Un Album Dal Vivo Veramente “Selvaggio”. Albert Castiglia – Wild And Free

albert castiglia wild and free

Albert Castiglia – Wild And Free – Gulf Coast Records

Albert (anzi Albert Joseph, come firma le sue canzoni) Castiglia, non è più uno di primo pelo, 50 anni compiuti lo scorso anno, nativo di New York City, ma trasferito in Florida fin dalla più tenera infanzia, mamma cubana e papà italiano, con una “passionaccia” per il blues, coltivata anche grazie al suo trasferimento a Chicago, dove dalla metà degli anni ‘90 è stato il chitarrista della touring band di Junior Wells, fino alla morte del suo mentore nel 1998. Un paio di album indipendenti all’inizio degli anni 2000, poi una serie di album per l’etichetta Blues Leaf, e quattro album, compreso il collettivo Blues Caravan 2014 per la Ruf https://discoclub.myblog.it/2016/07/12/o-compagnia-sempre-gran-chitarrista-albert-castiglia-big-dog/ . Quindi era arrivato il tempo per un bel disco dal vivo a nome proprio, questo Wild And Free, registrato tra il 3 e il 4 gennaio del 2020 in quel di Boca Raton, Florida, con la produzione dell’amico Mike Zito, che appare anche in un brano. Castiglia diciamo che si potrebbe definire un artista di culto, ma è pure un fior di chitarrista, con un solismo ricco e variegato, scoppiettante, al limite del virtuosismo, una bella voce gagliarda, tra blues e musica del sud (qualcuno, presumo con seri problemi uditivi, lo ha paragonato come stile vocale a Van Morrison), e in questo live ha quindi l’occasione di mettere in mostra tutta la sua bravura alla solista, grazie anche a una serie di brani potenti e ruvidi, ma con “paccate” di feeling ed una tecnica di prim’ordine.

Una eccellente sezione ritmica, con Justine Tompkins (Todd Wolfe Band) al basso, e Ephraim Lovell (Roomful Of Blues) alla batteria, alle tastiere si alternano due dei migliori su piazza, Lewis Stephens, del giro di Mike Zito e John Ginty, solista di vaglia, di recente nella Allman Betts Band: e allora vai subito alla grande con Let The Big Dog Eat, un brano tratto dal disco del 2016 per la Ruf, dove Albert comincia a mulinare la sua Gibson, con una serie di assoli formidabili, mentre Stephens all’organo e la sezione ritmica pompano di brutto. Hoodoo On Me, brano scritto da Zito, era sul CD del 2017, un’altra scarica di pura adrenalina chitarristica, con Castiglia molto efficace anche nel reparto vocale, mentre I Been Up All Night scritta da Brian Stoltz (a lungo chitarrista nel giro Neville Brothers) è un vorticoso blues-rock dove il nostro si produce al wah-wah con un impeto e una forza travolgenti, estraendo dalla chitarra un fiume di note, prima di mostrare il suo lato più raffinato in una eccellente (e lunga) Heavy, uno slow blues tratto da Mastepiece, il suo disco del 2019, sempre con il lavoro della solista impetuoso e lancinante, fantastico.

Get Your Ass In The Van, ancora da Big Dog del 2016, ci permette di apprezzare anche la notevole maestria alla slide del chitarrista di New York, in puro stile Elmore James, ben spalleggiato da uno spumeggiante Stephens al piano; Searching The Desert For The Blues, va ancora più indietro nel tempo, pescando dal repertorio di Blind Willie McTell, elettrificato e adattato ai nostri tempi, con un ritmo scandito e con la solista di Castiglia sempre impegnata in continue folate. Keep On Swinging è un altro brano originale tratto dal disco dello scorso anno, ancora tirato e senza requie, un ennesimo rock-blues vibrante, sempre potenza pura che esce dalle casse del vostro impianto; poi Albert chiama sul palco Mike Zito per una ripresa di Too Much Seconal di Johnny Winter, con John Ginty all’organo, i due si scambiano sciabolate libidinose, godendo come ricci mentre rivisitano il classico blues senza tempo dell’albino texano https://www.youtube.com/watch?v=4FUZv9EzSyk .

Non contento Castiglia rende omaggio anche ad un altro pezzo da novanta del blues bianco Paul Butterfield,  Loving Cup un oscuro brano che si trovava su What’s Shakin’, dove alla chitarra c’era Bloomfield, mentre nella versione dal vivo di Albert, mantenendo lo spirito blues, si privilegia un approccio “cattivo”, grintoso e decisamente elettrico con alta presenza di ottani rock nel suono e un assolo notevole di organo di Ginty, e pure I Tried To Tell Ya è l’occasione per un altro vibrante tour de force a tutto wah-wah, prima di congedare alla grande il pubblico presente e gli ascoltatori di questo CD con una fantastica cover di Boogie Funk di Albert King https://www.youtube.com/watch?v=gXF-yDzNqVI , puro boogie rock texano all’ennesima potenza che chiude degnamente un album dal vivo tra i più belli finora di questo sfortunato 2020.

Bruno Conti

Una Splendida Full Immersion Nella Leggenda, 3 Giorni Di Pace E Musica! Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive. Giorno 3

woodstock_deluxebox_productshot_1VV:AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive – Rhino/Warner 38CD/BluRay Box Set

Terza ed ultima parte.

Day 3/CD 24-37. 

CD24/25 – Jefferson Airplane. Il terzo giorno inizia col botto, ovvero con il gruppo che forse incarna più di tutti la Summer Of Love. A distanza di 50 anni il sestetto Slick-Kantner-Balin-Kaukonen-Casady-Dryden (e con la non trascurabile presenza di Nicky Hopkins alle tastiere) suona però datatissimo, ma è una cosa che pensavo anche negli anni ottanta. Restano comunque una  band coi controfiocchi, che esegue un set solido con molte grandi canzoni suonate come Dio comanda (Somebody To Love, White Rabbit, Volunteers, Wooden Ships, ma anche The Ballad Of You & Me & Pooneil e la cover di The Other Side Of Life di Fred Neil si difendono): peccato che il tempo non sia stato galantuomo con queste sonorità. Discorso a parte per i due pezzi a carattere rock-blues nei quali Kaukonen assume il ruolo di leader (Uncle Sam Blues, bluesaccio elettrico e cadenzato, e la splendida e potente Come Back Baby), anticipando in un certo senso l’avventura degli Hot Tuna.

