Una Serata Da Ricordare! John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues

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John Lee Hooker & Friends – The House Of Blues – Klondike 

Il titolo potrebbe essere fuorviante, perché in effetti John Lee Hooker appare solo negli ultimi tre pezzi, ma il concerto è veramente fantastico. Si tratta della registrazione di una serata alla famosa House Of Blues di West Hollywood, Los Angeles, uno dei locali della catena di proprietà di Elwood Blues (ovvero Dan Aykroyd, qui impegnato solo come presentatore, vista la presenza di un paio di armonicisti niente male, di cui tra un attimo): siamo nel giugno del 1995, il concerto viene trasmesso dall’emittente radiofonica WLUP-FM e dovrebbe far parte anche della serie TV Live From House Of Blues che andò in onda sulla TBS (il network di Ted Turner) per 26 puntate e un paio di anni e di cui recentemente hanno festeggiato il 20° Anniversario. Da non confondere con un DVD con lo stesso titolo John Lee Hooker And Friends che però riporta, sempre in modo non ufficiale, una serata con Ry Cooder e Bonnie Raitt. Intanto diciamo che il CD è pubblicato dalla Klondike (due diverse copertine), ma secondo me guardando le grafiche più o meno identiche del retro dei vari dischetti relativi ai broadcast più disparati, non solo per questo concerto, li fa tutti la stessa casa, usando nomi diversi: dicevo comunque che il CD questa volta non è inciso solo abbastanza bene, è perfetto, come un disco ufficiale, la particolarità che lo contraddistingue come “Historic Radio Recordings” (o così è scritto) è il fatto che si tratta proprio della registrazione completa della trasmissione radiofonica, con tanto di presentazioni, annunci, perfino qualche sponsor, riportati nell’esatta sequenza in cui ascoltarono il concerto alla radio in quel lontano 1995.

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Ed è un gran bel ascoltare: la house band della serata è quella di Duke Robillard, in gran forma e in uno dei suoi migliori periodi a livello discografico, quello degli album per la Point Blank/Virgin, particolare che lo unisce ad altri partecipanti della serata, oltre al festeggiato John Lee Hooker, anche John Hammond e Charlie Musselwhite, incidevano tutti per la stessa etichetta. Ovviamente il fatto, anche se significativo, non inficia o eleva la qualità del concerto: si parte, dopo l’introduzione di Elwood Blues, con Zakiya Hooker, la figlia del grande Hook, alle prese con una poderosa Look Me Up, una ballata soul mid-tempo di ottimo spessore, e Robillard scalda subito l’attrezzo (la chitarra, cosa avete capito!) che rimane incandescente con una scintillante versione di Too Hot The Handle, il brano che dava il titolo al suo disco di esordio, con Duke che all’epoca era veramente in gran forma, ragazzi se suonava! E anche l’omaggio a Albert Collins con una lunga e sofferta Dyin’ Flu è da manuali del perfetto bluesman, un lento di quelli da sballo. La band rimane per accompagnare uno degli “originali” come Lazy Lester che propone una pimpante Sugar Coated Love, il suo successo per la Excello del 1958, che anche i Fabulous Thunderbirds avevano in repertorio la voce è ancora quella dei vecchi tempi e anche l’armonica viene soffiata con vigore.

John Hammond poi sale sul palco per proporre una versione fantastica di Come On In My Kitchen, solo voce e chitarra bottleneck acustica e si unisce con la band di Duke Robillard per proporre una Found Love che avrebbe trovato posto nel disco registrato insieme e che verrà pubblicato da lì a poco, ottimi gli interventi di Hammond all’armonica e di Duke alla solista. Altro armonicista incredibile è Charlie Musselwhite, ottimo anche il suo segmento di concerto con Blues Overtook Me e con una stellare rilettura di Help Me, il celeberrimo brano di Sonny Boy Williamson, oltre otto minuti di grande blues. A questo punto arriva Taj Mahal, pure lui in grande serata, prima da solo, accompagnato da una tastiera, propone una divertente e salace Big Leg Mama, poi con la Duke Robillard Band altri lati del suo enorme talento, la jazzata Strut dove si concede anche qualche accenno di scat e infine una versione di She Caught The Katy, dal suo capolavoro The Natch’l Blues, che lo mette in concorrenza con Otis Redding e non so chi vince. Nel disco originale alla chitarra suonava Jesse Ed Davis, ma in precedenza Taj aveva diviso i palchi con Ry Cooder che a questo punto sale sul palco con la sua slide per accompagnare John Lee Hooker in una magica versione di Crawling King Snake, fantastica l’intensità della accoppiata con il Maestro, in gran forma con il suo vocione che incita Ry a estrarre dalla sua chitarra l’essenza del blues, poi riproposta in una versione full band più la slide di Cooder, di nuovo con Robillard e soci, del classico One Bourbon One Scotch One Beer e a concludere i poco più di  dodici essenziali minuti della presenza di Hooker non poteva mancare una esplosiva Boom Boom, fine, titoli di coda, grande serata, assolutamente da avere!

Bruno Conti

Come Direbbe Lui: “Thank You Dave”! Boo Boo Davis – Oldskool

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Boo Boo Davis – Oldskool – Black & Tan/Ird

Questo signore viene da Drew, Mississippi, dal cuore della zona del Delta, una delle zone più ricche per la coltivazione del cotone nel Sud degli Stati Uniti e, ovviamente, una delle patrie del Blues: il nostro James Davis (ma per tutti Boo Boo) è nato lì nel settembre del 1943, ed è considerato uno degli ultimi personaggi che hanno imparato a suonare e cantare mentre lavorava nelle piantagioni, per distrarsi dal durissimo lavoro. Ma non ha imparato a leggere e scrivere, o così narrano le leggende (non ho contatti di prima mano per verificare, ma così dicono le sue biografie e anche le note del dischetto), comunque in qualità di figlio di Sylvester, che anche lui coltivava il cotone, ma era appassionato di blues, Davis sin da bambino ricorda di aver visto passare nella sua casa gente come John Lee Hooker, Elmore James e Robert Pete Williams. E a quella età suonava già l’armonica e aveva sviluppato una voce potente, sia per essere sentito nei campi, quanto per cantare in chiesa. Negli anni ’60 e ‘70 Boo Boo e i suoi fratelli se ne andarono a nord verso St Louis e come Davis Brothers Blues Band per 18 anni accompagnarono nei club i musicisti che gravitavano intorno a quell’area, anche gente importante come Chuck Berry, Albert King, Ike Turner e molti altri.

Come parecchi bluesmen è stato un “late starter”, i primi dischi a nome proprio escono negli anni 2000, e da allora ne ha pubblicati una decina, nove per la precisione, tutti per la olandese Black & Tan (un paio con titoli che fanno riferimento alla sua biografia, East St. Louis e Drew, Mississippi), caratterizzati da uno stile molto semplice ma efficace, spesso basati sulla formula classica della tradizione, come è anche per questo nuovo album, fin dal titolo, Oldskool. Nuovo album che potrebbe essere il suo migliore in assoluto, undici pezzi registrati dal vivo in studio, in una unica sessione di registrazione, cinque ore e tutte le canzoni della serie buona la prima, anche perché la seconda non ci sarà. Una delle cose che mi ha incuriosito (e penso anche a voi, so lo ascolterete, cosa che vi consiglio) è cercare di capire chi sia questo Dave che viene ringraziato a piena voce al termine di quasi tutti i brani, considerando che i musicisti che suonano con lui sono John Gerritse alla batteria e Jan Mittendorp alla chitarra, produttori, visto l’approccio minimale, non ce ne sono, e quindi? E quindi “Dave” è una sorta di spirito guida benevolo, un alter ego di Davis, che riceve i ringraziamenti del nostro per l’ispirazione che gli ha fornito in ogni brano.

