E’ Questo Il Roger Waters Che Veramente Vogliamo? Si Direbbe Di Sì! Roger Waters – Is This The Life We Really Want?

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Roger Waters – Is This The Life We Really Want? – Columbia/Sony

*NDB Questa è la recensione dell’album che potete leggere anche sul numero di Giugno del Buscadero, dove tra l’altro, per un refuso, è apparsa pure priva della mia firma: visto che però era stata fatta, come è riportato all’interno della stessa, solo dopo un unico veloce ascolto blindato, circa due mesi prima dell’uscita, pensavo di aggiungere ulteriori considerazioni sul disco, ma, ripensandoci e rileggendolo, quello riportato qui sotto mi pare congruo e quindi rimango fedele alla mia prima stesura, solo con qualche piccolo aggiustamento, buona lettura.

25 anni dall’ultimo album di studio non sono proprio bruscolini. Praticamente è lo stesso lasso di tempo di tutta la sua precedente carriera discografica, iniziata con i Pink Floyd nel lontano 1967. E’ vero che in tutti questi anni, dall’uscita di Amused To Death, Roger Waters non è rimasto esattamente con le mani in mano: però, se devo essere sincero, l’opera lirica in francese Ça Ira non era proprio il massimo della vita, e comunque in quel caso era solo l’autore delle musiche. Per il resto sono usciti un Live nel 2000, In The Flesh, relativo al tour dell’epoca, e un Roger Waters: The Wall nel 2015, sempre dal vivo, in vari formati, e basato sul lungo tour tenuto dal 2010 al 2013. In mezzo c’era stata l’antologia Flickering Flame (con degli “inediti”) nel 2002, la reunion ottima  e una tantum con gli altri Floyd per il Live Aid, le partecipazioni al Coachella Festival e al Live Earth nel 2008 e prima il Dark Side Of the Moon Live Tour. A memoria, e alla rinfusa, ricordo anche una nuova versione di We Shall Overcome di Pete Seeger, un’altra rimpatriata con Gilmour e Mason nel 2011 all’O2 Arena, il Concert for Sandy Relief del 2012, la partecipazione al Tributo per Levon Helm, con i My Morning Jacket, replicata al Newport Folk Festival nel 2015, e con quella al Desert Trip (una costola del Coachella) dove lo scorso ottobre ha sbeffeggiato l’amato Trump, non ancora eletto, sulle note di Pigs, e con tanto di maiale volante. E penso possa bastare. Era solo per rimarcare che non è mai stato fermo in questi anni.

Quindi quando, all’inizio di aprile, mi è stato detto se volevo partecipare ad uno di quegli ascolti “blindati”, dove devi firmare con il sangue il tuo impegno a non divulgare nulla di quanto ascoltato (scherzo, ma non troppo), mi sono detto, perché no? E’ ovvio che un solo ascolto, per quanto con una qualità sonora eccellente, in uno studio di registrazione, con la presenza del manager che ti incombe alle spalle, non è l’ideale per “capire” un album, ma la prima impressione è stata molto buona. E lo dice uno che non ama molto il Roger Waters della carriera solista (ebbene sì lo ammetto, ero andato con una predisposizione d’animo abbastanza negativa, benché, spero, professionale), ma sono stato smentito, perché poi l’album mi è sembrato decisamente buono. Non sarà forse un capolavoro assoluto, ma mi sembra un disco organico, prodotto in modo ottimale da Nigel Godrich (quello dei Radiohead) che ha svolto un eccellente lavoro di tessitura del suono, già nella fase di pre-impostazione del disco, dove l’incazzoso Roger (è il suo carattere) ha dovuto questa volta delegare l’intera produzione nelle mani del produttore inglese, e anche le scelte di Joey Waronker alla batteria, e soprattutto Jonathan Wilson, alle chitarre e tastiere (una sorta di spirito affine ai Pink Floyd), sono parse azzeccate, già sulla carta, prima ancora di ascoltare il disco.

Per il sound e l’assieme del disco si era parlato pure di affinità con Animals e The Wall, ma a parere del sottoscritto (e credo non solo mio) mi sembra che si ritorni addirittura verso un approccio alla Dark Side Of The Moon o Wish You Were Here, con alcune citazioni di vecchi titoli di brani all’interno dei testi delle nuove canzoni, e pure nella costruzione della sequenza sonora ci sono analogie: l’apertura per esempio di When We Were Young, che è un classico collage alla Dark Side, con effetti sonori, passi, rumori, voci campionate, penso anche di The Donald, sveglie che ticchettano, ricorda qualcosa? Ma avendole scritte lui queste partiture, ovviamente può autocitarsi. Poi l’album scorre con belle sonorità: molte tastiere, ma usate in modo proficuo e non eccessivamente “moderno” o elettronico (alla Pink Floyd quindi), oltre a Wilson, alle tastiere Roger Manning dei Jellyfish e Lee Pardini dei Dawes (quindi quella California che oltre al West Coast sound ha sempre guardato con amore ai Pink Floyd), nonché Gus Seyffert, bassista, chitarrista, tastierista aggiunto e anche lui produttore (gli Spain di recente, ma come musicista appare in moltissimi dischi), e infine le due Lucius, Jessica Wolfe e Holly Laessig, alle armonie vocali, già con lui a Newport e al Desert Trip, e che fanno di nuovo, quando impiegate, un effetto molto Dark Side Of The Moon. Una canzone come Déjà Vu, che all’inizio doveva chiamarsi If I Had Been God (per fortuna Waters Dio non lo è davvero, sarebbe molto vendicativo, ma comunque nel testo del brano è rimasto) avrebbe fatto un figurone anche su Wish You Were, una ballata che parte con una chitarra acustica e poi si sviluppa in modo avvolgente e classico, con un bel crescendo e gli strumenti che entrano mano a mano, piano, tastiere, gli archi, la batteria, con Waters che canta veramente bene: al di là del testo “importante” il brano è veramente bello, anche gli inserti (sound collages) di Godrich sono molto pertinenti, come pure il corredo vocale delle Lucius è affascinante.

Come dissi a Mark Fenwick, il manager di Waters presente all’anteprima, se la domanda fosse stata “Is This The Roger Waters We Really Want?”, la risposta sarebbe stata era un bel sì! Rispetto agli altri dischi solisti (non Radio Kaos, che secondo me era veramente “bruttarello”, pure la copertina, e nel nuovo disco la copertina mi pare l’unica cosa non memorabile) di Waters, dove uno dei fattori principali erano gli assoli di chitarra di Eric Clapton in Pros & Cons e di Jeff Beck, in Amused To Death, Jonathan Wilson, che è comunque un eccellente chitarrista, viene utilizzato in un modo più fine, sottile, da tessitore, meno in primo piano, e anche se gli assoli, quando ci sono, sono pochi e brevi, comunque la presenza delle chitarre è sempre fondamentale nel sound; come ad esempio nel singolo Smell The Roses, un classico midtempo sincopato con un bel groove di basso, la voce parzialmente filtrata, l’intermezzo “rumoristico” quasi immancabile che lega il passato al presente e infine un breve solo sognante di Wilson,  in modalità slide, molto pinkfloydiano. Altrove ci sono anche brani più complessi e decisamente rock, come la title track, ma pure canzoni d’amore intime come The Most Beautiful Girl o la pianistica Wait For Her, ispirata dalle lezioni del Kama Sutra, con il suo seguito ideale, l’intensa Part Of Me Died  Ovviamente non mancano un paio di citazioni per Trump, dirette, quando viene definito un nincompoop (che sarebbe uno sciocco o uno stupido, dottamente dal latino “non compos mentis”), nella title track o altrove indirettamente, credo, quando viene detto che siamo guidati da leader “senza un fottuto cervello”, in Picture That!

Non si può forse sempre condividere tutto quello che pensa o scrive Waters (e lui non è comunque simpaticissimo, per usare un eufemismo), ma la  sua visione di un mondo futuro (e presente) fatto solo di ossa spezzate, Broken Bones, e poco altro, o dove i rifugiati non sono molto amati, The Last Refugee, sono inquietanti e si possono condividere sicuramente. Non essendo questo comunque un lungo trattato, ma una recensione fatta di impressioni immediate, soprattutto a livello musicale, il disco, lo ripeto, mi sembra che scorra liscio e composito nel suo divenire, con una unitarietà di fondo fornita dalla produzione di Godrich, e nei suoi circa 55 minuti si ascolta più che volentieri, soprattutto a volumi sostenuti, magari in uno studio di registrazione, ma va bene anche a casa vostra! Un bel disco insomma, che sarà seguito dall’Us And Them tour che parte a fine maggio negli Stati Uniti e arriverà l’anno prossimo in Europa e in Italia probabilmente ad Aprile del 2018.

Bruno Conti

*NDB Se il counter del Blog non ha dato i numeri, questo è il Post n° 3000!

Se Lo Dicono Tutti Sarà Veramente Così Bello? Questa Volta Direi Proprio Di Sì! Conor Oberst – Salutations

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Conor Oberst – Salutations – Nonensuch/Warner

Come sapete al sottoscritto non piace uniformarsi per forza ai giudizi critici (che comunque leggo per documentarmi) relativi ai nuovi dischi in uscita: preferisco sempre adottare l’infallibile metodo “San Tommaso”, o se preferite Guido Angeli, ovvero provare per credere, anzi meglio, ascoltare per credere. E quindi, se posso, compatibilmente con le qualità industriali di dischi che “devo” sentire ogni mese, cerco di ascoltare gli album che per vari motivi hanno stuzzicato la mia curiosità, anche se poi non sempre riesco a scrivere il resoconto delle mie impressioni: ma questa volta, come dico nel titolo, sì! Perché l’album in questione, nello specifico parliamo del nuovo Salutations, a firma Conor Oberst, mi pare proprio un ottimo album. Disco che nasce sulla scia della prova acustica Ruminations, pubblicata solo alcuni mesi or sono e che che conteneva dieci delle canzoni ora riproposte in versione elettrica nel CD, con l’aiuto del grande batterista Jim Keltner, che ha curato anche la co-produzione dell’album insieme a Oberst, e alla band roots-rock dei Felice Brothers, veri spiriti affini di Conor e di cui l’estate scorsa vi avevo segnalato l’eccellente Life In The Dark, un piccolo gioiellino http://discoclub.myblog.it/2016/07/06/antico-dylaniano-sempre-gradevole-felice-brothers-life-the-dark/, che si muoveva, come questo, su territori cari alla Band Bob Dylan, ma non solo. Quindi il solito retro-rock? Direi di sì, ma quando è fatto così bene è difficile resistere, e le 17 canzoni contenute in questo disco (le dieci di Ruminations più altre sette aggiunte per l’occasione) sono tutte veramente belle e non si riscontrano momenti di noia dovuti alla eccessiva lunghezza dell’album.

Oltre ai Felice Brothers e Keltner nell’album appaiono parecchi altri musicisti di pregio: dall’ottimo Jim James Blake Mills, Gillian Welch Maria Taylor alle armonie vocali, nonché M. Ward e il quasi immancabile, in un disco di questo tipo, Jonathan Wilson, a chitarre e tastiere in due dei brani più belli del disco, uno dei due, Anytime Soon, dove è anche coautore del pezzo, con lo stesso Oberst, Taylor Goldsmith dei Dawes, Johnathan Rice, frequente collaboratore di Jenny Lewis, in una sorta di meeting di alcuni dei “nuovi” talenti del suono westcoastiano, considerando pure che il tutto è stato registrato ai famosi Shangri-La Studios di Malibu. Quindi Dylan+Band+California, risultato: ottimo disco, che lo riporta ai fasti dei migliori album fatti con i Bright Eyes. Partiamo proprio con la citata Anytime Soon, un bel pezzo rock di impianto californiano, con la slide pungente di Wilson, che ricorda quella di David Lindley, a percorrerla e una melodia solare che si rifà al sound dei Dawes o del loro mentore Jackson Browne, ma anche con spunti beatlesiani.