CD26/27 – Joe Cocker. Così come Santana anche il cantante di Sheffield era relativamente sconosciuto (aveva da poco pubblicato il primo album), e nello stesso modo la sua performance entrò nel mito, indirizzando nel verso giusto la sua carriera futura: gran parte del merito va sicuramente al pezzo che chiude lo show, una cover totalmente stravolta ma legggendaria della beatlesiana With A Little Help From My Friends, con Joe letteralmente posseduto, quasi trasfigurato. Ma anche prima il nostro ha intrattenuto la platea da consumato soul-rocker, accompagnato al meglio dalla Grease Band (che prima dell’ingresso di Cocker ha riscaldato l’ambiente con due brani strumentali): Joe propone una serie di standard (non è mai stato un songwriter, anche se le qui presenti Something’s Coming On e Something To Say portano la sua firma) eseguiti in maniera sanguigna e diretta, ed un accompagnamento perfetto da parte della Grease Band. Ben tre brani di Dylan (Dear Landlord, bellissima, Just Like A Woman e I Shall Be Released), due di Ray Charles (Let’s Go Get Stoned ed una monumentale I Don’t Need No Doctor) ed una notevole Feelin’ Alright dei Traffic, con un grande  Chris Stainton al piano elettrico.

CD28 – Country Joe & The Fish. Torna Country Joe McDonald in compagnia del chitarrista Barry “The Fish” Melton ed altri tre elementi per un set elettrico molto diverso da quello acustico del primo giorno. Sonorità principlamente tra rock e psichedelia (anche qui forse un po’ datate), come si evince dall’apertura di Rock & Soul Music, le potenti Love e Not So Sweet Martha Lorraine, in cui dominano chitarra ed organo (Mark Kapner) ed un suono molto simile a quello dei Doors. Lo show, piuttosto lungo, si segnala anche per lo sconfinamento in altri stili, come la gradevole pop song Sing Sing Sing, il folk-rock sotto steroidi Summer Dresses, la lenta e fluida Maria o la magnifica Crystal Blues, un bluesaccio elettrico degno dei grandi del genere, fino alla ripresa full band finale di I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag.

CD29 – Ten Years After. Non poteva mancare il gruppo guidato da Alvin Lee, tra le band più popolari dell’epoca. Un concerto molto blues, con eccellenti riletture di brani di Willie Dixon (Spoonful), Sonny Boy Williamson (Good Morning Little Schoolgirl, con due false partenze dovute a problemi con gli strumenti, ed una straordinaria Help Me), o la suadente I Can’t Keep From Crying Sometimes, intrigante remake di un brano scritto da Al Kooper (con accenno a Sunshine Of Your Love dei Cream). Gli unici due pezzi originali sono Hobbit, scritta dal batterista Ric Lee (in pratica un lungo drum solo) e la sempre strepitosa I’m Going Home, in cui Alvin si conferma il “chitarrista più veloce del West”.

CD30 – The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

CD31 – Johnny Winter. Il texano albino si presenta alla testa di un power trio ed infiamma la platea con una performance ad altissimo tasso elettrico: subito in palla con due rock-blues tonici e vigorosi del calibro di Mama, Talk To Your Daughter e Leland Mississippi Blues (che servono come riscaldamento), il nostro poi piazza due prestazioni mostruose con il boogie Mean Town Blues e You Done Lost Your Good Thing Now (quest’ultima di B.B. King) di 10 e 15 minuti rispettivamente, due brani in cui dire che fa i numeri con la chitarra è persino riduttivo. Nelle seguenti tre canzoni, tra le quali spicca una dirompente Tobacco Road (John D. Loudermilk), Johnny è raggiunto sul palco dal fratello tastierista Edgar; chiusura con una formidabile e potentissima Johnny B. Goode di Chuck Berry, rock’n’roll come se non ci fosse domani.

CD32 – Blood, Sweat & Tears. Pur senza Al Kooper, che aveva già lasciato i compagni, il gruppo qua guidato da David Clayton-Thomas e Steve Katz suona un set potente, caldo e colorato, un vero esempio di rock band con fiati in leggero anticipo sui Chicago. Pochi i brani originali (I Love You More Than You’ll Ever Know, dal periodo con Kooper, Spinning Wheel e Sometimes In Winter), e soprattutto cover dalla provenienza disparata ma col marchio di fabbrica dei nostri: ottima la ballad di Randy Newman Just One Smile, e di pari livello sono le riletture di Smiling Phases (Traffic), God Bless The Child (Billie Holiday, molto intensa) e And When I Die (Laura Nyro). Un set creativo e stimolante, tra rock, jazz, swing, soul ed errebi.

CD 33 – Crosby, Stills & Nash (& Young). Altro dischetto tra i più attesi, si apre con la performance acustica del trio, che come dice Stephen Stills è appena alla sua seconda apparizione pubblica e quindi un po’ teso. Sette brani che mettono in evidenza le splendide armonie vocali dei tre, con menzioni speciali per Suite: Judy Blue Eyes, Helplessly Hoping e Marrakesh Express, mentre David Crosby ci delizia con la tenue Guinnevere. Poi arriva Neil Young che prosegue la parte “unplugged” con due ottime Mr. Soul e I’m Wonderin’, seguito ancora da Stills con You Don’t Have To Cry. Poi i quattro chiamano sul palco Greg Reeves al basso e Dallas Taylor alla batteria e ci danno dentro con cinque canzoni elettriche e decisamente rock, che anticipano di due anni le magnifiche evoluzioni di Four Way Street. Dopo l’orecchiabile Pre-Road Downs di Graham Nash abbiamo le celebri Long Time Gone e Wooden Ships di Crosby (due esecuzioni superbe), la meno nota Bluebird Revisited di Stills e Sea Of Madness, un inedito assoluto di Young che il canadese non riprenderà mai come solista (particolare importante: la Sea Of Madness apparsa all’epoca sul triplo album originale di Woodstock era stata registrata più avanti al Fillmore East, mentre in questo box appare per la prima volta quella del Festival). Finale ancora acustico con una brevissima Find The Cost Of Freedom e ritorno all’elettrico per la guizzante 49 Bye-Byes.

CD34 – The Butterfield Blues Band. Pur senza Mike Bloomfield (ma con Howard “Buzzy” Feiten che si destreggia comunque abilmente alla sei corde) la BBB regala al pubblico un robusto set di blues al 100%, con Paul Butterfield in buona forma sia alla voce che soprattutto all’armonica, ed un gruppo notevole alle spalle (oltre a Feiten, segnalerei il bassista Rod Hicks, le tastiere di Ted Harris ed il sax della futura star David Sanborn). Belle versioni di classici come una sulfurea Born Under A Bad Sign di Albert King, una lenta e raffinata Driftin’ And Driftin’ di John Lee Hooker, quasi afterhours, fino al finale con una Everything’s Gonna Be Alright di Little Walter decisamente tonica e grintosa. Ma ci sono anche ottimi brani originali come la vigorosa No Amount Of Loving e la fiatistica Morning Sunrise, tra blues e jazz.