E l’ispirazione, la freschezza, la semplicità assoluta dei suoni sono l’asset vincente di questo Oldskool, che partendo dalle radici di Charley Patton e dei primi grandi bluesmen, approda a un suono comunque elettrico e vibrante, perché i tre ci danno dentro alla grande, Boo Boo Davis con il suo vocione potente e la sua armonica lineare, gli altri due con un approccio che a tratti potrebbe ricordare quello degli Houserockers di Hound Dog Taylor, per esempio nel boogie scatenato di Call Me A Clown, che parte a tutta velocità e poi accelera ulteriormente, riproducendo il sound del grande musicista di Chicago (che però era nato anche lui a Natchez, una piccola cittadina lungo il Mississippi), con una armonica a sostituire la seconda chitarra, ma lo spirito è quello, niente basso, solo tanta grinta e divertimento https://www.youtube.com/watch?v=C9PRpFLPluI . Anche Elmore James riceve un omaggio nella cavalcata slide della tiratissima Lucky Man, ma non manca il classico groove del blues urbano elettrico di Chicago nell’iniziale Hold Your Head Up, dal sound primigenio alla John Lee Hooker (con “Dave” come di consueto ringraziato profusamente a fine brano) https://www.youtube.com/watch?v=ZO0ho2R-c8E .

Poderosi esempi di blues elettrico sono anche la divertente Boo Boo Fool e Got My Love, con Davis che all’inizio dice agli altri musicisti “Sapete cosa fare!”, e i tre eseguono, suonando un blues ruvido e senza pietà che non prende ostaggi, voce catturata dallo stesso microfono che amplifica l’armonica, quindi un filo lontana e leggermente e volutamente distorta e grezza, ogni tanto un minimo di eco, il tutto per catturare lo spirito del momento. Oldskool, la canzone, con i ritmi dello slow blues, mentre Where We Gonna Go è più ritmata e ipnotica, ma lo spirito è quello sciamanico e ripetitivo del John Lee Hooker citato o dei predecessori che suonavano il blues acustico nei Juke Joints lungo il Mississippi. In fondo i titoli non sono importanti, perché come si può immaginare i testi sono semplici e ridotti al minimo, ma lo spirito e il suono che escono da queste registrazioni, tutto groove e feeling, sono quelli di uno degli ultimi grandi praticanti del blues classico. Come direbbe Boo Boo “Thank You Dave”!

Bruno Conti

Canned Heat, Un Live Tira L’Altro! Stockholm 1973

canned heat stockholm 1973

Canned Heat – Stockholm 1973 – Cleopatra

Ormai non passa mese senza che non esca qualche “ristampa” dei Canned Heat, o meglio, qualche ristampa dei C.H. della Cleopatra Records. Lo scorso mese è uscito il Carnegie Hall 1971 con John Lee Hooker, per luglio è previsto un Illinois Blues 1973, mentre questo mese ci occupiamo di Stockholm 1973. In effetti chiamarle ristampe è improprio, visto che si tratta di materiale che, almeno ufficialmente, non era mai uscito in passato, però circolava sotto forma di bootleg o filmati in rete.

canned heat carnegie hall 1971

Il concerto di Stoccolma in particolare proviene da uno spettacolo televisivo registrato per la televisione svedese, Opopoppa, che ospitava importanti artisti stranieri in transito per la Scandinavia, tra i tanti registrati dalla TV locale ricordiamo Manfred Mann, Todd Rundgren e Frank Zappa, mentre la data dello show dei Canned Heat fu il 17 giugno del 1973, un paio di giorni prima del leggendario Festival di Roskilde, che si tiene ancora oggi, regolarmente, tutti gli anni, il più vecchio in Europa. Ma trattasi di altra storia.

La band che giunge nella nazione dove viveva la famiglia di Henry Vestine è ancora cambiata rispetto a quella che aveva registrato il concerto della Carnegie Hall, Joel Scott Hill, il chitarrista che aveva sostituito “Blind Owl” Alan Wilson, viene a sua volta rimpiazzato da James Shane che firma tre canzoni di quello che era l’album dell’epoca della band, The New Age, di cui due vengono anche eseguite nel corso del concerto, mentre viene aggiunto alle tastiere Ed Beyer, di cui la band esegue Election Blues, che dai 6 minuti della versione di studio si dilata, come era caratteristica della band, oltre i dieci minuti, e infine al basso, al posto di Antonio de la Barreda (che con Adolfo Fito de la Parra, che rimane alla batteria, mi ha sempre ricordato “Chico” di Zagor,  questo per ampliare il lato culturale) il fratello minore di Bob, Richard Hite. Completano la formazione le due stelle del gruppo, il chitarrista Henry Vestine, grande solista, che nelle parole di  Fito riportate nel libretto non aveva nulla da invidiare a Clapton e agli altri grandi dell’epoca, e non gli si può dare torto (ma anche il primo bassista Larry Taylor era un prodigioso strumentista e pure l’altro vecchio chitarrista Harvey Mandel, non scherzava) e la voce solista e armonicista Bob “The Bear” Hite, che dal vivo aveva l’ingrato compito di cantare anche i brani che all’apice della band erano affidati alla voce sottile e particolare di Wilson.

Comunque il concerto si apre con il vocione di Hite, alle prese con la loro cover di Let’s Work Together, un brano di Wilbert Harrison che in origine si chiamava Let’s Stick Together, ma comunque lo si chiami è sempre un poderoso boogie nel classico stile del gruppo, con l’Hite minore che pompa con gusto al suo basso, mentre Vestine ci delizia con il suo stile chitarristico, e l’organo di Beyer aggiunge profondità al sound. Segue On The Road Again, che con l’inconfondibile riff di armonica e chitarra, anche slide, è sempre un classico senza tempo, pur con la voce di Hite a sostituire quella di Blind Owl e l’organo che rende “strano” l’arrangiamento. Harley Davidson Blues è uno dei brani portati in repertorio da Shane, un piacevole country-blues-rock cantato dall’autore che però c’entra poco con il resto, mentre Election Blues è un classico torrido slow blues, anche con partenza dove cannano la tonalità del brano e ripartono, in diretta, come nulla fosse,  inizia piano e poi nel classico crescendo concede ampio spazio alla solista di Henry Vestine e poi al piano di Beyer, qui molto più pertinente al suono della band. Non male So Long Wrong, l’altra canzone di James Shane, incisivo anche all’altra solista, un pezzo tirato e variegato che fa da apripista ad uno dei momenti topici del concerto, il classico Shake’n’Boogie, qui di soli 14 minuti contro la versione monstre da 20’ del concerto alla Carnegie, ma sempre un gran bel sentire quando il gruppo inizia a sviscerare “il boogie” come solo loro sapevano fare, non per nulla ancora oggi quando vogliamo parlare di qualcuno tosto, si parla di “Boogie alla Canned Heat”! Conclude Goodbye For Now, il brano con cui spesso finivano i loro concerti all’epoca, un altro blues lento che porta la firma di Mandel e De La Parra, cantato da Shane, che non era un gran cantante, ma la parte strumentale è notevole. Come vedete repertorio abbastanza diverso dal concerto a Montreux del 1973 (quello con Clarence Gatemouth Brown, pubblicato dalla Eagle) e che conferma la potenza Live della band.