Comunque fin dall’apertura deliziosa della valzerata Too Late For Fixate, con in evidenza il violino di Greg Farley e la fisarmonica di James Felice, che uniti all’armonica dello stesso Oberst, crea subito immediati rimandi alla musica del Dylan anni ’70 ( e anche la Band, ovviamente, grazie all’uso della doppia tastiera, affidata spesso a Felice); contribuiscono ampiamente alla riuscita anche i testi visionari e surreali, sentite che incipit: “Tried Some Bad Meditation/ Sittin’ Up In The Dark/They Say To Picture An Island/Cuz That’s One Place To Start/I Guess I Could Count My Blessings/I Don’t Sleep In The Park/With All My Earthly Possessions/In One Old Shopping Cart”, e ditemi chi vi ricorda. Anche la seconda canzone Gossamer Thin mantiene questa atmosfera sonora, con il riff circolare a tempo di valzer, sempre impreziosito dall’uso di violino, fisa ed armonica, oltre alle armonie vocali di Jim James, che rimane poi anche per la successiva Overdue, dove si apprezza il lavoro delle chitarre elettriche e quello di un piano Wurlitzer, molto alla Neil Young anni ’70, con il ritornello che ti rimane subito in testa.

Afterthought in veste full band acquisisce ulteriore fascino, anche grazie al lavoro preciso e variegato di Jim Keltner, uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ancora splendide le armonie vocali corali dei Felice Brothers assortiti, il violino guizzante di Farley e l’armonica insinuante di Conor, sembra quasi di essere capitati in qualche outtake di Blonde On Blonde. Molto coinvolgente anche la delicata ballata Next Of Kin, già presente in Ruminations, che rimanda ai pezzi più belli di un altro cantautore che quando viene colto dall’ispirazione può regalare canzoni stupende, penso a Ryan Adams, e pure in questo testo ci sono deliziose citazioni d’epoca:  “Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago”. In Napalm il ritmo si fa più incalzante e bluesy, per continuare il parallelo con Dylan ci tuffiamo in Highway 61 con l’organo di Felice e le chitarre di Oberst a ricreare il sound dell’accoppiata Kooper/Bloomfield, con i dovuti distinguo, e senza dimenticare Farley che si dà sempre da fare con il suo violino.

Blake Mills aggiunge il suo guitaron e la baritone guitar per una intima e raccolta Mamah Borthwick (A Sketch), dove si apprezza anche la voce di Gillian Welch, splendida. Mentre nelle successive Till St. Dymphna Kicks Us Out e Barbary Coast (Later) appare anche un quartetto di archi e il pianoforte assurge a ruolo di protagonista, nel primo brano, a fianco degli immancabili violino, fisarmonica e armonica, senza dimenticare la chitarra elettrica di Ian Felice, sempre presente, con un lavoro sia di raccordo quanto solista; Barbary Coast addirittura mi ha ricordato certe cose del primo Van Morrison, quello californiano, con il prezioso apporto della voce di Maria Taylor. Tachycardia è un’altra ballata di ampio respiro, con doppia tastiera e armonica sempre in evidenza (ma è difficile trovare un brano non dico scarso, ma poco riuscito), mentre Conor Oberst canta sempre con grande trasporto e convinzione, mentre il violino e la chitarra di Mills ricamano sullo sfondo. Serena ed avvolgente anche la dolcissima Empty Hotel By The Sea, con mille particolari sonori gettati nel calderone sonoro di una ennesima riuscita canzone, con gli strumenti sempre usati con una precisione quasi matematica.

Del pezzo con Jonathan Wilson abbiamo detto. Counting Sheep è una ulteriore variazione sul tema sonoro dell’album, e nonostante il titolo è meno “sognante” di altri episodi, con le chitarre elettriche più graffianti e la bella voce della Taylor che ben supporta il nostro. Rain Follows The Plows, di nuovo con la presenza del quartetto di archi, assume un carattere quasi più barocco e complesso, grazie all’uso del piano elettrico e della chitarra elettrica di Blake Mills, presente per l’ultima volta, a fianco di violino,, armonica e tastiere, che, l’avrete ormai capito, sono gli strumenti più caratterizzanti dell’album. Di nuovo Gillian Welch a duettare con Oberst in You All Loved Him Once, altra love ballad di elevata qualità e delicatezza, con armonica e chitarra elettrica che deliziano i nostri padiglioni auricolari ancora una volta, una delle più belle canzoni del disco.

A Little Uncanny, con video prodotto dal bassista del disco (e dei Felice Brothers) Josh Rawson è uno dei pezzi più rock e mossi di questo Salutations, chitarristico ed incalzante, prima del commiato, Salutations appunto, dove ritornano il piano, la chitarra ed il synth di Jonathan Wilson, per un altro tuffo nel sound da singer songwriter californiano degli anni ’70, a conferma della qualità di questo lavoro che si candida fin d’ora tra le migliori prove di questo inizio 2017, e che vi consiglio caldamente!

Bruno Conti 

Un Altro “Figlio” Del Laurel Canyon? Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season

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Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season – Loose/Thirty Tigers CD

Israel Nash Gripka (il cognome si è perso per strada negli ultimi anni) è uno che, sia fisicamente che musicalmente, potremmo definire un’anima in pena. Nativo del Missouri, si trasferisce nel 2006 a New York (Brooklyn per l’esattezza), dove pubblica tre anni dopo un primo album, New York Town, che non ha molta fortuna. Quindi si sposta sulle Catskill Mountains (sempre nello stato di New York), ufficialmente in cerca di ispirazione, e la mossa funziona, in quanto Israel partorisce quello che ancora oggi per molti è il suo disco-manifesto, Barn Doors & Concrete Floors, un riuscito album di Americana, che segnala il nostro come uno dei nomi su cui puntare per il futuro del movimento roots http://discoclub.myblog.it/2011/04/04/e-questo-perche-l-ho-saltato-israel-nash-gripka-barn-doors-a/ . Ma Gripka non è ancora contento: si sposta quindi in Texas, ed invece di proseguire il discorso introdotto con il suo secondo lavoro, magari corroborandolo con elementi riconducibili al Lone Star State, decide di fare (stavolta solo in maniera figurata) un salto nella California dei primi anni settanta, pubblicando (nel 2013) Rain Plans, nel quale Israel adotta sonorità tipiche di quel momento storico, quando cioè il Laurel Canyon era il luogo più cool d’America e If I Could Only Remember My Name di David Crosby era il disco di riferimento dell’epoca. Un cambio a 360 gradi che però ha suscitato più ammirazione che critiche, tanto che Israel si è sentito in dovere di proseguire il discorso, ampliandolo, con il suo nuovissimo album Silver Season.

Un rock cantautorale con più di un accenno psichedelico, sonorità spesso sospese a mezz’aria, brani lunghi ed articolati ed atmosfere talvolta al limite dell’onirico: molti critici lo hanno giustamente paragonato al Neil Young più intimista e “triste” (quello di dischi come On The Beach e Tonight’s The Night), anche per il timbro vocale molto simile a quello del canadese, ed anche a Jonathan Wilson, con il quale ha obiettivamente più di un punto in comune. Ad un primo ascolto di Silver Season io aggiungerei qualcosa dei Pink Floyd (un gruppo decisamente sdoganato negli ultimi anni, si vedano anche le riproposte dal vivo dei loro brani da parte dei Gov’t Mule) e, in generale, un altro nome che mi viene in mente spesso è quello di Chris Robinson, sia per le sonorità che per lo stile delle copertine dei CD. Accompagnano Gripka i suoi soliti compagni di ventura (Eric Swanson, Joey ed Aaron McClellan, Josh Fleishmann) ed il produttore è Ted Young, da sempre partner di studio di Israel e di recente anche con Kurt Vile.

L’album presenta nove canzoni di lunghezza medio-alta (dai quattro minuti e mezzo a quasi sette), con una musicalità molto simile tra un brano e l’altro, tanto che si potrebbe tranquillamente ascoltare senza pause, come se fosse un brano unico: nonostante questo Silver Season è ricco di spunti interessanti e non ci si annoia mai. Intrecci chitarristici, sonorità eteree, voci spesso lontane ed un uso massiccio del mellotron (strumento ormai da considerare vintage), con soluzioni melodiche sempre intriganti e mai banali. Willow apre il disco in maniera lenta, poi entra la ritmica, la chitarra arpeggia ed una steel langue sullo sfondo, Israel inizia a cantare con la sua voce fragile, che in questo brano appare più come uno strumento aggiunto: infatti il pezzo, lungo e fluido, funzionerebbe alla perfezione anche come strumentale. Parlour Song ha un’atmosfera sognante, la psichedelia inizia ad insinuarsi anche se, dopo poco più di un minuto, il brano cambia registro e diventa una ballata younghiana al 100%, con suoni elettrici e strumenti che sembrano sospesi in aria: il tutto ha un indubbio fascino, e la parte strumentale centrale floydiana aggiunge ancora maggior spessore https://www.youtube.com/watch?v=ZlIcUb2MH04 .

Anche The Fire And The Flood ha diverse frecce al suo arco: voce suadente, solita bella steel e suono più vicino ad un certo country “cosmico” che aveva in Gram Parsons la sua figura centrale; L.A. Lately ha invece un avvio inquietante, ma poi il brano diventa una ballata bucolica di grande limpidezza, ancora con la figura del Bisonte canadese ben presente, ed un suono che potrebbe essere l’anello mancante tra Harvest e On The Beach: splendido poi il crescendo finale corale e chitarristico. Lavendula entra subito nel vivo, una rock ballad giusto a metà tra i Floyd più bucolici (il suono) e Young (la voce); Strangers è più meditata ed interiore, anche se la band fornisce il solito tappeto sonoro ricco e creativo. A Coat Of Many Colors (nonostante il titolo, non è il classico di Dolly Parton) è l’apoteosi del sound di Gripka, come se Young avesse Gilmour e Waters al posto di Sampedro e Talbot nella band, si può dire psych-country https://www.youtube.com/watch?v=RzB9SB1pxdM ? L’album volge al termine, il tempo di gustarsi Mariner’s Ode, in assoluto il pezzo più movimentato e diretto del CD, anche se qualcosa di ovattato nel suono rimane, e The Rag & Bone Man, languida, sognante, quasi crepuscolare, degna conclusione di un disco impegnativo e fruibile nello stesso tempo.

Marco Verdi

Come Il Buon Vino, Invecchiando Migliora Sempre Più! Lucinda Williams – Down Where The Spirit Meets The Bone

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Lucinda Williams – Down Where The Spirit Meets The Bone – 2 CD Highway 20 Records

Il titolo del Post, detto tra l’altro da uno che è astemio, ma è un modo di dire efficace e che rende bene l’idea, potrebbe far pensare che nel passato Lucinda Williams non abbia già pubblicato una serie di album strepitosi: dall’omonimo del 1988, ristampato in tempi recenti in versione doppia a Sweet Old World del 1992, il bellissimo Car Wheels On A Gravel Road del 1998, Essence del 2003, il doppio dal vivo al Fillmore e il recente, 2011, Blessed, l’ultimo per la Lost Highway, ma più o meno tutti gli album sono di ottima qualità. E a ben guardare, solo undici album in tutto, in 35 anni di carriera. Questo Down Where The Spirit Meets The Bone è quindi il dodicesimo, il primo pubblicato su una etichetta indipendente e che certifica la buona salute artistica della Williams che si aggiunge ad una lista di artisti maturi, “invecchiati”, che continuano a fare ottimi album: dal capostipite Bob Dylan passando per Mellencamp, Petty, Richard Thompson, John Hiatt, Fogerty, Clapton, Willie Nelson (ma ce ne sono parecchi altri) che spesso piazzano la zampata del vecchio leone, di Bob Seger sentiremo fra poco, mentre Springsteen ultimamente riesce a regalarci solo qualche canzone memorabile, a parte i “soliti” concerti incredibili, forse per una produzione troppo copiosa rispetto al passato. Di Van Morrison sembrano essersi perse la tracce, ma in fondo Born To Sing: No Plan B è uscito nel 2012. Poi ci sono settantenni come Ian Hunter, Billy Joe Shaver, Tony Joe White, Tom Jones, Kris Kristofferson, che non mollano, e ottantenni come Leonard Cohen o Jerry Lee Lewis, che pubblicherà un nuovo disco, di cui si dice un gran bene, a fine mese, che sembrano avere trovato l’elisir di eterna giovinezza.

