Tornano Gli “Amici” Di Johnny Winter. Jay Willie Blues Band – Johnny’s Juke Joint

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Jay Willie Blues Band – Johnny’s Juke Joint – Zoho Music 

Tornano Jay Willie e soci per una nuova cavalcata nei territori musicali che furono cari al grande Johnny Winter. Come ricorderete nella band milita anche Bobby T Torello, il vecchio batterista di Winter http://discoclub.myblog.it/2014/11/28/discepoli-winteriani-jay-willie-blues-band-rumblin-and-slidin/ , e come ricordano loro stessi nelle note avevano pensato di fare un album dedicato alla memoria del musicista texano, ma poi rendendosi conto che in fondo i loro dischi sono sempre stati degli omaggi al sound del vecchio Johnny, solo il titolo del CD e il brano I Love Everybody, che appariva su Second Winter del 1969, lo omaggiano direttamente. Il nucleo della band, oltre a Willie e Torello, comprende anche Bob Callahan, l’altro chitarrista e cantante, Steve Clarke al basso e Teddy Yakush al sax, ma anche l’armonicista Jason Ricci, che ormai è un membro onorario, come pure l’ottima vocalist Malorie Leogrande, una nuova cantante dalla voce pimpante ed espressiva che si gusta sin dall’iniziale piacevolissima rilettura del super classico di Sam The Sham & The Pharaohs Wooly Bully, in una versione molto bluesata dove si apprezza subito il talento di Ricci, un vero virtuoso dello strumento che, come ho ricordato in altre occasioni, ha un suono potente ed elettrico che ricorda quello di John Popper dei Blues Traveler.

You Got Me Dizzy una cover di Jimmy Reed, sempre con Leogrande e Ricci sugli scudi è blues classico https://www.youtube.com/watch?v=sRvAEZmVVXU , come pure One More Mile, un vecchio brano di James Cotton, ma scritto da Muddy Waters, che riceve un trattamento funky e gode nuovamente dell’eccellente lavoro all’armonica di Ricci https://www.youtube.com/watch?v=OD2HvP5EsDg , mentre Upside On The Ground è uno dei pezzi originali a firma Jay Willie, uno slow blues di grande intensità, cantato ancora con passione da Malorie che divide i meriti del brano con la solista del leader. Barefootin’ è proprio il vecchio classico R&B di Robert Parker, famoso anche nella versione di Wilson Pickett, esecuzione nella norma, senza infamia e senza lode, per quanto energica. Molto buono Hold To Watcha Got, un originale di Willie con uso di slide e wah-wah che ricorda assai lo stile winteriano e onesta la rilettura di un altro classico del soul, quella People Get Ready di Curtis Mayfield, che comunque lo giri rimane sempre un gran brano (di recente era anche nell’ultimo Leslie West).

Eccellente il pezzo di Winter ricordato prima, una I Love Everybody dove Malorie Leogrande fornisce la sua migliore prova vocale e il lavoro della slide di Jay Willie è degno del Maestro, grinta ed energia ben dosate. Non male anche I Got A Stomach Ache, una canzone di Buddy Guy & Junior Wells, cantata da Bobby Torello che la eseguì dal vivo con il duo al Checkerboard Lounge di Chicago, ancora una volta molto Winteriana, come è giusto che sia, visti i trascorsi del nostro, che lavora anche di fino alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=uDfD7AtTneE . Nobdoy But You era un oscuro pezzo di Lil’ Bob and The Lollipops, un divertente funky soul con fiati anni ’60, cantato con brio dalla brava Malorie Leogrande e Succotash, altro brano minore dei tempi che furono era spesso l’occasione per una jam che apriva i concerti del trio Winter-Paris-Torello e qui il blues, venato di R&R, è il vero protagonista di questo strumentale dal forte impatto sonoro https://www.youtube.com/watch?v=2Un17FljDBo , Johnny Winter era un’altra cosa ma i nostri amici fanno di tutto per non farlo rimpiangere e il disco è molto buono nel complesso. Si chiude con un classico assoluto come Me And The Devil di Robert Johnson, solo Jay Willie, voce e chitarra, discreto e Jason Ricci, vero protagonista all’armonica.

Bruno Conti  

Serata Ad Alta Gradazione, In Tutti I Sensi! Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978

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Johnny Winter – My Father’s Place, Old Roslyn, NY, September 8th 1978 – 3 CD Air Cuts

Alcune veloci considerazioni. Johnny Winter ha avuto per alcuni anni una propria Bootleg Series, che sembra essersi interrotta dopo la morte avvenuta lo scorso anno. La serie, curata da Paul Nelson, non ha mai brillato né per l’accuratezza delle note e neppure, spesso, per la qualità sonora dei dischi http://discoclub.myblog.it/2014/10/05/anche-la-morte-prosegue-serie-infinita-johnny-winter-live-bootleg-series-vol-11/ . E in ogni caso, negli anni, sono stati (ri)pubblicati vari dischi dal vivo ufficiali fenomenali, penso al Woodstock completo, al concerto del Fillmore East del 1970 http://discoclub.myblog.it/tag/johnny-winter-and/  e al Rockpalast del 1979 http://discoclub.myblog.it/2011/04/12/non-c-il-due-senza-il-tre/ . I rappresentanti della categoria “bootleggers roll your tapes”, come li chiamava il nostro vecchio caro Boss, si sono interessati pure alla produzione dell’albino texano, con risultati altalenanti, ma questo concerto del 1978 al My Father’s di New York è veramente interessante. Intanto siamo di fronte ad un concerto completo in 3 CD, e non ci sono fregature. Quando ho visto l’involucro esterno con la scritta tre CD, poi ho letto la lista dei brani, tredici, compresi i credits finali, mi sono detto, andiamo bene, altro “finto” cofanetto! E invece la durata media dei brani è sui 20 minuti a brano, con un paio “solo” sui 15 e un medley che supera la mezz’ora. Tra l’altro il concerto, registrato per l’emittente radiofonica WLIR-FM di New York, è inciso decisamente bene, qualche problema tecnico qui e là, ma qualità sonora notevole, migliore di molti dischi ufficiali.