Bruno Conti

A Proposito Di Coppie Inossidabili! Smokin’ Joe Kubek & Bnois King – Fat Man’s Shine Parlor

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Smokin’ Joe Kubek & Bnois King – Fat Man’s Shine Parlor – Blind Pig Records

“Attenti a quei due” è il titolo di una vecchia serie televisiva (allora si chiamavano così) con Roger Moore e Tony Curtis, che andò in onda per una sola stagione agli inizi degli anni ’70, ma poi venne replicata centinaia di volte, tanto da sembrare più lunga della sua effettiva durata (anche quella era un’usanza dei tempi, e forse oggi ancor di più): in originale si chiamava “The Persuaders” e i nostri due amici Smokin’ Joe Kubek e Bnois King, in qualità di coppia, cercano di persuaderci ancora una volta ad amare il blues con questo Fat Man’s Shine Parlor, il disco che segna il loro ritorno con la Blind Pig, dopo due titoli con la Delta Groove e due con la Alligator (era anche il titolo del primo post sul Blog dedicato alla coppia http://discoclub.myblog.it/2010/04/28/attenti-a-quei-due-dal-texas-smokin-joe-kubek-bnois-king-hav/). Non aspettatevi particolari sconquassi sonori, la formula è risaputa: del sano blues, molto arricchito con iniezioni rock, una robusta dose di boogie e un filo di country per una manciata di canzoni firmate dai due marpioni che pescano idee, riff e temi musicali dalla tradizione e li rivedono nella loro ottica delle 12 battute, quella di un ottimo chitarrista come Kubek e di un gagliardo cantante (e chitarrista) come King: e la formula, ovviamente, per quanto risaputa, funziona da oltre 30 anni. Non dobbiamo aspettarci il capolavoro, ma non corriamo neppure il rischio di delusioni, in fondo, per fare sfoggio di cultura spicciola, come dicevano i latini, “in medio stat virtus” e quindi accontentiamoci, perché questo ci aspettiamo da loro.

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Con impeto filosofico i due ci dicono che il Fat Man’s Shine Parlor (che era il negozio dove si lucidavano le scarpe) era una metafora per qualcosa di più oscuro, poiché all’interno di questi spazi si svolgevano anche altri traffici più loschi, dal gioco d’azzardo alla prostituzione, innaffiati da abbondanti quantità di alcol, ma nel caso di questo disco, ci consigliano di spalancare la porta perché all’interno, in modalità molto più positiva, troveremo molte delizie musicali, più di quelle che vengono propagandate dall’insegna. Ovvero dodici sani esempi di come si suona il blues anche nel 21° secolo, cioè come una volta: che sia il blues ipnotico e ripetitivo dell’iniziale Got My Heart Broken, che miscela il classico mood basico di John Lee Hooker con lo spirito boogie di ZZ Top e Thorogood, grazie alla voce vissuta ma sempre potente di King e alla chitarra tagliente di Kubek, in questo brano potenziata da quella dell’ospite Kim LaFleur e, come detto, la formula funziona sempre https://www.youtube.com/watch?v=hivX0H689QM . La successiva Cornbread reitera questo spirito boogie, con le tre chitarre che si scambiano riff di gusto a destra e a manca, mentre la nuova sezione ritmica di Shiela Klinefelter (non è un errore di battitura, si chiama proprio così), al basso e Eric Smith, alla batteria dimostra di conoscere il mestiere alla perfezione https://www.youtube.com/watch?v=MkKBnhvzNFs . I nostri dimostrano di conoscere a menadito anche l’arte della ballata blues, e Diamond Eyes ne è un ottimo esempio, così come in Crash And Burn ritornano alle radici del vecchio R&R, come gli stessi Creedence o i Blasters meglio non saprebbero fare. River Of Whiskey, di nuovo con la presenza di LaFleur alla terza chitarra, “ruba” il classico riff di Crossroads nell’etere, dove galleggia sempre, e lo adatta per questa altra lezione di blues semplice ma efficace, con Joe Kubek alla slide e gli altri pronti a replicare, niente di memorabile ma piacevole https://www.youtube.com/watch?v=xrIsNFU77cU .

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Don’t Want To Be Alone illustra lo spirito più soul della coppia, la chitarra lirica di Kubek punteggia una ottima prestazione vocale di Bnois King, deep blues soul. Brown Bomba Mojo è una divertente variazione sul menu abituale, le due chitarre all’unisono e la ritmica costruiscono un bel groove che rende tutta la grinta del brano https://www.youtube.com/watch?v=05_kwLGKsIs , How Much viceversa, ha di nuovo quello spirito old style, tra R&R e R&B vecchia scuola, con piccoli break di batteria che agitano la costruzione lineare della canzone https://www.youtube.com/watch?v=OHsF_udSLhc . One Girl By My Side, ha quel piccolo flavor country-southern cui si accennava in apertura, elemento comunque sempre presente nella discografia di Kubek & King https://www.youtube.com/watch?v=_CCQdw9Ktz0  e non può mancare un classico shuffle come Lone Star Lap Dance, uno strumentale che permette ai due di mettere in evidenza un brillante solismo. E ancora più ovviamente (ma non ci lamentiamo) non può mancare neppure il classico lentone intenso e carico di pathos, funzione svolta dall’ottima Done Got Caught Blues, con entrambi i protagonisti al meglio delle rispettive possibilità, soprattutto Kubek che ci regala un assolo di grande tecnica e feeling https://www.youtube.com/watch?v=OxmU9-AEqZA . Per concludere si torna con Headed For Ruin al rock-blues grintoso e chitarristico di marca texana (in fondo vengono da Dallas) che è un poco il loro marchio di fabbrica.

Bruno Conti

Un’Altra Ricca “Ristampa” Di Bob: Il Santo Graal Del Rock! Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete, Take 2

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Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete Columbia/Sony Box 6CD

…Inizio parte 2

CD1: apre le danze la fluida Edge Of The Ocean, ottima melodia e bel arpeggio chitarristico; la bluesata Roll On Train mostra ancora tracce del Dylan anfetaminico del ’66; ecco poi una travolgente versione full band del classico di Johnny Cash Belshazzar, subito seguita da una splendida e toccante I Forgot To Remember To Forget (un classico country inciso da mille, da Elvis a Jerry Lee Lewis), con un grande Robbie Robertson, ed un’asciutta You Win Again (Hank Williams). Ancora Cash con due takes di Big River ed una di Folsom Prison Blues (proposte in maniera decisamente dylaniana) https://www.youtube.com/watch?v=_ePR3489bbU , un oscuro folk del secolo precedente intitolato Ol’ Roison The Beau, eseguito alla grande, la country oriented Cool Water (resa nota dai Sons Of The Pioneers), il traditional The Auld Triangle (conosciuto anche come The Banks Of The Royal Canal), splendido, per finire con la bella I’m A Fool For You (due takes), che ha la stessa progressione di accordi di Like A Rolling Stone.