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Tutto questo per dire che dischi belli da parte di artisti stagionati non sono più una rarità come un tempo, quando i 30 anni sembravano un limite invalicabile e Pete Townshend proclamava di voler morire prima di diventare vecchio. Però questo Down Where The Spirit Meets The Bone, con la sua bella copertina, dove una lama si conficca a spaccare un cuore, si candida ad essere uno dei dischi migliori del 2014 e tra i migliori doppi album di sempre. Venti canzoni, di cui una cover. una bellissima Magnolia dal repertorio di JJ Cale, un’ora e quarantacinque minuti di musica, quindi un “vero” doppio CD, tantissimi musicisti impiegati, con ben sette diversi chitarristi, ovviamente non tutti insieme, che alzano la quota rock del disco che spesso, come è caratteristica della Williams, qui più che altrove, ci regala sontuose sarabande chitarristiche (se qualcuno ha detto o pensato Neil Young, ha ragione). La voce è quella che è, particolare, dolente, forse un po’ monocorde, so che c’è gente che non la ama, ma allo stesso tempo, ultimamente, quando si vuole fare un complimento a qualche nuova cantautrice, si dice che ricorda Lucinda Williams, ormai un punto di riferimento nella canzone d’autore americana. Uno dei chitarristi, Greg Leisz, è anche tra i produttori del disco, insieme a Tom Overby e alla stessa Lucinda, ma non mancano agli addetti abituali al reparto 6 corde della sua band, Val McCallum (anche con Jackson Browne, altro “vecchietto” che prima non ho citato, in uscita con il nuovo disco) e Doug Pettibone, a cui si aggiungono, a seconda dei brani, Bill Frisell, Stuart Mathis dei Wallflowers, Jonathan Wilson e Tony Joe White.

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Per non parlare di Pete Thomas e Davey Faragher, ovvero gli Imposters di Costello, l’ottimo tastierista Patrick Warren e l’immarcescibile ex-Faces Ian McLagan, oltre a parecchi altri bassisti e batteristi e i fiati in un brano. E i risultati si sentono. Anche se il CD si apre con Compassion, che potrebbe essere il motto del disco, solo voce e chitarra, un poema del babbo di Lucinda, Miller Williams, che contiene i versi che danno il titolo all’album, “you do not know what wars are going on/ Down there where the spirit meets the bone.”, cantati con voce spezzata e, appunto, compassionevole. Questo è l’indirizzo diciamo poetico, testuale se volete, del disco, ma poi musicalmente è tutta un’altra cosa. La Williams ha definito il suo genere “country soul” ma il rock è sempre ben presente in questo album: Protection è un blues-rock a doppia-tripla trazione chitarristica, un po’ Tom Petty e un po’ Dire Straits prima maniera, con Lucinda che canta con voce sicura e stranamente assertiva https://www.youtube.com/watch?v=FBmP-0XtXWM , con Gia Ciambotti che offre supporto vocale e le chitarre che cominciano a tirare alle grande. Eccellente anche Burning Bridges dall’andatura più raffinata, con le tastiere che dividono la scena con le immancabili chitarre che ti assaltano dalle casse dello stereo con una ammirevole precisione di suoni e la voce che nel finale si anima di una inconsueta rabbia https://www.youtube.com/watch?v=crvPkFwlG7w . East Side Of Town, una canzone su quelli che vivono ai margini della città e della società, è un tipico esempio del country soul della Williams, un bel piano elettrico, due chitarre più “lavorate”, ma sempre liriche nella loro libertà di improvvisare e una bella melodia che ti entra in testa. West Memphis dedicata al famoso caso di malagiustizia americana (ce l’hanno anche loro!) dei West Memphis Three, è un incisivo swamp blues con la chitarra e l’armonica di Tony Joe White che si aggiungono al lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=5yXbwJefTxQ .

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Cold Day In Hell è la prima ballata del disco, una dondolante costruzione tra soul e rock, tipica della migliore musica della cantante di Lake Charles, tra cori gospel, un organo magico, probabilmente di McLagan e le solite chitarre deliziose. Anche Foolishness ha un bel groove da brano rock classico, con il ritmo che cresce e ti acchiappa, la slide di Leisz che si insinua sotto pelle e duetta con gli altri solisti, non vi so dire chi sono in questo particolare brano, ma in fondo non è poi così importante, vista la bravura di tutti i chitarristi impiegati in questo disco https://www.youtube.com/watch?v=pPTHqZcK5Xo . Senza stare a citare tutte le canzoni, se no la recensione diventa lunghissima, più del solito, vorrei ricordare ancora, nel primo disco, il valzerone country-rock di Wrong Number e il bellissimo duetto con Jakob Dylan (in rappresentanza della famiglia) nella dolcissima litania country-folk di It’s Gonna Rain, una ulteriore piccola meraviglia. Nel secondo disco il classico blues gagliardo di una Something Wicked This Way Comes che mi sembra citi pure il riff di Wang Dang Doodle https://www.youtube.com/watch?v=B9lZrfz2tB0 , ancora con i chitarristi pronti a incattivirsi appena la Williams lascia loro libertà, le raffinate chitarre quasi twangy di Big Mess cantata con grande precisione e partecipazione dalla Williams, le ariose melodie di Walk On, il sontuoso deep soul di Temporary Nature (Of Any Precious Thing), altra compassionevole ruminazione sullo stato dello cose, con organo hammond e piano che si dividono la scena con le chitarre.

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E ancora le dueling guitars della vigorosa Everything But The Truth, tipico esempio del miglior rock californiano, il delizioso country di This Old heartache con la magica lap steel di Leisz ancora in evidenza. Le prelibatezze sudiste di One More Day, dove si gustano anche i fiati. Lo so le ho dette quasi tutte lo stesso, ma sono talmente belle che non se ne può fare a meno. Manca giusto la lunghissima cover di Magnolia di JJ Cale, la cui scomparsa ha colpito evidentemente al cuore i suoi colleghi: quasi dieci i minuti dedicati ad una delle rare ballate del repertorio di Cale, peraltro bellissima, qui resa in un lento crescendo che rende piena giustizia al fascino della canzone. Bello, bello, bello, tante chitarre, tante belle canzoni e una delle musiciste più brave sulla faccia della terra attualmente. Ricorda molto Lucinda Williams!

Bruno Conti

Accoppiata Anglo-Italo-Americana In Quel Di Pavia! Chris Cacavas Ed Abbiati – Me And The Devil

Abbiati Cacavas Me And The Devil

Chris Cacavas & Ed Abbiati – Me And The Devil – Appaloosa/IRD – Harbour Song Records

Chi è il diavolo dei due? E chi ha tentato chi? O è la musica del diavolo che ha tentato entrambi? Su questi inquietanti quesiti si apre l’ennesima collaborazione del 2014 di Ed Abbiati con musicisti diversi dai “suoi” Lowlands (che però vivono e prosperano sullo sfondo, in attesa di colpire entro fine anno, con altri due progetti, Love, Etc., un disco folk con fiati. in uscita ad ottobre e il Live Unplugged, registrato a Milano in primavera ed atteso per fine anno, ma queste sono altre storie). Nel frattempo, dopo lo split EP con i Lucky Strikes, che dovrebbe portare a quattro le uscite discografiche dell’anno – “quest’anno si esagera”, come mi ha detto lo stesso Edward – arriva a compimento, dopo una lunga gestazione, l’album concepito con Chris Cacavas,  l’ex Green On Red, anche con una lunga carriera solista. Un americano che vive in Germania e un italo-inglese che vive a Pavia, i due si erano già incontrati nel lontano 2008, quando Chris aveva partecipato alla registrazione del primo album dei Lowlands, Last Call e da lì era nata una solida amicizia, non solo musicale, ma non sono fatti nostri, a noi quella interessa https://www.youtube.com/watch?v=FpwU7GwQPoo . Le strade si erano intrecciate varie volte fino a che, più o meno nella primavera dello scorso anno, qualcuno, Ed, Chris o il diavolo (il terzo incomodo), propone all’altro, perché non scriviamo delle canzoni insieme? Nell’arco di circa sei mesi, grazie alla “tecnologia”, e-mails, chiamate telefoniche, qualche viaggio aereo di Chris, per trovarsi insieme nella cucina di Ed a scrivere le canzoni (e parte del processo è stato salvato per i posteri e vedrà la luce come secondo dischetto di una edizione doppia “limited” only for fans, friends and relatives, 250 copie vendute direttamente da loro o ai concerti, con le registrazioni del work in progress dell’album, brani scritti e registrati su un telefonino, con una qualità sonora un po’ primitiva, per quanto, mi pare, migliore di quella dell’ultimo Neil Young, almeno non c’è lo scricchiolio dei vecchi 78 giri, e quanto te lo fanno pagare, ma anche questa è un’altra storia e la versione “normale” va comunque benissimo).

me and the devil special

Ad agosto dello scorso anno, quindi, tutti insieme appassionatamente, in una cascina convertita a studio di registrazione, immagino “belli freschi”, vista la stagione, in ordine alfabetico di nome, come da copertina, Chris e Ed, con l’aiuto di Mike “Slo Mo” Brenner (Marah, Jason Molina), a basso, lap steel e slide e co-produttore, Winston Watson (Bob Dylan, Giant Sand, Warren Zevon), alla batteria, l’immancabile (nei dischi di Ed) Richard Hunter, all’armonica, Andres Villani al sax tenore, David Henry al cello e Stefan Roller, assolo di elettrica in Me And The Devil; in una settimana circa (cinque giorni per la precisione) le dieci tracce, in varie fasi di completamento, sono pronte per partire per Nashville, Tennessee e Stanford, CT, dove verranno completate a livello tecnico da Chris Peet e Rainer Lolk  e vengono aggiunti il cello, Nashville e le armoniche, Stanford.Tutti felici e soddisfatti dunque, Ed mi dice “sai che ho fatto un disco con Chris Cacavas!”, “ma va, quando uscirà?” gli chiedo, silenzio diplomatico, perché lì sta il problema ai giorni nostri, comunque saltiamo tutte le fasi successive ed arriviamo all’inizio di maggio (ma i files delle canzoni erano nei meandri del mio PC da qualche tempo), “quasi ci siamo, usciamo a giugno per Appaloosa,in Italia” ma mi impone, come Giucas Casella, un invito a parlarne, “solo quando lo dirò io”! Nei prossimi giorni (credo settimana prossima, ci sono dei problemi con il libretto) il disco sarà, si spera, anzi certamente, in tutti i negozi, fisici e virtuali, e chi vuole potrà (dovrà) sentirlo per farsene un’idea.