Ma dove sta l’inghippo allora, perché è impossibile non ci sia? Come dicono gli americani, con termine elegante, il buon Johnny Winter è “inebriated”, e anche noi italiani abbiamo il termine adatto, “ubriaco perso”, però niente paura perché il musicista texano suona lo stesso alla grandissima, l’unico problema è che tra un brano e l’altro, e ogni tanto anche all’interno dei brani, infila lunghi discorsi sconnessi di parecchi minuti che fanno scendere la tensione del concerto, senza pregiudicarne il valore storico che rimane notevole. I tipi della Air Cuts annunciano orgogliosamente nel retrocopertina che all’interno del CD ci sono cospicue note e rare foto: ora se vogliamo considerare come note un articolo del NME, peraltro del dicembre 1977, e le due foto sono quelle fronte e retro, il tutto corrisponde alla verità. Comunque alla fine, come diceva Totò, sono “quisquilie e pinzillacchere”, perché il concerto è veramente notevole: intanto sappiamo (e nelle bootleg series non era mai riportat)o che in questo concerto abbiamo Jon Paris, a basso, armonica e voce, e Bobby Torello alla batteria, la serata è per promuovere il recentissimo album White, Hot & Blue, appena pubblicato ad agosto del 1978. Ed il repertorio è di prima scelta: prima una lunghissima versione, fantastica, di Hideaway, lo strumentale di Freddie King, con Winter che esplora in lungo e in largo la sua chitarra con classe ed inventiva, poi un altro brano sempre di King, Sen-sha-sun, riportato sulla copertina come Sensation, ma quello è, sempre con Johnny ai vertici assoluti del blues e del rock, poi, a seguire, dopo una presentazione sconnessa, un’altra lunghissima perla come Last Night, brano dal repertorio di Howlin’ Wolf che era sull’album appena uscito, blues allo stato puro con Jon Paris all’armonica che aggiunge autenticità e pathos a questa lunga versione che sfiora i venti minuti, discorsi a vuoto compresi e con un’improvvisa scomparsa della musica verso gli undici minuti del brano, che sfuma e poi riappare.

Sempre nel primo CD c’è una versione formidabile di Bony Maronie, presentata come la più lunga mai registrata, ma anche una delle più selvagge e variegate, anche qui sfumata e poi ripresa al volo (nessuno è perfetto). Secondo CD aperto da una chilometrica Susie Q, con Winter che nonostante le quantità ingerite di alcol tiene benissimo il palco e suona come solo lui sa fare, poi nel finale sbarella leggermente (per usare un eufemismo) ma si riprende per Come On My Kitchen di Robert Johnson, dove è tempo di slide, e qui si apprezza tutta la maestria del maestro del bottleneck. Sempre da White, Hot And Blue una Walking By Myself, di nuovo con Paris all’armonica, che è un altro classico del blues. L’ultimo CD si apre con Wipe Out dei Surfaris, divisa in due parti, con assolo di batteria di Torello annesso, prima di passare il microfono a Paris per un altro classico del R&R come Rave On, solo quattro minuti. A seguire una scintillante Everyday I Have The Blues, dove a un certo punto Winter si perde nella nube alcolica (e questo è il guaio della serata), ma si riprende per concludere il tutto con un Country Blues Medley che totalizza oltre 31 minuti e comprende Mississippi Blues, Kind Hearted Woman e Me And The Devil, che viene portato a termine, nonostante varie divagazioni, con buoni risultati. “Esagerato”, ma assai interessante, nel complesso.

Visto che non ci sono in rete video o audio del 1978 ho inserito un paio di concerti di potenziale interesse che se non sono già usciti vedo bene come candidati per future pubblicazioni semiufficiali (entrambi con Torello e Paris); bello anche il Muddy Waters a Chicago del 1981, con ospite Johnny Winter.

Bruno Conti

Toh Guarda Chi Si Rivede, Doppia Uscita A Settembre! Arlen Roth – Slide Guitar Summit E Ristampa Toolin’ Around Woodstock Feat. Levon Helm

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Dopo qualche anno di silenzio (ma aveva continuato a produrre dischi in proprio nel corso degli anni) ritorna Arlen Roth, quello che giustamente viene considerato uno dei migliori chitarristi “sconosciuti” americani, vincitore del premio dei critici di Montreux con il suo album di esordio nel lontano 1978, quel Guitarist, che insieme a Hot Pickups dell’anno successivo e al primo volume di Toolin’ Around, viene considerato il suo disco migliore.

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Andiamo per copertine, ma è per rinfrescare la memoria di chi ricorda questi album (i primi due non disponibili in CD), quello del 1996 ancora in commercio, e stimolare gli amanti dei chitarristi, in possesso sia di una grande tecnica come di un notevole feeling, e con le giuste amicizie coltivate tra i colleghi nel corso degli anni.

Qui sopra, e a seguire, trovate un po’ di esempi della sua tecnica ineccepibile, che lo ha portato a pubblicare anche diversi CD e DVD didattici (e sia il nuovo album che la ristampa di quello con Levon Helm ospite dovrebbero contenere un DVD bonus, per quanto, temo, zona 1).

Ecco un estratto video della collaborazione con Sonny Landreth, tratta dal CD dove appaiono anche Helm e Bill Kirchen dei Commander Cody https://www.youtube.com/watch?v=MwVJV-0-0K0

Nonché presentazione video di Slide Guitar Summit e due anticipazioni audio dal nuovo album in uscita a settembre

Provare, o meglio, sentire per credere, questo signore è veramente un maestro della chitarra, purtroppo poco conosciuto se non dagli “iniziati”! Peccato che il tutto non sarà di facile reperibilità visto che esce, il 18 settembre, su etichetta Aquinnah (?!?). Ora comunque non avete più scuse, buona ricerca.

Bruno Conti

Slidin’ Blues At Its Best! Sonny Landreth – Bound By The Blues

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Sonny Landreth – Bound By The Blues – Provogue CD

Clyde Vernon Landreth, detto Sonny, è un musicista che nel corso della sua ormai più che quarantennale carriera non ha inciso molti dischi, ma quando lo ha fatto ha quasi sempre colpito nel segno: il suo ultimo lavoro, Elemental Journey (risalente a tre anni fa) è forse il meno brillante del lotto, ma in passato il nostro ci ha regalato vere proprie perle come Levee Town e The Road We’re On (i due che preferisco) ed ottime cose come Grant Street e quel South Of I-10 che nel 1995 lo fece uscire dal semi-anonimato nel quale viveva immeritatamente da anni. Landreth è un grande chitarrista, maestro della tecnica slide (in America, secondo il sottoscritto, inferiore solo a Ry Cooder, almeno tra i viventi) che negli anni è stato sempre molto richiesto anche sui dischi altrui: John Hiatt, uno che di chitarristi se ne intende, lo ha voluto come leader della sua band per ben tre dischi (Slow Turning, The Tiki Bar Is Open, Beneath This Gruff Exterior) e relative tournée.

Sonny è sempre stato avvicinato al genere blues, ma non è un bluesman canonico: nei suoi dischi infatti è sempre partito da una base blues, per poi rivestire le sue canzoni di influenze zydeco-cajun (è infatti soprannominato “il Re dello Slydeco”), country e rock’n’roll, una fusione di stili che è quasi d’obbligo per un musicista cresciuto in Louisiana sin da bambino (essendo nato in Mississippi, altro luogo dove il blues ce l’hai nel sangue). Quindi Landreth un vero disco tutto di blues non lo aveva mai fatto, almeno fino ad oggi: Bound By The Blues è infatti un excursus personale da parte di Sonny nel mondo delle dodici battute, un lavoro fatto con amore e passione esattamente bilanciato tra brani nuovi ed omaggi ai grandi che lo hanno influenzato.

