Ottima Moderna Country Music Con Uno Sguardo Al Passato Per Un Esordio Fulminante! Logan Ledger – Logan Ledger

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Logan Ledger – Logan Ledger – Rounder/Concord CD

Era da parecchio tempo, forse addirittura da qualche anno, che non mi capitava tra le mani un disco prodotto da T-Bone Burnett, uno che specialmente tra gli anni novanta e la prima decade dei duemila era senza dubbio il produttore più richiesto a livello internazionale. Anzi, pare che Burnett avesse intenzione di ritirarsi a vita privata, ma che abbia “dovuto” rimandare tale proposito quando ha avuto per le mani i demo di alcune canzoni scritte ed eseguite da un certo Logan Ledger, un illustre sconosciuto originario di San Francisco ma residente a Nashville: la reazione di T-Bone all’ascolto di quel nastro è stata tale da convincerlo a contattare Ledger per produrgli il disco d’esordio. Tra l’altro non è che Burnett si sia risparmiato nella scelta dei musicisti, in quanto ha portato in studio con sé il grande chitarrista Marc Ribot (a lungo con Tom Waits), il bassista Dennis Crouch, il batterista Jay Bellerose, il tastierista Keefus Ciancia e l’illustre steel guitarist Russ Pahl (ovvero, a parte Ciancia e Pahl, la stessa band che incise il capolavoro di Robert Plant ed Alison Krauss Raising Sand): ma non ci si deve stupire di tanta magniloquenza, in quanto Burnett è uno che il talento lo riconosce dopo poche note, e nel caso di Ledger di talento ce n’è in abbondanza.

Logan infatti non è un countryman qualsiasi, ma uno che sa scrivere canzoni di qualità eccelsa in puro stile country classico, bilanciando il tutto con una miscela sonora di antico e moderno: il gruppo che lo accompagna fornisce infatti un background quasi rock, che viene però stemperato dalla languida steel di Pahl e soprattutto dalla bellissima e profonda voce del leader, che a seconda dei momenti richiama gente come Elvis Presley, Roy Orbison, Chris Isaak e Raul Malo. Logan Ledger è quindi un disco di country al 100%, ma con una band come quella che c’è alle spalle del nostro il livello sale di botto, per non parlare del fatto di avere uno come Burnett in consolle e, soprattutto, l’avere portato in dote una manciata di brani di livello notevole. L’iniziale Let The Mermaids Flirt With Me comincia per sola voce e chitarra in tono confidenziale, poi entra la band ma con passo discreto e vellutato, per uno slow dal chiaro sapore anni cinquanta/sessanta in cui spicca la splendida steel di Pahl ed un raffinato assolo “ricamato” da Ribot. Starlight è un saltellante honky-tonk elettrico dalla strumentazione moderna e rockeggiante, che contrasta apertamente con la voce d’altri tempi di Logan, un connubio quasi irresistibile per la prima grande canzone del CD: il paragone coi Mavericks è il primo a venirmi in mente.

Invisible Blue è una ballata dai toni crepuscolari ma nello stesso tempo ariosa e distesa, di nuovo con la voce suadente e melodiosa di Ledger a dominare (tracce di Orbison) ed il solito tappeto sonoro di tutto rispetto; l’elettrica e coinvolgente I Don’t Dream Anymore presenta echi di country cosmico/psichedelico anni sessanta, con una prestazione vocale perfetta ed accompagnamento potente e decisamente ispirato dal suono della Bay Area, mentre Nobody Knows è un lento intenso e drammatico, eseguito con grandissimo pathos e, devo ripetermi, cantato in maniera sublime. (I’m Gonna Get Over This) Some Day, scritta da Burnett, è una deliziosa e solare country tune dal motivo immediato, suonata sempre con approccio da rock band, Electric Fantasy è più moderna sia nella parte vocale che in quella strumentale, con ottimi interventi chitarristici di Ribot che sanno di surf music e che rendono il pezzo ancora più bello e trascinante, Tell Me A Lie, scritto da Ledger insieme a John Paul White (ex Civil Wars), è invece un altro slow romantico ed elegante, di nuovo simile allo stile di Malo e soci.

Skip A Rope, altra pura e squisita country song dai connotati western, precede uno degli highlights del CD, e cioè la bellissima The Lights Of San Francisco (alla cui stesura Logan ha collaborato con Steve Earle), una country ballad di livello assoluto e suonata splendidamente, un brano che spiccherebbe con qualsiasi tipo di arrangiamento; chiusura con Imagining Raindrops, ancora un notevole honky-tonk di stampo classico, che rimanda alle pagine migliori del repertorio di George Jones e Merle Haggard. Logan Ledger dimostra quindi con questo suo debutto omonimo come fare in 44 minuti un perfetto album di country moderno ma con un occhio al passato, seppur con un “piccolo” aiuto da parte di un grande produttore e di un gruppo di musicisti formidabili.

Marco Verdi

Il Suo Album Precedente Era Così Così, Questo E’ Davvero Bello! Joy Williams – Front Porch

joy williams front porch

Joy Williams – Front Porch – Sensibility/Thirty Tigers CD

Oltre ad essere una donna estremamente attraente, Joy Williams è anche una cantante ed autrice seria e preparata. In attività come solista dal 2001, è famosa principalmente per aver fatto parte insieme a John Paul White del duo folk-rock e Americana The Civil Wars, dal 2009 al 2014. Da sola Joy ha inciso quattro album e diversi EP: il suo ultimo lavoro, Venus (2015), aveva fatto storcere parecchio il naso ai suoi estimatori, in quanto segnava un distacco dalle sue abituali sonorità per uno stile più moderno tra il pop e il danzereccio; la stessa Williams non deve essere stata molto convinta del risultato, in quanto appena un anno dopo ha fatto uscire lo stesso album ma in versione acustica, con esiti artistici decisamente migliori. La stessa aria si respira in questo suo nuovissimo album, Front Porch, nel quale Joy dimostra fortunatamente che il suo amore per il pop era solo una sbandata temporanea: il disco infatti è composto da dodici brani originali di ottimo livello, affrontati davvero come se la protagonista fosse idealmente seduta nel portico di casa sua (come da titolo del CD).

Quindi atmosfere acustiche ed intime, con brani lenti e meditati in cui Joy si fa accompagnare al massimo da un paio di chitarre, una steel, un violino, un mandolino e un dobro (ma mai tutti insieme), e senza l’aiuto della batteria. Buona parte del merito va alla produzione di Kenneth Pattengale (ovvero metà del duo folk-rock The Milk Carton Kids), il quale si occupa anche della maggior parte degli strumenti, lasciando la steel nelle sapienti mani di Russ Pahl ed il violino e mandolino in quelle di John Mailander. Pochi strumenti quindi, ma dosati con gusto e misura e, soprattutto, un’attitudine da folksinger da parte della Williams che fa di Front Porch il disco migliore della sua carriera solista. Il CD è bello fin da subito: Canary è una canzone di chiaro stampo folk, dal sapore decisamente tradizionale, con chitarra, violino e poco altro, ed una prestazione vocale notevole da parte di Joy. La struttura musicale è la stessa in tutti i brani, e predominano le atmosfere lente e pacate, come la delicata title track, una ballata pura e cristallina dal motivo toccante, con la bella Joy che riesce ad emozionare anche con solo due chitarre ed un violino.