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CD2: a parte il saltellante traditional che apre il disco, Johnny Todd (proposto in chiave folk-rock), qui troviamo diversi classici contemporanei, da John Lee Hooker (Tupelo, in cui Bob si diverte a fare il verso al vecchio Hook, e I’m In The Mood) a ben tre pezzi di Ian Tyson (Four Strong Winds, molto intensa, The French Girl e Song For Canada), all’eccellente versione di Joshua Gone Barbados di Eric Von Schmidt, fino alla famosa People Get Ready di Curtis Mayfield. Poi ci sono gli originali di Dylan, tra i quali spiccano la quasi honky-tonk I’m Your Teenage Prayer, il trascinante rock-blues Baby, Won’t You Be My Baby, la potente I Can’t Make It Alone.

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CD3: si inizia ad entrare nel vivo, ed anche Dylan e compagni assumono toni più seri e professionali (nei primi due CD c’era parecchio cazzeggio, risate, brani interrotti, ecc.): questo terzo dischetto, insieme col prossimo, contiene il 98% dei brani che sono poi finiti sull’album del ’75. Ci sono le versioni note, ma anche diverse alternate takes, tra cui una sempre trascinante Million Dollar Bash, forse anche meglio di quella pubblicata (discorso che vale anche per Too Much of Nothing). Ma ci sono anche splendide versioni di traditionals come Young But Daily Growing (eseguita da Bob in perfetta solitudine) e Bonny Ship The Diamond, una folk tune da pelle d’oca, oltre ad originali come One For The Road, ninna nanna a tempo di valzer, e I’m Alright, nel quale la voce di Dylan assomiglia in modo impressionante a quella che avrà nei primi anni ottanta (il suo cosiddetto periodo born again). E risentiamo con grande piacere anche la nota I’m Not There, una delle canzoni più misteriose e musicalmente complesse del nostro.

CD4: in apertura troviamo tre takes della stupenda Tears Of Rage, in assoluto uno dei testi più toccanti di Bob, seguita da due versioni dell’altrettanto bella Quinn The Eskimo, ma l’highlight del CD, e forse del box in assoluto, è la meravigliosa Sign On The Cross (uno degli inediti la cui mancata pubblicazione aveva causato maggior sconforto tra i fans), uno splendido ed intensissimo slow d’atmosfera, con un Dylan superlativo al canto (prende delle note alte da paura) ed un Hudson gigantesco all’organo: davvero non mi capacito come Bob (e la Sony) abbiano potuto tenerla nascosta fino ad oggi, qui siamo ai livelli di Blind Willie McTell! Un capolavoro così rischia di far passare in secondo piano il resto del dischetto, ma meritano una menzione di sicuro Get Your Rocks Off, un sontuoso blues elettrico dove Bob e i suoi sembrano suonare in un malandato juke joint di Chicago, una Don’t Ya Tell Henry con Dylan voce solista (nell’LP originale la cantava Helm) ed un delizioso arrangiamento simil-dixieland, tre versioni molto diverse tra loro di Nothing Was Delivered ed una Odds And Ends alternata, ancora più trascinante di quella nota.

CD5: probabilmente il dischetto più interessante, che mette in apertura tre rielaborazioni a sorpresa di classici dylaniani: Blowin’ In The Wind, in una veste blues che non le si addice molto, One Too Many Mornings, con lo stesso arrangiamento del tour del 1966 (e Richard Manuel che canta la prima strofa) ed una sempre godibile It Ain’t Me, Babe. Tra gli inediti originali spiccano la roccata My Woman She’s A-Leavin’, sulla falsariga dei brani della svolta elettrica del 1965, la romantica Mary Lou, I Love You Too, che ricorda parecchio To Ramona, la guizzante Silent Weekend (anch’essa molto quotata tra i collezionisti) e la complessa e cupa Wild Wolf. Ci sono anche delle cover inaspettate, come il classico della Carter Family Wildwood Flower, con grande uso di autoharp, la nota If I Were A Carpenter di Tim Hardin, oltre allo splendido traditional 900 Miles From My Home e due takes della vecchia folk song Ain’t No More Cane, anche questa cantata da Bob a differenza di quella pubblicata nel 1975.

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CD6: presentato come “bonus disc”, quest’ultimo dischetto non rispetta l’ordine cronologico, ma include brani inseriti più che altro per il loro valore storico, dato che la qualità sonora complessiva va dall’appena discreto al pessimo: ci sono comunque vere e proprie chicche, come la bizzarra Jelly Bean, il gioioso traditional Hallelujah, I’ve Just Been Moved, in cui Bob sembra vocalmente tornato ai tempi delle coffee houses di New York, l’intensa That’s The Breaks, puro Dylan, e l’ottima King Of France, una grande canzone purtroppo rovinata dall’infima qualità del suono. Ci sono poi due covers di classici americani che Bob non ricanterà più in seguito: Will The Circle Be Unbroken, curiosa ma non particolarmente convinta, ed un’ottima Going Down The Road Feeling Bad, ripresa negli anni a seguire varie volte dai Grateful Dead.

Alla fine mi sono dilungato un attimino, ma non capita tutti i giorni di avere la possibilità di recensire uno dei dischi (o forse IL disco) più desiderati della storia.

Chiaramente imperdibile.

Marco Verdi

*NDB

Se ve la eravate persa nel precedente Post di qualche mese fa, questa è la lista completa dei brani:

Disc: 1
1. Edge of the Ocean
2. My Bucket’s Got a Hole in It
3. Roll on Train
4. Mr. Blue
5. Belshazzar
6. I Forgot to Remember to Forget
7. You Win Again
8. Still in Town
9. Waltzing with Sin
10. Big River (Take 1)
11. Big River (Take 2)
12. Folsom Prison Blues
13. Bells of Rhymney
14. Spanish is the Loving Tongue
15. Under Control
16. Ol’ Roison the Beau
17. I’m Guilty of Loving You
18. Cool Water
19. The Auld Triangle
20. Po’ Lazarus
21. I’m a Fool for You (Take 1)
22. I’m a Fool for You (Take 2)

Disc: 2
1. Johnny Todd
2. Tupelo
3. Kickin’ My Dog Around
4. See You Later Allen Ginsberg (Take 1)
5. See You Later Allen Ginsberg (Take 2)
6. Tiny Montgomery
7. Big Dog
8. I’m Your Teenage Prayer
9. Four Strong Winds
10. The French Girl (Take 1)
11. The French Girl (Take 2)
12. Joshua Gone Barbados
13. I’m in the Mood
14. Baby Ain’t That Fine
15. Rock, Salt and Nails
16. A Fool Such As I
17. Song for Canada
18. People Get Ready
19. I Don’t Hurt Anymore
20. Be Careful of Stones That You Throw
21. One Man’s Loss
22. Lock Your Door
23. Baby, Won’t You be My Baby
24. Try Me Little Girl
25. I Can’t Make it Alone
26. Don’t You Try Me Now