Registrato e prodotto in maniera diretta e senza fronzoli (in trio: oltre a Sonny abbiamo David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria), Bound By The Blues non è quindi un esercizio scolastico fine a sé stesso, ma un vero e proprio Bignami lungo dieci brani nel quale Landreth esplora da par suo i meandri della musica del diavolo: il disco è suonato da Dio (e non c’erano dubbi), prodotto in maniera asciutta da Sonny stesso con Tony Daigle e cantato in maniera più che accettabile (e d’altronde la voce è sempre stato un po’ il tallone d’Achille del nostro, diciamo non altrettanto blues come le sue dita…), un album quindi che soddisferà pienamente sia i fans di Landreth che gli appassionati di blues, e che merita di essere messo a fianco, se non dei suoi lavori migliori in assoluto, sicuramente di quelli appena un gradino sotto (e dunque belli lo stesso).

Il disco si apre con la classica Walkin’ Blues (di Son House, ma resa celebre da Robert Johnson) ed è subito goduria, a partire dal colpo di batteria iniziale e fin dalle prime note di slide, un suono “grasso” che mette subito a suo agio l’ascoltatore, con Sonny che inizia a ricamare assoli. La title track è una rock song fluida e diretta, che ha sì il blues nei cromosomi ma si sviluppa in maniera non canonica, e Landreth alterna con maestria la slide acustica e quella elettrica; The High Side ha un suono paludoso, la sezione ritmica che pressa e Sonny che fa i numeri all’acustica, sopperendo ai suoi limiti vocali con massicce dosi di feeling. It Hurts Me Too è nota soprattutto per le versioni di Tampa Red ed Elmore James, ma l’hanno fatta in mille (tra cui Junior Wells, Eric Clapton, John Mayall, Bob Dylan, Grateful Dead), e qui non riserva grandissime sorprese, ma a me basta che il nostro trio suoni bene, e poi quando Sonny lascia scorrere le dita sul manico non ce n’è per nessuno; Where They Will è un’intrigante rock ballad, intensa e sinuosa, che a ben vedere non è neanche tanto blues (ha quasi un’atmosfera alla Chris Isaak), ma è comunque piacevole e, devo dirlo?, ben suonata.

Cherry Ball Blues, di Skip James (ma l’ha fatta anche Cooder) è tesa ed affilata, quasi più rock che blues, con il nostro che suona come se non ci fosse domani, lo strumentale Firebird Blues è un sentito omaggio al grande Johnny Winter, uno slow blues caldo e vibrante nel quale i tre musicisti danno prova di grande affiatamento: le casse del mio stereo quasi sudano … Dust My Broom (Robert Johnson, ma la versione “storica” è quella di Elmore James) è uno dei classici assoluti della musica del diavolo in generale, e della chitarra slide in particolare, e Sonny ci dà dentro di brutto, fornendo una prestazione da applausi, anche se qui più che mai si sente l’assenza di un vocalist adatto; chiudono il lavoro Key To The Highway (Big Bill Broonzy, ma tutti conoscono quella di Clapton), ripresa abbastanza fedelmente e con la consueta classe da Landreth (anche se verso la fine gigioneggia un po’ ma tenderei a perdonarlo …), e Simcoe Street, uno scatenato boogie strumentale dove tutti girano a mille.

Anche se non sarà un capolavoro, Bound By the Blues è un disco corroborante, che ci fa ritrovare il Sonny Landreth che conosciamo dopo il mezzo passo falso di Elemental Journey.

Marco Verdi

“Business As Usual” Per Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang

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Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang – Jazzhaus Records

L’unica cosa nuova in questo ennesimo album di Eric Sardinas è la casa discografica. Per il resto è “business as usual” per il chitarrista di Fort Lauderdale, Florida: stesso produttore dei dischi precedenti Matt Gruber, la band è sempre quella dei Big Motor, con Levell Price al basso e Bryan Keeling alla batteria, non cambiano neppure la grinta e la passione di Sardinas per quel Rockin’ Blues che lo ha portato ad essere indicato, da alcuni, come l’erede di Johnny Winter. Come al solito non manca neppure l’immancabile Resonator dal corpo d’acciaio, suonata con il bottleneck, mentre, per fortuna, rispetto al precedente Sticks And Stones, spariscono coretti femminili e tastiere, a parte in un brano, non malvagio peraltro anzi, Bad Boy Blues, dove sono suonate da Dave Schulz, e un bell’organo Hammond dà contegno ad un brano che si avvicina parecchio anche all’attitudine sonora del miglior Thorogood, altro praticante dello stile in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=UT5jFe94Cr4 . Dieci brani compatti e grintosi per 35 minuti di sano blues-rock dove il buon Eric si alterna tra i vari tipi di chitarre resofoniche, acustiche ed elettriche, come nell’iniziale Run Devil Run, dove la slide viaggia subito che è un piacere e il vocione di Sardinas rafforza questo déjà vu di un Winter resuscitato a nuova vita, anche se forse, anzi senza forse, Johnny Winter era pur sempre di un’altra categoria.

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Però il rock’n’roll di Boomerang, la canzone, è sempre poderoso come in passato, senza mettere troppo in primo piano il “tamarro” che si agita nel suo animo, o almeno solo la parte buona, quella che ama blues e R&R, e come dicono le note “Respect Tradition”! Ogni tanto gli piace lasciarsi andare e Tell Me You’re Mine è una costruzione quasi hendrixiana, con pedale wah-wah innestato a manetta, la solita bottleneck immancabile e chitarre ovunque, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui https://www.youtube.com/watch?v=qL8fIFd1Xmc . Nei primi dischi, come Treat Me Right e Devil’s Train probabilmente gli veniva meglio, o forse è solo un ricordo del vostro cronista, ma non credo, anche se non sono andato a risentirmi i vecchi dischi, la Alzheimer non ha ancora colpito. In Morning Glory si produce al dobro resonator acustico per un tuffo più consistente nella tradizione, detto di Bad Boy Blues, in fondo uno dei brani migliori, If You Don’t Love, con una bella intro acustica, ha la struttura di una sorta di ballata blues che si elettrifica comunque quasi subito, pur se ci sono tentativi di unire la melodia alla solita forza bruta, qualche coretto inconsueto e la solita ottima performance chitarristica.