When Does A Heart Move On è soffusa, quasi sussurrata, ma di grande impatto emotivo, All I Need è molto simile, con l’aggiunta del mandolino e di una languida steel, mentre The Trouble With Wanting è strumentata in maniera ancora più spoglia, solo una chitarra e qualche backing vocals, ma il feeling se possibile aumenta, e vedo similitudini con l’ultima Emmylou Harris, meno country e più cantautrice. Il CD prosegue con lo stesso mood, ma non ci si annoia neppure per un momento in quanto la Williams è brava a tenere desta l’attenzione con una serie di canzoni molto ben scritte ed interpretate in maniera raffinata: meritano una citazione la struggente No Place Like You, solo voce e chitarra ma pathos notevole, la splendida One And Only, con un sapore d’altri tempi ed un sentore di Messico dato da una chitarra flamenco (uno di pezzi migliori), la vibrante When Creation Was Young, puro folk, la lenta e nostalgica Be With You e la conclusiva Look How Far We’ve Come, limpida e deliziosa nonostante la brevità.

Dopo le incertezze di Venus Joy Williams è tornata tra noi, dimostrando che è ancora perfettamente in grado di fare ottima musica e di regalare emozioni.

Marco Verdi

Un Grande Autore Rende Omaggio Ad Una Leggenda Del Soul. Donnie Fritts – June A Tribute To Arthur Alexander

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Donnie Fritts – June (A Tribute To Arthur Alexander) – Single Lock Records

La Single Lock Records è una piccola etichetta indipendente americana che ha la sua sede a Florence, Alabama, quindi profondo Sud degli Stati Uniti: tra i fondatori Ben Tanner degli Alabama Shakes, Will Trapp e John Paul White. Tra gli artisti sotto contratto, oltre a White, Dylan LeBlanc, Nicole Atkins e Cedric Burnside, di cui leggerete a parte. Il repertorio pesca dalla zona Shoals dell’Alabama, e quindi rappresenta i famosi Muscle Shoals Studios e una delle vere leggende della musica “southern” americana, ovvero Donnie Fritts, che pubblica il suo secondo album per la Single Lock, dopo l’ottimo Oh My Goodness del 2015, che si pensava potesse essere il suo ultimo album https://discoclub.myblog.it/2015/10/25/il-ritorno-forse-commiato-grande-donnie-fritts-oh-my-goodness/ . Invece, a 75 anni, Fritts è entrato ancora una volta in studio, per una serie di sessioni serali tenute ai Muscle Shoals, per realizzare un tributo al suo grande amico e mentore Arthur Alexander: dieci canzoni legate al grande cantante soul di You Better Move On, e a decine di altri brani che hanno fatto la storia della musica black, proprio a partire dal brano citato, che nel 1962 fu il primo successo ad uscire dall’area di Muscle Shoals, uno dei tre firmati dal solo Alexander.

Poi ne troviamo quattro che sono collaborazioni con Fritts, una firmata anche dal grande Dan Penn, ed infine, Soldier Of Love, comunque legata al repertorio di Arthur. Alle registrazioni dell’album, sempre essenziale ed intimo nelle sue riletture country-soul, ma non privo di momenti più mossi, hanno partecipato, oltre a White e Tanner chitarre, David Hood al basso, Reed Watson alla batteria, Kelvin Holly ancora alle chitarre e lo stesso Fritts al Wurlitzer e alle tastiere. Il risultato, lo ribadisco, è un piccolo gioiellino di equilibri sonori, intimi e confidenziali, con altri più movimentati e raffinati. D’altronde le canzoni sono tutte decisamente belle, l’interprete, per quanto la sua discografia sia veramente molto scarna, è uno che ha scritto, in tutti i sensi, la storia della musica, quindi il disco si ascolta con assoluto piacere: June, come ricorda lo stesso Donnie nelle note del libretto, invero scarne pure quelle, era il nomignolo con cui era conosciuto Arhur Alexander, e la canzone era stata scritta nel 1993 sull’onda emotiva della sua scomparsa, ed appare come toccante brano di apertura in questo album, solo la voce e il piano elettrico di Fritts, sembra una di quelle ballate romantiche in cui è maestro Randy Newman, e anche il timbro vocale è quello,  violino e viola in sottofondo e tanto feeling, deliziosa, una vera perla.

Ancora  raffinati tocchi di archi, il piano elettrico e una delicata melodia per In The Middle Of It All, una soul ballad  intimista, scritta dal solo Alexander, e apparsa nel suo album omonimo del 1972. You Better Move On l’hanno incisa in tantissimi, vorrei ricordare le versioni di Willy DeVille e degli Stones (e pure i Beatles si sono cimentati con Anna (Go To Him), il suo brano di maggior successo, viene riproposto in una sorta di unplugged version, mentre All The Time, una delle loro collaborazioni autoriali, è una deliziosa ballata country got soul, con le armonie vocali delle Secret Sisters, una sezione ritmica finalmente presente e organo e chitarre acustiche a colorare il suono. Anche I’d Do It Over Again beneficia di un arrangiamento corale, splendido ed avvolgente, con  tastiere, chitarre e voci di supporto semplicemente perfette. Ancora un arrangiamento sontuoso alla Randy Newman  per un’altra soul ballad di grana finissima come Come Along With Me, cantata sorprendentemente bene dal nostro amico che sfoggia una interpretazione da manuale https://www.youtube.com/watch?v=2CvPl12wgOc ; Lonely Just Like Me è un altro dei capolavori assoluti di Alexander, e anche il titolo del suo album finale pubblicato nel 1993, poco prima della sua scomparsa a soli 51 anni, altra versione da manuale, con quel tocco latino che sia DeVille che il Warren Zevon di Carmelita avevano cercato di carpire a Arthur, e gli echi della migliore soul music mai suonata e cantata da chicchessia, una vera chicca sonora anche in questa rilettura magnifica https://www.youtube.com/watch?v=M8ztC3ZFJIY .

Altra delizia per i padiglioni auricolori è Soldier Of Love, suonata e cantata con un impeto ed una intensità pregevoli ,e non si scherza neppure con il deep soul screziato di gospel di una intensa e sgargiante Thank God He Came con le Secret Sisters scatenate a livello vocale in un finale veramente ispirato. A chiudere il CD Adios Amigo, titolo del tributo del 1994 e altra canzone epocale, di nuovo rivista in modo più intimo, solo il Wurlitzer, gli archi e le voci delle sorelle Rodgers https://www.youtube.com/watch?v=nhWkBfDxNAk . Disco commovente e intenso, a dimostrazione che la classe non è acqua.

Bruno Conti

Tra Canada E Messico, Un Gran Bel Disco! Lindi Ortega – Liberty

lindi ortega liberty

Lindi Ortega – Liberty – Shadowbox CD

Lindi Ortega è una brava cantautrice canadese di origine messicana, autrice da inizio millennio di una mezza dozzina di pregevoli album di musica country, ma con all’interno diverse contaminazioni, cosa che avviene anche con la sua nuova fatica, intitolata Liberty. Con questo disco la Ortega ha voluto creare un cocktail di tutte le influenze avute nella sua vita musicale, passando con disinvoltura dal country al Messico, al rock, alla musica western di stampo cinematografico, fino alla ballata, e regalandoci probabilmente il suo lavoro più maturo e riuscito. L’album, prodotto da Skylar Wilson, vede dunque Lindi spaziare con bravura in diversi generi condendo il tutto con la sua voce particolare (che in certi momenti ricorda molto quella di Dolly Parton), per un lavoro di ottimo livello, che cresce brano dopo brano, e che non annoia neppure per un attimo, anzi durante l’ascolto si è incuriositi da come potrebbe essere il pezzo seguente. I musicisti presenti sono scelti con cura, ed una menzione d’onore se la meritano il bravissimo steel guitarist Spencer Collum Jr., il chitarrista Jeremy Fetzer ed il leggendario armonicista Charlie McCoy, uno che fa parte dei cosiddetti Nashville Cats e che in carriera ha suonato praticamente con chiunque.