CD35 – Sha Na Na. La presenza a Woodstock di questo gruppo che portava avanti una sorta di revival del rock’n’roll e doo-wop degli anni cinquanta è sempre stata un mistero. Non perché non fossero bravi (anche se sparirono presto dalla circolazione), ma perché secondo me erano fuori posto in una manifestazione simile, ed ancora più incomprensibile la scelta di metterli appena prima del momento forse più atteso. Il loro breve set, che recupera brani anche poco noti della golden age del rock’n’roll (di gruppi come The Silhouettes, The Dell Vikings, The Monotones o Danny & The Juniors, anche se c’è spazio anche per una divertita (Marie’s The Name) Of His Latest Flame, portata al successo sia da Del Shannon che da Elvis) è comunque piacevole, divertente ed in alcuni momenti persino trascinante, ma, ripeto, abbastanza fuori contesto.

CD36/37 – Jimi Hendrix. Ed ecco il gran finale del Festival, che verrà ricordato per uno di quei momenti che hanno scritto la storia del rock, cioè quando all’alba del quarto giorno, davanti ad un pubblico stravolto, il mancino di Seattle ha tirato fuori dalla sua chitarra una versione allucinata, potente, psichedelica e distorta dell’inno americano The Star-Spangled Banner. Il resto dell’esibizione di Jimi (qui a capo di un sestetto battezzato per l’occasione The Gypsy Sun And Rainbows, che comprende comunque i fedeli Billy Cox e Mitch Mitchell) è sempre stata giudicata ottima ma forse non all’altezza di altre leggendarie (tipo quella a Monterey). Io la giudico eccellente, a partire da una strepitosa Voodoo Child di 13 minuti ed a seguire con bellissime versioni di Spanish Castle Magic, Foxy Lady e Purple Haze, una Fire sanguigna e diretta ed una delle migliori rese di sempre della bluesata Red House. Finale con due strepitose improvvisazioni strumentali con Jimi che fa cose non umane alla chitarra (Woodstock Improvisation e Villanova Junction) e con la sempre spettacolare Hey Joe.

CD38 – Appendix. Dischetto per completisti, che comprende tutti gli “stage announcements” pre e post concerto, oltre a tutto ciò di non musicale che è avvenuto durante i tre giorni. Dubito che qualcuno lo ascolterà mai.

Spero di non avervi tediato, ma secondo me valeva la pena rivivere quei tre giorni di Agosto 1969 che, volenti o nolenti, hanno rivoluzionato il mondo della musica contemporanea e hanno in un certo senso chiuso la stagione della Summer Of Love, preparando l’ingresso negli anni settanta nei quali il rock diventerà sempre di più un business perdendo la sua innocenza. So che quest’anno sono già uscite importanti riedizioni (il box della Rolling Thunder Revue) ed altre sono in arrivo (Abbey Road), ma credo che nessuno si offenderà se eleggo fin d’ora questo mastodontico cofanetto “ristampa del 2019”.

Marco Verdi

Un Incontro Tra Due Grandi Della Chitarra. Son Seals With Johnny Winter – Live…Chicago 1978

son seals with johnny winter live chicago 1978

Son Seals With Johnny Winter – Live…Chicago 1978 – Air Cuts

Nel flusso consistente di uscite relative a vecchi broadcast radiofonici, ovviamente anche il blues è stato saccheggiato ripetutamente, soprattutto andando a pescare nei concerti dei nomi classici più importanti, sia neri che bianchi, e quindi è uscito materiale di B.B. King, Muddy Waters, John Lee Hooker, ma anche Freddie & Albert King, tanto per citare alcuni nomi tra i più noti, ma anche Stevie Ray Vaughan e Johnny Winter sono tra i più gettonati. Proprio il chitarrista albino texano è ospite in un paio di brani (ma di oltre dieci minuti ciascuno) in questo concerto di Son Seals, un nome che forse non si ricorda spesso, ma è stato uno dei più grandi chitarristi e cantanti del blues elettrico di Chicago, dai primi anni ’70 in avanti: nativo di Osceola, Arkansas, ha comunque svolto tutta la sua carriera nella Windy City, e ha inciso una lunga serie di album tutti (meno uno) per la Alligator, dischi di grande blues urbano e contemporaneo, tosto e di notevole spessore musicale, caratterizzati da un uso continuo della sua Gibson, in grado di distillare note ricche di feeling e tecnica sopraffina, nonché in possesso di una voce maschia e virile, fortemente espressiva.

Questo concerto del 1978 al Wise Fools Pub di Chicago (lo stesso locale dove sempre nel ‘78 fu inciso il Live And Burning ufficiale per la Alligator) ne è prova inconfutabile; registrato quando Seals era al massimo della sua potenza (in seguito il nostro amico ha avuto una vita tribolata, unico sopravvissuto di quattordici fratelli, con la moglie che gli sparò nella mascella, parte della gamba sinistra gli fu amputata per problemi legati al diabete, poi nell’incendio della sua casa perse quasi tutte le sue proprietà, e parte della sua chitarre gli furono rubate, per la serie “vivere il blues pericolosamente”): ma in quella serata Seals suona come un uomo posseduto dal “genio delle 12 battute”, un concerto fantastico, inciso benissimo, con una band di grande consistenza, dove brillano anche il sax di A.C. Reed, la seconda chitarra di Lacy Gibson e il piano di Alberto Gianquinto (già con James Cotton e tra gli ospiti di Abraxas dei Santana). Tra l’altro lo scrittore e giallista americano Andrew Vachss, grande fan, lo ha spesso inserito nei suoi racconti, narrando della sua gesta, e questa serata con Johnny Winter avrebbe meritato di venire raccontata: Seals era un maestro dei blues lenti, ma anche nei funky blues non scherzava, con le influenze di Albert King. Earl Hooker e Hound Dog Taylor che citava tra i suoi modelli e mentori, e in questo concerto, armato della sua Gibson verde Cadillac, ce ne regala alcuni di grande intensità. I due slow blues con Winter, posti quasi a fine concerto, sono semplicemente meravigliosi, prima una Stormy Monday dove l’interplay tra le due chitarre è magnifico, con Johnny che canta e poi apre le danze con la sua chitarra e Seals che gli risponde da par suo, poi una colossale versione di You Can’t Lose What You Never Had, questa volta cantata da Son, con le due soliste che raggiungono livelli di impeto e vigore chitarristico veramente maiuscoli.