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Trouble è proprio il vecchio brano di Elvis, scritto da Leiber & Stoller, uno dei rari blues del King Of Rock And Roll, e ad oltre 55 anni dalla sua prima apparizione fa ancora la sua porca figura, compresa la fantastica accelerazione finale che coincide con una esplosione solista segna dei migliori brani di Sardinas https://www.youtube.com/watch?v=pquPpp9-arA . Preso questo abbrivio R&R il nostro lo mantiene per una gagliarda Long Gone, niente di nuovo in vista, ma i Big Motor ci danno dentro di gusto e il buon Eric sembra più motivato che in altre occasioni. A riprova e a coronamento del tutto, da sentire una bella versione di quelle “cattive” del classico How Many More Years di Chester Burnett,  per tutti Howlin’ Wolf, meno dura di quella di Zeppelin e Co., ma sempre ad alta gradazione chitarristica, con la solista di nuovo in modalità wah-wah più slide, che picchia di gusto https://www.youtube.com/watch?v=D47RU3rF76s  (o con mancanza di gusto, a seconda dei punti di vista, soprattutto per i “puristi” che non amano troppo queste contaminazioni “selvagge ed esagerate”). A questi ultimi Eric Sardinas regala in conclusione una breve Heavy Loaded,con dobro acustico, kazoo e sezione ritmica minimale, quantomeno inconsueta.

Bruno Conti

Discepoli Winteriani. Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’

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Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’ – Zoho Music

Nella nostra ricerca geografica in giro per gli Stati Uniti, alla ricerca di gruppi che fanno Blues, mi sembra che dalle parti del Connecticut non fossimo ancora passati: o almeno di una band ivi residente, in quanto poi la Jay Willie Blues Band dichiara di fare Texas Blues, e da quello che si ascolta si potrebbe forse credergli, vista anche la presenza in formazione di Bobby T Torello, uno dei batteristi storici di Johnny Winter, aggiunta ad una certa qual venerazione per la musica di quest’ultimo. Rumblin’ And Slidin’ è il terzo album di questo quartetto  https://www.youtube.com/watch?v=Jkm5q6fNdrw che vede le due chitarre di Jay Willie, anche alla slide e Bob Callahan, alla guida delle operazioni e un paio di ospiti di qualità a dare man forte, l’ottimo Jason Ricci all’armonica in alcuni brani e Suzanne Vick che canta Fly Away, uno dei brani più noti di Edgar Winter https://www.youtube.com/watch?v=vcFNzuKsBHY .

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D’altronde un CD che parte con Rumble di Link Wray e si chiude con con For What It’s Worth di Stephen Stills, per definizione “dovrebbe” essere buono. Sono dieci brani, che spaziano in tutte le tematiche del Blues, quello “forte” e quattro bonus dal vivo poste in coda del dischetto. Loro lo hanno definito Texas Blues Music ma tra le influenze, oltre a Winter, citano anche la J Geils Band, Elvin Bishop, Canned Heat, Leslie West, che certo texani non sono, e tra i meno noti, James Montgomery e i Monkey Beat di Jim Suhler, oltre naturalmente ai grandi delle dodici battute, e per questo nelle note del libretto si parla anche di “electric post-Chicago rock-blues” (questa me la segno)! https://www.youtube.com/watch?v=3pTNhUvXUQA

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In effetti, ricorda Torello, Johnny Winter gli disse più volte che non era capace di suonare il blues e come il suo stile venisse più dagli Allman Brothers che dal blues classico, più che un rimprovero un complimento, a mio modo di vedere, ma sono punti di vista. La recente aggiunta alla formazione è il bassista Steve Clarke https://www.youtube.com/watch?v=T33kDhvoirs , uno che ha suonato con Mike Stern, Yellow Jackets, Tower of Power, e quindi aumenta la quota funky-fusion della band. Ma si nota poco, almeno a giudicare dall’iniziale cover di Rumble https://www.youtube.com/watch?v=4RQK6JSPISk , dove il turbolento drumming di Torello si scontra con la fluentissima armonica di Ricci, un vero virtuoso dello strumento, più dalle parti di John Popper che dei nomi classici, con le chitarre che si limitano ad una coloritura del brano. Ma già in Dirty la slide di Jay Willie cerca di farsi largo, in un brano che però non pare memorabile, tra voci filtrate ed accenni di rap, molto meglio una lunga versione di Key To The Highway, dove i duelli tra le chitarre e l’armonica sono più pertinenti al genere, anche se il problema è quello solito, né Willie Callahan hanno una gran voce, quindi il paragone con la J Geils Band, dove c’era Peter Wolf o i Canned Heat, con Bob Hite e Alan Wilson, è francamente improponibile, ma livello musicale parzialmente ci siamo https://www.youtube.com/watch?v=vnrm-I3H4o8 .

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In Bad News di Callahan, più sul R&R, si aggiunge il sax di Ted Stakush in sostituzione dell’armonica, mentre Rotten Person, scritta e cantata da Torello, vira verso il Sud con una bella slide, ma quando arriva qualcuno che ha una bella voce, come Suzanne Vick, si sente la differenza, nella piacevole ballata di Edgar Winter, Fly Away, con l’armonica di nuovo in bella evidenza, magari poco blues ma godibile, ancorché non memorabile. Altri due brani di Bob Callahan, Come Back, una blues ballad e il funky di The Leetch, si salvano grazie agli interventi dei solisti ma non brillano https://www.youtube.com/watch?v=3NMaw-xHBN8 , più vitale il classico It Hurts Me Too, in una versione che peraltro non entrerà negli annali della musica. Caballo, finalmente, è quel Texas rock-blues di cui tanto si era parlato, grintoso ed energico, come sono i quattro brani finali dal vivo, registrazione meno brillante ma il suono si fa più sporco e vitale, prima in Hold Me Tight Talk Dirty, con le chitarre finalmente fumiganti, in una ottimaTore Down https://www.youtube.com/watch?v=8vd0PgMREHU , nel classico Rhythm & Blues della Mercy, Mercy, Mercy scritta da Joe Zawinul per Cannonball Adderley e che si avvale del sax di Stakush, e nella citata canzone di Stills, più rock dell’originale, ma che non turberà i sonni dell’autore.

Bruno Conti

Anche Dopo La Sua Morte Prosegue Una Serie “Infinita”! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11

johnny winter live bootleg series vol.11

Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.11 – Friday Music

Johnny Winter ci ha lasciati il 16 luglio di questa estate non particolarmente calda, trovato senza vita nella sua camera d’albergo a Zurigo, in circostanze mai chiarite, due giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/07/17/ieri-oggi-sempre-fedele-true-to-the-blues-boxset-the-johnny-winter-story/ . Come sapete è uscito un nuovo (bellissimo) album di duetti, Step Back, la cui uscita era già comunque prevista, ma prima è stato pubblicato questo capitolo 11 delle Live Bootleg Series, croce e delizia degli appassionati della musica dello scomparso albino texano. Visto che caratteristica di questi album è sempre stata quella di non riportare nome dei musicisti impiegati e date e luoghi dei concerti da cui sono tratti i brani (e anche questo volume non fa eccezione), almeno ci si aspettava che Paul Nelson, curatore della serie, manager e factotum,  spesso secondo chitarrista nella sua band e “amico” di Winter, avrebbe almeno inserito sul CD un piccolo ricordo del musicista scomparso, ma evidentemente era troppo sperarlo. Qualcuno dirà che forse il disco era già pronto e non si potevano fare aggiunte, ma almeno un piccolo sticker avrebbe richiesto veramente poco, però da come è stata gestita la serie non dobbiamo poi meravigliarci troppo.