Through The Dust dà inizio al disco in maniera decisamente stimolante, uno strumentale in puro stile western morriconiano, breve ma di sicuro impatto (ci saranno anche la seconda e terza parte nel corso dell’album, con qualche differenza nel suono), seguita da Afraid Of The Dark, in cui entra in gioco la voce della protagonista, una ballata sognante ed eterea, con un’atmosfera quasi onirica ma molto interessante. You Ain’t Foolin’ Me ha una ritmica più accentuata ma il solito modo rilassato di porgere il brano, un arrangiamento particolare (molto più rock che country, con un tocco di pop) ed un notevole assolo finale di slide; ‘Til My Dyin’ Day è una ballata decisamente languida, di stampo quasi hawaiano ed un mood d’altri tempi, mentre Nothing’s Impossible (scritta come Afraid Of The Dark insieme a John Paul White, ex Civil Wars) rimane in territori sixties, un valzerone intenso come lo farebbe Chris Isaak, diretto e godibile. The Comeback Kid è pop-rock ancora dall’alone vintage, diretta, per nulla scontata e di sicuro effetto.

La cupa Darkness Be Gone mi ricorda certe ballate scarne del primo Leonard Cohen, specie nell’arpeggio chitarristico (e se scrivi canzoni e sei canadese non puoi prescindere dal grande Lenny). Forever Blue è un affascinante slow crepuscolare, ancora con elementi western, tra le più piacevoli. In The Clear è ancora lenta e languida, quasi angelica (e melodicamente impeccabile), Pablo una deliziosa western song dal pathos notevole, con spunti degni della migliore Jessi Colter e la classe di Emmylou Harris, Lovers In Love una cristallina ballad elettroacustica che sembra invece presa dal repertorio classico della Parton (ed anche con la voce siamo lì), altra ottima canzone, forse la più bella di tutte https://www.youtube.com/watch?v=fO87T44tAY4 . Il CD si chiude con Liberty, un mix gustoso e vincente tra western, Messico e musica surf anni cinquanta, e con una versione spoglia ma intensissima (voce, chitarra flamenco e tromba mariachi) di Gracias A La Vida, il classico di Violeta Parra reso celebre da Joan Baez, che la nostra canta in uno spagnolo impeccabile. Gran bel dischetto questo Liberty: è ora che il mondo si accorga finalmente di Lindi Ortega.

Marco Verdi

Un Disco Più Da “Cantautore Classico”, Ma Sempre Grande Musica! Rodney Crowell – Close Ties

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Rodney Crowell – Close Ties – New West CD

Rodney Crowell è giustamente uno dei più apprezzati songwriters americani, fin dagli esordi nella seconda metà degli anni settanta con i suoi primi tre dischi, album di ottimo Texas country nei quali trovavano spazio le due canzoni per le quali è più conosciuto, Ain’t Living Long Like This (anche il titolo del suo debutto del 1977) e ‘Til I Gain Control Again, ma anche altri brani resi popolari da altri, come An American Dream (Nitty Gritty Dirt Band), Shame On The Moon (Bob Seger) e Stars On The Water (Jimmy Buffett). Crowell è uno di quegli artisti che difficilmente sbaglia un disco, in quanto anche negli anni ottanta, decade di maggior popolarità per lui soprattutto con l’album Diamonds & Dirt, non ha mai perso di vista la qualità; dopo che gli anni novanta lo hanno visto piuttosto nelle retrovie, con il nuovo millennio Rodney ha ricominciato a fare musica con regolarità ed ottimi risultati, grazie a dischi come The Houston Kid, Fate’s Right Hand e The Outsider. L’ultimo suo lavoro da solista (in mezzo ci sono infatti i due bellissimi album con Emmylou Harris, della cui band il nostro è stato in passato chitarrista) è Tarpaper Sky (2014), a mio parere il suo album migliore tra quelli pubblicati negli ultimi quindici anni, un disco ispiratissimo e con alcune tra le sue canzoni migliori come le splendide The Long Journey Home ed il toccante omaggio a John Denver Oh What A Beautiful World; a tre anni di distanza Rodney ci consegna un CD nuovo di zecca, Close Ties, un lavoro molto diverso dal suo predecessore.

Se infatti Tarpaper Sky era contraddistinto da sonorità decisamente countryeggianti e da brani diretti ed orecchiabili, Close Ties è una collezione di canzoni dall’approccio molto più intimo, pacato, chiaramente cantautorale, con una strumentazione in gran parte acustica e la sezione ritmica neppure presente in tutti i dieci brani. L’influenza principale del disco è sicuramente Guy Clark, sia per il tipo di sonorità sia per il fatto che la sua figura è protagonista anche a livello di testi in due dei brani chiave del disco, non nel senso che ne è co-autore ma proprio perché viene nominato: Guy in passato è stato fondamentale per l’inizio della carriera di Crowell, lo ha aiutato a muovere i primi passi (insieme all’amico Townes Van Zandt), e questo Rodney non lo ha certamente dimenticato: Close Ties si può quindi considerare come un sincero omaggio a Clark (ed anche a sua moglie, come vedremo) ad un anno circa dalla sua scomparsa. Tra i pochi sessionmen presenti, vorrei citare almeno Steuart Smith, Tommy Emmanuel, Audley Freed e Richard Bennett, quattro ottimi chitarristi che hanno contribuito in maniera fondamentale alla riuscita del disco (e ci sono anche due duetti vocali che vedremo tra breve). Apre l’album l’autobiografica East Houston Blues, un country-blues acustico dal sapore rurale, caratterizzato da un ottimo intreccio chitarristico tra Rodney ed Emmanuel ed una leggerissima percussione; anche Reckless ha un arrangiamento stripped-down, ma il suono è ricco, con ben tre chitarristi ed un organo a pompa, ed un motivo di ispirazione western piuttosto cupo, ma dal grande pathos, mentre Life Without Susanna, dedicato proprio alla moglie di Clark, ha un ritmo più sostenuto ed un suono corposo, merito anche di un pianoforte e della sezione ritmica: gran bella canzone, comunque.

Niente affatto male neppure It Ain’t Over Yet, una country song discorsiva nel tipico stile del nostro, impreziosita degli interventi vocali di John Paul White e dall’ex moglie di Rodney Rosanne Cash, con una strumentazione parca ma decisamente fluida; I Don’t Care Anymore prosegue con il mood intimista, altra ballata dal passo cantautorale  con un leggero feeling blues ed un crescendo progressivo di sicuro impatto, mentre I’m Tied To Ya è un duetto con Sheryl Crow, un altro slow dal passo malinconico e con i soliti ottimi passaggi strumentali (tra cui uno dei rari assoli elettrici del disco): la bella voce di Sheryl, dal canto suo, aggiunge profondità al pezzo. La pianistica Forgive Me Annabelle è splendida, con una melodia toccante e profonda, cantata con grande sentimento da Crowell, probabilmente il miglior brano del CD, una vera zampata d’autore; ottima anche Forty Miles From Nowhere, limpida e solare e contraddistinta dalla solita classe (e superbo l’accompagnamento di piano e chitarra), mentre Storm Warning è il pezzo più rock del disco, e dimostra che Rodney non ha affatto perso la grinta, ma l’ha solo momentaneamente messa da parte in favore dei sentimenti. Il CD si chiude con Nashville 1972, dal bel testo che rievoca gli inizi del nostro (e nel quale cita Willie Nelson, Townes Van Zandt, Steve Earle, Richard Dobson, Bob McDill e Tom T. Hall, oltre ancora Guy Clark), un’altra bellissima canzone costruita intorno a due chitarre ed un organo, che sarebbe piaciuta molto proprio a Clark: degno finale dell’ennesimo bel disco da parte di Rodney Crowell.