Ma anche nel resto nel concerto ci sono grandi brani: dall’apertura con la tiratissima Everything I Do Is Wrong (un brano legato a B.B. King) dove Seals inizia a strapazzare la sua Gibson con le classiche linee soliste lunghe e lancinanti del blues elettrico di Chicago, seguita da una poderosa I Can’t Hold Out, un pezzo scritto da Willie Dixon, nota anche come Talk To Me Baby, nel repertorio di Elmore James, ma che anche Clapton la faceva alla grande, questa versione di Seals non ha nulla da invidiare ad entrambi, con la solista che scorre fluida ed inarrestabile, veramente blues all’ennesima potenza che attizza il pubblico presente. E non si scherza neppure in Blue Shadows Falling, un altro lentone di Junior Parker, dove Son divide il proscenio con il sax di A.C. Reed, e gigioneggia e scherza con il pubblico mentre esegue un assolo da sballo; per non dire della mossa Nobody Wants A Loser, un brano dove il nostro ripercorre le tracce del suo maestro Albert King, o ancora in una versione rallentata, cadenzata e splendida del classico Gangster Of Love, che diventa quasi un brano alla Muddy Waters. Mother-In-Law-Blues era un pezzo di Don Robey detto anche Deadric Malone, di nuovo Chicago Blues della più bell’acqua e Heart Fixing Blues è un altro lento formidabile di Albert King che Son Seals esegue alla perfezione. Dopo i due pezzi con Winter, Seals e la band tornano per una conclusiva Pretty Woman, di nuovo dal repertorio di King, che poi sfocia in uno strumentale poderoso che suggella una performance veramente superba ed imperdibile per un artista da rivalutare assolutamente.

Bruno Conti

Forse Il Nome Vi Dice Qualcosa, Anzi Il Cognome. Nick Schnebelen – Live In Kansas City

nick schnebelen live in kansas city

Nick Schnebelen – Live In Kansas City – VizzTone Label Group

Se il nome vi dice qualcosa, anzi il cognome, non vi state sbagliando: si tratta proprio di uno dei tre fratelli Schnebelen, che componevano quella eccellente band di blues(rock) che sono stati i Trampled Under Foot http://discoclub.myblog.it/2013/08/01/sempre-piu-bravi-trampled-und-5546876/ . Dopo lo scioglimento del gruppo, ufficialmente nel 2015, ma in pratica già nel 2014, quando il batterista Kris Schnebelen (apparso di recente nella band di Sean Chambers http://discoclub.myblog.it/2017/05/22/poderoso-rock-blues-di-stampo-southern-sean-chambers-trouble-whiskey/) aveva lasciato i fratelli, qualcosa aveva iniziato a non funzionare. Poi anche la sorella Danielle, scegliendo un meno complicato cognome d’arte di Danielle Nicole, ha avviato una carriera solista, che fino ad ora consta di un EP e di un album, e lei bassista, ma soprattutto cantante, è quella che pareva avere il miglior talento nella famiglia. Ma anche Nick Schnebelen, che nel trio originale aveva la funzione di chitarra solista, come pure seconda voce, conferma le sue ottime qualità con questo Live In Kansas City, uscito per la VizzTone, che già lo scorso anno aveva pubblicato un altro disco dal vivo, a nome Nick Schnebelen Band, dove accanto a Nick, c’era un’altra voce femminile (e chitarrista), Heather Newman, che però nel nuovo CD dal vivo, comunque registrato al Knuckleheads Saloon di Kansas City, non appare già più (deve essere uno sciupafemmine il buon Nick).

E anche il batterista è nuovo, solo il bassista Cliff Moore è lo stesso del disco precedente. Ho sentito solo velocemente il Live del 2016, che comunque mi pareva buono, ma nell’album che vado a presentarvi Nick Schnebelen si conferma uno dei “giovani! chitarristi blues (e dintorni) migliori e più eclettici attualmente su piazza, con uno stile che passa con disinvoltura dalle 12 battute più classiche ad un approccio più rock, anche con elementi boogie sudisti o texani, senza tralasciare puntate che sfiorano la psichedelia. E in più, come testimoniavano gli eccellenti dischi pubblicati con i Trampled Under Foot, è  in possesso di una ottima voce. In effetti ci sono parecchi brani che vengono dal repertorio di quel trio, alcuni firmati con i fratelli (e provenienti anche dai primi album, pubblicati a livello indipendente). L’apertura è affidata a una minacciosa The Fool, dove il mancino inizia subito a mulinare la sua solista su un classico Chicago groove, mentre la band lo asseconda con gusto per costruire subito una atmosfera infuocata; con la successiva Pain In Mind che conferma le sue eccellenti propensioni soliste, ribadite ancora in una cover di un brano poco noto di Muddy Waters come Herbert Harpers’ Free Press News, dove la chitarra è sempre dura e tirata a lucido, mentre lo stile mi ricorda certi passaggi quasi jazzati del primo Alvin Lee nei Ten Years After, e la voce è maschia e vibrante.

You Call That Love, una delle canzoni scritte con i fratelli, è un eccellente slow blues, dove Schnebelen conferma la sua notevole caratura chitarristica, rilasciando un assolo di grande fattura ed intensità; Bad Woman Blues, sempre firmata con Kris e Danielle, oltre che da Tony Braunagel, era uno dei brani migliori di Wrong Side of The Blues, l’album pubblicato per la VizzTone, il primo pezzo dove Nick mette in mostra la sua perizia anche alla slide, su un ritmo ondeggiante e quasi alla Bo Diddley. Ma è nell’omaggio a Johnny Winter, in una torrenziale Mean Town Blues, che il nostro  amico ci incanta con un vorticosa rilettura del classico dell’albino texano, a tutto blues; a conferma della sua versatilità anche l’altro vecchio brano dei TUF,  Jonny Cheat, viaggia tra un boogie alla ZZ Top (l’inizio sembra quasi La Grange) e un poderoso blues-rock alla Thorogood, anche a livello vocale, comunque uno dei momenti più coinvolgenti del concerto, che non cala di intensità neppure in un altro blues lento di quelli lancinanti e cattivi come Bad Disposition, dove Schnebelen distilla il meglio dalla sua solista. E anche nella oscura Schoolnight, un blues afterhours di tale Chris Schutz, non se la cava male, prima di chiudere con una fantastica Conformity Blues, uno strumentale che mi ha ricordato moltissimo i Quicksilver Messenger Service della jazzata Silver And Gold, che fondevano psichedelia  e Take Five di Dave Brubeck, anche Schnebelen ci riesce con classe e tecnica. Se amate i bravi chitarristi, eravate fans dei TUF e vi piace la buona musica, gustatevi questo Live In Kansas City.