ed abbiati chris cacavas

Se volete il mio parere, per quello che vale (falsa modestia, con scrollata di spalle, scherzo, è meglio precisare perché ti prendono sul serio) è un bel disco, diverso dalle cose dei Lowlands e da quelle di Cacavas, come è ovvio che sia, se no si facevano ciascuno il proprio disco, ma l’impronta musicale di entrambi c’è. Potremmo dire, visto anche il titolo, un disco di blues? Non solo, ma perché no, perlatro non un disco di blues-rock, di quelli ricchi di virtuosismi che però appartengono ad un’altra categoria. Un disco di blues e rock, forse meglio, come esplica subito Against The Wall, un brano denso e corposo, quasi minaccioso, cantato a doppia voce da Ed e Chris, con il sax che si interseca con chitarre e tastiere, fino a che il tenore di Villani è lasciato in libertà nel finale https://www.youtube.com/watch?v=7-tHaCrI3A0Me And The Devil, con un riff quasi stonesiano di chitarra che la apre ( o è alla Green On Red?) è più cadenzata, l’armonica cromatica di Hunter è co-protagonista del mood del brano, avvolgente e maestosa, dà una sorta di imprinting per un blues contemporaneo, sempre cantato a due voci sovrapposte, screziato da sapori rock quando la chitarra di Roller la taglia in due nel finale, grande brano. Oh Baby Please, con il suo organo fine anni ’60 e il sax souleggiante, sembra un brano del Sir Douglas Quintet o di ? And The Mysterians, quel pop deviante, un po’ indolente e leggermente psych dei tempi che furono, canta Edward da solo, Chris cesella all’organo.

ed chris

Solo la voce di Mr. Abbiati, un piano elettrico, qualche tocco di lap steel ed ecco The Week Song, una ballata intima e malinconica che mi sembra molto farina del sacco del buon Ed, qui ci vedo (e ci sento) la sua mano, ma i brani, come facevano Lennon e McCartney, sono comunque tutti firmati Cacavas/Abbiati. Il cello di David Henry introduce la melodia trasversale di Hay Into Gold, una ballata mid-tempo insinuante che evoca panorami musicali “americani”, quasi desertici, un ritornello piacevole, con la slide che si divide il mood del brano con il cello, un pezzo che entra lentamente ma inesorabilmente nell’attenzione dell’ascoltatore e poi insiste fino a conquistarti con un crescendo finale che mi ricorda un qualcosa di non definito, un tocco à la Mike Scott. Long Dark Sky è una scarica di adrenalina pura, cantata da Chris Cacavas, un grande pezzo di rock dove i Velvet di Lou Reed incontrano gli Stones più “nasty”  sulle rive del Paisley rock più acido(grandissime le rullate di Watson), riff chitarristici da destra e manca, cattiveria allo stato puro, persino i coretti ne trasudano. Credo che a Steve Wynn dovrebbe piacere. Un blues quasi canonico come Can’t Wake Up, quasi, con chitarre acustiche e slide sugli scudi, Ed che sfoggia la sua voce più roca da adepto del blues del Delta, sillabata quasi con cattiveria, un bell’esempio di blues cantautorale, senza dimenticare naturalmente l’armonica di Hunter, qui nei suoi territori più tipici.

ed abbiati chris cacavas 1

Ci avviciniamo alla conclusione, mancano tre brani, le atmosfere sospese e younghiane della lungaThe Other Side, ancora Chris Cacavas, alle prese con la West Coast acida e psichedelica dei 70’s più sognanti e allo stesso acidi, notevole, nulla da invidiare alle cose migliori dell’ultimo Jonathan Wilson, magnifico l’interplay delle chitarre elettriche. I’ll See Ya è un altro bozzetto (si tratta del demo originale) di Ed Abbiati, una sorta di epifania acustica e raccolta, molto dolce e sognante, in un modo diverso dal turbinare del brano precedente, ognuna sogna a modo suo, dopotutto, con quell’organo in sottofondo (che mi dicono essere una pianola Bontempi, un classico nel rock) e la chitarra arpeggiata potrebbe ricordare anche i Floyd più pastorali. La conclusione è affidata alle atmosfere nuovamente rilassate della breve The Rest Of My Life https://www.youtube.com/watch?v=55pXhXPNcyM , una ulteriore oasi di pace a due voci, senza tempo, lontana dagli episodi più blues e rock dell’album ma non per questo meno affascinante. Quindi, concludendo, non solo blues, rock o musica da “cantautori”, catalogherei sotto Buona Musica.

Bruno Conti

P.S. Grazie a Ed per alcune preziose precisazioni!

Ecco Il Doppio CD Del Tributo, Track By Track. Uno Dei Migliori Di Sempre! Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne

looking into you tribute to jackson browne

Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne – 2CD Music Road/Ird

“Uno dei migliori di sempre” nel titolo del Post si riferisce sia alla qualità del tributo quanto al soggetto dello stesso, Mr. Jackson Browne: non occorre che sia io a dirvelo, comunque per metterlo nero su bianco, uno dei più grandi cantautori prodotti dalla scena musicale americana negli ultimi 50 anni. E, non a caso, al tributo partecipano solo artisti statunitensi (neppure canadesi, per non parlare di inglesi ed europei). Il progetto esce per la Music Road, l’etichetta di Jimmy LaFave, ma non è la tipica produzione indipendente, infatti partecipano molti dei maggiori artisti del mainstream americano, oltre ad una serie di outsiders e promesse. Manca qualcuno? Certo. Manca Warren Zevon, perché ci ha lasciati, manca la Nitty Gritty Dirt Band con cui Jackson ha iniziato la sua carriera nel lontano 1966, mancano gli amici di sempre Steve Noonan Greg Copeland (col quale aveva scritto Buy Me For The Rain, il primo successo della Nitty Gritty), insieme ai quali si è esibito recentemente per un concerto di raccolta fondi, manca Nico, scomparsa da tempo, alla quale aveva donato tre canzoni apparse su Chelsea Girl e tanti altri che sarebbe troppo lungo citare.Quello che resta è comunque molto bello. Quindi vediamolo, brano per brano, cogliendo l’occasione per parlare anche delle canzoni e dei musicisti coinvolti.

Disco Uno

1. These Days – Don Henley w/ Blind Pilot

Una delle prime canzoni scritte da Jackson Browne, come ricorda Don Henley These Day venne scritta quando aveva solo 16 anni, e nelle parole dell’ex Eagles, “era un passo avanti a tutti noi”. Secondo il Wikipedia italiano, il brano sarebbe stato scritto per Tim Rush (sic, è Tom Rush!) nel 1968, ma se era già stato pubblicato su Chelsea Girl di Nico, uscito nel 1967, mi pare improbabile (questo per ricordarvi che Wikipedia non è la Bibbia, usare con cautela). Comunque Rush l’ha incisa, come la Nitty Gritty, Steve Noonan, Gregg Allman, che ne fece una stupenda versione sul suo disco d’esordio come solista, il bellissimo Laid Back del 1973, lo stesso anno in cui anche Browne la pubblicò sul suo secondo album For Everyman. Questa versione di Henley è molto bella, accompagnato dai Blind Pilot, band indie di Portland molto valida, che confeziona un bellissimo accompagnamento per questo brano, tutt’ora uno dei più belli in assoluto del songbook di Jackson, raffinatissima, con tromba, organo, dulcimer, vibrafono, le immancabili chitarre e armonie vocali, che se non sono quelle degli Eagles, poco ci manca.

2. Everywhere I Go – Bonnie Raitt and David Lindley

E’ nota la passione dell’artista californiano per il reggae, la musica caraibica e la world music in genere, e chi scrive non impazzisce per il genere, comunque il brano, apparso in origine su I’m Alive del 1993, è cantato a tempo di reggae da Raitt e Lindley, che si dividono i compiti anche alla chitarra, ma francamente i due interventi di David a tempo di reggaethon se li poteva risparmiare. Neppure il breve assolo di slide di Bonnie nel finale riesce a risollevare del tutto le sorti della canzone, comunque piacevole, non vorrei dare una impressione di totale negatività.

3. Running On Empty – Bob Schneider

Bob Schneider, nativo del Michigan, cresciuto in Germania (il contrario di Browne, nato in Germania e cresciuto in California) e texano di adozione, è uno dei “nuovi” cantautori più interessanti. Si è preso una bella gatta da pelare, affrontando uno dei brani più belli e conosciuti della discografia di Jackson, Running On Empty comunque la metti è una canzone splendida e la bella voce di di Schneider, con l’ottimo controcanto di Brandon Kindner, interventi mirati di piano, chitarre elettriche ed acustiche, rende pienamente giustizia a questa stupenda ballata, una piacevole sorpresa.

4. Fountain Of Sorrow – Indigo Girls

Le Indigo Girls, da sempre grandissime fans, rilasciano una versione eccellente di Fountain Of Sorrow, forse il pezzo più bello di Late For The Sky, un disco peraltro dove non c’era una canzone non dico brutta ma di qualità media, Amy Ray e Emily Saliers la cantano in modo eccellente, da sole ed armonizzando, come è da sempre loro caratteristica e con una presenza sontuosa dell’organo e del piano di Chuck Leavell, veramente magico per l’occasione.

5. Doctor My Eyes – Paul Thorn

Paul Thorn, il cantautore-pugile, per chi non lo conosce, è uno dei migliori attualmente in circolazione, certamente da scoprire se non lo conoscete http://discoclub.myblog.it/tag/paul-thorn/. La sua versione di Doctor My Eyes è assolutamente da sentire, potente e coinvolgente, quasi a pari livello dell’originale (anche se quasi nessuno fa Jackson Browne meglio di Jackson Browne), con la slide di Bill Hinds a tagliare in due il brano e un organo malandrino a colorare il tutto.

6. For Everyman – Jimmy LaFave

Il padrone di casa, il texano LaFave, confeziona una versione stupenda di For Everyman, lunga, arrangiata in modo mirabile, con le chitarre e le tastiere che si integrano alla perfezione con il cantato pieno di passione di Jimmy, grandissima rilettura, con un finale in crescendo quando il violino di Todd Reynolds si impadronisce della melodia in modo imperioso!

7. Barricades Of Heaven – Griffin House

Griffin House è considerato uno dei “cloni” di Jackson, voce molto simile, lo stile pure, però è bravo, scrive delle belle canzoni e qui interpreta in modo mirabile Barricades Of Heaven, un brano che viene da Looking East, il disco del 1996, ma che ha la statura dei migliori di Browne, quelli del periodo d’oro, melodie avvolgenti, melodie che ti rimangono nel cuore e nel testa, interscambi strumentali che sono la storia della canzone della West Coast, ottima versione. Qualcuno dirà, ma sono tutte molto simili a quelle originali! Meglio, gli esperimenti lasciamoli agli altri, se le canzoni sono belle, facciamole bene, come si conviene.

8. Our Lady Of The Well – Lyle Lovett

E Lyle Lovett che è uno degli “eredi” di Browne, cantautore meraviglioso in proprio, uno dei migliori in assoluto, qui realizza una versione splendida di Our Lady Of The Well, se non sapessimo che il brano era su For Everyman potremmo quasi pensare ad un brano di Lovett, con il grande Matt Rollings al piano, e la sezione ritmica di Lee Sklar e Russ Kunkel, che ho come l’impressione mi debba dire qualcosa, Sara Watkins delicata alle armonie vocali e Dean Parks alla chitarra. Cantata in modo perfetto, accorato e partecipe, come richiede la canzone.

9. Jamaica Say You Will – Ben Harper

Ultimamente Ben Harper non mi fa più impazzire, anche se il disco con Musselwhite non è per niente male, però la sua versione di Jamaica Say You Will è veramente bella, cantata con leggiadra nonchalance, su una base di piano, dove mano a mano si inseriscono prima la ritmica poi violino e cello e le armonie vocali quasi gospel, rende pienamente merito all’originale.

10. Before The Deluge – Eliza Gilkyson

La Gilkyson, che ha recentemente pubblicato il suo nuovo disco, molto bello, The Nocturne Diaries, è una delle discendenti dirette della scuola delle grandi cantanti degli anni ’70, la prima Joni Mitchell su tutte, e la sua versione di Before The Deluge, altro brano splendido, la conferma interprete raffinata e di grande spessore, con una voce molto espressiva, ben servita per l’occasione da un arrangiamento dove ancora una volta il violino, Warren Hood, è lo strumento portante, ma chitarre, contrabbasso, dobro, elettrica e le immancabili armonie vocali sono elementi non secondari

11. For A Dancer – Venice

I Venice, come ricordano loro stessi nelle note del libretto, hanno cantato e suonato varie volte nel corso degli ultimi anni con Jackson Browne, e non potendo avere gli originali, i quattro fratelli Lennon ci regalano una versione alla CSN, tutta voci e chitarre acustiche, di For A Dancer, musica Westcoastiana all’ennesima potenza, evocativa e ben congegnata.