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I contenuti musicali di questo nuovo album sono i soliti: sei brani, sette se contiamo un Opening di pochi secondi, che a livello musicale vanno dal buono all’eccelso, anche se come qualità di registrazione, al solito, si fatica ad arrivare alla sufficienza, ma d’altronde di Bootleg si parla (anche se uno si chiede come mai i bootleg ufficiali di Dylan e di moltissimi altri si sentano benissimo, ma evidenetmente è una domanda retorica ). Ed in effetti il repertorio di questo disco, ribadisco, a livello musicale è eccellente: si va dall’introduzione fulminante di una poderosa E-Z Rider, quella incisa meglio, tratta dal repertorio di Taj Mahal, tra R&R e Blues, con la voce e la chitarra di Winter, anche con un wah-wah vagamente hendrixiano, subito in gran spolvero https://www.youtube.com/watch?v=8-XdsfGuZVw . Boot Hill, un traditional rivisitato che appariva sul disco Alligator del 1984, Guitar Slinger https://www.youtube.com/watch?v=hSY1MuA091A , non è tra i brani più eseguiti dal vivo nella discografia di Johnny Winter e quindi, in virtù di una ottima esecuzione, dove appare anche un pianista, naturalmente non accreditato (se siamo a metà anni ‘80, potrebbe essere Ken Saydak, ma tiro proprio a indovinare, potrebbe essere chiunque) si ascolta con piacere, anche se la qualità sonora subisce un drastico peggioramento. Notevole il festival slide in una versione fiume di Long Distance Call, uno dei tre brani provenienti dal repertorio del suo mito Muddy Waters.

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Ottima anche la versione di Baby What’s Wrong di un altro dei maestri indiscussi del Blues, Jimmy Reed, dove si sente anche un’armonica, sempre in base al periodo ipotizzo un Billy Branch, non sarà lui ma la butto lì. Non male, per usare un eufemismo, pure una calda e sentita rilettura di She Moves Me, sempre di Mastro Muddy e torrida ed entusiasmante la Rollin’ And Tumblin’ che va a concludere il dischetto, con la chitarra devastante di Winter ancora in modalità slide, come nel brano precedente, a duettare con la solita “timida” armonica sepolta nel mixaggio confuso del disco. Come dice un proverbio “chi si accontenta gode” e qui, almeno a livello vocale e chitarristico, c’è da godersi ancora una volta uno dei più grandi musicisti bianchi che abbia mai suonato il Blues!

Bruno Conti

E’ Gia Partita La Grande Jam In Cielo? E’ Scomparso Johnny Winter, Aveva 70 Anni

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Se ne è andato ieri a Zurigo John Dawson Winter III, Johnny Winter per tutti, nella sua camera di albergo o in una clinica, non è chiaro, come non sono certe le circostanze della sua morte. A darne notizia sarebbe stata Jenna Derringer, la moglie del suo collaboratore di lunga militanza Rick. Non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale per chiarire le cause del decesso. Quello che è certo è che Johnny Winter, da moltissimo tempo, dall’inizio degli anni ’90, non godeva più di buona salute: dopo essersi liberato da una lunghissima dipendenza dalle droghe, ex eroinomane e tossicodipendente, con il vizio dell’alcol e degli antidepressivi, Winter le aveva proprio tutte, ma testardamente, per virtù o per necessità, negli ultimi dieci anni della sua vita sotto la guida di Paul Nelson, chitarrista e manager, continuava la sua carriera di performer e musicista. Il suo ultimo concerto dovrebbe essere avvenuto il 14 luglio al Cahors Blues Festival in Francia, era stato anche in Italia, a maggio, per tre date, ed erano già previste altre date per un tour nordamericano, come pure la pubblicazione del nuovo disco Step Back, la cui uscita era annunciata per il prossimo 2 settembre e dovrebbe rimanere l’unica cosa certa, purtroppo, per il futuro.

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Step Back Track Listing

1. Unchain My Heart – Johnny Winter
2. Can’t Hold Out (Talk To Me Baby) – Johnny Winter with Ben Harper
3. Don’t Want No Woman – Johnny Winter with Eric Clapton
4. Killing Floor – Johnny Winter with Paul Nelson
5. Who Do You Love – Johnny Winter
6. Okie Dokie Stomp – Johnny Winter with Brian Setzer
7. Where Can You Be – Johnny Winter with Billy Gibbons
8. Sweet Sixteen – Johnny Winter with Joe Bonamassa
9. Death Letter -Johnny Winter
10. My Babe – Johnny Winter with Jason Ricci
11. Long Tall Sally – Johnny Winter with Leslie West
12. Mojo Hand – Johnny Winter with Joe Perry
13. Blue Monday – Johnny Winter with Dr. John

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Nel frattempo, come memento per ricordare quello che è stato uno dei più grandi chitarristi che la storia del blues e del rock ricordino, (ri) pubblico la recensione che gli avevo dedicato in occasione dell’uscita del bellissimo cofanetto commemorativo (in tutti i sensi) True To The Blues: The Johnny Winter Story, pubblicato lo scorso febbraio, in occasione del suo 70° compleanno.

Forse è già partita una lunghissima jam lassù nel cielo dei grandi musicisti, con i due musicisti effigiati in apertura del Post e con tanti altri che hanno condiviso con lui i palchi dei concerti, in giro per tutto il mondo!

R.I.P. John Dawson Winter (Beaumont, Texas 23 Febbraio 1944 – Zurigo, Svizzera 16 Luglio 2014).

Ieri, Oggi E Sempre! True To The Blues: The Johnny Winter Story

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Johnny Winter – True To The Blues: The Johnny Winter Story – 4 CD Sony Music/Legacy 25-02-2014

John Dawson Winter III, come recitava il titolo di un suo disco degli anni ’70, ma Johnny Winter per tutti, è uno dei più grandi chitarristi della storia del Blues (e non solo), bianchi o neri non fa differenza, punto! E per lui, che è più bianco del bianco, albino si dice, essere considerato alla stessa stregua di quelli che erano stati gli eroi della sua gioventù, da Robert Johnson a T-Bone Walker, passando per Elmore James, Hubert Sumlin e nel R&R Chuck Berry, per non parlare di Muddy Waters, credo che sia stato un onore non trascurabile. Si diceva albino, texano, un mare di tatuaggi, non necessariamente nell’ordine, “scoperto” da Michael Bloomfield (di cui in questi giorni esce un altrettanto bel cofanetto) nel dicembre del 1968, quando lo introdusse al grande pubblico del Fillmore East di New York, in una delle date del Super Session Tour con Al Kooper, lo stesso che aveva fatto conoscere anche Carlos Santana http://www.youtube.com/watch?v=5zECNsIeH9g .