Bruno Conti

Un Appuntamento Quasi “Inevitabile”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol. 13

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Johnny Winter  – Live Bootleg Series vol. 13 – Friday Music

Prosegue la pubblicazione degli archivi Live di Johnny Winter, siamo ormai arrivati al capitolo n° 13. Come al solito il curatore ufficiale della serie Paul Nelson, incaricato da un fantomatico “Johnny Winter Music Archive” autorizzato dagli eredi del texano (??), non ci dice assolutamente nulla sulla provenienza del materiale, anno, località, musicisti impiegati: come di consueto si intuisce che dovrebbe esserci Jon Paris al basso e all’armonica (quindi siamo tra il 1979 e il 1989, anni in cui Paris ha militato nella band di Johnny) e si presume che il batterista potrebbe essere Bobby Torello (fino al 1983) o Tom Compton (negli anni a seguire, più probabile), quindi l’arco temporale si restringe Questa volta la qualità sonora è meno discontinua del solito: merito forse di Joe Reagoso che ha curato il mastering? Può essere.

Sta di fatto che il suono in questo volume è piuttosto buono, la musica ovviamente non si discute: a partire da una fulminante versione di Mean Town Blues, uno dei classici assoluti di Johnny, sin dai tempi di The Progressive Blues Experiment del 1968, poi a Woodstock e in Johnny Winter And Live, e da lì all’eternità, con la slide che viaggia a velocità supersoniche per quasi dieci minuti, con la solita classe e ferocia dell’albino texano, ottimo anche Paris al basso, per un perfetto esempio di power trio all’ennesima potenza. E niente male neppure la successiva Mojo Boogie, un brano di JB Lenoir che era su 3rd Degree, il disco per la Alligator del 1986, con Paris anche all’armonica e Winter nuovamente fantastico alla slide. In Last Night, uno slow blues scritto da Little Walter, la qualità del suono peggiora giusto un filo, rimanendo comunque molto buona, ma il brano, ripreso anche in Roots, il disco del 2011 registrato con vari ospiti (nel caso John Popper all’armonica) è comunque un fulgido esempio del Winter più rigoroso nella sua fedeltà alle 12 battute, riviste sempre attraverso la sua ottica unica e con la consueta grinta travolgente, all’armonica, penso sempre Paris.

Walking By Myself, il pezzo di Jimmy Rodgers, di nuovo con i duetti tra l’armonica di Paris e la solista di Winter, rientra più nella media delle esibizioni del nostro, buona ma per lui quasi normale, si fa per dire, perché la chitarra è sempre fantastica, anche se il suono è più pasticciato. E Mad Dog, un brano che era su Guitar Slinger del 1984, è indubbiamente tra i brani meno noti nell’immenso songbook del musicista texano, quindi una gradita aggiunta, ma niente per cui stracciarsi le vesti, mentre Don’t Take Advantage Of Me, il brano di Lonnie Brooks, è proposta in una versione hendrixiana, con il pedale wah-wah  spesso pigiato a manetta, per un omaggio al mancino di Seattle e alle sue sonorità, ma pure con citazioni dei Cream e di altri pilastri del rock-blues in trio. In conclusione anche un omaggio agli amati Rolling Stones, con una breve ma intensa versione di Gimme Shelter, solo strumentale, abbastanza irriconoscibile e, peccato, lunga meno di tre minuti, per quanto sempre ricca di fascino. Se avete già gli altri dodici, anche questo non può mancare alla vostra collezione, tenendo conto che è uno dei migliori della serie, che ultimamente è diventata “limitata” e piuttosto costosa.

Bruno Conti

E Questi Invece Li “Manda” Sempre Johnny Winter: Bravi Ma Non Indispensabili. Jay Willie Blues Band – Hell On Wheels

jay willie blues band hell on wheels

Jay Willie Blues Band – Hell On Wheels – Zoho Music

Questo è il quarto album consecutivo (ce ne sarebbe un quinto uscito per la Musis Boulevard in Europa) pubblicato dalla Zoho Music per la band del Connecticut, guidata da Jay Willie, ma che vede nelle propria fila, come membro onorario, anche l’armonicista Jason Ricci, e dallo scorso album http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/tornano-gli-amici-johnny-winter-jay-willie-blues-band-johnnys-juke-joint/ pure la poderosa vocalist del New England Malorie Leogrande. Il nome di peso è quello di Bobby T Torello, il vecchio batterista di Johnny Winter, mentre a completare la formazione ci sono il bassista Steve Clarke https://www.youtube.com/watch?v=Rd_SupH4UKs  e il sassofonista Teddy Yakush, impegnato anche alle tastiere., o all’armonica quando non c’è Ricci. Il repertorio pesca sempre principalmente dal passato, e se nel disco precedente c’erano covers di Wooly Bully, You Got Me Dizzy, Barefootin’, People Get Ready, oltre all’inevitabile tributo al maestro Winter con una versione di I Love Everybody, oltre a pezzi blues di Robert Johnson, James Cotton, Buddy Guy & Junior Wells che permettevano di gustare le evoluzioni all’armonica di Jason Ricci, anche in questo album, a fianco di quattro brani originali della band, troviamo alcune canzoni molto conosciute.

Da una torrida Willie And The Jand Jive di Johnny Otis, che si trovava su 461 Ocean Boulevard di Eric Clapton, che troviamo in una versione a cavallo tra un drive alla Bo Diddley e il classico blues elettrico, con l’armonica di Ricci protagonista assoluta, passando per The Horse, dove all’armonica si aggiunge la pimpante voce della Leogrande, veramente una cantante di classe, per un sano tuffo nel rock-blues più veemente, poi ripreso a fine disco anche in una versione strumentale dove è la chitarra di Jay Willie ad avere un maggiore spazio. Anche la title-track Hell On The Wheels profuma di sano blues-rock, sempre con l’armonica (e la batteria) protagoniste, mentre la voce del leader non rimarrà negli annali dei grandi cantanti (o è Bob Callahan, l’altro chitarrista e cantante che non avevamo citato?), viceversa il lavoro alla slide si apprezza. Non tutto è memorabile nel disco, You Left The Water Runnibg, la versione di un classico Stax scritto da Dan Penn e noto per le versioni di Redding e Pickett, tramutato in un blues, pur con discrete prestazioni della Leogrande e della slide di Willie, non brilla; molto meglio Alive Again, un gagliardo pezzo dove rivive lo spirito del Johnny Winter più sanguigno, con Jay Willie veramente micidiale nell’occasione, e assai piacevole pure la cover di un vecchio classico Motown delle Marvelettes The Hunter Captured By The Gane, con la voce sexy della brava Malorie Malone ben coadiuvata ancora una volta dall’armonica di Ricci.

