD. Imperdibile.

Anche quello di Billy Joe Shaver, The Complete Columbia Recordings, raccoglie l’opera omnia incisa per un’altra grande major americana nel periodo centrale della sua carriera, 1981 I’m Just an Old Chunk of Coal (but I’m Gonna Be a Diamond Someday), 1982 l’omonimo Billy Joe Shaver e 1987 Salt Of The Earth, tre dischi di perfetta outlaw country music, tra le cose migliori della sua carriera in assoluto. Considerando che ci sono 3 album completi su 2 CD non deve meravigliare che la bonus track sia una sola, però è bella! Come il resto del contenuto, per chi ama il genere, ma anche per novizi. Il terzo sicuramente era uscito in CD, gli altri due non ricordo.

Per concludere con i doppi, questa antologia dedicata a Freddie King The Complete King And Federal Singles, raccoglie tutti i singoli incisi per queste etichette dal grande cantante e chitarrista, uno dei tre “Re” del Blues, 54 brani, per questo signore che, giustamente, la classifica di Rolling Stone ha inserito al 15° posto tra i più grandi chitarristi della storia, uno che ha influenzato moltissimo gente come Clapton, Beck, Green e Taylor. Non vi sto a citare brani in particolare ma se scorrete quelli contenuti in questa raccolta, è praticamente la storia del blues elettrico:

Tracks:

CD One

1.   You’ve Got to Love Her with a  Feeling

2.   Have You Ever Loved a Woman

3.   Hideaway

4.   I Love the Woman

5.   Lonesome Whistle Blues

6.   It’s Too Bad Things Are Going So Tough

7.   San-Ho-Zay!

8.   See See Baby

9.   I’m Tore Down

10. Sen-Sa-Shun

11. Christmas Tears

12. I Hear Jingle Bells

13. If You Believe (in What You Do)

14. Heads Up

15. Takin’ Care of Business

16. The Stumble

17. Side Tracked

18. Sittin’ on the Boat Dock

19. Do the President Twist

20. What About Love

21. Texas Oil

22. Come On

23. Just Pickin’

24. (Let Your Love) Watch over Me

25. You Can’t Hide

26. In the Open

27. I’m on My Way to Atlanta

CD Two

1.   It’s Easy, Child

2.   The Bossa Nova Watusi Twist

3.   Look, Ma, I’m Cryin’

4.   (I’d Love to) Make Love to You

5.   One Hundred Years

6.   (The Welfare) Turns Its Back on You

7.   You’re Barkin’ Up the Wrong Tree

8.   Surf Monkey

9.   Monkey Donkey

10. Meet Me at the Station

11. King-A-Ling

12. Driving Sideways

13. Someday, After Awhile (You’ll Be Sorry)

14. She Put the Whammy on Me

15. High Rise

16. Now I’ve Got a Woman

17. Onion Rings

18. Some Other Day, Some Other Time

19. Manhole

20. If You Have It

21. I Love You More Everyday

22. Full Time Love

23. She’s The One

24. Use What You’ve Got

25. Double Eyed Whammy

26. You’ve Got Me Licked

27. Girl from Kookamunga

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Le due ultime ristampe sono altre rarità assolute.

La prima, dal titolo, The Street Giveth…And The Street Taketh Away, pubblicata dalla Polydor nel 1969 a nome Cat Mother And The All Night Newsboys (all’epoca per ricordarti i nomi dei gruppi e i titoli dei dischi dovevi avere una memoria ferrea, oppure andavi per indizi, quello con la copertina nera…quello…) ha la particolarità di avere come co-produttore tale Jimi Hendrix (l’unica volta in cui ha prodotto un disco non suo, ma erano amici), che suona anche nel disco. In CD era già apparso un paio di volte fugacemente per etichette più o meno improbabili e pur non essendo un capolavoro assoluto si ascolta con estremo piacere, non solo per collezionisti, buona musica rock di quel periodo, molto eclettica ma valida.

Hard And Heavy è il disco solista pubblicato da Sam Samudio nel 1971 per la Atlantic, Già, ma chi è costui, se vi dico Sam the Sham & the Pharaohs, quelli di Wooly Bully qualcosa dovrebbe dirvi. Anche se il disco è un poderoso esempio di rock-garage-blues, co-prodotto da Jerry Wexler e Tom Dowd (mica cotica), con la partecipazione dei Dixie Flyers, la band dell’epoca di Jim Dickinson, le Sweet Inspirations, il trio vocale nero che accompagnava Ray Charles e Aretha Franklin, i Memphis Horns e Duane Allman alla solista, ciumbia! E il disco è un piccolo gioiello d’epoca con una sola bonus ma di spessore, una versione notevole di Me And Bobby McGee con Duane Allman al dobro. Non per niente alcuni dei brabi di questo album si troveranno nel cofanetto retrospettivo dedicato ad Allman, Skydog, in uscita in questi giorni. Se siete interessati al box, che trovate andando a ritroso nelle pagine del Blog, affrettatevi perchè pare cha la Rouunder/Universal ne pubblicherà “solo” 10.000 copie per il mercato americano, in esclusiva, niente edizione europea.