12. Looking Into You – Kevin Welch

Kevin Welch è un altro dei tanti “unsung heroes” , californiano di nascita ma di recente adozione texana, che costellano la scena musicale americana, bravo e sfortunato a livello commerciale, persiste a volerci regalare la sua arte, in questo caso con una versione intima di Looking Into You, solo il piano di Radoslav Lorkovic e l’organo di Red Young, più le magnifiche voci gospel delle McCrary Sisters. Originale e con la bella voce di Welch in evidenza.

Disco Due

1. Rock Me On The Water – Keb’ Mo’

Jackson Browne e Bonnie Raitt erano apparsi come ospiti nella bellissima title-track di Just Like You, uno dei dischi più belli del chitarrista e cantante afroamericano, ora Keb’ Mo’ rende il favore con una versione sontuosa di Rock Me On The Water, la voce calda e la slide in grande spolvero, oltre alle immancabili armonie vocali (una costante in moltissimi brani presenti in questo tributo).

2. The Pretender – Lucinda Williams

Qualcuno si è lamentato perché tra gli artisti presenti in questo tributo si notava la mancanza di Jonathan Wilson, uno degli epigoni migliori della musica californiana in cui Jackson Browne è maestro. Ma Wilson c’è, infatti sua è la produzione e molti degli strumenti presenti in questa ottima versione di The Pretender, eseguita peraltro magistralmente da una ispiratissima Lucinda Williams. Doug Pettibone ci aggiunge del suo con alcuni notevoli inserti chitarristici e il brano è uno dei migliori di questo tributo.

3. Rosie – Lyle Lovett

Lyle Lovett è l’unico artista presente con due brani e anche la versione di Rosie, uno dei brani “minori” (si fa per dire, ce n’erano?) di Running On Empty, è da manuale del perfetto “Browniano”, con le magnifiche armonie dei fratelli Watkins, Sara e Sean (stanno per tornare i Nickel Creek, a proposito) e di Peter Asher.

4. Something Fine – Karla Bonoff

A proposito di Peter Asher (il vecchio manager di Linda Ronstadt e James Taylor), anche i suoi due ex assistiti mancano all’appello, ma Karla Bonoff, che ha scritto molte delle canzoni più belle della California di quegli anni, viste da un punto di vista femminile, è una eccellente “sostituta”, in mancanza di termini migliori, con Nina Gerber alle chitarre acustiche e Wendy Waldman, altra mirabile interprete di quella musica, al piano, armonie vocali e produzione. Il risultato si potrebbe definire Something Fine.

5. Too Many Angels – Marc Cohn feat. Joan As Police Woman

Pure Marc Cohn si può far risalire a quella scuola di cantautori che due o tre cose da Jackson Browne le hanno imparate, la melodia e la costruzione dei brani potrebbero venire da quella parrocchia. Per la sua versione di Too Many Angels Cohn si è affidato agli arrangiamenti e alla produzione di Glenn Patscha degli Olabelle che gli ha creato un raffinatissimo costrutto musicale, uno dei più originali del disco, con David Mansfield a chitarra, viola e mandolino e le armonie vocali di Joan Wasser a girare attorno alla voce di Marc.

6. Your Bright Baby Blues – Sean and Sara Watkins

I fratelli Watkins se la cavano egregiamente in una versione struggente di Your Bright Baby Blue, cantata magnificamente da Sara, con Sean perfetta spalla, per una ennesima ottima rilettura che appare in questo tributo.

7. Linda Paloma – Bruce Springsteen and Patti Scialfa

Poteva mancare l’amico Bruce? Certo che no, e con la moglie Patty Scialfa al seguito, che canta, co-produce, con Ron Aiello, ma senza E Street Band, solo Nils Lofgren, nell’inconsueta veste di fisarmonicista. Ok, c’è anche Soozie Tyrell al violino. Le arie messicane non sono le prime che ti vengano da accostare a Springsteen, ma uno che ha cantato di Rosalita non avrà certo problemi a cantare di Paloma. Piacevole, anche se forse a momenti un po’ sopra le righe.

8. Call It A Loan – Shawn Colvin

Shawn Colvin, solo voce e chitarra acustica, presenta il lato più folk della musica di Jackson, un elemento spesso presente nella sua musica e che nei recenti album dal vivo Browne ha ripreso.

9. I’m Alive – Bruce Hornsby

Per I’m Alive Hornsby sfodera dulcimer, mandolino e violino, la strumentazione dei suoi brani più vicini al country/bluegrass, con l’aggiunta della seconda voce di Ruth Moody (di recente anche con Mark Knopfler). Il risultato è affascinante, un brano dove l’inventiva dell’arrangiamento apporta ulteriore fascino alla canzone originale.

10. Late For The Sky – Joan Osborne

Molto bella ancha la versione pianistica di Late For The Sky, la voce calda e corposa di Joan Osborne si adatta perfettamente al mood “autunnale” della canzone. Un altro dei moltissimi brani di spessore che costellano questo Looking Into You.

11. My Opening Farewell – JD Souther

La conclusione, “l’arrivederci”, è affidata ad un altro degli amici storici di Jackson Browne, quel John David Souther, vicino di casa del piano di sotto del nostro, con Glenn Frey, e co-autore di molti dei brani più belli degli Eagles, nonché autore di una manciata di bei dischi molto vicini alla poetica browniana, negli anni ’70 e ’80. My Opening Farewell, impreziosita da una tromba jazzata, conclude degnamente questo tributo dedicato al cantautore californiano.

Inutile dire che s’ha d’avere. Ora manca solo un bel cofanetto, magari ricco di inediti, dedicato all’opera omnia di Jackson Browne!

Bruno Conti

P.s. Video aggiunti dopo molto tempo, In effetti la data di uscita ufficiale è il 1° aprile e fine aprile in Gran Bretagna.

Recuperi Di Fine Anno – Parte 4: Jonathan Wilson – Fanfare

jonathan wilson fanfare

Jonathan Wilson – Fanfare – Bella Union CD

Confesso che non conoscevo Jonathan Wilson, e di conseguenza il suo CD d’esordio Gentle Spirit http://www.youtube.com/watch?v=I8E9kQg9gCU , fino a quando lo scorso anno mi sono recato a Lucca ad assistere al concerto di Tom Petty & The Heartbrakers, nel quale Jonathan e la sua band  erano posti come opening act. Solitamente io (ma non solo io) i gruppi spalla ai concerti li subisco abbastanza passivamente, raramente ho trovato qualcuno che mi facesse smettere di guardare l’orologio per sapere quanto distante era il momento in cui sarebbe arrivato l’headliner della serata, ma devo ammettere che Wilson ha rapito la mia attenzione durante tutto il suo mini-set: la sua miscela di California e psichedelia, di Neil Young e Pink Floyd mi hanno catturato all’istante (poi Petty chiaramente mi ha dato il colpo di grazia, complice un caldo micidiale) http://www.youtube.com/watch?v=-hYiY1vOOVw , e quindi non ho esitato molto quando quest’anno ho visto tra le uscite discografiche degli ultimi mesi la seconda fatica del ragazzo originario del North Carolina, intitolato Fanfare.

Prima dell’ascolto ero stato un po’ allarmato dalle notizie che davano il CD, tredici canzoni, durare ben settantotto minuti, ma già alla fine del primo ascolto mi sono ritrovato come un pirla seduto sul divano a bocca aperta, e se non mi fosse mancato il tempo lo avrei rimesso immediatamente da capo. Fanfare è un grande, grandissimo disco, per me addirittura il migliore dell’anno che volge al termine, ad opera di un musicista che ha raggiunto un tale livello dopo solo due album che ha pochi riscontri in giro tra i suoi coetanei  Un disco di musica rock, con implicazioni folk e psichedeliche (ma qualsiasi classificazione è riduttiva), che ricorda da molto vicino il panorama musicale californiano dei primi anni settanta, quando il Laurel Canyon era, musicalmente parlando, il centro del mondo, e gli album di riferimento erano If I Could Only Remenber My Name di David Crosby (che, guarda caso, appare come ospite in Fanfare) ed in misura minore Pacific Ocean Blue di Dennis Wilson (tra Wilson ci si intende…).

Fanfare è un album di una maturità e di una complessità impressionante, dove però complessità non vuol dire difficile fruibilità: certo, non è un disco da ascoltare distrattamente in macchina, va centellinato, assaporato lentamente, quasi sezionato, e ad ogni ascolto vi rivelerà qualcosa di nuovo. E’ innanzitutto un disco di musica nel senso più puro del termine, un album pieno di suoni e di melodie stratificate, con brani lunghi e fluidi che cambiano mood anche più di una volta nel loro percorso, con una strumentazione ricca e variegata, e dove la voce di Wilson è usata talvolta quasi come se fosse un altro strumento. C’è di tutto in Fanfare: da gentili ballate folk che diventano quasi delle sinfonie rock, ad echi di psichedelia inglese, a spunti quasi jazzati, fino ad elementi di Canterbury sound, da accordi di chitarra younghiani a fraseggi pianistici che richiamano John Lennon, e molto altro ancora. Ma sbagliate se pensate ad un disco frammentario o, peggio, pretenzioso: Wilson abbina la sua bravura indubbia come songwriter alla perizia come arrangiatore e produttore (ha già collaborato in tal senso con i Dawes e nell’ultimo album di Roy Harper, Man & Myth, e Roy ha ricambiato il favore scrivendo con Jonathan due brani per Fanfare), riuscendo a darci un lavoro che è quasi un dipinto ottenuto mescolando abilmente sonorità differenti (e la pittura è tirata in ballo direttamente anche dalla copertina, che richiama il Giudizio Universale di Michelangelo, forse l’unica cosa un po’ pretenziosa di questa operazione).

E poi ci sono gli ospiti, tutti comunque “nascosti” dentro alle canzoni, quasi come facessero parte anche loro dei colori del quadro: oltre a Crosby, anche il vecchio partner Graham Nash, l’altro californiano doc Jackson Browne, Mike Campbell e Benmont Tench degli Heartbrakers, per finire con Taylor Goldsmith dei Dawes e Pat Sansone dei Wilco. Parlare nel dettaglio di tutti i brani è quasi un’impresa, ci vorrebbe un supplemento domenicale a puntate come già fatto con la discografia di Bob Dylan, e ancora non basterebbe a rendere l’idea dell’esplosione di suoni e melodie presenti nel CD. Posso accennare alla title track, che apre l’album con una lunga introduzione strumentale dove flauto, violino, sax e chitarre si intersecano in una girandola sonora incredibile, o la quieta Dear Friend , con gli strumenti in libertà, uno dei pezzi più vicini al primo solo di Crosby, o l’eterea Her Hair Is Growing Long, un capolavoro di equilibrio che ha persino qualche eco di Astral Weeks del grande Van Morrison. E siamo solo al terzo brano: Love To Love è una ballata rock con una dose maggiore di energia, mentre Future Vision è una splendida mini-sinfonia psichedelica con piano e chitarra che si destreggiano tra un mare di suoni, Moses Pain, una delle più belle del lavoro, è pura California, con le sue chitarre liquide ed il suo pianismo eccezionalmente fluido.