Marco Verdi

Non Sempre I “Seguiti” Vengono Bene: In Questo Caso Sì, Benissimoì! Artisti Vari Southern History – Produce Dave Cobb

southern family

Various Artists – Southern Family – Low Country Sound/Elektra

Se ne parlava da diversi mesi, ma in questi giorni è finalmente uscito Southern Family, un concept album partorito dalla fervida immaginazione del produttore Dave Cobb, il nuovo Re Mida dei produttori country (ma non solo) di Nashville, dove opera dal RCA Studio A della città del Tennessee, in cui ha ha stabilito l’epicentro delle sue operazioni musicali. Cobb, per i più distratti quello che ha prodotto Chris Stapleton, Anderson East, Corb Lund, Christian Lopez Band, Whiskey Myers, recentemente i Lake Street Dive, e molti altri, e si prepara a pubblicare, ne cito un paio, i nuovi lavori di Holly Williams e Mary Chapin Carpenter, da diverso tempo aveva in mente una sorta di seguito per un album che era stato la sua stella polare sia in ambito produttivo, come in quello musicale, una specie di ossessione. 

white mansions white mansions + legends of jesse james

 

Parliamo del White Mansions da cui tutto parte, un album concepito nel 1978 da Paul Kennerley, un musicista inglese che aveva deciso di scrivere un disco che era una sorta di racconto epico sugli avvenimenti accaduti tra il 1861 e il 1865, durante la Guerra Civile Americana, quando scrivere di questi avvenimenti in ambito musicale era ancora un fatto raro ed anomalo, soprattutto da parte di un inglese. Ma Kennerley ci era riuscito talmente bene da coinvolgere nel progetto il grande produttore Glyn Johns (a proposito sta per tornare, con il nuovo lavoro di Eric Clapton I Still Do, annunciato per il 20 maggio, si riforma la coppia di Slowhand), che a sua volta aveva chiamato, per interpretare i vari personaggi, Jessi Colter e il marito Waylon Jennings, John Dillon Steve Cash degli Ozark Mountain Daredevils, grandissima band country-rock americana, oltre a musicisti come Eric Clapton, Bernie Leadon, Tim Hinkley, Dave Markee, Henry Spinetti, per un disco che era (ed è, perché si trova ancora) un piccolo gioiello in ambito country-rock. Non contenti Glyn Johns Paul Kennerley avrebbero replicato un paio di anni dopo con The Legend Of Jesse James, altro concept sulla vita del famoso fuorilegge americano, questa volta con l’aiuto di Emmylou Harris (che poi sarebbe stata la moglie di Kennerley dal 1985 al 1993), Johnny Cash, Levon Helm, Rodney Crowell Rosanne Cash, Albert Lee Charlie Daniels, altro cast mica male, per usare un eufemismo. Entrambi gli album si trovano ancora in quel doppio CD che vedete effigiato sopra e che per gli appassionati del genere che ancora non lo hanno è quasi imperdibile.

Tornando ai giorni nostri Dave Cobb non immaginava certo che il suo progetto di dare un seguito a queste due saghe avrebbe trovato delle etichette interessate, ma tramite la propria Low Country Sound e con la distribuzione del colosso Elektra/Warner Southern Family è diventato una realtà. In questo caso Cobb ha chiesto ai vari musicisti e cantanti coinvolti di fornire una serie di canzoni che raccontavano storie ambientate nelle loro famiglie del Sud ( vicende di padri, madri, figli, fratelli, sorelle, nonni), anche slegate fra loro ma il con trait d’union di essere brani che raccontavano vicende che avevano avuto una certa importanza nelle vita degli artisti coinvolti. Che sono in gran parte, passati, presenti e futuri clienti di Cobb, ma anche musicisti con i quali avrebbe voluto lavorare. Suonato veramente bene dal giro di musicisti che gravitano abitualmente intorno a Dave (che suona nel disco basso, chitarre, acustiche ed elettriche, nonché percussioni) l’album mi sembra veramente riuscito, dodici brani anche diversi da loro, a seconda delle personalità di chi è stato coinvolto, come sonorità, ma con una qualità medio-alta nell’insieme https://www.youtube.com/watch?v=LjT5EKskTYY .

E vediamo chi c’è: si parte subito benissimo con John Paul White, l’ex Civil Wars (dopo la divisione dalla socia Joy Williams, il cui album dello scorso anno, Venus, a chi scrive era parso piuttosto bruttino), reduce dalle recenti produzioni con Dylan LeBlanc, Lindi Ortega Donnie Fritts, pare particolarmente ispirato, anche come cantante ed autore, nell’iniziale Simple Song, un brano sotto forma di ballata avvolgente, che unisce la passione di White per country-folk e melodie beatlesiane, in un brano dolcissimo e suadente, caratterizzato anche da un delicato lavoro orchestrale. Ancora più bella è la successiva  God Is A Working Man, canzone scritta dal sempre più bravo Jason Isbell e che qualcuno ha proposto di segnalare ai candidati presidenziali americani come brano per la loro campagna elettorale, con un “lavoratore” così che vota per te si presume sia difficile perdere. Tra florilegi di chitarre acustiche, violini (della consorte Amanda Shires), chitarre elettriche, slide e pedal steel come piovesse, il suono è un perfetto country, di quello che dalla parte giusta di Nashville si riesca ancora a creare con grande naturalezza https://www.youtube.com/watch?v=pxPqiHCY21w . Dave Cobb tiene famiglia, ha anche un bravissimo cugino canterino, nella persona di Brent Cobb, che ci regala una deliziosa Down Home, punteggiata da chitarre grintose e bluesy, pianini insinuanti, seconde voci femminili intriganti ed una bella melodia che in una canzone non guasta mai, e allora se il risultato è questo una “raccomandazione” di famiglia ci sta anche.

Molto bella anche Sweet By And By, il primo brano cantato da una voce femminile, una Miranda Lambert formato Pistol Annies, ispirata dal gran contorno strumentale fornito dalla band di musicisti di Cobb, la bella biondona ci regala una delle sue performance vocali più convincenti di sempre, di nuovo con steel guitars, tastiere e una sezione ritmica pimpante sugli scudi, questo è grande country-rock. Come pure quello regalato da una versione fantastica di You Are My Sunshine, un super classico della canzone americana, qui ripreso dalla coppia Morgane Chris Stapleton, con la prima, che in questo brano è la voce solista, mentre il marito si “limita” ad accompagnare: voce country-gospel della signora Stapleton, una struttura blues e le chitarre che ruggiscono come si deve e a ripetizione, grande tensione sonora e sicuramente uno degli highlights del disco. Ma anche Zac Brown torna ai livelli che gli competono con una Grandma’s Garden, ballata mid-tempo country-folk sopraffina, tra James Taylor ed il miglior country-rock della Nitty Gritty o di Loggins & Messina, ma pure delle più belle canzoni di una certa Zac Brown Band https://www.youtube.com/watch?v=q-QytmOpTZw . E non ci si ferma di sicuro quando entra in scena il vocione di Jamey Johnson alle prese con una Mama’s Table che rievoca le cose migliori di Johnny Cash, Waylon Jennings e degli Outlaws tutti, bellissima pure questa https://www.youtube.com/watch?v=LwuPPHdFWok .