Disc: 3
1. Young but Daily Growing
2. Bonnie Ship the Diamond
3. The Hills of Mexico
4. Down on Me
5. One for the Road
6. I’m Alright
7. Million Dollar Bash (Take 1)
8. Million Dollar Bash (Take 2)
9. Yea! Heavy and a Bottle of Bread (Take 1)
10. Yea! Heavy and a Bottle of Bread (Take 2)
11. I’m Not There
12. Please Mrs. Henry
13. Crash on the Levee (Take 1)
14. Crash on the Levee (Take 2)
15. Lo and Behold! (Take 1)
16. Lo and Behold! (Take 2)
17. You Ain’t Goin’ Nowhere (Take 1)
18. You Ain’t Goin’ Nowhere (Take 2)
19. I Shall be Released (Take 1)
20. I Shall be Released (Take 2)
21. This Wheel’s on Fire
22. Too Much of Nothing (Take 1)
23. Too Much of Nothing (Take 2)

Disc: 4
1. Tears of Rage (Take 1)
2. Tears of Rage (Take 2)
3. Tears of Rage (Take 3)
4. Quinn the Eskimo (Take 1)
5. Quinn the Eskimo (Take 2)
6. Open the Door Homer (Take 1)
7. Open the Door Homer (Take 2)
8. Open the Door Homer (Take 3)
9. Nothing Was Delivered (Take 1)
10. Nothing Was Delivered (Take 2)
11. Nothing Was Delivered (Take 3)
12. All American Boy
13. Sign on the Cross
14. Odds and Ends (Take 1)
15. Odds and Ends (Take 2)
16. Get Your Rocks Off
17. Clothes Line Saga
18. Apple Suckling Tree (Take 1)
19. Apple Suckling Tree (Take 2)
20. Don’t Ya Tell Henry
21. Bourbon Street

Disc: 5
1. Blowin’ in the Wind
2. One Too Many Mornings
3. A Satisfied Mind
4. It Ain’t Me, Babe
5. Ain’t No More Cane (Take 1)
6. Ain’t No More Cane (Take 2)
7. My Woman She’s A-Leavin’
8. Santa-Fe
9. Mary Lou, I Love You Too
10. Dress it up, Better Have it All
11. Minstrel Boy
12. Silent Weekend
13. What’s it Gonna be When it Comes Up
14. 900 Miles from My Home
15. Wildwood Flower
16. One Kind Favor
17. She’ll be Coming Round the Mountain
18. It’s the Flight of the Bumblebee
19. Wild Wolf
20. Goin’ to Acapulco
21. Gonna Get You Now
22. If I Were A Carpenter
23. Confidential
24. All You Have to do is Dream (Take 1)
25. All You Have to do is Dream (Take 2)

Disc: 6
1. 2 Dollars and 99 Cents
2. Jelly Bean
3. Any Time
4. Down by the Station
5. Hallelujah, I’ve Just Been Moved
6. That’s the Breaks
7. Pretty Mary
8. Will the Circle be Unbroken
9. King of France
10. She’s on My Mind Again
11. Goin’ Down the Road Feeling Bad
12. On a Rainy Afternoon
13. I Can’t Come in with a Broken Heart
14. Next Time on the Highway
15. Northern Claim
16. Love is Only Mine
17. Silhouettes
18. Bring it on Home
19. Come All Ye Fair and Tender Ladies
20. The Spanish Song (Take 1)
21. The Spanish Song (Take 2)

Il “Difficile Terzo Album” Per Un Barbuto Indie-Rocker Di Gran Talento! Sean Rowe – Madman

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Sean Rowe – Madman – Anti/Self Records

Uno dei primi a scoprire Sean Rowe (se non il primo http://discoclub.myblog.it/tag/magic/ ) è stato il titolare di questo blog, in occasione dell’uscita dell’ottimo Magic (11): un songwriter dall’indiscutibile talento con una gran voce dai toni baritonali, molto vicina a quelle di Nick Cave, Mark Lanegan e direi anche Matt Berninger (il leader e cantante dei National).

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Rowe, trentanovenne folk singer di Troy, New York con sangue irlandese e italiano nelle vene, per trovare l’ispirazione, dopo l’esordio da indipendente con lo sconosciuto album 27 (04,) si rifugia per qualche tempo sui monti Adirondacks (al confine fra Stati Uniti e Canada), e, nella quiete di boschi e ruscelli prese forma il citato Magic, a cui fece seguire un altro ottimo lavoro come The Salesman And The Shark (12), e ora torna con questo nuovo Madman, costruito in buona parte durante un tour di concerti in giro per gli States. Ad accompagnare il barbuto Sean troviamo, come sempre, ottimi musicisti tra i quali Chris Kyle alle chitarre, Ben Campbell al basso, Chris Carey alla batteria e percussioni, Chris Weatherly alla tromba, Jeff Nania al sax, il polistrumentista e anche co-produttore con Rowe,Troy Pohl, oltre alle vocalist aggiunte Cara May Corman e Sarah Pedinotti.

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Pur forse non raggiungendo i livelli di Magic ( però i pareri sono difformi, per alcuni è addirittura superiore), il buon Sean, con questo Madman, prosegue la sua parabola attraverso un suono alt-country, a partire dalla title track https://www.youtube.com/watch?v=ess11y1oFiE , un brano dalle tinte noir impresso dal vocione di Sean, poi il blues pulsante e selvaggio di Shine My Diamond Ring https://www.youtube.com/watch?v=pZQYML9Wf6k , passando per il R & B funky di Desiree, una The Game https://www.youtube.com/watch?v=Eud2Aul4gi8  che nello sviluppo mi ricorda una grande band australiana (da riscoprire) come i Triffids, mentre The Drive e Spiritual Leather sono due struggenti folk-ballads. Con Done Calling You si ritorna a respirare il blues del delta, canzone seguita dai ritmi sghembi e incalzanti di The Real Thing, che paiono usciti dai solchi di Swordfishtrombones di Tom Waits, per poi ritornare alle dolenti atmosfere (ma è la perla del disco) di una strepitosa Razor Of Love https://www.youtube.com/watch?v=YnxPdSq6yg4 , l’ode commovente al figlio di My Little Man https://www.youtube.com/watch?v=sQAlUi2E7IE , per chiudere infine con le percussioni maniacali di Looking For The Master, e il lamento finale e spirituale di una It Won’t Belong, cantata con anima e voce baritonale da Rowe https://www.youtube.com/watch?v=sQAlUi2E7IE .

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La voce autorevole di Sean Rowe è sicuramente il tratto prominente in Madman, e si fonde bene con una varietà di stili e influenze che vanno da Johnny Cash a Tom Waits, passando per JJ Cale e John Lee Hooker e direi anche Leonard Cohen in Razor Of Love (*NDB. E Greg Brown dove lo mettiamo?), e anche se, ripeto, forse, non è il miglior album della “triade”, per chi scrive Rowe è un artista dal potenziale illimitato che deve solo essere conosciuto e apprezzato, magari seduti davanti ad un bancone di un locale, con una cassa di birra ghiacciata.