Poi ci sono la rarefatta Cecil Taylor (dedicata al celebre pianista)  , la più roccata Illumination, uno dei brani più fruibili del disco, l’eccelsa Desert Trip, nel quale Wilson si supera sia dal punto di vista del songwriting che dell’arrangiamento, dove nota dopo nota si potrebbe annidare qualsiasi sorpresa. Fazon, una canzoni dei semisconosciuti Sopwith Camel, è un po’ freddina, ma New Mexico è piena di cambi di ritmo e trovate geniali; Love Strong sembrano i Pink Floyd mezzi country di Zabriskie Point con Lennon in session al pianoforte, mentre All The Way Down chiude l’album in tono minore per quanto riguarda la qualità media dei brani del CD, ma pur sempre una canzone che qualche freccia al suo arco ce l’ha. Grandissimo disco: se per Natale dovete farvi fare un regalo, Fanfare può essere la scelta più azzeccata.

Un consiglio: ascoltatelo in cuffia.

Marco Verdi

E’ Tempo Di Classifiche: Il Meglio Del 2013 Secondo Disco Club. Blogger E Collaboratori Pensano!

pensatore perplesso

Questi sono i risultati della pensata. Si è fatto quel periodo dell’anno in cui, avvicinandosi il Natale, puoi indulgere in quelle liste che era tanto bello fare nell’infanzia, un vorrei ma non posso, ovviamente gli oggetti del desiderio sono molti di più ma bisogna restringere e scegliere. Vediamo se queste liste possono risultare utili anche per indicarvi un regalo dell’ultimo minuto, magari anche a voi stessi, e per confrontarle con ciò che avete pensato voi e qui si entra nell’effetto figurine Panini, “Ce l’ho, manca”! Ma bando alle ciance, parte il sottoscritto, ovvero il Blogger. Questa è la lista “ufficiale”, quella stilata al volo per Il Buscadero, ed era quello che pensavo nel millisecondo im cui l’ho scritta, essendo “solo” dieci titoli mi riservo, come tutti gli anni, di integrarla con altri Post dedicati all’argomento nei prossimi giorni. Come di consueto ci sarà spazio anche per le classifiche di fine anno dedicate alla stampa estera ed italiana, a siti e Blog vari e a tutto quello che ci gira intorno, di volta in volta che appariranno. Ma partiamo…

Van-Morrison-Moondance-Deluxe-product-shot

Dischi, in ordine sparso e d’acchito, come mi vengono, i dieci migliori dell’anno, in questo preciso momento:

Van Morrison – Moondance (remastered), questo, non ordine sparso, era già uno dei dieci migliori dischi del 1970, l’anno in cui uscì, è rimasto uno dei 10 album più belli di tutti i tempi (secondo il mio modesto parere), volete che non rientri anche nella Top 10 del 2013 nella sua nuova formula quintupla (anche troppo) o doppia? Certo che sì! Ma direte voi, perché non hai parlato diffusamente? In effetti è vero e mi riprometto di rimediare entro la fine dell’anno. Per il momento mi limito a dirvi che secondo la critica musicale all-time, nella vecchia versione vinile conteneva quella che era stata definita la più bella “facciata” di tutti i tempi, una sezione di cinque brani pressoché perfetta. E anche la seconda non scherzava! Muto http://www.youtube.com/watch?v=rniO-mv8U8M e cantato http://www.youtube.com/watch?v=g5G6ySLPeXI

richard thompson electric

Richard Thompson – Electric. Negli anni ’80 Luca Carboni aveva chiamato un suo disco E Intanto Dustin Hoffmann Non Sbaglia Un Film, allora era vero, poi, purtroppo, non lo è stato più, per Richard Thompson, invece, il motto rimane valido: rock, musica cantautorale, “funky folk” come lo ha chiamato, persino country nella versione doppia limitata, ogni disco è più bello di quello precedente http://discoclub.myblog.it/2013/02/22/semplicemente-richard-thompson-electric/, un fenomeno, e come suona la chitarra! http://www.youtube.com/watch?v=SRtpzjzkYbc

waterboys fisherman's box

Waterboys – Fisherman’s Box Anche questo non è malaccio, 121 canzoni, una più bella dell’altra http://discoclub.myblog.it/2013/11/24/replay-ecco-la-ristampa-dellanno-the-waterboys-fishermans-box/

buddy guy rhythm & blues

Buddy Guy – The Rhythm And The Blues Questo non è solo un gran disco di Rhythm e di Blues è anche uno dei migliori in assoluto del 2013. Non male per un signore di 77 anni http://discoclub.myblog.it/2013/07/25/buddy-guy-non-lascia-anzi-raddoppia-il-30-luglio-compie-77-a/

avett brothers magpie deluxe

Avett Brothers – Magpie And The Dandelion Settore giovani ma bravi: http://discoclub.myblog.it/2013/11/01/sono-sempr-5747492/

linda thompson won't be long now

Linda Thompson – Won’t Be Long Now Nelle mie classifiche di fine anno non può mai mancare una voce femminile, era già grande negli anni ’70 e tale è rimasta anche oggi http://discoclub.myblog.it/2013/10/30/sprazzi-di-gran-classe-linda-thompson-won-t-be-long-now-5745/

jonathan wilson fanfare

Jonathan Wilson – Fanfare A proposito di anni ’70, uno che non ha nulla da invidiare ai grandi di quel glorioso periodo, visto dal vivo questa estate, è fantastico http://www.youtube.com/watch?v=1Ghow9gOYec, ma questo Fanfare si avvicina molto alle atmosfere dei suoi concerti. A proposito perché non lo abbiamo recensito? Mah! Mi sa che dobbiamo rimediare http://www.youtube.com/watch?v=tawWSAgLd_M. E’ il tempo che manca sempre. E anche quello di Roy Harper, Man And Myth, prodotto per metà da Jonathan Wilson è un altro dei dischi dell’anno!

ry cooder live in san francisco

Ry Cooder And Corridos Famosos – Live In San Francisco Il disco dal vivo dell’anno e anche, tout court, uno dei migliori in assoluto dell’annata. Ry è sempre un grandissimo, per parafrasare Antonio Albanese/Cetto Laqualunque “Più Cooder per tutti!” http://discoclub.myblog.it/2013/09/21/ma-allora-e-vero-ry-cooder-and-corridos-famosos-live-in-san/

over the rhine meet me

Over The Rhine – Meet Me At The Edge Of The World Sempre a proposito di voci femminili. Ho notato che questo CD, insieme al tributo a Levon Helm, Richard Thompson e box dei Waterboys,’è presente nelle liste di tutti e tre. Il titolo del mio post rimane perfetto (non per vantarmi): http://discoclub.myblog.it/2013/08/29/a-prescindere-dal-genere-gran-disco-over-the-rhine-meet-me-a/

allman brothers brothers and sisters

Allman Brothers – Brothers And Sisters Deluxe Più ancora del box di Duane Allman, Skydog, questo cofanetto dedicato ad uno dei loro album migliori, rimane tra  le ristampe dell’anno (con quella dei Waterboys) per il rapporto prezzo-contenuti e la qualità degli stessi.

springsteen and I

love for levon

Per finire i due DVD dell’anno a pari merito, sono gli stessi, scelti qui sotto, anche da Marco Verdi, Springsteen and I e Love For Levon (questo anche al top nella lista di Tino, non sarà un caso se scriviamo tutti nello stesso Blog?).

Bruno Conti

 

BEST OF 2013 Marco Verdi

 Disco dell’anno:    JONATHAN WILSON: Fanfare (uno dei dischi più musicali, nel senso più puro del termine, da me ascoltati negli ultimi anni. Se fosse uscito nei primi anni settanta l’avrebbero messo alla pari del primo solo di David Crosby)

Segue, ad una attaccatura:  RICHARD THOMPSON – Electric (d’accordo, Richard non farebbe un disco brutto nemmeno se pubblicasse un cover album di brani degli One Direction, ma qui siamo di fronte forse al suo miglior lavoro da Shoot Out The Lights: chapeau!)

Gli altri

the rides stills kenny wayne sheperd goldberg


THE RIDES – Can’t Get Enough

                 

VV.AA: Love For Levon – A Tribute To Levon Helm

john fogerty wrote a song

                 

JOHN FOGERTY: Wrote A Song For Everyone

chip taylor block out

                 

CHIP TAYLOR: Block Out The Sirens Of This Lonely World

joe bonamassa an evening dvd

                  

JOE BONAMASSA – An Acoustic Evening At The Vienna Opera House                     

                 

 OVER THE RHINE – Meet Me At The Edge Of The World

elton john the diving board deluxe

                  

ELTON JOHN – The Diving Board

david bromberg only slightly mad

                  

DAVID BROMBERG BAND – Only Slightly Mad

shooter jennings the other life

                  

SHOOTER JENNINGS – The Other Life

greg trooper incident

                  

GREG TROOPER – Incident On Willow Street

eric clapton old sock

                  

ERIC CLAPTON – Old Sock

edward sharpe & the magnetic zeros

                  

EDWARD SHARPE & THE MAGNETIC ZEROS – Omonimo

 

DVD dell’anno (a pari merito):   Love For Levon

                                                     Springsteen & I

                                                     History Of The Eagles

 

Canzone dell’anno:  RICHARD THOMPSON: Another Small Thing In Her Favour (in ogni grande disco di Richard non può mancare una grande ballad http://www.youtube.com/watch?v=fymZk3dpvrU: questa è straordinaria. Quasi un’altra Dimming Of The Day)

 neil young lucca 2013

Concerto dell’anno:  NEIL YOUNG & CRAZY HORSE – Lucca http://www.youtube.com/watch?v=JNTi3o7R2WQ

 

Ristampa dell’anno: THE WATERBOYS – Fisherman’s Box (i motivi li ho già indicati nel post dedicato a loro)

clash_soundsystem

Miglior packaging: THE CLASHSound System (uno spettacolo! Però sul contenuto musicale si poteva fare di più)                     

Duetto dell’anno: JOHN FOGERTY/BOB SEGER – Who’ll Stop The Rain (ovvero, come prendere un capolavoro dei Creedence e farlo suonare come una outtake di Against The Windhttp://www.youtube.com/watch?v=u7B26twQCzE

Delusione dell’anno*: LAURA MARLINGOnce I Was An Eagle (considerate le recensioni entusiastiche, una grande delusione appunto, un disco di una noia mortale. Al primo ascolto mi sono addormentato a metà, al secondo dopo tre canzoni. Meno male che non me lo sono portato in macchina, mi sarei probabilmente schiantato e c’erano gli estremi dell’omicidio colposo…La nuova Joni Mitchell un par di ciufoli!!!) *NDB Non sono d’accordo, quasi quasi censuro! (scherzo)

*: non ho ascoltato gli Arcade Fire, potevano essere ottimi candidati per la categoria.

Sòla (nel senso di fregatura in romanesco) dell’anno: a pari merito DEEP PURPLE – Now What?!, DAVID BOWIE – The Next Day e ROD STEWART – Time, con i ringraziamenti di chi se li è comprati al momento dell’uscita e se li vede ristampati dopo pochi mesi con un disco dal vivo in più (Purple e Rod) ed un disco di bonus + un DVD (Bowie).