E che dire di Learning di Anderson East? Mamma mia, che bella! Il ventottenne di Athens, Alabama, con, come avrebbe detto Paolo Ruffini a Sofia Loren, quella gran topa della nuova compagna Miranda Lambert come ispirazione e il babbo come “insegnante”, che gli faceva sentire quella soul music che con il trascorrere del tempo è diventata sempre meno country e più country got soul, disco dopo disco, e ancora got soul, e got soul, proseguire ad libitum. Tra fiati, chitarre e organetti impazziti questa è vera “southern music”. E parlando di famiglie io sono convinto che la più brava della famiglia Wiiliams, dopo il capostipite Hank, sia la “nipotina” Holly, che ancora una volta ce lo dimostra con una deliziosa Settle Down che ha il piglio sbarazzino della Janis Joplin country di Pearl, un breve gioiellino https://www.youtube.com/watch?v=vH9ieUuAxkM . Un’altra che canta benissimo, anche se in pochi la conoscono, è la bravissima Brandy Clark, qui alle prese con una emozionante I Cried, dove tra falsetti spericolati, la cantante ci dà una sorta di variante femminile alle splendide storie malinconiche e strappalacrime in cui era maestro Roy Orbison, una vera meraviglia sonora. Credo che il nonno da lassù possa essere veramente contento di questo tributo postumo da parte di sua nipote https://www.youtube.com/watch?v=olu343r5rwI . Anche Shooter Jennings con Can You Come Over si dimostra in gran forma, un brano degno di tanto babbo, tra country, echi dylaniani, derive rock & soul alla Delaney & Bonnie, altra canzone che sembra esplodere dalle casse dei nostri impianti con una grinta ed una freschezza invidiabili https://www.youtube.com/watch?v=U9atbs9-SxQ . E a conclusione del tutto, quello che dovrebbe essere il fratello meno bravo, Rich Robinson, ci regala un’altra piccola perla di musica sudista con The Way Home, la voce forse non sarà al livello di quella di Chris, ma con l’aiuto di un coro gospel, una chitarra elettrica, e qualche battito di mani ci dimostra come fare buona musica.

E in questo Southern Family ce n’è veramente tanta.

Bruno Conti

Il Ritorno (E Forse Commiato) Di Un Grande! Donnie Fritts – Oh My Goodness

donnie fritts oh my goodness

Donnie Fritts – Oh My Goodness – Single Lock CD

Donnie Fritts, ultrasettantenne musicista dell’Alabama, è un pezzo di storia della musica. Sessionman, tastierista, autore, Fritts è stato, dalla fine degli anni sessanta in poi, tra i maggiori responsabili del mitico Muscle Shoals Sound, dal nome dei famosi studi di Sheffield (Alabama) dai quali è passata la crema del rock americano e non, insieme a luminari del calibro di Dan Penn, Billy Sherrill, David Briggs, Robert Putnam, Jerry Wexler, Spooner Oldham, Tony Joe White, David Hood e Barry Beckett, solo per citare i più noti, un suono caldo con marcati elementi soul ed un grande uso dell’organo, con variazioni talvolta funky, talvolta quasi country, sound che all’epoca diventò un vero marchio di fabbrica. Come pianista ed organista il suo nome è legato a doppio filo a quello di Kris Kristofferson, per il quale ha suonato per circa quarant’anni, mentre come autore ha scritto, da solo o in coppia con altri, alcuni brani diventati dei veri e propri classici, tra cui Adios Amigos (Arthur Alexander), Breakfast In Bed (Dusty Springfield) e soprattutto, insieme a Troy Seals (un’altra mezza leggenda), We Had It All, incisa per primo da Waylon Jennings ma in seguito anche da gente come Ray Charles, Willie Nelson, Rolling Stones (è nella ristampa deluxe di Some Girls https://www.youtube.com/watch?v=4mJ6aZ3Bj7c ), Rod Stewart e Dolly Parton, oltre ad essere stata suonata dal vivo per una trentina di volte da Bob Dylan durante la sua tournée con Tom Petty negli anni ottanta.

Fritts non ha inciso molto a suo nome, solo tre dischi in quaranta anni (Prone To Lean nel 1974, l’ottimo Everybody’s Got A Song nel 1997, con ospiti del calibro di John Prine, Willie Nelson, Waylon, Kristofferson, Tony Joe White e Delbert McClinton, e One Foot In The Groove nel 2008), e pertanto questo nuovissimo Oh My Goodness, uscito un po’ a sorpresa, è da considerarsi un piccolo evento, impreziosito dal fatto che il disco risulta decisamente buono. Donnie ha prodotto l’album insieme al tastierista Ben Tanner ed a John Paul White, ex dei Civil Wars https://www.youtube.com/watch?v=GYBaUU34iy4 , il quale ha fatto un lavoro eccelso, mettendo la voce di Fritts (non perfetta, ma particolare e comunicativa sì) al centro di tutto, e rivestendola con pochi e selezionati strumenti, lasciando uscire quindi l’essenza delle canzoni. Un disco composto per lo più da ballate, arrangiate in maniera semplice e classica, e che mette spesso da parte l’elemento sudista (sempre comunque presente) in favore di un’atmosfera più intimista, risultando certamente tra i lavori di Donnie quello più personale (i brani sono quasi tutti scritti da lui, alcuni decenni fa e alcuni oggi, ma c’è spazio anche per qualche selezionata cover).

Anche gli ospiti speciali (e ce ne sono: John Prine, Brittany Howard degli Alabama Shakes, le Secret Sisters, ovvero Laura e Lydia Rogers, Jason Isbell ed il chitarrista Reggie Young) non si prendono mai il centro della scena, ma si mettono a completa disposizione delle canzoni, rendendo il giusto omaggio ad un musicista d’altri tempi. L’album si apre con Errol Flynn, una canzone poco nota di Amanda McBroom, una toccante ballata dall’arrangiamento spoglio ma di grande effetto, solo un wurlitzer, la chitarra acustica, qualche fiato e la voce vissuta di Donnie https://www.youtube.com/watch?v=4Fj5NXCQJy0 . La splendida If It’s Really Gotta Be This Way, di Donnie e Arthur Alexander https://www.youtube.com/watch?v=4ELdcxo9Px0 , rivive in questa nuova versione, con la melodia eccellente che spicca in mezzo ad un arrangiamento di grande impatto emotivo, con un bel quartetto d’archi che aggiunge il giusto pathos. Memphis Women And Chicken è un noto brano di Fritts e Dan Penn, e qui il caldo suono dell’Alabama fa finalmente la sua comparsa, un country-blues elettrico dal timbro decisamente sudista e con la chitarra “paludosa” di Bryan Farris; The Oldest Baby In The World, scritta dal nostro insieme a Prine (che suona anche l’acustica) è una folk ballad pura, che ha il passo e lo stile del grande cantautore di Chicago, alla quale il piano elettrico di Donnie aggiunge l’”Alabama touch”.

Tuscaloosa 1962 è una gustosa rock song rurale, sullo stile delle ultime cose di Levon Helm, con graditi interventi di Isbell alla slide; Them Old Love Songs, solo voce, piano, basso e le sorelle Rogers, è un altro lento pieno d’anima, cantato con feeling dalla voce quasi spezzata del nostro, mentre Foolish Heart (di Jesse Winchester), sempre guidata dal wurlitzer di Donnie, è trasformata in un pezzo quasi dixieland grazie al sapiente uso dei fiati. Lay It Down è la signature song del semisconosciuto Gene Thomas (ed incisa tra gli altri da Waylon e dagli Everly Brothers), ed è un’ altra emozionante slow tune: è anche il brano tra tutti con più strumenti (chitarre, archi, fiati), ma usati con senso della misura e grande classe https://www.youtube.com/watch?v=gtmfPKwgKmg ; la mossa Good As New dà un po’ di verve ad un album che predilige i ritmi lenti (ottima qui la parte strumentale); Temporarily Forever Mine, una canzone del bravo Paul Thorn, è un altro slow suonato in punta di dita e cantato in maniera diretta. Il CD si chiude con la grintosa e ritmata Choo Choo Train (*NDB: si tratta del celebre brano dei Box Tops di Alex Chilton, scritta con Eddie Hinton) e la toccante title track, solo Donnie alla voce ed il vecchio compare Spooner Oldham al piano, un finale di sicuro effetto.