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Ma già una piccola leggenda a livello locale, per i concerti e per il fatto di avere inciso il suo primo album, che fin dal titolo metteva le cose bene in chiaro, The Progressive Blues Experiment (anche se poi era una accozzaglia di materiale inciso per vari singoli) poi pubblicato a livello nazionale dalla Liberty nel 1969, lo stesso anno in cui usciva il suo primo omonimo album per la Columbia, in conseguenza di un contratto per cui Winter aveva ricevuto un assegno in anticipo di sei cifre (600.000 dollari), che per quegli anni era qualcosa di inimmaginabile http://www.youtube.com/watch?v=FrQeIJm41dk .

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Il 1969 è un anno magico per Johnny Winter, oltre a Johnny Winter esce Second Winter, uno strano disco inciso su tre facciate, che è ancora migliore del primo, e, soprattutto c’è la partecipazione al festival di Woodstock, dove però il nostro Johnny non è inserito né nel film, né nella colonna sonora tripla del film e neppure in Woodstock 2, il doppio postumo uscito nel 1971. E sì che Winter suonò la domenica notte, prima di CSN&Y, in uno dei momenti topici della manifestazione http://www.youtube.com/watch?v=M6kPQLLLYAc .

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Per sentire due brani della sua esibizione abbiamo dovuto aspettare l’edizione sestupla della colonna sonora, pubblicata per i 40 anni, oppure l’eccellente doppio Woodstock Experience, uscito sempre nel 2009 per la Sony Legacy, che riporta l’esibizione completa. Al tempo Winter girava con il suo trio, dove c’erano Tommy Shannon al basso (poi anche con Stevie Ray Vaughan, uno dei suoi “discepoli”) e Uncle John (Red) Turner, presenti pure nei due album di studio http://www.youtube.com/watch?v=ULB4QQ9vvko  e invece al 2° Atlanta International Pop Festival del 1970, che si tenne nel luglio di quell’anno, esordirono i Johnny Winter And con Rick Derringer alla seconda solista. Proprio da quella esibizione vengono le tre chicche di questo cofanetto: un brano, Mean Mistreater, che uscì nel triplo vinile, The First Great Rock Festivals Of The Seventies – Isle Of Wight/Atlanta Pop, mai pubblicato su CD e due completamente inediti, Eyesight ToThe Blind (popolarissima in quel periodo, perché appariva in Tommy degli Who, anche se era riportata, all’inizio, come The Hawker) e Prodigal Son, due, anzi tre, grandissimi brani dal vivo che però non so se giustificano completamente l’acquisto di questo cofanetto per chi ha già tutto di Winter. E’ per questo che in un giudizio sul cofanetto meriterebbe cinque stellette per il contenuto musicale e  quattro perché ci si sarebbe aspettato qualcosa di più a livello di materiale inedito, possibile che non ci fosse altro? Comunque il cofanetto è imperdibile in ogni caso.

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Fine della digressione, riprendiamo la disamina dei contenuti. Anzi, prima parliamo brevemente della qualità sonora, che mi sembra decisamente ottima e della scelta dei brani, pure questa molto oculata. I primi due CD sono ovviamente i migliori, si va, in ordine cronologico, dal blues acustico dell’iniziale Bad Luck And Trouble, dove Winter, è all’acustica con bottleneck, accompagnato da un mandolino e da una armonica, si passa alle prime sventagliate slide di R&R e boogie texano con una gagliarda Mean Town Blues, poi è subito tempo per una fantastica jam dal repertorio di BB King con una It’s My Own Fault, tratta dal concerto al Fillmore citato prima, uno slow blues di una intensità inusitata e con il texano già ai vertici della sua arte chitarristica, formidabile.

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Pubblicato su CD solo nel 2003 nei Lost Tapes di Bloomfield & Kooper. Dal debutto CBS troviamo I’m Yours and I’m Hers, Mean Mistreater con Willie Dixon e Walter “Shakey” Horton, un po’ grezza a livello tecnico, Dallas, un altro blues acustico e Be Careful With A Fool, altro lento di quelli torridi, degno della sua fama; Leland Mississippi Blues viene da Woodstock, forse non la scelta migliore da quella serata, ma evidentemente è per evitare di duplicare troppe volte gli stessi brani. Da Second Winter cominciano ad arrivare i primi capolavori: Memory Pain ricorda il suono dei Cream mentre Highway 61 Revisited viene considerata, a ragione (con All Along The Watchtower di Hendrix), tra le più belle cover mai fatte di un brano di Bob Dylan, con la sua incredibile slide galoppante contribuisce a creare la leggenda di questo grande musicista texano http://www.youtube.com/watch?v=hPnGXTIQHZw , Miss Ann, con i fiati, attinge da Little Richard, mentre Hustled Town In Texas è un rock-blues di quelli tosti. Dalla versione doppia edita dalla Legacy sono tratti due brani registrati dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra nel 1970, entrambi fantastici, una Black Cat Bone che avrebbe fatto felice il maestro Elmore James e la prima di una serie interminabile di versioni di Johnny Be Goode, vero cavallo di battaglia di Johnny, che la fa come nessuno al mondo http://www.youtube.com/watch?v=lUGgXvhLKE4 .

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I primi tre brani del secondo CD nel Box sono quelli tratti dal concerto ad Atlanta del 1970, Eyesight To The Blind, a velocità supersonica, Prodigal Son e Mean Mistreater assai più tosta della versione in studio. Da Johnny Winter And vengono Rock and Roll Hoochie Koo, altro classico della band, Guess I’ll Go Away, quasi hendrixiana nella sua costruzione e On The Limb, cantata con Derringer, di cui non si sentiva particolarmente la mancanza. Da Johnny Winter And Live non si può fare a meno di nulla, qui ci sono 4 brani, ma il disco è uno dei più bei dischi della storia del rock e del blues, quindi è fondamentale averlo, comunque nel cofanetto si trovano It’s My Own Fault, Jumpin’ Jack Flash fatta quasi meglio degli Stones http://www.youtube.com/watch?v=wQPlU5q1CBI , Good Morning Little School Girl http://www.youtube.com/watch?v=10G7rV0xYvM  e una versione “diabolica” di Mean Town Blues, che è un festival della slide.