Tino Montanari

Può Essere Rude, Ma Anche Tenero! John Hiatt – Terms Of My Surrender

john hiatt terms of my surrender

John Hiatt – Terms Of My Surrender – New West

“Posso essere rude, alcune volte posso essere tenero”, lo dice lo stesso John Hiatt nella title track di questo suo nuovo album, Terms Of My Surrender, ma lo dicono anche la sua carriera e i suoi dischi: ultimamente era stato più rude, cattivo, elettrico, scegliete voi il termine nei due CD precedenti ( http://discoclub.myblog.it/2012/08/26/il-disco-e-sempre-bello-come-al-solito-ma-cosa-diavolo-e-un/ e http://discoclub.myblog.it/2011/08/10/e-intanto-john-hiatt-non-sbaglia-un-colpo-dirty-jeans-and-mu/), quelli prodotti da Kevin Shirley, che a qualcuno erano piaciuti parecchio (ad esempio a chi scrive, come potete leggere nei Post linkati qui sopra), ad altri meno, c’era chi li aveva trovati troppo rock o troppo levigati, “leccati” perfino, ma nessuno aveva negato la magia che spesso si sprigionava dalle sue canzoni, oggi come ieri. Per uno con ventidue album di studio, varie antologie (http://discoclub.myblog.it/2013/11/13/il-meglio-di-uno-dei-migliori-john-hiatt-here-to-stay-the-be/) e live, alle spalle, non è facile trovare sempre qualcosa di nuovo da dire e farlo bene, comunque il nostro amico ci riesce spesso. Questa volta si parla di un album “blues acustico”. Prego? Ma fatto alla Hiatt!  Ah, bene, allora ci siamo. Il suo chitarrista degli ultimi album, Doug Lancio, dopo un primo approccio “elettrico”, lo aveva sfidato a fare un album acustico, “blues oriented” come dicono gli americani, registrato dal vivo, in presa diretta, in studio. E così è stato fatto, con l’aiuto della sua band abituale, nell’ultima versione: oltre a Lancio, chitarre acustiche (ma anche elettriche), banjo e mandolino, nonché produttore del disco, lo storico batterista Kenneth Blevins, e gli ultimi arrivati, Nathan Gehri, al basso e Jon Coleman alle tastiere, più le “interessanti” armonie vocali di Brandon Young, un cantante emergente dell’area di Nashville. Undici nuove canzoni che esplorano i pregi e i difetti del diventare vecchi, troppo? Diciamo anziani, anche se un brano si chiama appunto Old people.

Ovviamente Hiatt lo fa con lo humor e l’ironia, persino il sarcasmo, che non gli hanno mai fatto difetto, ma anche con una certa partecipazione verso questi “strani personaggi”, che ormai sono quasi suoi coetanei (quasi, in fondo ha “solo” 62 anni, se la salute lo sorregge, ancora una vita davanti). Lui dice che la voce non è più quella di un tempo, ha perso qualche tonalità nei registri più alti, ma è sempre quella “solita” voce ruvida, grezza, spesso anche tenera (come le canzoni), una delle migliori in circolazione, le canzoni sono belle, c’è molto blues, sempre according to John Hiatt (in fondo anche Dylan, Mellencamp, Springsteen, Petty e compagnia cantante, ogni tanto fanno Blues), forse accentuato in questo caso dalla presenza dell’armonica, che riappare in un paio di brani, dopo una lunga latitanza. Ma a ben guardare è un tema musicale che aveva già affrontato ai tempi di Crossing Muddy Waters. In ogni caso, ve lo dico subito, il disco è bello, per cui “rassegnatevi”, se non avete già provveduto, il disco è uscito il 15 luglio, bisognerà comprare anche questo. Vediamo le canzoni nel dettaglio.

Il disco parte con Long Time Comin’. un brano che inizia acustico, ma poi entrano le tastiere, la sezione ritmica, la chitarra slide di Lancio e il brano si trasforma, nella parte centrale, in una delle sue classiche ballate, con quella voce rotta da mille battaglie ma sempre solida e ben contrappuntata da quella di Brandon Young. In Face Of God, un bel blues acustico, con la ritmica appena accennata e discreta, ma comunque presente, come la sua armonica e il mandolino di Lancio, Hiatt ci racconta della perenne lotta tra Dio e il diavolo, il bene e il male. Marlene è una bellissima e dolce canzone d’amore , una di quelle che solo John sa scrivere, in bilico tra folk, accenni caraibici e il suono laidback del grande JJ Cale, la solita piccola delizia destinata agli ammiratori del cantante dell’Indiana, ma cittadino di Nashville, ormai da lunga pezza. Sulle note di un banjo, pizzicato dal multiforme Doug Lancio, si apre Wind Don’t Have To Hurry, brano che poi si trasforma in un pezzo dalla struttura più rock, anche se il continuo e reiterato na-na-na intonato insieme ad una voce femminile (forse la figlia Lilly? ma non mi sembra) alla fine testa la pazienza dell’ascoltatore. Nobody Kwew His Name, il racconto di un veterano del Vietnam, ha il fascino delle migliori canzoni di Hiatt, con il contrappunto ancora di una matura voce femminile, si snoda tra le evoluzioni di una slide, questa volta acustica, il solito mandolino, un piano appena accennato, il tocco delicato della batteria di Blevins, la voce complice e vissuta che fa vivere la storia.

Baby’s Gonna Kick, con la sua citazione di John Lee Hooker, l’armonica torrida e bluesatissima, la slide d’ordinanza, è uno dei brani più vicini alle dodici battute classiche, sempre rivisitate attraverso l’ottica di John, ma anche decisamente canoniche. Ancora blues, più cadenzato, per Nothin’ I Love, parte solo voce e chitarra acustica, poi entra l’organo e il resto della band e il brano diventa più elettrico con la solista che rilascia un bel assolo. Terms Of My Surrender, oltre a contenere il verso che ho citato all’inizio, è una ballata old time, di quelle che si facevano una volta, con Hiatt che si cimenta, qui è la, anche in uno spericolato falsetto (ce la fa, ce la fa), coretti vicini al doo wop, chitarra elettrica jazzata e un’andatura quasi indolente, dove ci racconta della sua (quasi) resa allo scorrere del tempo. Mentre il fuoco di una passione d’amore irrequieta incendia le note di una Here To Stay che era già presente in un altra versione, più rock e con Bonamassa alla chitarra, nel Best dello scorso anno, questa versione ha quasi degli accenti gospel, rallentata, con un arrangiamento completamente diverso, il manuale del buon cantautore insegna che una bella canzone si può usare più volte, quindi era giusto farla sentire anche a chi non si era comprato la raccolta, sia pure sotto una forma diversa.

Old People è una simpatica, ironica e anche un filo crudele parodia di quei tipi, “i vecchi”, quelli invadenti, che spingono nelle file per passarti davanti, sono un po’ come i bambini, però sanno quello che vogliono, anche se invecchiare non è bello bisogna prepararsi, la canzone cerca di darci alcune istruzioni su come comportarci con “loro”, quei tipi strani, e anche se il brano non è forse tra i migliori dell’album ha quel sarcasmo insito che Randy Newman aveva dedicato ai “tipi bassi” (per essere politically correct bisognerebbe dire diversamente alti o, nel caso in questione, diversamente giovani), comunque il pezzo è divertente https://www.youtube.com/watch?v=oHIpM0_SJEA , una sorta di folk-blues corale e vagamente valzerato che fa da preludio alla canzone che chiude questo album, una Come Back Home che ha tutti gli elementi tipici di un brano di Hiatt, intro di chitarra acustica, poi arriva il piano, il resto del gruppo segue e la canzone si sviluppa sulle ali della voce glabra e ruvida di John, ma poi, sorpresa, quando cominci ad appassionarti, è già finita, peccato, comunque bella. Come tutto l’album peraltro: probabilmente John Hiatt non ci regalerà più un Bring The Family, ma possiamo sempre sperare in un Time Out Of Mind o in un Tempest, per il momento “accontentiamoci” dei suoi album della maturità, d’altronde da un anziano (il baffetto aiuta, vedi foto) cosa possiamo aspettarci (!), comunque rispetto a molto di quello che circola attualmente in ambito musicale, qui ci va sempre di lusso e infatti il disco è entrato, come il precedente, nei Top 50 della classifica di Billboard, speriamo che questo gli procurerà una vecchiaia priva di patemi!