Dai ringraziamenti stampati nel libretto interno al disco sembrerebbe che Oh My Goodness possa essere l’ultimo lavoro per Donnie Fritts (ed è credibile vista l’età e la regolarità con cui incide): se così fosse, sarebbe il migliore dei commiati.

Marco Verdi

La “Nonna” Del Southern Soul! Candi Staton – Life Happens

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Candi Staton – Life Happens – Beracah Records

La sua carta d’identità recita anni 74 (ma dalla cover del CD si vede che sono portati benissimo), anche se prima di leggere questa recensione, molti, tanti (purtroppo) non sapranno chi è Candi Staton, complice una carriera che ha portato questa meravigliosa cantante ad abbandonare la “soul music” per oltre un ventennio (dopo i successi degli anni ’70), per una serie di problemi personali (tra perdite personali, divorzi e dipendenza dall’alcol), trovando infine rifugio tra le mura della Chiesa, cosa che l’ha portata ad incidere per anni solo brani “gospel”. L’album della rinascita, lo splendido His Hands (06) venne alla luce sotto la produzione di Mark Nevers dei Lambchop, e conteneva undici perle che spaziavano fra soul e rhythm & blues, alcune cover d’autore, come Cry To Me di Bert “Russell” Berns, lanciata dal grande Solomon Burke, tutte cantate con “anima” genuina dalla Staton. Disco bissato dal successivo Who’s Hurting Now? (09), nell’interregno è stata pubblicata una compilation di gospel-soul come Evidence The Complete Fame Records Masters (11), con materiale d’archivio. Ora eccola di nuovo sul mio lettore con questo Life Happens, ad inondarci i padiglioni auricolari con la sua musica che spazia dal country rock al southern soul, con sfumature di toni blues e funky, facendosi produrre dal grande Rick Hall  titolare della Fame Records, ricomponendo un binomio di grande successo negli anni ’70.

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Per questo lavoro (il ventisettesimo della sua carriera, fidatevi, ho contato e ricontato) oltre a musicisti di area, Candi si è avvalsa, tra gli altri, di Toby Baker e Larry Byron alle chitarre, Mose Davis alle tastiere, Mike Burton al sassofono, Steve Herman al corno, e di suo figlio Marcus Williams (ha suonato anche con Isaac Hayes e Peabo Bryson) alla batteria, registrando il tutto negli storici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama https://www.youtube.com/watch?v=QvpfqzZjpOI .

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Life Happens è una miscellanea di generi che dal brano d’apertura, Three Minutes To A Relapse condiviso con Jason Isbell e John Paul White dei Civil Wars, spazia tra il rhythm and blues di brani come Go Baby Go, Close To You e Where Were You When You Knew?, le atmosfere soul di Have You Seen The Children? e Beware, She’s After Your Man, passa per il funky affumicato alla Etta James di Never Even Had The Chance e Even The Bad Times Are Good, ma è indubbio che siano le ballate dove Candi dà il meglio di sé, nelle languide My Heart’s On Empty, I Ain’t Easy To Love https://www.youtube.com/watch?v=9J-7KChSle8 e You Treat Me Like A Secret, Commitment, per finire con le struggenti armonie di una Better World Coming, e i leggeri rintocchi di pianoforte e chitarra, che dialogano brillantemente con la Staton e varie voci di supporto in una celestiale For Eternity.

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La cantante di Hanceville, Alabama, con quattro decenni di carriera alle spalle, è stata sicuramente artefice di un percorso artistico che per un certo periodo l’ha vista anche protagonista della “disco”, attraversando il deserto per la redenzione con il “gospel”, e trovando la meritata serenità con la triade iniziala con His Hands, fino a giungere a questo Life Happens, dove ogni canzone è la storia della sua vita, con tutti i suoi alti e bassi, gioie e dolori (amori, disperazione, redenzione e speranza). Per chi scrive è bello sapere che Candi Staton non è andata via, canta ancora per noi, perché di dischi cosi, personalmente ne vorrei almeno uno al mese. Altamente consigliato.

Tino Montanari

Dieci In Pagella Da Uncut Per Il Primo Grande Disco Del 2014! Rosanne Cash – The River And The Thread

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Rosanne Cash – The River And The Thread – Blue Note/Unversal 14-01-2014

Partiamo da un assunto: dischi così belli se ne fanno pochi in un anno, forse anche in una decade e, per certi versi, anche nel corso di una vita, però 10 vuole dire la perfezione, la bellezza suprema, nella mente del recensore del mensile inglese Uncut (Luke Torn) che gli ha assegnato questa votazione chissà se sono passati dischi come Blonde On Blonde e Highway 61 Revisited di Dylan o Electric Ladyland di Hendrix, Revolver dei Beatles, Pet Sounds dei Beach Boys, il Johnny Cash At San Quentin del babbo, Astral Weeks o Moondance (che ha ottenuto otto nella recente ristampa!) di Van Morrison, ma solo per citare alcuni dei dischi più celebri della storia, ce ne sono altre decine, venuti prima o dopo che meriterebbero questo giudizio (che si può equiparare alle classiche 5 stellette) e quindi, secondo questo metro di giudizio, quanto dovrebbero avere come votazione? Undici o dodici?! Attenzione non è per denigrare il disco di Rosanne Cash, ma per mettere tutto in una prospettiva più giusta; sono sempre stato un ammiratore incondizionato della figlia di Johnny, fin dai tempi degli esordi (beh, magari il primo omonimo registrato in Germania nel 1978, con musicisti locali, non era fenomenale, ma già da Right Or Wrong e Seven year ache si capiva che eravamo di fronte ad un talento formidabile), il modo di scrivere, le canzoni, la voce bellissima, la scelta dei musicisti ( e dei mariti, prima Rodney Crowell, poi John Leventhal), la dicono lunga sul buon gusto di questa signora dalla vita travagliata, ma gloriosa.

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The River And The Thread è una sorta di conclusione di una trilogia ideale iniziata, dopo la morte del padre Johnny, con Black Cadillac nel 2006, proseguita nel 2009 con The List (qui trovate quello che ne avevo scritto ai tempi sul Blog http://discoclub.myblog.it/2009/11/10/rosanne-cash-the-list/) e ora portata a termine con il nuovo album, mentre nel frattempo, alla fine del 2007, Rosanne si sottoponeva anche ad un intervento al cervello. Per togliere ogni dubbio il disco è bellissimo, vogliamo essere pignoli ed assegnarli un nove o quattro stellette e mezzo, o un otto, per quel discorso di prospettiva appena fatto? Non cambia molto, l’album rimane bellissimo ma chi scrive si sente più tranquillo.