Peccato per un classico assoluto come Take Me To The River, il pezzo di Al Green trasformato in un anonimo funky-rock, mentre funzionano, grazie alla Leogrande, le due cover dei brani, in sequenza, di Barbara Lynn, This Is The Thanks I Get, con sax aggiunto e la bellissima ballata soul You’ll Loose A Good Thing. Everybody è un anonimo R&R vagamente alla J.Geils Band, qui neppure il buon solo di slide può fare molto; non male, anzi molto bella, ancora una volta grazie al contributo della brava Malorie, la delicata versione, solo voce e il basso elettrico di Clarke, di uno splendido brano anni ’50 di Little Sylvia, A Million Tears. Prima della ripresa di The Horse, una discreta 21, dai ritmi funky blues e con la voce ricca di echi e riverberi della Leogrande, conclude il disco. Sempre piacevole ma non indispensabile.

Bruno Conti

Blues “Bianconero” Elettrico, Vivo E Pulsante Come Pochi! The Big Sound Of Lil’ Ed & The Blues Imperials

lil' ed and the blues imperials the big sound

Lil’ Ed & The Blues Imperials – The Big Sound Of Lil’ Ed & The Blues Imperials – Alligator/Ird

Nove album in trenta anni di carriera (più due come solista a nome Lil’ Ed Williams, pubblicati a metà degli anni ’90, quando aveva sciolto momentaneamente la band) non sono forse un bottino cospicuo per il gruppo di Chicago, Illinois, la patria del blues: ma questi dischi si sono sempre, e dico sempre, segnalati per la loro consistenza, una micidiale miscela di classico blues elettrico urbano (imparato da JB Hutto, zio dei fratellastri Ed Williams, la chitarra solista e James Young, il bassista), furiose cavalcate in stile slide di Ed, che è un vero virtuoso del bottleneck, tirati boogie e selvaggi R&R, il tutto condito da una grinta e da una “ferocia” inconsuete per una formazione come Lil’ Ed The Blues Imperials, che in fondo pratica le 12 battute in modo anche rigoroso! Il piccolo chitarrista della Windy City, sempre con l’inseparabile fez in testa, ad aumentarne l’altezza che la natura gli ha conferito, da cui il nomignolo, si avvale come sempre anche del settore bianco della band, il poderoso batterista Kelly Littleton e il secondo chitarrista Michael Garrett, sempre pronto a scatenare con Williams furibonde scariche di blues elettrico. Questa volta è della partita con loro anche Sumito “Ariyo” Ariyoshi (!), virtuoso nipponico delle tastiere, da parecchio in azione nella scena locale di Chicago.

Come si diceva all’inizio, gli album del quartetto hanno mantenuto negli anni una qualità sempre elevata, come dicevo anche in riferimento al precedente Jump Start del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/06/17/piccolo-ma-tosto-lil-ed-and-the-blues-imperials-jump-start/ , ma mi sembra che questo The Big Sound alzi il livello di una ulteriore tacca: prendiamo la sequenza centrale che si apre con una fantastica e minacciosa Black Diamond Love, dove la voce poderosa di Williams (un altro degli atout del gruppo) si arrampica su di un groove consistente, dove il piano di Ariyoshi sostiene la slide di Lil’ Ed che comincia ad arrotare l’aria con una intensità inusuale, sulle scariche marziali della batteria di Littleton, a seguire una frenetica Whiskey Flavored Tears, una perfetta confezione sonora dove la slide fiammeggiante rievoca pensieri dei fasti del miglior Johnny Winter, per non parlare di Hound Dog Taylor o del maestro assoluto Elmore James. A completare il trittico uno slow blues fenomenale e torrenziale come I’ll Cry Tomorrow,  giuro che la prima volta che l’ho sentito mi ha fatto quasi ribaltare sulla sedia, un pezzo degno del miglior Buddy Guy, con una serie di interventi magnifici di entrambi i solisti e la voce imperiosa di Williams a guidare il gruppo nella quintessenza del miglior blues, brano veramente fantastico, vorresti che non finisse mai.

E comunque anche il resto del CD non scherza: dalla iniziale Giving Up On Your Love, una scarica di adrenalina, tra blues, soul e rock, tirata ed imperiosa, subito con la chitarra a disegnare linee soliste limpide e toste, blues puro e non adulterato di rara potenza, seguito dal gagliardo shuffle, ancora con uso di slide, di Raining In Paris o da una poderosa Poor Man’s Song, tirata e con un giro di basso che ti colpisce allo stomaco. mentre la chitarra costruisce le sue linee soliste, degne dei migliori prodotti a firma Alligator. Altro ottimo shuffle è Shy Voice, funky e con bottleneck sempre pronto alla bisogna, poi, dopo la sequenza centrale già descritta, si prosegue con Is It You?, di nuovo funky ed accattivante, il boogie/roll frenetico di I’m Done, di nuovo con quel bottleneck irrefrenabile e ancora un grande mid-tempo dall’atmosfera intensa ed avvolgente come la splendida Deep In My Soul, dove si apprezzano anche il piano accarezzato da Ariyoshi e l’eccellente lavoro di Young al basso. Ancora la slide che scivola con libidine nella classica I Want It All, seguita da una I Like My Hot Sauce Cold dove sembra di ascoltare i Canned Heat degli inizi, con il basso che pompa di brutto, mentre la chitarra slide delizia i nostri padiglioni auricolari una volta di più. Troubled World è l’altro blues lento, un brano che ha agganci quasi con le cavalcate di Stevie Ray Vaughan e Hendrix, tra blues e rock, in ogni caso intenso e splendido. A concludere il disco, sicuramente uno dei migliori in ambito blues elettrico classico del 2016, Green Light Groove, due minuti e mezzo di divertente e frenetico R&R.

Bruno Conti     

Era Ora, Finalmente Un Bel Johnny Winter Dal Vivo: Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979

johnny winter woodstock revival

Johnny Winter – Woodstock Revival 10 Year Anniversary Festival 1979 – Klondike

Oh, finalmente un bel Johnny Winter dal vivo! Ironie a parte (ma non troppo, se è la verità), anche questo Live radiofonico relativo ad un broadcast del 1979 è molto buono. Leggendo le note, l’estensore ci ricorda che per il Festival di Woodstock ci sono stati concerti per festeggiare i 10, 25 e 30 anni (ma anche nel 2009, quello per il 40° Anniversario, e già progettano il 50° per il 2019): ma poi ci informa che però quello del decennale è stato uno dei migliori in assoluto perché la memoria dell’evento era fresca e i partecipanti ancora in forma e pimpanti (più o meno, a parte quelli morti). Ci viene comunicato che l’evento si tenne ai Park Meadows Racetrack di Long Island, Brookhaven, stato di New York e non nel sito originale, e che, a dimostrazione del fatto che i tempi erano cambiati, la Pepsi era lo sponsor della serata. Comunque, come detto, dettagli a parte, il concerto dell’8 settembre è decisamente buono; Johnny Winter si presenta con il suo classico trio dell’epoca, Jon Paris, basso e armonica e Bobby T Torello, alla batteria.