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Da Still Alive And Well, forse l’ultimo grande album di studio, vengono la title-track, Rock Me Baby, altra grande rilettura di un brano di BB King, fatta sempre a velocità di crociera winteriana http://www.youtube.com/watch?v=Q0NBnClUEDA  e Rock and Roll, omonima solo nel titolo di quella degli Zeppelin, ma altrettanto feroce. Proseguendo con il terzo CD troviamo tre brani da Saints And Sinners che introduce un sound più rock e commerciale, ma non è poi malvagio, come Rollin’ ‘Cross The Country, la fiatistica Hurtin’ So Bad e la funky Bad Luck Situation stanno a testimoniare. Tre anche da John Dawson Winter III, pubblicato l’anno prima nel 1974, Self Destructive Blues, che illustra forse anche la situazione di vita del nostro amico in quel periodo, Sweet Papa John, un classico blues elettrico e Rock and Roll People (scritta da John Lennon e apparsa postuma su Menlove Ave.), omaggio all’altro amore di Winter http://www.youtube.com/watch?v=GoaK6hEKh_A .

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Dal violentissimo Live con il fratello Edgar, Together, viene una Harlem Shuffle di buona qualità, mentre dall’altrettanto tirato (ed esagerato) Captured Live sono estratte Bonie Moronie http://www.youtube.com/watch?v=6Q1o5uuw6ag  e Roll With Me. Tired Of Trying e TV Mama vengono dal disco che segna il ritorno alle origini, Nothing But The Blues, preludio alle collaborazioni con Muddy Waters (e la sua band) qui riprese in”Walkin’ Thru’ The Park (con James Cotton all’armonica) e nella rara Done Got Over, registrata dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=CmnT8gcljXo .

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Ci sono ancora tre pezzi per album (forse troppi) dagli ultimi due dischi per la Blue Sky/Cbs, White, Hot And Blue e Raisin’ Cain (tra cui una strana, per Winter, Bon Ton Roulet). Rimangono un brano a testa dai tre bellissimi album per la Alligator, più volte nominati per il Grammy, una Stranger Blues, tratta dalla “misteriosa” Live Bootleg Series, vol.3 (e però giunta al volume 10), di cui nemmeno i compilatori di questo cofanetto sono stati in grado di risalire alla provenienza, indicando un generico “registrato nei tardi anni ‘80”! Rimangono Illustrated Man (altro brano autobiografico) con Dr.John e tratto da Let Me In uscito per la Point Blank nel 1991. Hard Way (notevolissima) da Hey Where’s Your Brother dell’anno successivo e, dal concerto del 1993 al Madison Square in onore del “bardo”  Bob Dylan – The 30th Anniversary Concert Celebration, una fenomenale versione dal vivo di Highway 61 Revisited.

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Infine da Roots, l’ultimo grande disco di studio uscito per la Megaforce nel 2011, i duetti con Vince Gill in Maybellene e Derek Trucks in Dust My Broom http://www.youtube.com/watch?v=VIpmUroL2D4 , quasi a chiudere al cerchio. Lo danno per morto da anni, ma anche lui il 23 febbraio del 2014 festeggerà il suo 70° compleanno e due giorni dopo uscirà questo stupendo cofanetto. Poche parole per concludere, il resto l’ho detto prima: “mano ai portafogli”!

Bruno Conti

Chi E’ Costui? Non Un Carneade Qualsiasi! Paul Filipowicz – Saints And Sinners

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Paul Filipowicz – Saints And Sinners – Big Jake Records ***

In questo caso un bel “Ma chi è costui?” mi scappa proprio! Soprattutto nella scena americana del Blues e dintorni ci sono decine, centinaia, forse migliaia di musicisti che onestamente tirano la carretta con la loro musica e non più del 10%, a voler essere ottimisti, riesce a varcare, a livello di fama, i confini degli Stati Uniti. Localmente ci sono personaggi conosciuti nella regione dove operano quando non nella contea o nell’area metropolitana e, diciamocelo, francamente, di molti di questi bluesmen non è che sia imprescindibile avere contezza. Prendiamo questo Paul Filipowicz che ho appena finito di distruggere a livello virtuale, la sua area di azione è nella zona di Madison, la capitale del Wisconsin (anche se è nativo di Chicago, e questo gli fa guadagnare punti), che non pare avere regalato alla musica nomi che rimarranno imperituri nella storia: ricordo solo Ben Sidran e Clyde Stubblefield (il famoso “funky drummer” di James Brown, una bella foto dei due insieme c’è comunque), figuriamoci gli altri.

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In effetti in città operavano anche Butch Vig e i suoi Garbage che avevano pure un famoso studio di registrazione in loco, ma ha chiuso nel 2010. E quindi? Niente! Era solo per dire che questo ex giovanotto (è del 1950, 64 anni fra poco), pur non provenendo da zone geografiche dove il Blues vive e prospera, è un buon musicista, ottimo chitarrista, ben addentro al classico Chicago sound, ma con abbondanti spruzzate di rock, e se vince premi a raffica in ambito locale un motivo ci sarà. Con sei album alle spalle, più questo nuovo Saints And Sinners (ma non era di Johnny Winter?), il precedente Chickenwire, un Live del 2007, il migliore; il buon Paul ha iniziato la sua carriera discografica abbastanza tardi, nel 1996, ma era in pista e sui palchi già dagli anni ’70 http://www.youtube.com/watch?v=It2YDncd3-s .

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E tra l’altro, astutamente, alcuni brani, tre, che aveva inciso nel 1982, ma non erano mai stati pubblicati, vedono la luce come bonus del suo nuovo CD. Ma , questo è “repertorio” classico, una domanda sorge spontanea: è bravo? Sì, direi più della media di molti dischetti che ultimamente mi capita di recensire e mi sembrano indirizzati verso un pubblico di già convertiti alle 12 battute classiche, anche piuttosto stancamente. Nel caso di Filipowicz mi pare che ci sia qualcosa in più: la chitarra inizia a “imperversare” dall’apertura con l’ottimo strumentale Hound Dog Shuffle, dove la solista ha una grinta rock che si associa agli axemen più tosti, un sound che il suo vecchio datore di lavoro Luther Allison avrebbe sicuramente apprezzato, ma anche gente come Stevie Ray Vaughan o Buchanan e il Clapton più attizzato. Impressione confermata dall’ottima Bluesman, con la sezione ritmica che pompa di gusto, Jimmy Voegell a piano e organo supporta benissimo la chitarra che continua a fare sfracelli, peccato che il brano venga sfumato brutalmente. Devo dire che Paul Filipowicz, pur non essendo un cantante formidabile, a livello di foga e di grinta ci mette del suo, come conferma il tiratissimo slow blues Your True Lovin’ che potrebbe ricordare gente come il Bugs Henderson del periodo migliore o lo stesso SRV citato prima, Texas blues rock della più bell’acqua, veramente notevole. Hootin’ & Hollerin’ ha qualcosa del bayou rock dei Creedence, alla Suzie Q, ma anche degli Humble Pie dei tempi che furono, la chitarra viaggia alla grande nei quasi 6 minuti del brano e il pianino di Harris Lemberg, l’altro tastierista che si alterna con Voegell, fa il suo dovere pienamente http://www.youtube.com/watch?v=H9B_udZaH04 .