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Concepito come una sorta di pellegrinaggio “mistico”, personale e musicale attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti, questo The River And The Thread, “Il Fiume E Il Filo” o meglio “Il Fiume E La Trama Del Filo”, dove il fiume ovviamente è il Mississippi e la “trama” è quella della vita e della musica, ispirato da una frase dettale dall’amica Natalie Chanin, quando stava insegnandole a cucire, “Devi imparare ad amare la trama del filo”, in inglese meglio, “You Have To Learn To Love The Thread”, pronunciata con l’accento di una che viene che da Florence, Alabama. E di personaggi, storie, incontri e luoghi ce ne sono a bizzeffe in questo disco. Da Etta Grant, la moglie di Marshall, il primo contrabassista della band di Johnny Cash, colpito da un aneurisma proprio nella serata in cui veniva inaugurata la Dyess House, casa natale restaurata della famiglia Cash e scomparso tre giorni dopo, vicenda raccontata in Etta’s Tune, una delizia sonora dove John Leventhal, marito e produttore del disco, suona con maestria tutti gli strumenti e John Paul White dei Civil Wars si occupa delle armonie vocali http://www.youtube.com/watch?v=ANpWRURSW6M .

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Ma fin dall’iniziale A Feather’s Not A Word, che contiene la frase citata poc’anzi, si capisce che stiamo per inoltrarci in un viaggio di grande spessore: costruita intorno a un giro di blues, raffinato e sinuoso, semplice ma ricco, con le chitarre di Leventhal che si fanno strada attraverso una sezione di archi, il violino e la viola di David Mansfield, un ricco coro guidato da Amy Helm, altra grande figlia d’arte e con un sound swampy, da paludi e da gumbo della Lousiana, che ci porta dall’Alabama a Memphis, dall’Arkansas fino a Nashville e ritorno, nei luoghi dove si trovano i Sun Studios, il luogo di nascita di Johnny Cash, le strade dove fu ucciso Emmett Till (ricordato in una stupenda canzone di Bob Dylan), il ponte di Tallahatchie, il sito della bellissima Ode To Billie Joe di Bobbie Gentry, la tomba di Robert Johnson, le piantagioni dove Charley Patton e Howlin’ Wolf lavoravano ed iniziavano a scrivere la loro musica, la casa di William Faulkner. Ovviamente non tutti i luoghi e le persone sono in questo brano, ma il viaggio parte da qui. E prosegue con The Sunken Lands, un tributo ai contadini dell’era della grande depressione (ma anche di oggi) piegati sulle loro terre sommerse, cantato, come di consueto, con quella tonalità, stupenda e compassionevole, di Rosanne, una delle voci più duttili ed espressive del panorama musicale attuale, su un tessuto musicale country-folk-blues impreziosito da un delicato lavoro di Leventhal al mandolino (che peraltro suona anche tutti gli altri strumenti, come in gran parte del disco) http://www.youtube.com/watch?v=U7pdEdv3QXw .

Di Etta’s Tune abbiamo detto, posso solo confermare, Modern Blue è il pezzo più rock del disco http://www.youtube.com/watch?v=1bVOy5k3y2o , mi ricorda, non so dirvi perché, quelle ballate mid-tempo stupende che sa scrivere John Hiatt, ma qui virata al gusto di Rosanne Cash, una che con il country più bieco di Nashville ha sempre avuto poco a che fare, ma che la capacità di scrivere una canzone con un bel ritornello non l’ha mai persa, sarà per questo che negli anni ha racimolato 11 numeri uno nelle classifiche Country e 21 nelle Top 40 americane. Ma indubbiamente si trova più a suo agio (forse) nelle trame acustiche e folky, delicate e malinconiche di una preziosa Tell Heaven http://www.youtube.com/watch?v=V-whhwYqX7Y . O nei raffinati e complessi arrangiamenti di una The Long Way Home che parte con un mini chick-a-boom rallentato di una elettrica e si arricchisce con gli archi arrangiati da Leventhal (come nella iniziale A Feather’s Not A Bird) e poi dal gruppo e dalle voci di supporto, che entrano di volta in volta, mentre la chitarra liquida di John sottolinea i passaggi intricati del brano http://www.youtube.com/watch?v=m1Pn7d2gfXg .

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World Of Strange Design è un blues stupendo, impreziosito dalla fantastica slide di Derek Trucks e da alcuni versi tra i più immaginifici di Rosanne, “If Jesus came from Mississippi…! (ma se andate a riascoltarvi i vecchi dischi canzoni così belle ne trovate molte altre) http://www.youtube.com/watch?v=SQmH8yggnCM . Anche la dolcissima e bellissima Night School è una canzone sulla memoria e sui tempi che furono, come se ne scrivono (e se ne cantano) poche, un poco agée e fuori dai tempi, musicalmente parlando, ma splendida e toccante e quindi chissenefrega se sembra venire da due secoli fa. E del duetto con Cory Chisel (grande cantautore e rocker americano di cui ci siamo occupati in questo Blog http://discoclub.myblog.it/tag/cory-chisel/) in 50.000 Watts cosa vogliamo dire? Che bello può andare? Uno dei centrepiece del disco è la sontuosa When The Master Calls The Roll, una canzone dal crescendo emozionante con un “coretto” cantato da alcuni “amici” che passavano di lì per caso, Amy Helm, Kris Kristofferson, John Prine, Tony Joe White Rodney Crowell, che aveva iniziato a scriverla, con John Leventhal, per Emmylou Harrisma poi quando Rosanne l’ha sentita ha detto, fermi tutti, questa la finisco io, e i “due mariti” hanno concordato (a proposito se volete sentire due dei più bei “Divorce album” della storia, pre e post, con Shoot Out The Light di Richard e Linda Thompson, andate a recuperarvi InteriorsThe Wheels della nostra amica, due dischi fantastici, tra i tanti).

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Conclude (ma ci sono le tre bonus delle Deluxe Edition) una sinuosa Money Road, il luogo dell’incrocio con il diavolo di Robert Johnson e del ponte della Gentry, un’altra “confezione” sonora sontuosa, con un piano Wurlitzer piazzato ad arte e una geniale coloritura dettata dell’eletric sitar suonato, assolutamente a sorpresa, da un Leventhal in vena di diavolerie per questo brano. E già questo sarebbe un grande disco, sarà un caso ma i dischi e lecanzoni che contengono River nel titolo sono sinonimo di qualità (Springsteen, Eric Andersen, Joni Mitchell, eccetera), ma le due cover, la delicata Two Girls, un brano poco conosciuto dal repertorio di Townes Van Zandt e la bellissima Biloxi, viceversa una delle più conosciute di un altro “outsider” di pregio come Jesse Winchester, sono le classiche ciliegine sulla torta. Come Your Southern Heart, sempre scritta dalla premiata ditta Leventhal/Cash e che non ha nulla da invidiare alla qualità delle canzoni ufficiali del disco. Non meri riempitivi, ma tasselli importanti, quindi vi consiglio caldamente di procurarvi la versione Deluxe, ve la faranno pagare cara, purtroppo, ma ne vale assolutamente la pena. Se volete dare una ascoltatina in anteprima http://www.npr.org/2014/01/05/259143273/first-listen-rosanne-cash-the-river-the-thread

Come diceva Dan Peterson, per me Numero Uno!

Bruno Conti

Lo Strano Caso Delle “Civili Guerre” Di Una Coppia (Di Musicisti): Civil Wars

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The Civil Wars – The Civil Wars – Sensibility Recordings/Columbia/Sony-BMG

Questo è quanto scrivevo in sede di presentazione dell’imminente uscita dell’album, qualche giorno fa…

“I Civil Wars lo scorso anno vinsero due Grammy per il loro primo album Barton Hollow, peraltro già uscito una prima volta nel 2011 e poi ripubblicato nel 2012 dalla Sony, che aveva rilevato il loro contratto, con alcune tracce aggiunte. Poi, a novembre, nel bel mezzo di una tournéè promozionale e della registrazione del secondo album, il duo annunciò che si prendeva una pausa a tempo indefinito per “inconciliabili differenze di ambizione”. Considerando che i due, Joy Williams e John Paul White erano stati anche una coppia a livello sentimentale non era difficile capire da potevano provenire queste frizioni. Poi però, nel corso del 2013, prima è uscita una colonna sonora prodotta da T-Bone Burnett con la loro partecipazione e ora questo album eponimo, “postumo”? Il disco, che è prodotto in parte da Rick Rubin (un brano) e il resto da Charlie Peacock, il loro primo produttore, è comunque bello, come si evince da altri album nati da separazioni e rotture come Rumors dei Fleetwood Mac o l’ultimo di Richard & Linda Thompson (nel primo album c’era già un brano che si chiamava Poison and Wine, una premonizione?).  Esce per la Sony, che, evidentemente, per evitare di rimanere con il cerino in mano, lo mette comunque sul mercato.”