Bruno Conti

Un “Nuovo” Disco di Big Walter Horton, E Che Disco! Live At The Knickerbocker

big walter horton live knickerbocker

Big Walter Horton – Live At The Knickerbocker – JSP Records

Un nuovo album di Big Walter Horton, uno dei più grandi armonicisti del Blues, a circa 33 anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel dicembre del 1981? Quasi. Riprovo: una nuova versione in CD di un disco dal vivo che ha vissuto diverse incarnazioni nel corso degli anni? Già meglio. In effetti questo Live At The Knickerbocker è uscito varie volte nel corso degli anni: una prima volta, in vinile, nel 1980 (mi sa che ce lo avevo ai tempi, la copertina mi ricorda qualcosa), a nome Walter Horton e con il titolo di Little Boy Blue, sette brani e diversa sequenza degli stessi, con una traccia attribuita a Left Hand Frank.

big walter horton little boy blue

Stessa copertina e titolo, per una prima edizione in CD, sempre per la JSP, uscita nel 1989, i brani diventano nove, la sequenza è quella esatta ed i primi tre sono giustamente attribuiti a Sugar Ray & The Bluetones, che poi diventano la band di supporto del grande musicista di Horn Lake, Ms, per i restanti sei. Nel 2001 (qui vado un po’ a memoria, mi sembra), esce nuovamente, questa volta come Walter Horton Live At The Knickerbocker. E siamo al 2014, questa versione appare con il nome di Big Walter Horton Featuring Ronnie Earl-Sugar Ray, nuova copertina, nuove foto, con le vecchie liner notes dell’edizione 1998 (ebbene sì, ne era uscita una versione anche quell’anno), quello che non cambia è lo straordinario contenuto di questo concerto, forse l’ultimo registrato da Horton, nel 1980, un anno prima della sua morte, ma quando era ancora in grandissima forma.

big walter horton live knickerbocker old

Ed i comprimari non sono da meno: tutti giovani e molto tempo prima di essere riconosciuti tra i grandi del blues bianco degli ultimi 30 anni. Sugar Ray Norcia, alla voce e all’armonica è già un grande talento e ancor di più, alla chitarra c’è un tale Ronnie Horvath, prima di acquisire il suo titolo nobiliare di Earl del blues. Gli altri tre accompagnatori sono “Little Anthony Geraci”, ottimo pianista, il bassista Michael “Mudcat” Ward e l’unica nera del gruppo (a parte Big Walter, ovviamete), la flemmatica e misteriosa batterista Ola Mae Dixon. Nella sua lunga carriera, Big Walter Horton, definito da Willie Dixon il più grande armonicista che abbia mai ascoltato, non è quasi mai stato un prim’attore, la sua discografia è abbastanza scarna, a differenza di quella di gente come Little Walter o Sonny Boy Williamson, però ha partecipato a molte delle registrazioni cruciali della storia del blues di Chicago, come spalla di lusso.

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In questa veste forse qualcuno se lo ricorda nel film Blues Brothers, dove era l’armonicista nel gruppo di John Lee Hooker. Ma dal vivo era una forza della natura, acustico od elettrico, a detta di tutti gli appassionati di blues e di armonica in particolare, quello in possesso di una tecnica unica e di una forza nel soffio che hanno influenzato intere generazioni di strumentisti negli anni a venire https://www.youtube.com/watch?v=FghNW94YUaM . Sentite proprio uno dei suoi discepoli, Sugar Ray, come si faceva semplicemente chiamare agli esordi, nella tripletta di brani che aprono questo concerto: una Cry For You dal repertorio di Billy Boy Arnold, con il gruppo che ricorda moltissimo i Bluesbreakers dei primi anni, seguita da uno slow eccellente come Lord Knows I Tried, dove Ronnie Earl dimostra già di essere quel chitarrista formidabile che abbiamo apprezzato nel corso degli anni, al sottoscritto sembra di ascoltare un giovane Michael Bloomfield, fantastico e Sugar Ray Norcia mi ricorda alla voce il giovane Peter Green. Country Girl era uno dei cavalli di battaglia della coppia Buddy Guy/Junior Wells e i “giovani” Norcia e Horvath fanno di tutto per non farli rimpiangere https://www.youtube.com/watch?v=N-6CqQz3ilI .

Big Walter Horton 2

E Big Walter non è ancora arrivato, quando sale sul palco stende subito tutti con una poderosa Walter’s Shuffle, con la band che attacca un groove micidiale ed il pubblico del piccolo Knickerboxer (un caffè nel mezzo del nulla a Westerly, Rhode Island, un posto che ancora esiste, il locale ovviamente) dimostra di apprezzare https://www.youtube.com/watch?v=ZHxo3APxurI . Little Boy Blue, che dava il titolo al disco originale, è un brano di Robert Lockwood Jr., Horton non ha una gran voce, ma tonnellate di feeling e quando inizia a soffiare nell’armonica è un grande trascinatore (fisicamente non era messo molto bene, come si vede dalla foto, ma la grinta non manca). It’s Not Easy è un altro dei pezzi da novanta del suo repertorio, in origine si chiamava Easy ed era una canzone di tale Jimmy Deberry, poi qualcuno gli ha fatto notare che il brano non era poi così “easy” nel suo intricato lavoro di armonica ed il nuovo nome è rimasto, sentire per credere. Two Old Maids viaggia ad una velocità molto più sostenuta dell’originale 78 giri pubblicato da Horton per la Sun nel 1953 e dimostra che il nostro amico era ancora in forma strepitosa, circa un anno prima della sua scomparsa. Altro slow blues ed altra occasione per mostrare la sua classe per un Ronnie Earl in grande spolvero, questa volta alla slide in una grandissima What’s On Your Worried Mind? dove l’interscambio con l’armonica è continuo. La conclusione è affidata ad un altro shuffle come Walter’s Swing in cui l’armonica viaggia ancora alla grande, caspita se viaggia.

magic sam live

Questo CD, se amate il Blues, va preso e messo lì nella vostra discoteca accanto al recente Magic Sam, Live At The Avant Garde, dischi così non se ne fanno quasi più!

Bruno Conti

Forse Il Suo Miglior Album Dal Vivo Di Sempre! George Thorogood – Live At Montreux 2013

 

george thorogood live at montreux 2013

George Thorogood & The Destroyers – Live At Montreux 2013 – Eagle Rock CD Blu-Ray DVD

Il festival di Montreux quest’anno ha festeggiato la sua 47a edizione, George Thorogood è in pista da una quarantina di anni, ma a giudicare dal loro incontro in questo CD (o DVD o Blu-Ray, fate voi) godono entrambi di buona salute, anzi ottima. Thorogood basta che lo mettiate su un palco, gli accendete le pile o gli amplificatori, come preferite, e parte come una scheggia, la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker vive sempre in lui, anzi più passano gli anni e, sempre per citare la sagacia del Dott. Jannacci Enzo da Milano, “el g’ha la forsa d’un leun”! Quando nel 1977 usciva il suo primo album per la Rounder come George Thorogood & The Destroyers, il nostro amico del Delaware aveva già al suo fianco la inossidabile coppia di Jeff Simon alla batteria e Bill Blough al basso, rodata da quattro anni di concerti in giro per l’America ( e nel 1980 avrebbe stabilito un record invidiabile con il 50/50 Tour, cinquanta date negli Stati Uniti in cinquanta giorni, alla faccia del bicarbonato!).