Non vi ricordo per l’ennesima volta l’immenso talento di Winter (ma l’ho appena fatto) sia come chitarrista che come portabandiera del blues più sanguigno, ma anche del R&R più selvaggio, entrambi ottimamente rappresentati in questa serata. Quindi se non ne avete ancora abbastanza di concerti del musicista texano, questo si situa su una fascia medio-alta, sia come contenuti che come qualità sonora, eccellente (tra le migliori dei molti broadcast a lui dedicati), e il menu della serata comprende l’apertura affidata a una sparatissima Hideaway di Freddie King, presa a velocità di crociera elevatissima e con rimandi e citazioni anche per Peter Gunn e inserti wah-wah hendrixiani, gran versione, con la ritmica che pompa di brutto, assolo di basso di Paris incluso. Messin’ With The Kid, il brano di Junior Wells, era di recente apparso su Red Hot & Blue, il disco del 1978, ma dal vivo è tutta un’altra storia, Winter è in gran forma anche a livello vocale e dopo il vorticoso pezzo di Wells si lancia subito nel riff immortale di Johnny B. Goode, preceduto dal suo classico urlo “Rock and Roll” e quello è, la sua versione sempre una tra le più belle di questo standard del R&R.

Ma pure l’omaggio al blues e a Robert Johnson con una splendida Come On In My Kitchen è da manuale, con Jon Paris anche all’armonica e Winter che passa alla slide, dove è uno dei maestri assoluti dello stile, come dimostra la turbinosa ripresa di Rollin’ And Tumblin’, un Muddy Waters d’annata, in cui il bottleneck di Winter viaggia come un treno senza guidatore, a livelli di intensità micidiali, in uno dei momenti migliori di un concerto comunque sempre ad alto livello. Help Me rallenta i tempi ma non il vigore della performance, il classico groove del pezzo viene illuminato da altri sprazzi di bravura di Johnny con la sua solista. Perfino un brano “minore” come Stranger, che era su John Dawson Winter III, riceve un trattamento sontuoso, con la solista accarezzata, titillata, strapazzata, con grande ardore, e il nostro che canta con verve decisa, in una serata di quelle ottime, senza lati negativi, solo musica di grande qualità. Serata che si conclude con una versione squassante di Jumpin’ Jack Flash che forse neppure gli Stones migliori avrebbero potuto pareggiare, quanto a potenza e grinta. E, non contento, richiamato a gran voce dal pubblico, ritorna per un altro mezzo terremoto R&R (breve drum solo di Torello annesso) sotto forma di Bony Moronie di Little Richard via Larry Williams, altro devastante esempio di quello che poteva regalare Johnny Winter quando era in una serata giusta, e questa lo era. Solo 63 minuti, ma non un secondo superfluo!

Bruno Conti

Gary Hoey – Dust And Bones: Un Altro “Ex” Virtuoso Metal Convertito Al Blues? Bravo Comunque!

gary hoey dust & bones

Gary Hoey – Dust And Bones – Mascot/Provogue                                    

Gary Hoey è un (ex?) metallaro pentito che, da qualche tempo, come altri, si è convertito al blues(rock). Con una discografia di una ventina di album alle spalle, compreso questo, di cui molti di tipo Natalizio per la serie Ho! Ho! Hoey https://www.youtube.com/watch?v=BqDsSC5w5KU , il nostro amico, 55 anni ad agosto, appartiene alla categoria dei chitarristi “esagerati”, quella che vanta nelle proprie fila gente come Van Halen, Satriani, Steve Vai, Eric Johnson, e tutta la pattuglia che fa capo alla Blues Bureau Records di Mike Varney, quindi anche chitarristi come Rick Derringer, Pat Travers, Eric Gales e Chris Duarte, tanto per non fare nomi. Ma agli inizi di carriera, negli anni ‘80, fu uno dei candidati a sostituire Jake E. Lee nella band di Ozzy Osbourne, anche se poi venne scelto Zakk Wylde (che, detto per inciso, di recente ha pubblicato a sorpresa, almeno per me, un album, Book Of Shadows II, di ottima musica southern e roots https://www.youtube.com/watch?v=X_uOwN7OwH4, e già il primo della serie non era male). Nel 1993 ha avuto il suo maggior successo con una cover di Hocus Pocus, il celebre brano dei Focus, quello che per intenderci ha degli intermezzi yodel in una ferocissima scarica chitarristica a cura di Jan Akkerman (quello sì era un grande chitarrista https://www.youtube.com/watch?v=g4ouPGGLI6Q )

La versione di Hoey era molto più alla Van Halen, con un sound abbastanza grossolano, ma poi il nostro amico lentamente, nel corso degli anni, si è avvicinato al blues, pubblicando un Deja Blues nel 2013 https://www.youtube.com/watch?v=V2EUPq-0wVA , che era il suo primo (o forse secondo) approccio alle 12 battute, per la verità non male, pur sempre nel suo suono abbastanza duro e tirato. Ora, nella presentazione al nuovo album, dice che in questo Dust And Bones vuole unire al blues le sue radici rock, e quindi cosa otteniamo? Un disco di rock-blues, ma va!? In molte pedisseque cartelle stampa Hoey viene presentato come uno dei primi 100 chitarristi di tutti i tempi nella classifica di Rolling Stone, ma non mi ricordo di avercelo mai visto, e in effetti, più modestamente, appare in quella del sito Digital Dream Door, tra molti metallari e, vergognosamente, prima di musicisti come Roy Buchanan, Warren Hayes, Joe Walsh e Leslie West, basti dire che John Petrucci dei Dream Theather è all’11° posto assoluto! Con tutto il rispetto un bel bah mi scappa! Fine della digressione.

Comunque anche Gary Hoey approda alla Mascot/Provogue, “casa” di Joe Bonamassa, Warren Haynes, Walter Trout, Robben Ford, questi sì tra i migliori chitarristi contemporanei e realizza un disco onesto, registrato in trio, con AJ Pappas al basso (a lungo con Popa Chubby) e Matt Scurfield alla batteria (già con Lita Ford, di cui tra un attimo): un album di power trio rock-blues con leggere derive surf (in passato Hoey ha collaborato anche con Dick Dale) e rockabilly, vedi l’eccellente tributo a Brian Setzer, nel vorticoso rockabilly di Who’s Your Daddy. Per il resto abbiamo il classico sound della Mascot, dalla rocciosa iniziale Boxcar Blues, un omaggio a Robert Johnson via Led Zeppelin, dove Gary Hoey si destreggia con abilità al bottleneck, passando per il notevole festival wah-wah della “sudista” Born To Love You, dove sembra di ascoltare gli ZZ Top, con tanto di eccellente e pungente assolo alla Billy Gibbons, o ancora nella ballata atmosferica Dust And Bones che ricorda certe cose del Bonamassa più duro. Non manca il tributo (un po’ ruffiano, ma ben suonato) a Johnny Winter di Steamroller, dove la slide di Hoey viaggia a tutta birra su un agile accompagnamento della sua sezione ritmica. Poi troviamo la classica “power ballad” da classifica, o così sperano, una Coming Home registrata in duetto con Lita Ford, che ricorda certe ballate strappalacrime di Prince o Bryan Adams, non orripilante ma quasi ai limiti della decenza, e il blues dove sarebbe, mi viene da chiedere?