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Good Rockin’ ha uno spirito R&R mutuato dal Johnny Winter di And Live o dall’Alvin Lee delle esibizioni live; “Fat Richards Blues” è uno slow dedicato a Richard Drake, il sassofonista che suonava con lui ad inizio carriera (appare nei brani registrati nell’82) ed è uno strumentale degno del miglior Roy Buchanan, mentre Where The Blues Come From è un’altra “schioppettata” di pura energia chitarristica. Everyday, Everynight ci riporta al blues più sanguigno e genuino, meno di tre minuti ma vissuti intensamente e Hey Bossman, che conclude l’album ufficiale, è un boogie in tutto degno delle migliori cose di ZZ Top o Thorogood, micidiale. In conclusione le bonus del 1982, registrazione un po’ “primitiva”, sempre parecchia grinta ma senza la classe acquisita negli anni: una cover di un classico del funky come Back Door Santa di Clarence Carter http://www.youtube.com/watch?v=zaS3OeTdQ58  e una di How Many More Years di Chester Burnett a.k.a. Howlin’ Wolf, che se non ha la virulenza di quella dei Led Zeppelin, cionondimeno mostra un talento della chitarra già in fase di formazione. Non so dove sia stato “costui” per tutti questi anni, ma ora è veramente bravo, un “Carneade” assolutamente consigliato: il CD è in giro da un annetto, non si trova con facilità ma vale la pena di cercarlo!                

Bruno Conti

Suoni Di Casa (Di Tab Benoit) E Tanta Slide, Ma Non Solo! Damon Fowler – Sounds Of Home

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Damon Fowler – Sounds Of Home – Blind Pig/IRD

Molti sono convinti che questo sia il terzo album di Damon Fowler, al limite il quarto, contando anche il CD dei Southern Hospitality (con Jp Soars e Victor Wainwright), ed in effetti è vero, ma solo contando la produzione con l’etichetta Blind Pig.

Risalendo nel passato, il musicista di Brandon, Florida (un paesino nei pressi di Tampa Bay, quasi una “istigazione” giovanile al Blues), aveva già pubblicato tre dischetti, tra cui un live, usciti con distribuzione indipendente, a cavallo della scorsa decade, o dello scorso secolo se preferite. Gli ultimi tre sono notevolissimi, di Sounds At Home ci occupiamo immediatamente, e lo confermano uno dei massimi talenti emergenti del nuovo blues, come chitarrista, soprattutto alla slide, dove è veramente letale , e come cantante, con una voce che è una via di mezzo tra uno Steve Marriott, un filo meno potente, e un vecchio cantante soul (che sono quasi la stessa cosa)! Se poi aggiungiamo che la produzione del nuovo album è affidata a Tab Benoit (che scrive quattro pezzi con Fowler, e canta e suona, con discrezione, nel disco) il risultato è pressoché matematico: gran bel disco, con un sound da sballo.

Registrato nei Whiskey Bayou Studios (un nome, un programma) di Houma, Lousiana, di proprietà di Benoit, il disco è un’ode alla buona musica, principalmente blues, ma non solo. Grande chitarrista slide , anche se non forse della scuola virtuosistica alla Derek Trucks o Sonny Landreth, o di quella più rigorosa ma immaginifica di un Ry Cooder (a cui mi pare più vicino), senza dimenticare Winter, il nostro Damon si disbriga bene anche con le accordature tradizionali, per quanto con un tipo di suono un po’ sghembo, aspro, molto ritmico, comunque trascinante. Prendete l’iniziale Thought I Had It All, con il bottleneck che inizia a scivolare quasi con libidine sul manico della chitarra e Fowler che canta con una voce tiratissima e “cattiva”, come quella che aveva il giovane Marriott o altri giovani bianchi che si sono cimentati con il blues-rock nel corso degli anni: l’atmosfera è sospesa e minacciosa, la sezione ritmica scandisce il tempo con grande perizia e il brano, e il disco, prendono subito quota, con l’assolo nella parte centrale che è veramente letale.

E siamo solo al primo brano. Il secondo, scritto con Tab Benoit, e che è quello che dà il titolo all’album, Sounds Of Home, ci porta dalle parti delle paludi della Lousiana, dove ci aspetta un personaggio pittoresco, ma di grande carisma come Big Chief Monk Boudreaux, che con il suo vocione vissuto aiuta il “giovane” Damon a spargere il seme del blues, del rock e della bayou music dei vecchi Creedence più ingrifati di Fogerty, con la giusta grinta, gustosissimo il breve ed intricato solo nella parte finale. Trouble, scritta ancora con Benoit, ed Ed Wright, che aveva firmato anche il brano iniziale, è una sinuosa e sensuale ode al funky-soul più genuino, con un groove della sezione ritmica che spinge il piedino irresistibilmente a muoversi e lui che canta divinamente, mentre si occupa con amore della sua chitarra, titillata quasi con piacere, che meraviglia! Spark sfodera ritmi quasi da R&R e con un pizzico dello Springsteen più gioioso (sto dando i numeri?), ma ancora anche tanto Fogerty, e i due qualche punto in comune ce l’hanno. Old Fools, Bar Stools And Me (bel titolo) è uno slow blues & soul, molto cadenzato, quasi attendista, ma aspetta che ti aspetta, quando parte l’assolo ti stende al tappeto sotto lo sgabello del bar. Where I Belong avrebbe potuta suonarla Ry Cooder nei suoi dischi degli anni ’70, quelli del blues alle radici della musica, un train sonoro semplice e una slide misurata, ma sempre in grado di fare i numeri, con Benoit che lo aiuta alla ritmica acustica.

Grit My Teeth, a tempo di boogie Fowler si misura con ZZ Top o Thorogood, con la chitarra che va quasi subito in overdrive nell’altra galassia. A questo punto così ti va a pensare quel geniaccio del Damon? Una bella cover di Alison di tale Declan Patrick McManus, per la mamma, Elvis Costello per tutti gli altri, che viene “soulificata” (se si può dire, non credo, ma ormai l’ho scritto) e trasportata nel Sud degli Stati Uniti, dalle parti di Memphis o Muscle Shoals, con tanto di assolo come quelli che faceva Duane Allman nei singoli Stax od Atlantic https://www.youtube.com/watch?v=SFmA4BqrmbU  e potrebbe fare adesso il suo erede Derek Trucks, bellissimo! In Tv Mama Damon Fowler si cimenta con il repertorio di uno dei maestri della slide, Johnny Winter, e il risultato è quasi un pari, e qui si viaggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=S60cGLAz5s0. Per completare lo spettro delle influenze c’è anche una Do It For The Love che è una ballata “country got soul” con Tab Benoit impegnato alla pedal steel. E per finire la cover di un traditional come I Shall Not Be Moved, che parte all’incirca a tempo di ragtime e diventa un gospel, ancora quasi cooderiano nei suoi sviluppi. Consigliato, questo è uno bravo!

Bruno Conti