Direi che per la Real Gone Records, per il momento, è tutto. Con tutta questa “pubblicità” gratuita spero che mi mandino un po’ di materiale promo dagli States! Scherzo naturalmente (però la butto lì), trattasi di musica da conoscere assolutamente, ma i CD costano.

Bruno Conti

Proprio Bravi Questi “Pickers”! Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick

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Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick – Sci Fidelity CD

Keller Williams è un musicista eclettico.

Cantante, chitarrista, compositore, one man band, percussionista (bella pettinatura anche, NDB*), ha al suo attivo una lunga serie di albums (nonostante la giovane età), da solo o in collaborazione con diverse band del circuito jam: ha infatti collaborato e girato in tour con gli String Cheese Incident (e questo disco di cui mi accingo a parlare esce per l’etichetta di proprietà dei ragazzi del Colorado), Umphrey’s McGee, Yonder Mountain String Band, oltre ai Rhythm Devils, cioè il combo di Mickey Hart e Bill Kreutzmann dei Grateful Dead.

Come possiamo vedere tutte band che hanno come comune denominatore la creatività e la capacità di improvvisazione oltre, con l’eccezione dei Devils, a un contatto ben definito con la musica della tradizione americana, che sia country, bluegrass o folk. Williams ha poi sempre amato i cosiddetti “pickers”, cioè gli specialisti degli strumenti a corda tradizionali, suonati con l’uso dei polpastrelli (gli Incident sono a loro volta dei pickers eccellenti), ed era quindi nelle cose che il suo cammino si incrociasse con quello dei Travelin’ McCourys (che non sono altro che la Del McCoury Band senza Del, quindi Rob e Ronnie McCoury, Jason Carter ed Alan Bartram).

La famiglia McCourys è da sempre una delle eccellenze assolute nel mondo del bluegrass tradizionale, non li scopro certo io, e Pick, frutto della collaborazione con Williams, è un bel disco di pura bluegrass music, con una spiccata tendenza alla jam, in cui i cinque lasciano correre in libertà le dita in una gara di bravura mai fine a sé stessa, ma con grande creatività e coesione, come se suonassero insieme da una vita. Le dodici canzoni presenti sono per una buona metà opera di Williams, mentre per il resto troviamo riedizioni di brani già noti dei McCourys, oltre ad alcune covers, un paio delle quali davvero sorprendenti.

Il disco non è forse al livello delle cose migliori di band come Old Crow Medicine Show (nei quali però la componente rock non è da sottovalutare), Black Twig Pickers o Trampled By Turtles, ma è di sicuro una proposta sopra la media. E dire che l’album parte quasi in sordina, come se i cinque stessero scaldando i motori, ma poi dal quinto brano in poi il disco decolla ed arriva fino alla fine come un treno in corsa.

Apre le danze Something Else, un brano invero dalla melodia un po’ contratta, anche se il dialogo tra gli strumenti funziona subito molto bene (violino e mandolino su tutti); meglio American Car, più solare e ritmata (anche se il ritmo è dato dagli strumenti a corda, la batteria è assente), mentre Messed Up Just Right ha un motivo molto old fashioned, sembra proprio un brano supertradizionale, con l’amalgama tra gli strumenti e le voci (a turno cantano tutti) che cresce ulteriormente.

Mullet Cut non è un granché come canzone in sé, ma i cinque compensano con la bravura negli incroci e stacchi strumentali; l’album si impenna con Graveyard Shift (di Steve Earle, tratta proprio da The Mountain, il disco che Steve aveva inciso con la Del McCoury Band), un country-blues molto pimpante, nel quale domina il banjo di Rob, anche se gli altri non si tirano certo indietro. I Am Elvis ha un inizio attendista, nel quale i nostri sembra quasi che stiano accordando gli strumenti, poi il violino di Carter dà il via ed il brano parte in quarta, un perfetto viatico per le dita capaci dei nostri pickers (ed il brano mi ricorda quasi i Dead più bucolici). What A Waste Of Good Corn Liquor (un brano dei McCourys originali) è puro bluegrass, dal refrain che più tradizionale non si può, uno dei brani migliori fino ad ora; Broken Convertible è un divertente country-grass con tendenza spiccata alla jam, cinque minuti di piacere per le orecchie.

L’album volge al termine, ma i cinque non mollano la presa, anzi iniziano proprio ora le sorprese: I’m Amazed è una tonica e corroborante versione di un brano dei My Morning Jacket, piena di assoli (grande il banjo), mentre Price Tag è una versione in puro bluegrass style, a dir poco stupefacente, di una nota canzonetta pop insulsa di tale Jessie J (è stato un vero tormentone alla radio), una trasformazione che mi ha lasciato a bocca aperta. Come prendere una ciofeca e farne un grande brano: neanche Rick Rubin avrebbe osato tanto. Chiudono il disco una versione molto traditional di Sexual Harassment (un brano di John Hartford) e la veloce e corale Bumper Sticker, che vede anche il vecchio Del McCoury alla voce solista (ed il carisma si sente subito).

Un dischetto tonico, una collaborazione azzeccata: speriamo soltanto che non rimanga un episodio a sé stante.

Marco Verdi