Ma…ci sono alcune incongruenze in quanto da me detto. I due, presentati, come coppia, lo sono solo a livello musicale, in quanto John Paul White, è sposato e vive a Florence in Alabama con i suoi quattro figli, mentre Joy Williams è sposata con Nate Yetton, il manager del gruppo, insieme al quale, proprio lo scorso anno, ha avuto un figlio. Quindi le teorie erroneamente da me riportate a livello di gossip non hanno nessun fondamento sentimentale, ma dipendono da attriti di altro tipo, perché comunque esistono forti divergenze. Come ha confermato la Williams in alcune interviste fatte in occasione dell’uscita dell’album, mentre White tace. Ovviamente a livello pubblicatario tutto serve, quindi la casa discografica non smentisce. Lei, tra l’altri, pur avendo solo 30 anni, ha alle spalle una lunga carriera come cantante di quella che viene definita “Christian Music”, avendo già pubblicato tre albums tra il 2001 e il 2005 (oltre ad una serie di EP, usciti fino al 2009) che hanno venduto complessivamente oltre 250.000 copie e anche White aveva già dato alle stampe un CD nel 2008, prima di decidere di pubblicare un album dal vivo, come duo, nel 2009, intitolato Live At Eddie’s Attic e sempre lo stesso anno, un EP, Poison Wine, che sarebbe stato uno dei brani portanti dell’album Barton Hollow uscito nel 2011 per la Relativity Records e pubblicato di nuovo nel 2012 in Europa dalla Sony Music, in occasione della conquista dei due Grammy, con 6 tracce extra, due delle quali erano presenti nella versione per il download del disco. Per completare la loro operazione globale di conquista del mercato, appaiono anche con un brano nella colonna sonora del film Hunger Games, Safe and Sound, scritta e cantata con Taylor Swift (?!?) e T-Bone Burnett che produce il tutto. La canzone non è male, comunque!

Dopo avere venduto più di mezzo milione di copie (654.000 copie a oggi) del primo album e dopo la nascita del primo figlio di Joy Williams, i due sono entrati in studio, sempre con Charlie Peacock come produttore (ma hanno collaborato anche con Rick Rubin) e hanno registrato questo nuovo “eponimo” album prima di partire per un tour europeo, durante il quale, a novembre hanno annunciato che si sarebbero presi quello che gli americani chiamano un lungo “hiatus”, che dura a tutt’oggi, interrotto solo dall’uscita del CD ai primi di agosto. Si è parlato poco di musica in questo Post ma l’album nel suo insieme non differisce musicalmente moltissimo dal precedente, a parte per una maggiore ricchezza nei suoni e negli arrangiamenti che avvolgono il country-folk più intimo e basato sulle ottime armonie vocali del duo e sulla voce assai piacevole della Williams stessa (ma anche John Paul White canta spesso, da solo e in coppia). I due si scrivono le canzoni, da soli e con Charlie Peacock e Phil Madeira, nel disco ci sono anche un paio di cover mirate: una Tell Mama, scritta da Clarence Carter con Daniel e Terrell, ma resa celeberrima da Etta James (e anche Janis Joplin ne faceva una “versioncina”niente male), qui ripresa in un versione più consona allo stile baroque-dark-folk del gruppo, anche se i florilegi degli arrangiamenti di Peacock sono sempre interessanti con quelle pedal steel sognanti che fanno capolino spesso; l’altra cover è Disarm, un vecchio brano degli Smashing Pumpkins tratto da Siamese Dreams e che il gruppo aveva già registrato nel Live At Amoeba (ebbene sì, avevano registrato anche un altro CD dal vivo), cantata da John Paul White con le sostanziali armonie della Williams, in una versione acustica ed intima che è molto vicina al sound dei loro concerti, dove si esibiscono (si esibivano?) solo loro due senza altri accompagnamenti.

Il resto del disco ha degli arrangiamenti a momenti anche più complessi, con uno stile che al sottoscritto ricorda certe cose dei Fleetwood Mac dell’era Nicks-Buckingham, ad altri, per la voce melodrammatica (e gotica) della Williams, certe cose, meno rock, degli Evanescence di Amy Lee. Per esempio l’iniziale The One That Got Away, tra momenti acustici e sprazzi di elettricità, con Peacock impegnato alle tastiere e, tra gli altri, gli ottimi Dan Dugmore e Jerry Douglas a steel e dobro o la successiva I Had me A Girl, l’unico brano sopravvissuto della collaborazione con Rubin, hanno un suono più tirato, tra chitarre elettriche e batterie che danno un sound più rock’n’roll al tutto e l’alternanza delle due voci soliste è sempre affascinante ancorchè meno intima, vogliamo dire, Fleetwood Mac era Tusk? Same Old Same Old è uno di quei brani dove i testi, malinconici e pessimisti hanno creato questo alone di “disco maledetto”, anche se poi le atmosfere musicali sono comunque serene e raccolte, bellissima canzone tra l’altro. Dust To Dust con una leggera elettronica non fastidiosa ricorda certe cose dello Springsteen di Tunnel Of Love o ancora del duo Buckingham-Nick se avessero avuto un approccio più country verso la propria musica, dolcissima e deliziosa.

Eavesdrop, tra mandolini, violini dobro e dulcimer ricorda molto il suono di Barton Hollow anche se con una maggiore grinta per l’aggiunta di una sezione ritmica che dà una professionalità da major senza essere troppo fastidiosa nei suoi imporvvisi crescendo. Devil’s Backbone ha quel tocco di gotica folk-rock che regala emozioni all’ascoltatore mentre, per chi scrive, From This Valley, con il suo suono aperto, country, tipico dei “vecchi” Civil Wars, è una ballata quasi Appalachiana, dove strumenti e voci si intersecano gli uni nelle altre: se dovessero incidere ancora mi farebbe piacere sentire altri brani di questa pasta sonora, bellissimo. Detto delle cover, rimane ancora Henry nuovamente percorsa dal dualismo tra le voci e le chitarre di White, sempre interessante in una futura ottica Live, senza dimenticare la particolare Sacred Heart, una sorta di ninna nanna o preghiera (al Sacro Cuore?) cantata in francese e reminiscente dei brani più raccolti delle grandi Kate & Anna McGarrigle. Conclude D’Arline uno dei brani acustici cantati da John Paul White, con le immancabili armonie vocali della Williams, che ha ricordato nella intervista di cui sopra, che nonostante i rapporti tesi più volte ricordati. i due hanno sempre cantato insieme in studio di registrazione.

Non un capolavoro, ma tutto sommato un buon album che, forse anche grazie alle tensioni ed alle emozioni sprigionate, conferma quanto di buono si era detto di loro. Vedremo se la storia continuerà, per il momento godiamoci questo disco.

Bruno Conti

P.S. Il CD debutta al 1° posto nella classifica USA. E, non so se sia un caso, ho ricevuto nella mail un “thank you from Joy & John Paul” dal Columbia Marketing per il supporto.