Ghost Of Yesterday, di nuovo a tutto wah-wah, torna ai vecchi vizi dell’AOR anni ’80 e ‘’90 e per quanto Gary sia un virtuoso della Fender, ce ne sono a decine come lui. This Time Tomorrow, decisamente migliore, rende omaggio ad un altro dei miti di Hoey, Robin Trower, con un classico slow d’atmosfera, dove però si coglie la non proprio grande valentia vocale del chitarrista di Boston, che peraltro si evidenzia in tutto l’album, meglio quando suona. Back Up Against The Wall è un bello shuffle che mi ha ricordato certe cose del compianto Jeff Healey, con un ricorrente tema di chitarra, e Blind Faith è un’altra stilettata di rock-blues a colpi di slide e wah-wah, non male, anche se risaputa. Conclude Soul Surfer, piacevole brano strumentale, una sorta di surf music per gli anni 2000 che ci permette di gustare ancora una volta il virtuosismo di Gary Hoey, perché, in tutta onestà, come si usa dire, per suonare suona! Esce il 29 luglio.

Bruno Conti

Dagli Archivi Inesauribili Di Johnny Winter, Una Serata Con Dr. John. Live In Sweden 1987

Johnny Winter Dr. John Live in Sweden

Johnny Winter with Dr. John – Live In Sweden 1987 – MVD Entertainment Audio

Non è per le Bootleg Series, che pure dopo la scomparsa di Johnny Winter continuano imperterrite ad uscire, e sono giunte al capitolo 12, sempre prive di qualsivoglia informazione, e neppure proviene dalla benemerita serie di concerti del Rockpalast, il cui archivio nel caso dell’albino texano era già stato intaccato più di una volta. Ma con i Live tedeschi condivide la provenienza televisiva: e nonostante l’ennesima etichetta che pubblica questo Live In Sweden 1987, tale MVD Audio, come dice il titolo dell’album, si sa dove è stato registrato, e almeno l’anno in cui è stato inciso (anche se in rete si ricava che siamo in gennaio, ai Sonet Studios di Stoccolma, davanti ad un non numeroso, ma entusiasta, pubblico ad inviti). Non solo, il CD (o il DVD, perché esiste anche in quella versione, con un pezzo in più, registrato nel 1972 e di qualità pessima) ci informa anche sul nome dei musicisti; oltre al solito John Paris, al basso ed armonica e Tom Compton alla batteria, abbiamo il co-protagonista della serata, Dr. John, piano e voce, che porta una ventata di New Orleans sound al classico rock-blues del grande chitarrista americano. E il tutto, e non guasta, con una qualità sonora eccellente (quella video un po’ meno, diciamo televisiva, ma comunque decisamente buona), oltre al fatto che il repertorio è abbastanza inconsueto rispetto ad altri concerti dal vivo usciti nelle serie citate e nella sterminata quantità di album Live ufficiali pubblicati durante, e dopo, la lunghissima carriera di Winter.

https://www.youtube.com/watch?v=Jsg2P3kLUpc

A volere essere proprio pignoli (ma è giusto informare) il materiale era già uscito in un DVD del 2010 intitolato Live Through The 80’s, dove erano riportati tutti questi brani e altri pezzi registrati appunto negli anni ’80. Appurato tutto ciò, comunque il concerto è notevole, Winter è ancora in gran forma, suona sempre la chitarra come posseduto dal Dio del Blues ( e del rock), canta benissimo e nei sette brani (tutti piuttosto lunghi, un paio oltre i 10 minuti) che compongono il dischetto ci dimostra ancora una volta perché nel genere è stato uno dei più grandi di sempre: dall’iniziale Sound The Bell, che era sul disco della Alligator del 1985 Serious Business, un poderoso rock-blues dove il sinuoso basso di Paris e l’agile drumming di Compton sostengono abilmente il solismo vorticoso di un Johnny Winter in grande spolvero, si capisce subito che siamo capitati in una serata di grazia, il nostro non sembra in preda ai fiumi dell’alcol e o di altre sostanze, come è capitato in precedenti occasioni, e lascia fluire le note dalla sua chitarra con una classe ed una scioltezza sempre invidiabili. A seguire una lunghissima Don’t Take Advantage Of Me, tratta da Guitar Slinger, un pezzo dalle sonorità quasi hendrixiane o alla Cream, citazioni di Sunshine Of Your Love incluse, con Winter che estrae dalla solista un fiume inarrestabile di note. A conferma che il concerto era incentrato sul materiale dell’epoca, anche il terzo brano, Mojo Boogie, un pezzo di JB Lenoir, viene da Third Degree, il CD Alligator del 1986 che vedeva presente proprio Dr. John come ospite.

Mac Rebennack che peraltro fino a questo punto non si è visto né sentito, ma in Mojo Boogie Johnny estrae il suo bottleneck per una dimostrazione della sua quasi indiscussa supremazia nell’arte della slide guitar, e anche Paris alla armonica dà una mano allo spirito blues del pezzo. Finalmente per You Lie Too Much, che è proprio un brano a firma Rebennack, Winter introduce sul palco “Dr. John The Night Tripper” e l’alchimia tra i due funziona subito alla grande, con il piano assoluto protagonista della canzone e anche la voce dell’artista di New Orleans non è ancora quella di oggi, rotta da mille battaglie, ma appare viva e pimpante (la traccia uscirà poi sul disco di Winter Let Me In del 1991). Notevole anche Sugar Sweet un vecchio brano di Muddy Waters, cantato a due voci, e con le mani di Dr. John che volano sulla tastiera. Di nuovo il Dottore grande protagonista in una strepitosa Love Life And Money, sempre da Third Degree, ma tutti e due si scambiano energia in questo gagliardo slow blues, prima di lanciarsi in una vorticosa Jumpin’ Jack Flash, il pezzo degli Stones, oltre dieci minuti di puro e libidinoso rock’n’roll a denominazione di origine controllata, che conclude alla grande questa ottima serata. Gran bel concerto.

Bruno Conti