Occasione perduta dell’anno:  BOB DYLAN – Side Tracks (la compilation doppia contenuta nel megabox di 47 CD poteva/doveva essere fatta meglio, dato che ognuno dei due CD non dura neppure un’ora. Con qualche chicca in più avrebbero sicuramente venduto un maggior numero di copie del box)

thom chacon

Rivelazione dell’anno:  THOM CHACON (uno mooooolto bravo!) http://discoclub.myblog.it/2013/04/04/a-proposito-di-nuovi-dylan-tom-chacon/

strypes snapshor deluxe

Sorpresa dell’anno:  THE STRYPES – Snapshot (speriamo che non siano un fuoco di paglia, o che non vengano rovinati da qualche discografico con i dollari al posto degli occhi, Johnny Lang insegna)

black sabbath 13

Disco “Piacere Proibito” dell’anno: BLACK SABBATH – 13 (un Ozzy così in palla non lo sentivo da anni. E Iommi…un marziano)

valerie june pushin'

Disco sottovalutato: VALERIE JUNEPushin’ Against A Stone (un signor disco, e che voce: a mio parere meritava lo stesso successo iniziale delle varie Norah Jones, Adele e Joss Stone)

lou reed morto

Evento musicale dell’anno: purtroppo, la morte di LOU REED (e’ chiaro che se maltratti la tua vita come ha fatto il buon Lou durante gli anni 60/70, prima o poi la vita ti presenta il conto, ma 71 anni sono pochi, soprattutto per uno come lui che aveva ancora voglia di sperimentare e mettersi in discussione, ed il disco coi Metallica è lì a certificarlo…RIP, Mr. Rain)

Marco Verdi

E, Last But Not Least (comunicazione interna,grazie per avere scritto tutti con “stili” grafici a capocchia!)

love for levon

BEST OF 2013 – TINO MONTANARI

DISCO DELL’ANNO – VARIOUS ARTISTS – LOVE FOR LEVON

carolyne mas across the river

CANZONE DELL’ANNO – CAROLYNE MAS – ACROSS THE RIVER
http://www.youtube.com/watch?v=1xlDTOfJ8Ug

DISCO ROCK – RICHARD THOMPSON – ELECTRIC

solas shamrock

DISCO FOLK – SOLAS – SHAMROCK CITY

casey donahew standoff

DISCO COUNTRY – CASEY DONAHEW BAND – STANDOFF

charles bradley victim of love

DISCO SOUL – CHARLES BRADLEY – VICTIM OF LOVE

trampled under foor badlands

DISCO BLUES – TRAMPLED UNDER FOOT – BADLANDS

DISCO JAZZ – BRYAN FERRY ORCHESTRA – THE JAZZ AGE

the horrible crowes live

DISCO LIVE – THE HORRIBLE CROWES – LIVE AT THE TROUBADOUR

massimo priviero ali

DISCO ITALIANO – MASSIMO PRIVIERO – ALI DI LIBERTA’

GRUPPO ITALIANO – L’ORAGE – ETA’ DELL’ORO

COFANETTO DELL’ANNO – THE WATERBOYS – FISHERMAN’S BOX

band academy of music

RISTAMPA DELL’ANNO – THE BAND – LIVE AT THE ACADEMY OF MUSIC

searching for sugar man

COLONNA SONORA – RODRIGUEZ – SEARCHIN FOR SUGAR MAN

jackson browne i'll do anything

DVD MUSICALE – JACKSON BROWNE – LIVE IN CONCERT – I’LL DO ANYTHING

 

ALTRI

jeff black b-sides and confessions 2

 JEFF BLACK – B-SIDES AND CONFESSIONS TWO

hayward williams haymaker

HAYWARD WILLIAMS – HAYMAKER
http://discoclub.myblog.it/2013/01/28/non-si-finisce-mai-di-imparare-da-milwaukee-wisconsin-haywar/

PAAL FLAATA – WAIT BY THE FIRE: SONGS OF CHIP TAYLOR

ARCHIE ROACH – INTO THE BLOODSTREAM

israel nash gripka rain plains

ISRAEL NASH GRIPKA – NASH’S  RAIN PLANS
Anche di questo non abbiamo parlato, perché? Bisogna rimediare, gran bel disco.

GREGORY ALAN ISAKOV – THE WEATHERMAN

sam baker say grace

SAM BAKER – SAY GRACE

STEVE EARLE – THE LOW HIGHWAY

ELLIOTT MURPHY – IT TAKES A WORRIED MAN

owen temple stories

OWEN TEMPLE – STORIES THEY TELL

DIRTMUSIC – TROUBLES

WILD FEATHERS – THE WILD FEATHERS

THE WHITE BUFFALO – SHADOWS, GREYS & EVIL WAYS

OKKERVIL RIVER – THE SILVER GYMNASIUM

OVER THE RHINE – MEET ME AT THE EDGE OF THE WORLD

TRAMPLED BY TURTLES – LIVE AT FIRST AVENUE

jj grey this river

JJ GREY & MOFRO – THIS RIVER

WILLARD GRANT CONSPIRACY – GHOST REPUBLIC

blue rodeo in our nature

BLUE RODEO – IN OUR NATURE
Questo era all’11° posto delle mie classifiche, ma nelle “liste aggiuntive” non mancherà. BC:

THE NATIONAL – TROUBLE WILL FIND ME

JUDE JOHNSTONE – SHATTER

DAYNA KURTZ – SECRET CANON VOL. 2

diana jones museum

DIANA JONES – MUSEUM OF APPALACHIA RECORDINGS

SHANNON MCNALLY – SMALL TOWN TALK

CAROLYNE MAS – ACROSS THE RIVER

THALIA ZEDEK – VIA

dana fuchs bliss avenue

DANA FUCHS – BLISS AVENUE

*NDB nelle mie liste, tra le donne, oltre a Dana Fuchs, mancava anche Beth Hart con Bonamassa, ma rimedierò nelle prossime.

holly williams highway

HOLLY WILLIAMS – THE HIGHWAY

LINDA THOMPSON – WON’T BE LONG NOW

KATEY SAGAL –  COVERED

Tino Montanari

NDB Per oggi è tutto, le altre liste a seguire nei prossimi giorni, senza tralasciare ovviamente le “solite” recensioni!

Novità Di Ottobre, Puntata Unica Parte I. Arcade Fire, Amos Lee, Avett Brothers, Jonathan Wilson, Willie Nelson, Eric Clapton, Paul McCartney, Tindersticks, Diane Birch

arcade fire reflektor.jpgamos lee mountains of sorrow deluxe.jpgavett brothers magpie deluxe.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Lo ammetto, durante il mese di ottobre ho trascurato questa rubrica, che so essere una delle più lette del Blog. Comunque alcune anticipazioni, anche future, e molte recensioni e curiosità vi hanno tenuti in ogni caso occupati con letture ed ascolti, spero interessanti. Per cui facciamo un bel “puntatone” unico riepilogativo, ma diviso in due parti, per recuperare le uscite più interessanti ed importanti, che non sempre coincidono, del mese (comprese alcune in uscita il 29), il resto che non trovate, avrà il suo spazio in Post ad hoc o cadrà nel dimenticatoio, forse, o non ci interessa!

Partiamo proprio con uno di questi dischi “importanti” ed attesi. Del nuovo Arcade Fire, che esce martedì p.v., si conosce da mesi il titolo, Reflektor. ma il contenuto era top secret, fino a che, durante la settimana, qualcuno ha caricato in rete l’album completo, a questo punto la band ha pensato bene di rendere disponibile a tutti, in streaming, l’album, in una valanga di posti, a partire da loro sito, passando per Youtube e ovunque capita, basta che digitiate Arcade Fire e lo trovate, anche sul sito della Gazzetta dello Sport! Peraltro Rolling Stone (che secondo chi scrive non è più una rivista musicale da decenni, ma è un parere personale, ovviamente) lo ha recensito in termini entusiastici, 4 stellette e mezzo e disco del mese, e anche per Mojo è “Record Of The Month”, 4 stellette, mentre ad Uncut sono stati più prudenti, “solo” 7/10 e terza scelta, come recensione. Persone di cui mi fido, quando vigeva ancora l’embargo sugli ascolti, sono andati a sentirlo in anteprima (lo avevano proposto anche a me, ma viste le voci che giravano avevo declinato) ed il commento, parola per parola, laconico ma chiaro, è stato: “brutto, veramente brutto”! (OK, dopo un solo ascolto).

Al sottoscritto il disco precedente non era dispiaciuto per nulla, come potete verificare (temp-c020095e43d51491fe92967ad9e73c76.html), ma, sinceramente, questo nuovo, diciamo, per usare un eufemismo, che non mi entusiasma: doppio CD, 85 minuti di musica, ma con due brani, la Hidden Track 00 posta in apertura e Supersymmetry in chiusura, che superano i dieci minuti, e sono degli esperimenti sonori, tra tocchi orchestrali, elettronica, minimalismo, molto uso dii nastri in backwards (anche se i nastri non si usano più) e un po’ di noia, ad essere onesti. Togliamoli e rimane un’oretta abbondante di quella che è stata giustamente definita una collaborazione tra James Murphy degli LCD Soundsystem e gli Arcade Fire, con un piccolo aiutino da David Bowie nel singolo Reflektor. Siccome non sono mai stato un fan di Mr. Murphy, lo ammetto sono un “antico” (ma ascoltavo United States Of America, Tonto’s Expanding Head Band, Beaver And Krause e i gruppi della cosiddetta Kosmische Kurier Music tedesca in tempi non sospetti, Amon Duul, Tangerine Dream, Can, Ash Ra Tempel, Popol Vuh, eccetera) e quindi l’incontro tra dance elettronica ed il rock seventies del gruppo canadese non mi ha particolarmente acchiappato in questa occasione, sarà un mio difetto.

Chi legge il Blog e penso avrà, come me, altri gusti (ma quali poi, dal folk al rock, al blues, al country, ai grandi cantautori e così via, la buona musica insomma) ma apprezza anche gli Arcade Fire, potrà considerarlo, come si usa dire, “un disco di transizione”, che è il termine che usano i fans di un gruppo o di un cantante quando il loro beniamino ha fatto un disco che non piace, ma non si può mica dire! Per ciò che mi concerne, per dirla con un slogan, mi sembra che questa unione tra Murphy, coniugi Butler e Chassagne e company, produca una sorta di nuovi “Thin White Dukes”, ovvero il Bowie anni ’70 tra disco ed elettronica, ma in peggio. In ogni caso ognuno potrà farsi un proprio parere ascoltandolo in streaming da subito o acquistandolo da martedì. Qualche sprazzo dei “vecchi Arcade Fire” c’è ma… Però non dite che non ve lo avevo detto!

Mi è venuta una mini-recensione per cui negli altri dischi cercherò di essere più conciso (senza riuscirci, come al solito). Al nuovo Avett Brothers Magpie And The Dandelion, uscito il 15 ottobre e che ha esordito al 5° posto della classifica americana (alla salute della buona musica, ricordata poco fa) verrà dedicato, nei prossimi giorni, un Post a sè stante, ma nell’attesa vi ricordo che esiste la solita edizione singola Deluxe con quattro demo in più, quella di cui vedete effigiata la copertina sopra (cambia la foto dellle gazze rispetto a quella standard), non pubblicata per il mercato europeo (per essere precisi e tassonomici la versione della catena Target ha addirittura ulteriori due demos). Il disco è ovviamente bello, come il precedente The Carpenter (pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter.html) è prodotto da Rick Rubin: ci sono alcuni ospiti di pregio, tra cui, Benmont Tench, Tania Elizabeth, G.Love e Lenny Castro. Etichetta American Recordings/Universal.

Anche il nuovo Amos Lee Mountains Of Sorrow, Rivers of Song (bellissimo titolo) è uscito nelle solite due edizioni e, prendete nota, vale anche per il futuro (salvo vere edizioni Deluxe multiple) vi riporto solo la edizione Expanded singola con tre brani in più, copertina nera, mentre la “normale” è gialla, quindi occhio a prendere quella giusta. E’ uscito l’8 ottobre per la Blue Note, ora del gruppo Universal, e si avvale, come il precedente, bellissimo, Mission Bell (che era arrivato al 1° posto delle classifiche USA proseguono-i-segnali-incoraggianti-amos-lee-al-1-posto-e-gli.html) di vari ospiti di riguardo: Patty Griffin, Alison Krauss, Mickey Raphael e il grande Tony White White. Anche per questo recensione riservata as soon as possible.

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Altro triplete di uscite di pregio. Questo mese sono usciti o stanno uscendo molti dischi di buona qualità.