Da allora, nell’ultima decade, Thorogood ha aggiunto Buddy Leach al sax e l’eccellente Jim Suhler alla seconda chitarra, che hanno ulteriormente aumentato la potenza di tiro di un trio formidabile, che già nel 1985 infiammava le platee del Live Aid, dopo avere riscosso un successo formidabile in giro per il mondo con un brano come Bad To the Bone, aiutato da un simpatico video, dove George giocava a biliardo con Bo Diddley, in heavy rotation su MTV e da allora utilizzato in innumerevoli colonne sonore e spot pubblicitari. L’anno scorso ha realizzato un ottimo disco come 2120 Michigan Avenue che rendeva omaggio alle sue radici ben piantate nel catalogo della Chess Records. Ma è dal vivo che l’uomo è irrefrenabile, dategli una platea e vi ridurrà a uno straccio (ricordo di averlo visto in concerto all’Odissea 2001 di Milano, un locale che non esiste più da anni, un buco lungo e stretto, vagamente alla Marquee, dove Thorogood dopo avere battezzato tutti con il manico della sua Gibson, provvide a “terrorizzare” il pubblico con una potenza di suono che ancora oggi mi fa fischiare le orecchie, altro che tinnito!): anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira.

Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta. Si parte con Rock Party, un’orgia di chitarre e sax e da lì in avanti non vengono presi ostaggi, Who Do You Love? è diversa dalla versione dei Quicksilver, ma altrettanto efficace, ormai una standard al pari di quella, più Diddley di Bo. Help Me non è più il lentone di Sonny Boy Williamson ma una scarica di adrenalina pura, Night Time (solo su DVD e Blu-Ray, l’unica cosa in più rispetto al CD, con una intervista) è sempre un classico del garage-rock come quando venne concepito dagli Strangeloves di Richard Gottehrer (poi produttore eccelso e co-fondatore della Sire Records), I Drink Alone è uno dei brani scritti da Thorogood diventato a sua volta un classico come la successiva One Bourbon, One Scotch, One Beer ormai ereditata da John Lee Hooker e diventata anch’essa uno dei cardini del suo formidabile spettacolo dal vivo, un vero tour de force

E in questo concerto, per fugare i vostri dubbi, le esegue tutte alla grandissima, insieme ad un tributo a Johnny Cash, una Cocaine Blues resa a velocità supersonica ma che mantiene il suo spirito country. Get A Haircut ancora con questo spirito da party infinito, Bad To The Bone, dove sfodera per la prima volta la sua slide nel concerto, per uno dei nuovi standard del blues del XX e XXI secolo e che versione ragazzi , Move It On Over, la title-track del secondo album, R&R in excelsis via Hank Williams. E poi ancora Tail Dragger, una sberla di blues (rock) ad alta gradazione, per finire con Madison Blues, dove stende definitivamente il pubblico con una quota di Delaware Slide che non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura, il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!

Bruno Conti

Blues Come Ai “Vecchi” Tempi, Anche Troppo! Little G. Weevil – Moving

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Little G. Weevil – Moving – Apic/Vizztone

Comprendo ed approvo quei bluesmen che vanno alla ricerca delle radici della musica del diavolo, che so, una Rory Block o un John Hammond (ma anche quelli che se la schitarrano di brutto!), però mi sembra che in questo disco il buon Little G. Weevil abbia addirittura esagerato. Uno che all’anagrafe fa Gabor Szucs e viene dall’Ungheria, anche se è cittadino americano a tutti gli effetti, avendo sposato una ragazza di Atlanta, Georgia, dove vive, non può venirmi a dire nelle note del suo nuovo disco: “Sono innamorato del Blues crudo, vecchia scuola. Anche se ho iniziato elettrico (fino al 2011 su disco, NDB) mi ricordo ancora di quando ho acquistato per 75 dollari la mia prima chitarra a Memphis in un banco pegni” e aggiunge “Con questo disco ho voluto catturare ancora una volta il suono dei vecchi dischi, le registrazioni sul campo, dove sullo sfondo si sentiva un cane abbaiare, una sporta sbattere, una moto che passava…questa session è stata effettuata nel centro di Atlanta, dove Blindie Willie Mctell suonava per le piccole offerte dei passanti, in uno stanza 20×15, con solo un piccolo microfono al centro…e poi prosegue.

Ripeto, va bene l’autenticità, ma se per ottenere questo effetto volutamente distorci la tua voce in modo che sembri quella di un nero degli anni ’20, ma la chitarra si distingue alla perfezione, vai in solitaria solo canto, acustica, al limite con bottleneck, battito dei piedi per tenere il tempo, addirittura oscuri la tua foto in copertina per far sì che in controluce non si avverta il colore della tua pelle, tra il chiaro e lo scuro, valigia da emigrato in mano, mi sembra che sia troppo. Per sembrare Ray Charles uno si deve cavare gli occhi? O Solomon Burke, mangiarsi qualche bufalo intero per raggiungere quel peso? Ma poi lo diventi? Anche se viene dalla terra che ci ha dato Gabor Szabo, il nostro Gabor, pur avendo ricevuto la citazione come migliore nei Top 10 dei dischi Blues del 2012 della rivista Mojo e nel 2013 l’International Blues Challenge a Memphis, come miglior duo/solo performer, ha ottenuto questi ottimi risultati per un disco, The Teaser, uscito nel 2011, che era elettrico e vibrante, tra R&R e blues urbano e che forse, per chi scrive, non era il migliore di quell’anno (sarà stato perché il precedente era su etichetta King Mojo Records?) ma comunque un fior di disco.

Ora, per essere sinceri, perché è nella mia natura, e magari mi attiro l’ira dei puristi, devo ammettere che ascoltando questo disco qualche sbadiglio me lo sono fatto: ci sono anche due o tre brani dove è accompagnato da un trio, contrabbasso, armonica e batteria (notevole la conclusiva e poderosa Swing In The Middle, che ha qualcosa della grinta del grande John Lee Hooker, che Little G. Weevil cita tra le sue fonti di ispirazione), e la voce non è molto filtrata, ma la serie di brani originali firmati dallo stesso Little G. Weevil, a parte un traditional rivisitato, Let’s Talk It Over (Come On Baby), non a caso molto intenso, non mi sembra così straordinaria da superare un McTell o Robert Johnson, o Son House, Mississippi John Hurt, chi volete voi, e questo non lo fa nessuno, neanche nel rock, di essere originale e “nuovo” a tutti i costi, però mi sembra che in questo disco, peraltro consigliato se siete amanti del country blues acustico, si vuole invece essere “vecchi” a tutti i costi e non ci sia nulla di così straordinario, ma magari sbaglio io e ad altri piacerà moltissimo. Quindi un disco da tre stellette per addetti ai lavori, perché non è per nulla brutto, ma gli altri, se vogliono, possono anche astenersi. Vado a risentirmi qualche ristampa di Hendrix, ops,  Charley Patton!

Bruno Conti