A partire da Fanfare, il nuovo attesissimo album di Jonathan Wilson, disco del mese per molte riviste, a partire dal Buscadero: etichetta Downtown Records negli USA e Bella Union In Europa, dove è uscito una settimana dopo. Non ci sono edizioni Deluxe, ma il disco è già di “lusso” di suo, 13 brani, 78 minuti! Il precedente Gentle Spirit mi era piaciuto non poco, un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha.html, e anche questo nuovo mi sembra notevole e avrà, sempre tempo permettendo, che è quello che sempre manca per parlare di tutto, il suo spazio adeguato. Gli ospiti sono incredibili: Jackson Browne, David Crosby, Graham Nash, Benmont Tench, Roy Harper come autore, solo per citarne alcuni. L’ho visto questa estate in concerto a Milano e dal vivo è anche meglio che su disco, io e la zanzare siamo rimasti molto soddisfatti!

Il nuovo disco di Willie Nelson è proprio basato sugli ospiti, anzi le ospiti, sono tutti duetti con voci femminili, si chiama To All The Girls I’ve Loved Before (l’unico difetto, se vogliamo, sta nel fatto che all’origine era una canzone con Julio Iglesias): uscito il 15 ottobre per la Sony Legacy, con Willie cantano, nell’ordine: Dolly Parton, Miranda Lambert, Secret Sisters, Rosanne Cash, Sheryl Crow, Wynonna Judd, Carrie Underwood, Loretta Lynn, Alison Krauss, Melonie Cannon, Mavis Staples, Norah Jones, Shelby Lynne, Lily Meola, Emmylou Harris, Brandi Carlile e Paula Nelson. Alla fine il texano Willie Nelson “si riposa”, da solo, con After The Fire Is Gone. E questo è il terzo disco in meno di un anno, tutti piuttosto belli. Non male per uno che ha compiuto 80 anni il 30 di aprile. Forse deve ancora una barca di soldi alla IRS, l’agenzia delle Entrate americana, per tasse non pagate?

Il 15 ottobre è uscita anche la nuova edizione Deluxe (2 CD+DVD) di MTV Unplugged di Eric Clapton. L’etichetta è la Rhino/Reprise, rispetto alla versione originale che conteneva 14 brani, ci sono 6 tracce extra nel secondo CD e nel DVD c’è circa un’ora di materiale inedito, registrato durante le prove dello spettacolo. Questa la tracklist completa:

UNPLUGGED: EXPANDED AND REMASTERED

CD & DVD Track Listing

01. Signe
02. Before You Accuse Me
03. Hey Hey
04. Tears In Heaven
05. Lonely Stranger
06. Nobody Knows You When You’re Down And Out
07. Layla
08. Running On Faith
09. Walkin’ Blues
10. Alberta
11. San Francisco Bay Blues
12. Malted Milk
13. Old Love
14. Rollin’ & Tumblin’

CD Disc Two – Outtakes & Alternates (All Tracks Previously Unreleased)

01. Circus
02. My Father’s Eyes (Take 1)
03. Running On Faith (Take 1)
04. Walkin’ Blues (Take 1)
05. My Father’s Eyes (Take 2)
06. Worried Life Blues

DVD Rehearsal Track List

01. Signe
02. Before You Accuse Me
03. Hey Hey
04. Tears In Heaven
05. Circus
06. Lonely Stranger
07. Nobody Knows You When You’re Down And Out
08. Layla
09. My Father’s Eyes
10. Running On Faith
11. Walkin’ Blues
12. Alberta
13. San Francisco Bay Blues
14. Malted Milk

In attesa del cofanetto sestuplo Give Me Strength, in uscita tra un mesetto e che vi ho già anticipato sul Blog e, aggiunta dell’ultim’ora, sempre in uscita a metà novembre, il nuovo doppio DVD della serie Crossroads registrato al Madison Square Garden il 12 e 13 aprile di quest’anno. Nei prossimi giorni aggiornamento con la tracklist completa sia del doppio DVD che del CD, che ovviamente avrà molti brani in meno.

paul mccartney new deluxe.jpgtindersticks across six leap years.jpgdiane birch speaks a little louder.jpg








Altro terzetto di dischi usciti in questo scorcio del mese di Ottobre.

Il nuovo di Paul McCartney come ben sapete si chiama New e quello giusto da comprare è questo con la copertina blu, che ha due brani in più (e che costa, come tutte le varie versioni Deluxe ma singole, leggermente di più della versione standard). Etichetta MPL/Hear/Concord/Universal, pubblicato il 15 ottobre, come le ultime uscite di Macca, piacevole ma non un capolavoro, il meglio lo riserva per i concerti dal vivo. C’è tutto un team di produttori, da Paul Epworth (Beach Club, Florence & The Machine, Adele) a Ethans Johns passando per Giles Martin (il figlio del grande George), per aiutare Paul a dare al tutto un sound moderno e brillante ma con quel tocco di classico e “vecchio”, naturale, che non guasta mai. Insomma, non solo per vecchi fans (o sì?).

Per la serie se anche i gruppi “seri” cominciano a fare queste cose siamo rovinati, i Tindersticks di Stuart Staples editano per la Lucky Dog Recordings questo Six Leap Years, uscito il 12 ottobre. Per celebrare 21 (?!?) anni di carriera il CD è stato registrato agli Abbey Road Studio di Londra (dove il signore di cui sopra si trovava, per dirla alla Stanlio e Olio, come “un pisello nel baccello”), il gruppo si è ritrovato per incidere di nuovo una decina di vecchi brani che, nelle loro parole, si “erano persi per strada”. Dopo l’ottimo The Something Rain dello scorso anno, uno dei migliori in assoluto della loro carriera (una-pioggia-di-note-tindersticks-the-something-rain.html), questo nuovo album fonde il sound magico degli studi dei Beatles con quello “classico” di una band in ritrovata forma. Non solo per vecchi fans (o no?).

Ormai quasi quattro anni fa mi ero entusiasmato (si fa per dire, insomma mi era piaciuto) per il disco di una nuova cantautrice un-erede-per-carole-king-e-laura-nyro-diane-birch-bible-belt.html, Diane Birch, americana di origine poi trasferita in Sudafrica e infine di nuovo negli States, che riproponeva con gran classe lo stile di gente appunto come Carole King e Laura Nyro, con degli echi persino del miglior Elton John, e concludevo la recensione con queste parole: “Se Jay-Z e Kanye West non arriveranno a rompere le balle prevedo una grande carriera, intanto Letterman l’ha chiamata nel suo show, se niente niente pubblicassero anche l’album in Italia non sarebbe una cattiva idea.” Il disco è uscito in Italia ed è entrato anche brevemente nelle classifiche del nostro paese, ma come era successo per Joss Stone, un’altra cantante lanciata dall etichetta S’Curve, da Betty Wright, come produttrice, si è passati a Steve Greenberg, che l’ha affidata a Homer Steinweiss, che ha aggiunto tonnellate di synth, batterie con “big sound”, coretti vari, eco ovunque, protools, l’ha affiancata a EG White, Matt Hales degli Aqualung (uno dei pochi brani che si salvano nel disco), Cathy Dennis (!?!) e sé stesso, come autori, per realizzare un disco uguale a centinaia di album di pop sintetico, ritmato e ridondante, che appestano le radio di tutto il mondo, tipo il disco di Lissie di cui vi ho parlato recentemente. Per il sottoscritto, in una parola, purtroppo, una “ciofeca”. Tesi ribadita anche dalla Deluxe di questo Speak A Little Louder (dove ci sono altri cinque brani aggiunti, vecchio stile in parte, voce e piano e poco altro, che confermano il talento e aumentano il rammarcico per questa giovane signora): uscito il 15 ottobre, volevo parlarne, male, in un Post a sè stante, ma ho ripiegato sulla rubrica della novità, peccato perché anche in questo guazzabuglio si intravede della stoffa. Magari, come ha fatto Joss Stone, potrà riprendersi.

Alla prossima.

Bruno Conti

Epigoni Canadesi. Matt Mays – Coyote

matt mays coyote.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Matt Mays – Coyote – Sonic Records/Warner Canada

Matt Mays è un onesto e vibrante cantautore e rocker canadese, questo Coyote è il suo quinto album, nel nativo Canada è già uscito da alcuni mesi e nella primavera Mays è andato negli States a promuoverlo, come opening act per i Gaslight Anthem. Forse, anzi sicuramente, non è uno di quelli di prima fascia, ma dalle canzoni di Coyote si percepisce una capacità di scrittura quasi innata, un amore per il rock classico e per la musica della sua terra, Neil Young in primis, quando le chitarre sono lasciate libere di viaggiare. Anche le influenze della musica californiana, West Coast e rock sono presenti, come è stato per altri suoi compatrioti che lo hanno preceduto.

Il disco è stato concepito e realizzato tra Canada, Stati Uniti (New York) e Messico e si lascia ascoltare con grande piacere. Accompagnato da una piccola pattuglia di musicisti che lo seguono fedelmente da alcuni anni, Matt Mays si destreggia con uguale abilità tra pezzi rock come l’iniziale Indio che ha quel sound tipicamente 70’s del rock californiano più classico, tornato di moda con Jonathan Wilson, i Dawes e molti altri gruppi della Bay Area, chitarre spiegate, ritmi serrati, belle armonie vocali, tastiere appena accennate, un pizzico di psichedelia morbida e qualche tocco di latin rock che lo avvicina più a Stills che a Young, ma le coordinate sonore sono quelle. Airstrike è un breve intermezzo psicofunky tra chitarre e percussioni che introduce la sinuosa Ain’t That The Truth dove acustiche e organo cercano di farsi largo tra le elettriche e il cantato riverberato di Mays che ha un che di epico nel suo svilupparsi. Take It On Faith, altro singolo potenziale come la precedente, è tipicamente alla Neil Young, fino alle pieghe più recondite dell’assolo di chitarra, che viene dai dischi del canadese con i Crazy Horse, la classe è minore ma la grinta non manca. Come nel caso di Jonathan Wilson anche Matt Mays deve avere una passione nascosta per i Pink Floyd più acustici, l’inizio sembra preso da Wish You Were Here, ma anche il country-rock cosmico, ben rappresentato dalla pedal steel avvolgente, ha un suo perché in Loveless, bella ballata dolente.

Dull Knife ha di nuovo il groove tipico dei brani di Young, questa volta quelli mid-tempo e scanditi tipici del Neil di metà anni ’70, On the beach e Zuma, e anche se la voce è diversa, ricca di echi e “doppiata”, ci sono punti in comune, piccolo tocco di genio nel solo in punta di wah-wah, molto suggestivo. Drop The Bombs, fin dal titolo, ha quel pizzico di rock sound alla U2, ma non convince troppo, Rochambo è un altro di quei brevi intermezzi sperimentali che Mays semina nel disco, ma non ha molto senso, spezza solo il ritmo. Slow Burning Luck è viceversa un altro bel brano rock, ricco di grinta e di belle armonie, mi ha ricordato i brani dei primi BoDeans o del T-Bone Burnett cosmico dell’Alpha band, altri hanno intravisto qualcosa dei Blue Rodeo, non male comunque, anche se una bella coda chitarristica ci sarebbe stata bene, magari dal vivo.

Nuovamente un breve intermezzo, questa volta alla Beatles dell’album Bianco, meno di due minuti per una “strana” Madre e Padre che precede un’altra bella canzone come Zita , rock solare alla Fleetwood Mac targati Buckingham. Fresca e divertente anche Stoned, tipicamente da highway, questa sì, per il sottoscritto, tra Blue Rodeo e il Tom Petty solo, con un breve break di armonica molto pertinente. Armonica che rimane anche per la successiva Queen Of Portland Street,un brano acustico cantato molto bene da Mays che non sempre mi persuade nelle sue evoluzioni vocali, ma in questo brano ha la giusta convinzione e il tono più appropriato, che dire, bella! Chase The Light, nuovamente con una chitarra acustica appena accennata, una pedal steel di supporto e poco altro, è una folk ballad semplice semplice ma di grande fascino e conclude degnamente un album che gli amanti del buon rock apprezzeranno.

Bruno Conti